Le produzioni delle terra
Il recente sviluppo economico della Sicilia, in alcune aree molto sensibile, può essere puntualizzato anche grazie ad alcuni indici particolarmente utili e indicativi: in rapporto agli spostamenti definitivi della popolazione entro i confini della regione, e al loro via via più forte e marcato scivolamento verso aree per estensione piuttosto limitate ma di vigoroso sviluppo industriale o commerciale o financo agricolo; e ancora in relazione alle funzioni espletate dalla sua popolazione — cioè all’entità, assoluta e relativa, delle persone addette ai vari settori produttivi — e alle modificazioni intervenute in tale campo nel corso degli ultimi decenni. Da questi ultimi dati appare chiaramente un alleggerimento del settore agricolo rispetto a quello industriale, e a quello commerciale e dei servizi. Qualche decennio fa, più della metà della popolazione attiva della Sicilia — e precisamente ancora 760.000 persone, in cifra tonda, nel 1951, pari al 51,3% — era impegnata nei lavori agricoli, mentre ora (1961) sono soltanto due quinti — cioè 610.000, pari al 41,3% —; e nello stesso decennio le industrie hanno visto aumentare i propri effettivi dal 22,8 al 30,3% (cioè da 338.000 a 448.000), e pure assai rafforzate e ravvivate risultano le attività del commercio, specialmente al minuto, dei trasporti e dei servizi in genere.
Il peso del settore agricolo
Eppure, in vaste regioni della Sicilia — a dispetto di un pur notevole fenomeno di emigrazione, che spesso ha assunto, come ho detto nel capitolo precedente, aspetti e caratteri quasi di esodo, e che ha svuotato numerosissime borgate, specie dell’interno — la situazione è ancora piuttosto pesante: specialmente là dove la vita economica poggia in sostanza soltanto sull’agricoltura, e spesso su un’agricoltura tradizionale e antiquata, e forse vi poggia anche più di prima, lo spopolamento rurale avendo decretato inappellabilmente la decadenza anche di quelle forme di artigianato, che avevano avuto ancora per un poco la possibilità di sostenersi: l’artigianato di servizio, per così dire, cioè i sarti, i barbieri, i carrettieri, i sellai, i fabbri, i calzolai, e altre numerose categorie artigiane. La pressione esercitata dalle masse lavoratrici sulle attività agricole era stata così forte nell’Ottocento, specie dopo l’unificazione — da 564 mila addetti nel 1861, a 681 mila nel 1881, a 768 mila nel 1901 — che l’alleggerimento verificatosi nei primi decenni del nostro secolo, grazie soprattutto ai movimenti migratori, non potè essere che relativamente molto debole: 745 mila erano gli addetti nel 1911, 703 mila nel 1931 (dopo una impennata a 884 mila nel 1921, ma scarsamente attendibile), e 683 mila nel 1936. Solo in un secondo tempo — dopo una forte ripresa nel periodo bellico e nell’immediato dopoguerra, facilmente comprensibile: 760 mila nel 1951 — l’alleggerimento fu molto più palese e consistente (610 mila nel 1961) e si ripercosse vantaggiosamente sulle strutture economiche di tutta l’isola, anche se in effetti interessava soprattutto certe città e borgate più aperte ed evolute, e sulla via di più evidenti cambiamenti.
L’aliquota della popolazione rurale sul totale della popolazione attiva, in base al censimento del 1961.
Veduta dei paesaggi collinari, or nudi or alberati, dell’altipiano tra Agrigento e Favara, dominio del latifondo cerealicolo.
Ed invero tale fenomeno di contrazione degli addetti rurali aveva seguito nel complesso una parabola discendente molto diversa da quella italiana, e anche più difforme da quella delle regioni industriali del Nord: la popolazione agricola era scesa per l’Italia, tra il 1861 e il 1951, dal 59,6 al 42,6% e per la Lombardia dal 57,7 al 20,1%; e nel 1961, rispettivamente al 29 e all’i 1,2%. In Sicilia, per contro, la ruralizzazione dell’economia era continuata assai forte dopo il 1861 : ancora nel 1951, il numero indice della popolazione agricola rispetto al 1861, fatto eguale a 100, era di 134,8 di fronte ad un valore di 94,9 per l’Italia e di 51,4 per la Lombardia. Perciò, per gran parte delle campagne siciliane gli addetti all’agricoltura sono tuttora molto numerosi rispetto alla popolazione attiva totale, nonostante la loro recente, cospicua contrazione. E dovunque: nelle aree del latifondo interno come nelle plaghe di agricoltura intensiva e moderna dei litorali, specie di quello ionico. Frequenti sono infatti i comuni, la cui popolazione agricola interessa il 70% della popolazione attiva, e talvolta anche più dell’80%: nell’altipiano interno (Castel di ludica 79; Lucca Sicula 79; Calamònaci 74; Castro-fìlippo 76), come sulle spalle più elevate dei Peloritani (sia ioniche: Antillo 76; Casalvecchio Siculo 73; Castelmola 72; Mongiuffi Melìa 74; Motta Camastra 79; Roccafiorita 80, che tirreniche: Fondachelli Fantina 78; Mazzarrà Sant’Andrea 80; Rodi Milici 75), e dei Nébrodi (Capizzi 79; Floresta 73;Galati Mamertino 77; Motta d’Affermo 73 ; Raceuia 77), e ancora nel massiccio delle Madonie (Alimi-nusa 80; Pollina 75) e nella parte cacuminale degli Iblei (Buccheri 70; Giarratana 72) come nelle montagne della Sicilia occidentale (Campofelice di Fitàlia 78 ; Godrano 82 ; Buseto Palizzolo 70; Vita 73), e nella stessa regione etnea: non solo nel settore occidentale, che ripete ancora in gran parte le strutture e i paesaggi dell’interno (Ma-letto 70; Santa Maria di Licodìa 71), ma anche nel settore orientale o ionico, che è una larga fascia continua di colture intensive, ed è tutto un fervore di commerci (Cala-tabiano 75; Màscali 71; Milo 83; Castiglione di Sicilia 71). Tali alte percentuali, che scendono poi in generale tra 40 e 50, solo raramente si abbassano intorno a 30: in alcuni comuni delle solfare (Regalbuto 37; Aragona 32; Villarosa 27; Favara 24; Comitini 21), o di altre attività minerarie e di prima elaborazione dei minerali (Cam-pofranco 17), o nei comuni di particolari attività commerciali o turistiche (Acireale 39; Piazza Armerina 28; Taormina 23; Erice 20), o ancora di recente industrializzati o vicini ad aree industriali (Melilli 30; Augusta 12; Milazzo 38; Villafranca Tirrena 19). E ancor più raramente tali valori scendono al di sotto di 20: degli stessi nove capoluoghi provinciali, soltanto tre sono distinti da valori decisamente bassi: Palermo (8,7), Catania (6,9) e Messina (9,8); ma Ragusa accusa un valore di 25, e Caltanissetta di 22, e gli altri quattro capoluoghi valori intorno a 16. La maggior parte delle borgate e dei centri rimane dunque, in Sicilia, ancora sostanzialmente agricolo: la diminuzione assoluta e percentuale degli addetti alle attività rurali non ha significato, né significa tuttora, l’inizio di un movimento evolutivo verso strutture economiche nuove, ma soltanto la messa in crisi di quelle vecchie, e talora anche un abbassamento, in termini assoluti, del livello produttivo di tali comunità: specie là dove alla diminuzione degli addetti all’agricoltura non si è di pari passo accompagnata la meccanizzazione dei lavori agricoli, e si è per contro assistito ad un abbandono delle campagne, e in generale ad un regresso dai seminativi ai pascoli.
Alle porte di Randazzo (754 m.), nell’alta valle dell’Alcantara, ai piedi settentrionali della mole etnea. Il centro abitato — al pari dei muri di sostegno — è costruito con blocchi di lava del vulcano. In molte parti della Sicilia — come si può osservare anche in questo caso — i contadini si spostano ancora, tra i centri e la campagna, a dorso di asini o muli.
Casa rurale isolata, seminterrata, nel territorio di Floresta (Messina), sugli alti Nébrodi orientali, con l’aia circolare sulla fronte.
Abbeveratoio a Buscemi, sugli alti Iblei siracusani. Il centro fu ricostruito, nell’attuale posizione, su pianta regolare, dopo la distruzione dell’antico villaggio a causa del terremoto del 1693
Casa rurale isolata nel territorio eli Tortorici (Messina)
L’utilizzazione agricola del suolo: varietà e contrasti di forme
Con l’eccezione di pochi focolai di attività differenziata, che son per così dire ancora oggi aggrediti da presso dalla campagna tuttora pressoché intatta da influenze urbane, la vita economica siciliana poggia dunque ancora sostanzialmente, come in gran parte delle regioni meridionali d’Italia, sull’agricoltura: si tratti di forme agricole evolute e altamente redditizie, o di forme agricole per converso così tradizionali, invecchiate e sorpassate, da essere incapaci di liberare l’ambiente da uno stato di permanente necessità o miseria. L’idea tradizionale che oppone una Sicilia interna, dalle strutture agricole antiquate, ad una Sicilia periferica o litoranea più ricca di fermenti nuovi si può ancora oggi, in complesso, facilmente sostenere; nei dettagli le eccezioni — cioè la presenza di oasi di coltura tecnicamente avanzata nell’interno, e il prorompere fin sui mari eli vecchie strutture tradizionali — potrebbero anche confermare tale idea generale. In effetti, la contrapposizione dei modi o forme di utilizzazione del suolo tra l’interno e le fasce marittime dell’isola è piuttosto netta, e la carta qui inserita — che offre in un unico quadro, seppur un po’ generalizzato, la distribuzione di tali modi di utilizzazione — la rende visivamente di facile percezione. I seminativi asciutti, per lo più spogli di alberature, predominano quasi indisturbati in tutto l’altipiano interno — nel complesso, arborati o no, occupano il 60% del territorio insulare — e da qui largamente tracimano, compattamente e pesantemente, su gran parte del litorale africano, dal Dirillo (o Acate), ai margini della Piana gelese, fino al Bélice, nel territorio di Menfì, e persino sul Tirreno, specie tra Erice e Castellammare del Golfo: dove però la loro pressione viene fermata e bloccata, più o meno a ridosso del mare, da una fascia di colture più varie. Queste ultime dominano, all’opposto, nelle plaghe periferiche, su un quinto circa dell’isola, ora compattamente in forma specializzata — come i vigneti del Trapanese, del piano di Vittoria, della regione di Pachino e dell’Etna; gli agrumeti che guardano dai piedi degli Iblei e dell’Etna alla Piana catanese, e quelli della Conca d’Oro; i mandorleti di Àvola e Noto ; i noccioleti della regione di Patti e i pistaccheti del versante etneo occidentale — ora in forma specializzata ma con notevole alternanza di specie — or agrumi, or viti, or olivi, or ortaggi — come nelle due larghe fasce che rivestono le medie e basse pendici dei Peloritani, sia sul Tirreno che sullo Ionio, fra loro divise perentoriamente da un cuneo corposo di magri pascoli adagiati sulla lunga dorsale cacuminale.
La distribuzione delle colture, dei pascoli e dei boschi in Sicilia (dalle carte dell’utilizzazione del suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, semplificate e in parte modificate).
E un contrasto che vien subito voglia di imputare alla contrastante opposizione di elementi o fattori di ordine fisico : alla natura dei terreni, alla differente morfologia, ai caratteri climatici, in quanto presenti e in diverso modo operanti nelle varie plaghe dell’isola, come ho cercato di mettere in evidenza nei primi capitoli. Ma son fattori o elementi che solo in parte riescono a spiegare tali contrapposizioni: basti pensare, a titolo di esempio, il più o meno recente passaggio di larghe zone dai seminativi nudi a forme intensive di occupazione del suolo: con la vite nel Trapanese e negli agri di Vittoria e di Pachino dal Settecento in poi, con gli agrumi nel Catanese e nel Siracusano anche da tempi a noi più vicini, con gli ortaggi nei territori di Scicli e di Vittoria dai primi decenni di questo secolo soltanto. E allora il discorso viene a spostarsi più chiaramente su fattori di ordine ben diverso, squisitamente umano, cioè sulle strutture di fondo: si tratti della rete stradale, la cui povertà di trame nell’interno non ha mai offerto per lungo tempo, quasi dovunque, la possibilità di ravvivare l’economia di estese contrade, di richiamarle tempestivamente entro una maglia di rapporti commerciali vivificatori e stimolanti, che avrebbero permesso nuove forme di coltura e suggerito nuovi strumenti e metodi di lavoro; o si tratti invece, e in maggior misura, delle strutture fondiarie, e dei rapporti tra proprietà e conduzione, che molto a lungo hanno cristallizzato in forme desuete il colloquio tra l’uomo e la terra, mortificandolo entro linee e schemi anacronistici, eppur di difficile rottura.
Nuovi impianti di agrumeti nei dintorni di Adrano, ai piedi delle propaggini occidentali dell’Etna.
Superficie tenuta da proprietà rurali con ampiezza superiore a 200 ha., prima della riforma agricola (1950).
La struttura fondiaria e le forme aziendali
In tutte le regioni interne, dominate dai seminativi prevalentemente nudi, che in modo monotono si ripetono a perdita d’occhio su altrettanto monotone groppe collinari qua e là ravvivate da improvvisi risalti montuosi che il bosco fa folti di fronde verdi e il pascolo ammanta d’un tappeto magro e poco compatto, si impone la grande proprietà fondiaria: quella che ancor oggi presente, nonostante il soffio innovatore della riforma agraria del 1950, vien detta generalmente feudo: sia per le grandi superfici occupate, sia per la natura estensiva delle colture che vi allignano.
Impianti di agrumi su terrazzi recentemente ricavati sui ripidi versanti calcarei, già occupati da magri oliveti e scarni pascoli, delle ultime propagginazioni settentrionali degli Iblei, nei pressi di Lentini (Siracusa).
Distribuzione percentuale della superficie agrario-forestale della Sicilia, suddivisa per classi di proprietà, nel 1947 e nel 1961.
Ampiezza delle proprietà : I, fino a 0,50 ha. ; II, da 0,50 a 2; III, da 2 a 5; IV, da 5 a 10; V, da 10 a 25; VI, da 25 a 50; VII, da 50 a 100; VIII, da 100 a 200; IX, da 200 a 500; X, da 500 a 1000; XI, più di 1000 ha.
Più della metà della superficie territoriale dei comuni, e talora fino al 60%, vi risultava occupata, ancora nel 1947, da proprietà con 200 e più ettari: nell’altipiano agrigentino, specie lungo il medio Plàtani, e in un’ampia fascia che dal Mar d’Africa, tra il Dirillo e il Salso, cioè dalla Piana gelese, su su lungo lo stesso Salso attraverso il territorio nisseno si spinge fin nel massiccio delle Madonie sin quasi a Cefalù, e ancora nella Piana di Catania, in territorio sia catanese che siracusano, e da qui su per le valli del Dittàino e del Gornalunga, e specialmente del Simeto: dove interessa, oltre che i seminativi, notevoli superfìci boschive, di proprietà prevalentemente comunale. E per contro nelle regioni di agricoltura più variata le proprietà di grande estensione diminuiscono a percentuali del suolo piuttosto modeste, e per converso si impongono la piccola e anche la media proprietà, condotta per gran parte direttamente: nella zona viticola di Partinico il 79,5% del territorio è diviso tra proprietà con meno di 5 ettari, e in quelle pur viticole di Misilmeri e di Alcamo il 64 e il 60,5% rispettivamente. E così lungo la fascia ionica dei Peloritani, e lungo le pendici basse e medie dell’Etna, dalle colture riccamente differenziate, il 50% del suolo è in proprietà di meno che 5 ettari, e la proprietà si fa più grande via via si passa dalla fascia più vicina al mare, occupata dagli agrumeti — dove la proprietà presenta addirittura i caratteri della polverizzazione — alle fasce più elevate ad olivo e a vite, fino alle grandi proprietà che occupano le distese laviche e pascolative, difficilmente o affatto suscettibili di miglioramenti colturali.
Ma una peculiarità della distribuzione della proprietà fondiaria in Sicilia è data dalla coesistenza, e addirittura dalla giustapposizione, dell’accentramento e della polverizzazione fondiaria. Cioè la grande proprietà esiste anche nelle regioni ad agricoltura intensiva, dove riveste, invece che la forma del latifondo, quella della grande azienda capitalista moderna, che si serve per la conduzione in gran parte del lavoro dei salariati e dei giornalieri: cioè si tratta di grandi proprietà economicamente molto efficienti e ad alto reddito; mentre nelle regioni interne del latifondo tipico, esiste anche la piccola proprietà: che spesso è piccolissima, addirittura minuta, polverizzata, e che è distinta per giunta da un’altra qualità o carattere negativo, quello della eccessiva dispersione, cioè della frantumazione delle terre di ogni singola proprietà in spezzoni o « fazzoletti » minuscoli, talora lontanissimi l’uno dall’altro. Questa piccola proprietà delle regioni interne prevale di gran lunga tutto intorno ai centri abitati, anche fino a qualche chilometro di distanza, dove le concessioni enfiteutiche ai contadini già nei secoli scorsi, e in parte, nella seconda metà dell’Ottocento, la censuazione dei beni ecclesiastici e la quotizzazione dei beni demaniali avevano favorito lo sviluppo di forme di agricoltura più complesse, di una policoltura cioè che al grano tradizionale ha accomunato la vite, l’olivo, il fico, il mandorlo, il ficodindia, e talora anche gli agrumi e gli ortaggi. Tale coltura promiscua, che l’albero tradisce da lontano, forma macchie più o meno estese attorno alle borgate e ai villaggi: i quali appaiono perciò come affogati da una aureola di vegetazione rigogliosa, che punteggia fittamente e irregolarmente piccoli campi spesso recinti da muretti, in aperto contrasto con le distese ampie, disalberate, dei campi a grano: la carta della utilizzazione del suolo di pag. 224 mette in evidenza un buon numero di tali macchie.
Distribuzione percentuale della superfìcie agrario-forestale in alcune zone agrarie tipiche, suddivisa per classi di proprietà secondo la grandezza e il reddito imponibile.
Classi della proprietà: I, piccolissima (superficie fino a 5 ha.; reddito imponibile fino a 10.000 lire); II, piccola (da 5 a io ha.; da io a 20.000 lire); III, piccolo-media (da 10 a 25 ha.; da 20 a 40.000 lire); IV, medio-grande (da 25 a 100 ha.; da 40 a 100.000 lire); V, grande (da 100 a 200 ha.; da 100 a 200.000 lire); VI, grandissima (più di 200 ha.; oltre 200.000 lire).
Ma il rigoglio di tali aureole di colture solo nel passato potevano significare la presenza di plaghe agricole di discreto valore: l’eccessivo aumento della popolazione, e l’incapacità di questa policoltura di passare da una forma agricola di sussistenza ad una forma commerciale più moderna, hanno via via svuotato del loro intrinseco valore tali aree, oggi certamente non più redditizie dello stesso latifondo che le circonda: da vicino, tali aureole di policoltura manifestano sovente i segni della degradazione, e la vite, l’olivo, il mandorlo fan mostra di alberi trascurati, ai quali si attinge non prestandovi più cura, fuor da un manto di grano pure smilzo, che lascia intravedere sovente le larghe crepe degli assetati terreni argillosi.
Superficie tenuta da proprietà rurali con ampiezza tra 25 e 100 ha., prima della riforma agricola (1950).
La buona e razionale conduzione da parte dei piccoli proprietari è qui ostacolata, oltre che dall’ignoranza tecnica e dalle deficienze finanziarie, anche dalla dispersione della proprietà, che è dispersione dell’azienda: dispersione, che è malattia alla quale va soggetto in tutto l’interno e per gran parte — anche la grande proprietà latifondistica, che per lo più, invece di dar origine a grandi aziende, appare nella conduzione sbriciolata in un numero spesso notevolissimo di piccole aziende: i proprietari ne conducono direttamente i settori arborati o al più i migliori seminativi; mentre il resto viene ceduto in affitto ai gabellotti (ora in via di scomparizione), cioè a questa strana figura di imprenditore capitalista che non conduce la terra personalmente, ma la concede a sua volta ai contadini in innumeri, piccoli spezzoni sparsi, vincolandoli con un contratto annuo quasi sempre, con affitto in natura (terràggio) o a compartecipazione (metateria); o viene ceduto direttamente ai contadini dai proprietari stessi — pratica ora più diffusa — ma con contratti non molto migliori. Si tratta dunque di un latifondo contadino, che in grande conserva soltanto l’unità dell’amministrazione: del gabellotto o del proprietario, gli antichi e ancor vivi padroni delle distese nude dell’interno: i simboli, con il contadino giornaliero semidisoccupato tutto l’anno, di una struttura sociale in crisi, che solo sporadicamente ha trovato — o attraverso la riforma fondiaria, o grazie alle nuove capacità imprenditoriali di intelligenti e sagaci proprietari, aperti alle nuove esigenze tecniche e sociali — validi temi di soluzione.
Superficie tenuta da proprietà rurali con ampiezza minore di 5 ha., prima della riforma agricola (1950).
L’opposizione tra le aree interne e quelle periferiche — indicata dalla diversità di movenze del paesaggio esterno o visibile, cioè dal manto delle colture, e anche dalle differenze sostanziali delle strutture della proprietà fondiaria — non regge più, tuttavia, qualora si sposti l’esame della distribuzione della proprietà fondiaria dalla sua entità superficiale al suo reddito imponibile, cioè dalla sua estensione fisica alla sua importanza economica. Allora i valori possono anche completamente rovesciarsi: e se è vero che in complesso il latifondo e le piccole proprietà dell’interno hanno parimenti scarso valore economico, e grandissimo per converso le grandi come le piccole proprietà che ricadono nelle zone agrumicole esterne — nella Conca d’Oro occidentale come nell’agro siracusano, ad esempio — si danno anche estese regioni frumenticole di tipico sapore latifondistico, come la plaga nissena che fa capo a Butera e di lì dilaga fin sulla Piana gelese e all’asta terminale del Salso fino al mare e fin entro la Piana di Catania, ad altissimo reddito, mentre a basso reddito risultano numerose zone di prevalente piccola proprietà e di agricoltura intensiva, come la Conca d’Oro orientale, le aree di colture miste del Messinese (sia lungo il litorale ionico che tirrenico), la regione viticola di Vittoria nel Ragusano. I grafici riferiti a singole regioni agrarie — secondo i limiti, poche volte per vero opportunamente scelti, indicati dall’Istituto centrale di statistica — si prestano a numerose e interessanti considerazioni sul piano generale, e mostrano in modo abbastanza puntuale il variare del rapporto superficie-reddito imponibile per le varie classi di proprietà che ho ritenuto di prescegliere secondo una ripartizione che mi pare più aderente alle realtà agricole siciliane. Da questi grafici, riferiti a regioni agrarie opportunamente scelte, e distinte da caratteri sociali ed agronomici diversi, risulta in modo chiaro la grande ricchezza o diversità di comportamento delle aziende piccole e grandi, in rapporto al reddito che sono in grado di produrre.
Vite e ortaggi hanno fatto da poco la loro comparsa su molti tratti del litorale del Mar d’Africa, già occupati da semplici seminativi o magri pascoli: come qui, alla foce del Plàtani (Agrigento).
Nelle regioni più attardate — come la zona agrigentina del sommacco, la zona frumentaria di Salemi, ma anche il versante ionico dei Peloritani appena al di sopra dei 100-200 m. di altitudine, per esempio — la piccola azienda, per quanto curata con amore e diuturna fatica, ha sempre un reddito relativamente basso, e spesso al di sotto di un limite che possa comportare un tenore di vita almeno discreto per una famiglia numerosa; e per contro la grande azienda, di tipo latifondistico, che si poggia su uno sfruttamento soltanto estensivo del suolo, e si serve di manodopera abbondante e pagata a vii prezzo, e non si interessa alla meccanizzazione dei lavori agricoli né si preoccupa della fertilità dei terreni, provvedendo alla loro concimazione ed eventualmente al loro emendamento in modo adeguato e conforme ad un buono e sano governo del suolo, questa grande azienda dispone ciò nondimeno sempre di redditi relativamente alti. Ma si tratta in effetti di bassi ed alti redditi aziendali complessivi, ai quali corrisponde sempre una bassa redditività unitaria, cioè per unità di superficie. È questo il motivo principale che oppone in generale, ancora una volta, l’agricoltura delle regioni interne all’agricoltura delle plaghe marginali, che guardano al mare. In queste zone di colture giovani e ricche, più aperte alle tecniche moderne e più sensibili al giuoco del mercato agricolo, i redditi sono alti sia per le piccole che per le grandi aziende, ed anzi maggiori per le piccole e le medie in quanto le grandi trovano nella loro stessa eccessiva estensione un limite perentorio alla maggior intensificazione e cura delle colture.
Vigneti e oliveti nei dintorni di Castroreale (Messina), sui Peloritani occidentali.
I differenti valori della produzione agricola
In effetti, nell’interno prevale ancora di gran lunga la cerealicoltura, condotta con metodi tipicamente estensivi, rotta da macchie più o meno grandi di altre colture tradizionali dai non forti rendimenti — come l’olivo, il mandorlo, il carrubo — e da qualche macchia a vite nelle plaghe toccate dalla riforma fondiaria, a titolo ed uso prevalentemente familiari. Ma i cereali, che occupano nell’isola il 25% della superficie agraria e forestale — e la mantengono da tempo sui 600-650.000 ettari — formano soltanto il 12,1% del valore della produzione agricola vendibile dell’isola nel 1964 (da 18,5 nel 1959 e 14 nel 1962), e le colture che servono alla sua vicenda — in particolare le leguminose da granella, e in ispecie la fava da seme — coprono il 7,6% del suolo, ma contribuiscono al valore della produzione vendibile soltanto con l’i%. E gli stessi oliveti, che in vari settori dell’isola traboccano largamente su estesi tratti di litorale, e che in numerose zone presentano nuovi impianti razionali e redditizi, talora servono in particolare soltanto ai bisogni della famiglia e ad uno stretto ambito commerciale di raggio locale: estesi sul 4,9% della superficie utilizzata, partecipano alla formazione della produzione lorda vendibile con il 6,3% (ma ancora con il 10,5 nel 1956). Sono le colture di pregio, per contro, che danno i migliori risultati e i più grossi redditi: tra le vecchie la vite, tra le nuove gli agrumi e gli ortaggi. Queste colture sono tutte localizzate perifericamente: la vite occupa 18,9% della superficie agraria e forestale, ma il valore della sua produzione è del 15,9%, mentre gli agrumi, su una superficie di appena 71.000 ha., cioè pari a circa un decimo di quella dei cereali, danno una produzione per valore quasi doppia (20,4%, dal 15,8% nel 1961), e gli ortaggi, che occupano le regioni pianeggianti per il 2,2% della superficie utilizzata, eguagliano il valore dei prodotti viticoli, contribuendo alla produzione lorda vendibile con il 15,8% (dal 12,9 nel 1961). Sono questi i soli prodotti di colture industriali di qualche rilievo, nonostante la presenza del cotone, coltura tradizionale, secolare ormai, limitata ad aree trascurabili: appena 11.688 ettari nel 1964. Le colture erbacee avvicendate dominano dunque ancora gli orizzonti del paesaggio agrario siciliano, con il 57% della superficie nel 1964, seppur in modo un po’ più lieve rispetto ad una trentina di anni fa (61% nel 1929; 64,3% nel 1861). Ma in genere tali seminativi non sono stati ancora chiamati a far posto, in modo integrante, ai prati annui da vicenda: sta qui una delle più gravi pecche o deficienze dell’agricoltura siciliana, che è tipica in genere dei paesi poco evoluti sul piano tecnico. In espansione sensibile, nelle frange marginali, sono invece le colture legnose specializzate, specie la vite e gli agrumi, che occupavano appena il 10,4% della superficie coltivata nel 1861, una superficie quasi doppia nel 1929 (19,9%), ed ora ne interessano il 24%. Sono di poco cresciuti per contro i boschi (da 5,4% nel 1861 degradati a 3,6% nel 1929, e rialzatisi a 6,6% nel 1964: ma è opera soprattutto degli ultimi cinque anni) mentre segna una contrazione — uno dei pochi elementi positivi — l’incolto produttivo (da 2,9% nel 1929 a 1,7% nel 1964), dovuta in parte alla riforma fondiaria, e in parte alle grandi opere di scasso e di terrazzamento dei rilievi calcarei iblei, oltre che degli acclivi pendii cristallini dei Peloritani ionici, per la sistemazione di nuovi impianti d’agrume. Ma in notevole contrazione, per giunta, si trovano i prati e i pascoli permanenti: da 16,6% nel 1861, a 12,6% nel 1929, a 10,5% nel 1964. Si ha motivo di credere che mentre per i prati permanenti si è verificata una loro trasformazione in colture erbacee e magari in colture industriali di alto reddito (ortaggi), per i pascoli non si tratti che di fagocitazioni operate dalla riforma a vantaggio di non particolarmente utili — sul piano economico — seminativi semplici, che cambiano un po’ il volto delle campagne senza peraltro mutarne il valore economico.
Un aspetto delle campagne nei dintorni di Caltagirone (Catania).
Nuovi impianti a vite nei pressi di Scopello, sul golfo di Castellammare (Trapani), sulla stretta cimosa litorale che prelude alle alte coste della penisola di Capo San Vito.
Il frumento: una coltura tradizionale, tipica del latifondo
La coltura predominante su gran parte dei vasti orizzonti dell’interno della Sicilia è il frumento: coltura largamente rappresentata e importante nella Sicilia greca come in quella romana, nella Sicilia araba come in quella normanna e poi spagnuola. La colonizzazione spagnuola del Cinque e Seicento aveva anzi esaltato la funzione fru-menticola dell’isola, trasformando l’interno in una grande plaga di agricoltura speculativa, basata sulla monocoltura: e dall’interno i grani scendevano in grosse quantità — come ha ben lumeggiato il Braudel nella sua storia del bacino mediterraneo al tempo di Filippo II — verso i porti d’imbarco, o « caricatoi », allora attivissimi. E ancora oggi, il frumento, la coltura tipica delle aree a latifondo: sia là dove la grande proprietà si è conservata anche come unità aziendale, sia là dove il grande possedimento fondiario è stato sgretolato nella sua forma giuridica, spezzandosi in proprietà più piccole, o anche soltanto sul piano della conduzione agricola, facendo posto ad un robusto manipolo di famiglie contadine, affittuarie e più spesso mezzadre. I vecchi ordinamenti colturali sono rimasti intatti, e intatto, nell’assieme come nei dettagli, il quadro dell’utilizzazione del suolo.
Tra un terzo e un quarto delle terre coltivate della Sicilia è investito dal grano: circa 650.000 ettari, ogni anno. Quasi un secolo fa, tra il 1870 e il 1874, il grano interessava 566.000 ettari, e dava una produzione di 5 milioni di quintali, con una resa di 8,8 quintali per ettaro: contribuiva alla produzione complessiva italiana con il 12,8%, e il suo rendimento era superiore a quello medio italiano (8,3 q. per ha.). Le superfici interessate dalla granicoltura sono poi gradualmente salite: 673.000 ha. nel 1890-94, 699.000 nel 1909-13, 790.000 nel 1934-38: quest’ultima enorme dilatazione fu dovuta alla politica autarchica, che qui ha inteso aumentare la produzione mediante l’utilizzazione di più massicce aree piuttosto che attraverso il miglioramento delle tecniche produttive, e quindi dell’intensificazione delle colture. Ciò si constata indirettamente anche dalla lettura delle rese unitarie: che gradualmente si abbassano, e dal 1909 appaiono sempre inferiori a quelle medie italiane: 8,3 q. per ha. nel 1909-13, quando la media italiana era di 10,1 ; 11,2 q. nel 1934-38 contro 14,1. E la produzione siciliana rispetto a quella complessiva dell’Italia rimaneva pertanto costante, nonostante crescesse in senso assoluto: i 5,8 milioni di quintali del 1909-13 corrispondono alla percentuale di 12,1; gli 8,8 milioni di quintali del 1934-38 al 12,2. Dal tempo della cosiddetta « battaglia del grano », la superficie investita a frumento è diminuita nell’isola di circa 200.000 ettari — 683.000 nel 1953-57, e 585.000 nel 1965-66 — dedicati a più redditizie colture; ma le rese non si sono innalzate in modo sensibile, almeno nel primo periodo, rispetto all’anteguerra, ed erano soltanto di 11,5 q. per ha. all’inizio degli anni ’50 (rispetto alla media italiana di 17,8). Poi, nell’ultimo decennio, si sono innalzate sensibilmente — per quanto con un ritmo minore che nell’Italia settentrionale, e con valori sempre inferiori a quelli medi italiani — toccando i 13,9 q. nel 1965-66 (media nazionale: 22,8); e la produzione — di 8,1 milioni di quintali nella stessa annata agraria — è di non molto inferiore a quella dell’immediato periodo prebellico, ma è stata raccolta su circa 200.000 ettari in meno.
« Pagliaro » o capanna temporanea nei vasti campi aperti, dediti alla cerealicoltura, di Alimena, nell’alta valle del Salso o Imera meridionale (Palermo).
La coltura del grano, nonostante la sostanziale diminuzione delie superfici occupate e il sensibile innalzamento delle rese unitarie generali, riguarda ancora terreni in gran parte poco adatti. E li riguarda nella misura in cui tale coltura soddisfa le esigenze alimentari di estese regioni ancora chiuse entro gli angusti orizzonti di una economia poco sensibile e poco aperta ai mercati, e spesso anzi segnata dai caratteri tipici della sussistenza. La stessa distribuzione della cerealicoltura sottolinea questo fatto: in effetti, tutta la superficie dell’isola è interessata dalla coltivazione del frumento. La quale soltanto marginalmente tende a rarefarsi e a scomparire: dove colture più ricche dalla seconda metà del Settecento, e con maggior vigore e capacità di espansione dall’Ottocento in qua (vite prima, e poi agrumi e ortaggi) l’han risospinta verso l’interno, o in aree sparse particolarmente avare, occupate da estese formazioni pascolative: come sui Peloritani, sui Nébrodi, sulle Madonie, sui monti calcarei che fan corona a Palermo. Dai 300 metri di altitudine il dominio della coltura del frumento appare comunque quasi incontrastato, e da qui compattamente si spinge fin sui 600 m., occupando quindi tutto l’altipiano, e si innalza poi sulle falde e sui pendii anche i più scoscesi e sulle dorsali dei monti, sempre più frazionata in isolotti sparsi e intramezzata da pascoli, o da boschi o dalla macchia mediterranea, anche sino intorno ai 1200 m. I tipi di terreno investiti a grano, come d’altra parte i caratteri del clima e ancor più quelli delle aziende — con maggiore o minore disponibilità di capitali, con una più arretrata e desueta o affinata e moderna tecnica colturale — conferiscono alla cerealicoltura siciliana peculiarità diverse, addirittura contrastanti. Nell’interno latifondistico, son le argille a sopportare le colture granarie, e neppur esse vi sono molto adatte, per la facilità con cui si fan compatte e impermeabili sotto le piogge invernali, o si inaridiscono e si spaccano in enormi fenditure sotto i forti calori estivi: l’acqua d’inverno tende a far marcire le sementi, e la compattezza del suolo a soffocarle; e d’estate la siccità tende a isterilire il grano ancora in erba e ad avvizzirne le spighe e a rovinarne l’apparato radicale. E proprio qui i terreni migliori, temperati nella natura argillosa dalla presenza di calcari e di arenarie, sono dedicati a colture più redditizie: viti, olivi, mandorli, carrubi. Non fa dunque meraviglia che le rese mostrino valori molto disparati da regione a regione : nel 1953-57, secondo i dati elaborati da F. Milone, i valori oscillavano fortemente intorno alla media di 11,5 q. per ha.: le parti cacuminali degli Iblei erano distinti da una resa di appena 7,9 q., che solo di poco si innalzava sulle pendici medie fino ai bassi ripiani dell’Ànapo, verso Augusta e Siracusa, dove il frequente affiorare delle rocce calcaree determina ambienti spesso di scarso valore. E rese presso a poco simili o di poco superiori mostravano pure le falde dei Peloritani, sul versante ionico (6,9 q. per ha.) come su quello tirrenico (9,4), che pur si imponevano come l’area più redditizia di tutta la provincia di Messina; e assai basse erano anche le rese delle più piccole isole o gruppi insulari: Pantelleria 8,8; Egadi 8,7; Eòlie 9,1; Ustica 7,7. Per contro medie più elevate, ed anzi decisamente alte, distinguevano una larga plaga dell’Agrigentino su terreni più feraci, dove alligna molto bene anche il mandorlo — da Ravanusa a Canicattì, a Naro, a Camastra: 17,2 q. per ha. — e l’ampia zona frumentaria che dai dintorni di Enna e di Caltanissetta scende fin nella Piana di Gela (da 13,5 a 15 q. per ha.): cioè un’area dove domina ancora la grande proprietà — che vi occupa più del 35 e fino al 60% della superficie territoriale — ma già più aperta alle novazioni tecniche, e dove anche la piccola proprietà, come la media, mostra notevoli sforzi di miglioramento. Entro la Piana di Gela, non ancora tutta dissetata dall’irrigazione e pertanto ancora sensibile ai contraccolpi dei caldi, seccanti venti di scirocco, le rese si contraggono, come del pari nella più vasta pianura siciliana, quella del Simeto, dove le opere irrigatorie, portate a termine nei canali principali, attendono di essere accompagnate da una rete di canali secondari e aziendali necessari per il dissetamento delle sue colture. Sulle colline più elevate e in montagna, infine, i rendimenti sono davvero trascurabili: alle spalle di Monreale e di Borgetto, secondo un’inchiesta di R. Rochefort, si danno rese inferiori ai 5 q. per ha. Il peso demografico eccessivo ha portato a sfruttare terreni che non si adattano alla bisogna: a questi terreni si chiede ciò che è necessario per sopravvivere; eppure danno così poco che non riescono ad eliminare la fame in molte famiglie contadine.
In complesso, la cerealicoltura siciliana appare molto debole e soffocata sotto il peso di numerosi ostacoli. E non si tratta soltanto di ostacoli opposti dalla natura, dalla povertà dei suoli cioè e dai caratteri negativi del clima, con piogge forti e persistenti e sovente dilavanti durante e dopo le semine, nel primo periodo vegetativo della pianta, in autunno e in inverno, e con calori eccessivi e prolungati in primavera e in estate che tendono a seccare e ischeletrire le piante in fiore e poi in spiga, come sottolineano vari autori: così da prospettare che il latifondo dovrebbe riguardarsi come una conseguenza di questa agricoltura estensiva piuttosto che come una causa di tale tipo di utilizzazione del suolo. Le recenti trasformazioni in agrumeti e orti e vigneti di plaghe tradizionalmente cerealicole, attraverso un migliore e sistematico uso delle acque e grazie alla più vivace intraprendenza di una parte dei proprietari piccoli, medi e grandi, specie in provincia di Siracusa, oltre che in altri numerosi settori dell’isola: nel Gelese, nel Sciclitano, nel Vittoriese, lungo il Salso, il Plàtani, il Bélice, con maggior vigore nei tratti terminali ma anche nell’interno; e le più antiche trasformazioni da seminativo a vigneto delle zone ora viticole, sia occidentali (da Trapani a Marsala, a Mazara, a Castelvetrano), sia orientali (come nell’agro di Pachino) stanno chiaramente a significare che l’intervento sagace dell’uomo quelle condizioni può mutare: e non solo attraverso la sostituzione del grano con altre colture più redditizie, ma anche attraverso un’armoniosa combinazione colturale che alla cerealicoltura accompagni anche l’allevamento: il Ragusano, da Mòdica e Còmiso su su fino agli alti Iblei, offre un buon esempio al riguardo. Ed invero i motivi che ostacolano la cerealicoltura sono anche insiti nelle antiquate tradizioni colturali che reggono ancora oggi questo tipo di utilizzazione del suolo. Le semine sono fatte male, frequentemente a spaglio: la semina in linea, apparsa soltanto in alcune zone al tempo della « battaglia del grano », non ha fatto scuola. E sovente si affidano alle terre sementi non selezionate. Ed inoltre le sementi sono accolte da un terreno mal preparato, graffiato piuttosto che convenientemente arato: l’aratro di legno, uscito tal quale dalla civiltà mediterranea, è ancora, insieme al mulo e all’asino, il simbolo di questa cerealicoltura. I trattori erano appena 2035 in tutta la Sicilia nel 1951 e 7626 nel 1965, cioè uno per ogni 200 ettari di seminativo quando in Lombardia se ne contano 38.666 e in Emilia-Romagna 58.186, cioè 8 e 9 per ogni 200 ettari di seminativo. Le regioni argillose dell’interno hanno infatti bisogno di arature profonde invece di quelle superficiali ora attuate, e di arature fatte assai per tempo, già alla fine dell’estate, quando si è ancora in attesa delle piogge autunnali: così che i terreni possano immagazzinare anche maggiori quantità di pioggia, e restare più a lungo freschi, per la primavera e l’estate successive. E si può rilevare un altro grave difetto: a questa terra così mal preparata, alla quale si affidano sementi così povere, non si apporta quasi alcun contributo integrativo di fertilità, mediante le concimazioni naturali e chimiche. Come avviene in molte regioni poco sviluppate, si giunge anzi allo spreco dello stesso concime animale, del resto già scarso. « Lo spreco del letame in tutta la Sicilia interna — scrive R. Rochefort nella sua opera già più volte citata, Le travail en Sicile, pp. 123-24 — è così diventata un’ossessione per tutti gli abitanti del Nord.
Sistema arcaico di aratura — con aratro di legno fornito di una punta di ferro, e trazione animale — presso Pizzo Sant’Angelo (10S1 m.), sulle Madonie (Palermo).
I mucchi collettivi di letame sono la prima cosa che si scorge attorno ai villaggi; d’estate vi si appicca il fuoco, e il fumo soffocante che ne emana indica i villaggi a più di un chilometro di distanza». E continua: «Ma d’altra parte, come trasportare comodamente, in ceste a dorso di mulo, questa sostanza preziosa su terre situate a cinque, dieci, venti chilometri dall’agglomerazione? Si riserva il letame per le colture arbustive, per le fave, a meno che gli agrumicoltori della costa non vengano a cercarlo con le carrette e con gli autocarri. Gli ingrassi molto costosi sono abitualmente riservati alle colture più rimunerative, al pari degli anticrittogamici ». Se le tecniche antiquate di coltura pesano negativamente, pertanto, sul rendimento della produzione granaria, i caratteri degli insediamenti, che per gran parte dell’interno ripetono antiche strutture economico-sociali cristallizzate durante il periodo baronale, e la deficiente rete stradale che a tale schema d’insediamento e a tale struttura sociale risale, hanno posto limiti perentori, almeno quanto i caratteri ambientali negativi, allo sviluppo delle attività agricole: anzi di più, perché ostacolando più intimi rapporti tra la campagna e i lavoratori della terra, non hanno permesso a questi ultimi di accumulare nei secoli tutte quelle opere — di sistemazione di nuove colture, e di esperimenti agricoli pratici atti a mutare gli ordinamenti colturali e ad adattarli ai più diversi ambienti — che costituiscono la grande ricchezza e il patrimonio più prezioso per una regione agricola e per il suo continuo miglioramento.
Che le contrade interne dell’isola, che con gli stessi caratteri si affacciano largamente al Mar d’Africa, non siano condannate ad un tipo di agricoltura estensiva come l’abitudine a certi paesaggi e la consuetudine a certi poveri modi di vita potrebbero far credere — alla popolazione siciliana, come anche al forestiero, che da quegli ampi orizzonti aperti rimane affascinato e suggestionato — pare chiaramente indicato dalle possibilità di alcuni concreti temi di soluzione. Un primo tema consiste nell’accoppiamento della cerealicoltura all’allevamento, cioè nel passaggio da un tipo di utilizzazione del suolo estensivo ad uno intensivo.
Case rurali isolate, a due piani, nel territorio di Petralia Soprana (Madonie).
L’avena, le fave, la veccia, la sulla, che ora si alternano in avvicendamento con il frumento, potrebbero vantaggiosamente essere sostituite, almeno in parte — per quanto anch’esse siano utili alla continua ricostituzione della fertilità dei terreni; ma si vendono a vii prezzo sul mercato — con leguminose da foraggio come il trifoglio e l’erba medica, che potrebbero sostenere un forte carico bovino. L’unica condizione necessaria a tale sostituzione è la disponibilità di acqua, non grande certo, ma che tuttavia in alcune plaghe è stata potenziata grazie alla costruzione di un notevole numero di laghetti collinari, che le piogge si incaricano di riempire, ed in altre mediante il ricorso a falde freatiche, fino a pochi anni addietro ritenute inesistenti. I prati stabili, per contro, e anche quelli avvicendati, sono tuttora ben poca cosa, ma quelli di nuovo impianto — come ad esempio nella pianura terminale del Bélice — hanno dato ottimi risultati, ed hanno permesso una radicale trasformazione dell’economia agraria (e del paesaggio agrario) di alcune contrade. In questo modo, si ottengono anche buoni risultati sul piano sociale: il grano, che a mala pena si presta a 10-25 giornate di lavoro l’anno per ogni ettaro, e al massimo giunge a 50 nelle plaghe più fortunate, potrebbe offrire, insieme all’allevamento, un ben più nutrito numero di giornate lavorative, e per una parte non trascurabile anche un lavoro continuo, di tipo salariale, per tutto l’anno. E questa la soluzione che più si adatta a gran parte dell’altipiano interno. Nelle fasce marginali esterne, per contro, e anche all’interno nelle aree relativamente più ricche di acque, il secondo tema di soluzione, già estensivamente sperimentato dagli agricoltori e dai contadini, è rappresentato dall’introduzione di nuove piante commerciali, che abbiano a rompere gli stretti orizzonti di mercato locale e ad aprirli e innestarli in una più estesa rete di interessi commerciali: specie del cotone (che viene però presto abbandonato, al punto che la Piana gelese ne contava 7000 ettari nel 1955, 4000 nel 1958 e appena 2000 nel 1964, mentre la Sicilia passava in complesso negli stessi anni da 48.000 ettari, a 29.000 e a 11.688), ma soprattutto del pomodoro, anche nelle zone interne, dove le più basse rese unitarie vengono compensate dalla più tardiva maturazione, che permette agli agricoltori di sfuggire alla stagione dei prezzi più bassi: come a Villalba (Caltanissetta); o del carciofo — sul basso Bélice, a Tèrmini Imerese, e a Sciacca — o più recentemente, ma con poca fortuna finora, della barbabietola da zucchero (come nella piccola pianura di San Paolo, lungo il Téllaro, a sud di Noto).
Pascoli nei dintorni di Troìna (Enna).
I vasti campi aperti, disalberati, delle più basse pendici di M. Litto (575 m.) creano un suggestivo contrasto con i giardini d’agrumi che si slargano sulla piccola pianura costiera di Oliveri (Messina).
Ma a questi temi di soluzione occorre aggiungere o meglio accompagnare anche alcune innovazioni tecniche, riguardanti gli ordinamenti colturali. Gli avvicendamenti sono ancora molto rudimentali : in genere, al grano e ai cereali di primavera — l’orzo, l’avena, ed una specie di grano primaverile, la tumima, che si semina in questa stagione se l’inverno, troppo piovoso, non ha permesso la semina del grano invernale — succedono le fave e la sulla, che si è imposta soprattutto dall’Ottocento in poi, dilatandosi dal retroterra montuoso di Palermo, suo centro di insorgenza; e alternativamente occupano il terreno, senza interruzioni sulle colline, e dove queste son più scarne e in montagna, lasciando il posto ad un anno di riposo, o maggese nudo. In montagna, poi, il maggese si fa più frequente, alternandosi ogni anno al grano: la fame di terra, che è poi fame vera, ha spinto molti contadini e piccoli agricoltori ad occupare occasionalmente anche gli incolti produttivi, ogni cinque o dieci anni. Questi territori montani, dalle rese bassissime, appaiono quindi divisi in due vicende: una a maggese, che vien data in affitto ai pastori; l’altra a grano: la impreparazione tecnica dei contadini ha fatto fallire finora ogni tentativo di introdurre nel ciclo produttivo sia il mais che la patata, quest’ultima particolarmente adatta alle grandi altitudini, e base fondamentale, in molte regioni di montagna, della dieta alimentare della popolazione. Qui, decisamente, il solo tema di soluzione appare la riconversione dei seminativi alla loro naturale vocazione pastorale, e dove possibile una intensa opera di rimboschimento. Ma non basta. La regione a grano ha bisogno di altre tecniche di lavorazione del terreno: arature più profonde, fatte con strumenti meccanici adatti ai vari ambienti, e non più indifferentemente alle forme del rilievo, ma orizzontalmente alle curve di livello, cioè secondo il loro andamento: soltanto con questa innovazione tecnica le rese potrebbero aumentare, secondo alcuni agronomi, del 20-30%. Ed infine occorre anche una razionale sistemazione dei versanti, in modo che le arature profonde, specie nei terreni argillosi, non diano luogo — come ora anche le più lievi graffiature da parte dell’aratro di legno, fatte inconsultamente — ad una grave perdita di suolo agrario al tempo delle piogge autunnali e primaverili, che spesso vi cadono furiosamente. Tutte queste misure comporterebbero evidentemente un notevole innalzamento dei redditi della granicoltura, che per ora almeno sono ancora molto bassi, ad eccezione di alcune plaghe particolari, come nel Nisseno e nell’Ennese: secondo alcune inchieste di C. Schifani, i redditi medi netti variano appena tra 44 e 55 mila lire per ettaro, per il contadino proprietario. Assai poca cosa, se si pensa che il piccolo conduttore molto spesso dispone di pochi ettari, siano di sua proprietà o appartengano al latifondo che con altre migliaia di contadini sfrutta nello stesso modo, traendone magrissimi proventi per la famiglia, spesso ancora numerosa.
Le leguminose: dalla fava da seme a più redditizie colture da foraggio
La grande prevalenza dei cereali, che di molte estensioni fanno aree decisamente monocolturali, ha comportato — per la necessità di una ancorché debole integrazione delle sostanze nutritive del terreno — la diffusione di colture da vicenda, in ispecie di alcune leguminose. Tra queste, un posto ragguardevolissimo riveste la fava da seme, che rappresenta ancora, come nel passato per quanto con peso sempre minore, un elemento di base anche dell’alimentazione contadina. La fava entra in rotazione con il frumento in un ciclo biennale, con alternanza regolare, sui terreni più feraci dell’altipiano; ma dove i suoli si fanno più scarni, e in montagna, alla rotazione biennale subentra quella triennale, che ad un anno a fava vede succedere un anno a grano e uno a maggese (riposo) o a pascolo. Non fa dunque meraviglia che la fava da seme ricopra notevoli estensioni dei seminativi, in genere pari a circa un terzo della superficie occupata annualmente dal grano. Essa appare pertanto legata, da un anno all’altro, alle variazioni del frumento: nel 1958-60, 232.000 ettari; nel 1962, 211.000; nel 1964, 184.500: la produzione si aggira intorno a 1,2 milioni di quintali l’anno, con una resa media di quasi 7 q. per ha.: che crescono però a 13,6 nel Ragusano, e scendono ad appena 5,7 nell’Agrigentino. Queste lievi, recenti variazioni areali sono però legate anche alle incertezze del mercato, che richiede sempre minori quantità di fave da seme e favette per uso zootecnico, le quali vengono sostituite con granturco d’importazione e con foraggi verdi. Il minor uso che della fava si fa sia nell’allevamento del bestiame che nell’alimentazione della famiglia contadina (allo stato fresco) dovrebbe di conseguenza far spostare l’interesse verso altre leguminose da foraggio più redditizie (e in una certa misura i prati e gli erbai avvicendati si sono già diffusi, a circa 300.000 ettari); ma la lentezza di riaggiustamento propria del mondo rurale è destinata a far durare ancora a lungo il predominio della fava da seme come principale coltura da vicenda. E, infatti, assolutamente non comparabili con la fava sia per superficie occupata sia per produzione, appaiono le altre leguminose in rotazione: il cece soprattutto (8360 ha. nel 1964, e 68.600 quintali), solo da lontano seguito dalla lenticchia (4900 ha., 33.300 q.), dal fagiuolo, dal pisello e dalla sulla (4800 ha., 14.000 q.); assai più divulgata è per contro la veccia, che interessa da 16 a 18.000 ha., ma dà una produzione molto variabile in rapporto ai forti scarti nelle rese: 16.400 ha. nel 1961 con 117.000 q., 18.900 ha. nel 1962 con 88.000 q. appena, 18.000 ha. nel 1964 con 126.700 quintali.
La vite: pianta maestra nell’evoluzione dell’agricoltura seccagna
Tra le colture arboree tradizionali quella della vite si impone come la principale, sia per la superficie occupata che per il valore delle uve e dei vini prodotti: interessa attualmente (1964) una superficie pari a circa un terzo di quella occupata dal grano — cioè intorno a 216.000 ettari — e contribuisce alla produzione agricola vendibile con un valore pari al 15,9%, di fronte al 12,1% dei cereali considerati nel loro complesso.
Coltura antichissima, e per secoli legata all’autoconsumo familiare o locale — anche se correnti d’esportazione si ricordano per il periodo greco e romano, su su fino al periodo spagnuolo — la vite ha conosciuto il suo grande momento d’espansione nel Settecento sotto lo stimolo di commercianti inglesi : Woodhouse, intorno al terz’ultimo decennio del secolo XVIII, seguito poi dal connazionale Ingham, promosse infatti il processo di trasformazione dell’uso del suolo nel Trapanese, contribuendo a fare di questo settore dell’isola un « annesso viticolo » dell’Inghilterra. Rafforzatasi via via, qui e altrove, la coltura delia vite, già nell’Ottocento appaiono chiaramente individuate le regioni viticole che oggi consideriamo tradizionali. Ma la marcia della vite non è stata senza contrasti: ché anzi ha subito notevoli arresti, e indietreggia-menti talora paurosi, ora bloccata da parassitismi e malattie che quasi l’annientarono, ora fiaccata dal mercato e dalla politica, che quello stesso mercato ha improvvisamente e fortemente compresso o annullato.
Vigneti disposti su terrazze strette e allungate, sostenute da robusti muretti di lava scura, sugli acclivi pendii dell’Etna (Catania).
Intorno al 1870-74 la superfìcie vitata della Sicilia — cioè la superfìcie occupata da vigneti, poiché di coltura specializzata, in complesso, si tratta — era di 211.000 ettari, e la produzione si aggirava intorno a 4,2 milioni di ettolitri di vino, pari al 15,7% di tutta la produzione italiana. Da allora, e nell’arco di cinque lustri soltanto, tale superfìcie crebbe a 276.000 ha. intorno al 1880 e a quasi 300.000 alla fine del secolo, facilitata nella sua espansione anche dai vuoti creati nei vigneti francesi dalla fillossera, che raggiunse il punto più critico di infestazione intorno al 1882: la produzione di vino siciliano aumentò di conseguenza a 7.750.000 ettolitri tra il 1879 e il 1883, contribuendo con un quinto (21,1%) alla produzione nazionale. Ma qualche anno dopo, la produzione era già scesa a 5,6 milioni di ettolitri, nonostante la superfìcie vitata rimanesse inalterata. La fillossera, che si era manifestata nel territorio nisseno di Riesi nel 1880, si era in effetti già paurosamente espansa in tutta l’isola. Ogni cura fu vana, come già in Francia: e dei 300.000 ettari esistenti prima dell’infestazione fìllosserica, nel 1903 ne rimanevano soltanto 78.000, secondo quanto si legge nell’inchiesta del Lorenzoni. Molti piccoli agricoltori e moltissimi contadini si ritrovarono in grande miseria: e si avventurarono sui lidi tunisini a piantar viti, o emigrarono nelle Americhe. Le loro rimesse aiutarono poi i parenti rimasti nell’isola a liberarsi dal pesante fardello dei debiti e a dedicarsi alla ricostituzione dei vigneti : lasciando i terreni meno propizi e troppo elevati, e scegliendo di preferenza, per quanto possibile, terreni a forte contenuto sabbioso o conglomeratico o calcareo : specie quelli sabbiosi, dove la fillossera pareva facesse minor danno e dove c’era pertanto da temere di meno un suo disastroso ritorno. Le ricostruzioni sono avvenute a grado, nonostante le difficoltà contemporaneamente interposte dalla denuncia del trattato commerciale italo-francese: la superficie vitata era infatti già pari a 176.000 ettari all’inizio del secolo (intorno al 1905) e a 194.000 negli anni immediatamente precedenti l’ultima guerra: la produzione rimaneva tuttavia assai bassa, e nemmeno pari alla metà di quella del 1879-83, cioè appena di 3,2 milioni di ettolitri nei due periodi considerati: cioè soltanto un 8,5% di quella complessiva nazionale. Un sensibile innalzamento si è avuto nel dopoguerra: e oggi — 1964 — i vigneti occupano 216.200 ettari, e la produzione è di 8,5 milioni di ettolitri, pari al 12,5% di quella italiana: più delle superfìci, sono dunque aumentate le rese, che si aggirano sui 53-56 quintali di uve per ettaro. Le uve prodotte — che oscillano ora tra i 10 e i 13 milioni di quintali annualmente — sono destinate per la maggior parte alla vinificazione: intorno ai 9/10, esattamente. Dei 216.200 ettari dedicati alla vite, nel 1964, soltanto 17.300 erano occupati da impianti per la produzione di uve da tavola: con una produzione di 900.000-1.150.000 q. l’anno (da 200.000 q. nel 1938).
Vigneti, intorno a nuove dimore rurali isolate, nel territorio di Menfì (Agrigento).
Le aree di produzione, come ho già accennato, risultano chiaramente individuate nell’ambito dell’isola. La regione viticola più importante è indubbiamente quella occidentale, in provincia di Trapani. Essa occupa vaste estensioni compatte, che da Marsala si slargano sul mare fino a Mazara del Vallo, e all’interno fino a Campobello di Mazara e a Castelvetrano, e da lì oltrepassano il Bélice, invadendo il territorio di Menfi. Una gran dorsale lievemente rilevata, che mostra sovente nudi calcari affioranti, rivestiti da un magro pascolo o da scarni seminativi disalberati, taglia quasi nettamente questa compatta fascia litorale — che è congruente ai più freschi materiali alluvionali, e che verso Trapani si va rilassando e rompendo, e appare largamente intercalata da seminativi e da aree orticole — da una seconda fascia interna, formata da suoli derivanti da calcari pliocenici, che a Castelvetrano si innesta con la prima. In questa sola regione, insistono ben 40.000 ettari di vigneti, che occupano il 49% della sua superfìcie agraria: e da questi vigneti, pari a quasi un quinto di quelli isolani, si traggono circa 3 milioni di quintali di uva (media 1953-57 secondo i dati raccolti dal Milone) pari al 27% della produzione complessiva. Oasi sparse di vigneti puri fan corona a questa zona verso l’interno, concentrandosi in aureole fitte intorno agli abitati di Calatafimi, Salaparuta, Santa Ninfa, Salemi, Gibel-lina, e scendendo poi lungo l’asta del fiume Caldo vanno via via infittendosi verso la pianura di Castellammare del Golfo, che da questa cittadina si apre sino ad Alcamo e a Partinico. Qui si espande la seconda grande regione viticola occidentale, che dai terreni alluvionali lungo la costa si innalza fino ai primi rilievi, intagliati in formazioni argillose e calcaree. La fittezza dei vigneti si fa anche maggiore che nel Mar-salese: le viti, da 4500 per ettaro passano a ben 5500: decisamente troppe. Sono 20.000 gli ettari di questa regione viticola, di cui 14.000 ricadono nella provincia di Palermo: vi si raccolgono più di 1,2 milioni di quintali di uve, compresi più dei due terzi di tutta la produzione del Palermitano. In complesso, le due province occidentali di Trapani e di Palermo comprendono la metà della superficie vitata dell’isola, e danno poco più della metà della produzione complessiva di uva.
E all’estremo opposto dell’isola che si deve passare per trovare le altre regioni viticole: più piccole e meno compatte di quelle occidentali, e anche più distanziate l’una dall’altra. A nord, i distretti viticoli sono tre: il primo costituito dalla Piana di Milazzo, con assoluta prevalenza del suo settore occidentale, tra l’asta della penisola milese e Barcellona-Pozzo di Gotto: dove prevalgono ormai, sulle viti da vino, i vitigni di uva da tavola; il secondo, assai più lungo e disposto a nebulosa, lungo la riviera ionica dei Peloritani, aggrappato alle pendici cristalline dei contrafforti montuosi, fuor dai terreni più fertili, pianeggianti e alluvionali, delle aste delle fiumare e dell’esile frangia costiera, occupati dagli agrumi e dagli ortaggi; e infine, nelle isole Eòlie, Lipari e Salina rinomate per la malvasia. In queste plaghe si concentra il grosso delle aree vitate messinesi, cioè 16.000 ettari su quasi 21.000, e si producono 900.000 quintali di uve su un totale di 1.100.000. Assai caratteristica, subito al di là dell’Alcantara che pone termine all’area a nebulosa messinese, appare la regione viticola etnea. Dalla tipica forma a mezzaluna, essa abbraccia lungo le pendici mediane la grande montagna vulcanica: disegnando una fascia larga e compatta ad oriente, sul versante che dà sullo Ionio, e via via facendosi più sottile mentre gira a nord lungo il versante dell’Alcantara, e a sud, da dove guarda la Piana catanese. Insistendo su materiali vulcanici, che con paziente opera i contadini hanno rotto e disposto a terrazze piccole e allungate, sostenute da robusti muretti di lava scura, le viti si dispongono al di sopra della fascia occupata dagli agrumi, in lunghi filari di alberelli sostenuti da paletti e canne, oppure lasciati liberi sul loro corto ma forte fusto, tra i 300 e i 500 m. di altitudine in piantate schiette: e da qui, sempre più minute, lingue sinuose si innalzano a grandi altezze, giungendo sino a 1250-1300 m. a monte di Milo e Fornazzo e ai piedi del M. Intraleo, a nordest di Adrano. I vini sono molto diversi, a seconda che provengano dalla mezza montagna o da quella alta, dove son meno aspri e di colore rosso meno intenso. La maggior parte dei vigneti eatanesi si trova qui: 31.000 ettari su 40.000 circa; con una produzione di 926.000 quintali di uva su 1.180.000. L’altra area viticola catanese, molto meno importante, si localizza nei territori di Caltagirone e Grammichele, sulle sabbie e sui conglomerati pliocenici che formano il settore occidentale della regione iblea. Nella quale si sviluppano anche le ultime due grandi aree viticole della Sicilia. La prima interessa l’agro di Vittoria, di cui i vigneti del Caltagironese rappresentano come gli avamposti verso l’interno. Essa si apre tra l’Acate e l’ippari, e appare più compatta intorno a Vittoria e a Cómiso, da dove poi si espande fino a Mazzarrone, e al di là dell’Acate sino intorno a Niscemi. Una fascia di seminativi arborati e di orti la divide dal litorale, dove peraltro si insinua fino ad occupare una lunga fascia dunosa — i Macconi — che si protende verso la piana gelese, dove la vite si ferma perentoriamente. In questo agro di Vittoria si coltivano — ed hanno preso largo sviluppo — le uve da tavola di qualità precoce, oltre a quelle da vino: la totalità dei vigneti ragusani si trova qui: poco più di 9.100 ha., con una produzione di 387.000 quintali di uva. Dai Macconi, la vite non ricompare più in grandi estensioni fino al territorio di tspica, dove si apre l’ultima regione viticola, che occupa tutta la cuspide sudorien-tale dell’isola, tra Rosolini e Pachino, con qualche propagginazione su per la valle del Téllaro: i terreni sono particolarmente calcarei, e talora vulcanici, e son rifuggiti dalla vite soltanto dove la roccia affiora nuda: 8.600 dei 10.300 ettari di vigneti della provincia di Siracusa sono costretti entro questa piccola regione, che dà 411.000 q. di uve su una produzione complessiva di 470.000.
Torchio per vinificazione, ancora in uso nel Trapanese.
Queste grandi regioni viticole raggruppano dunque da sole i due terzi della superficie vitata, e contribuiscono pure con i due terzi alla produzione complessiva di uva della Sicilia. Sono regioni tipiche di monocoltura, dove la vite esclude qualsiasi altra forma di utilizzazione del suolo: sia dove accanto ad un’estesa piccola proprietà, che tocca e supera anche il 50% della superficie agraria della regione, come nel Trapanese, esiste ancora in forma abbastanza salda quella grande (dal 13 al 17% della stessa superficie agraria) che viene in parte ceduta per la conduzione a mezzadri (i quali ne cavano magri redditi, per quanto molto più elevati di quelli dei contadini dell’interno cerealicolo); sia dove predomina la piccola azienda del proprietario conduttore, come nella regione di Pachino, sui resti — frantumati da tempo — del latifondo. Si tratta dunque di regioni particolarmente sensibili — per l’univoco uso del suolo — alle crisi: crisi cicliche di mercato, inerenti all’assai elastico rapporto tra domanda e offerta; crisi determinate dalla diffusione di parassitismi e di malattie, che la grande instabilità climatica tende ad aggravare, con la comparsa or della peronòspera, or dell’oidio, or della muffa grigia, o di altre calamità; crisi, ancora, deteminate dal gusto, e dalla moda, che richiedono sempre meno il passito di Pantelleria, la malvasia di Lipari, il Marsala stesso, cioè i vini più tipici e noti — e non soltanto in Italia — di tutta la Sicilia. Le malattie spiegano anche le notevolissime oscillazioni della produzione, sia per quanto riguarda la quantità complessiva delle uve raccolte, sia per ciò che concerne le rese: la produzione siciliana è stata di 12,8 milioni di quintali nel 1958, di 10,2 nel ’59, di 7 nel ’60, di 13,1 nel ’61, di 12 nel ’62, di 7,2 nel ’63, di 10,3 nel ’64; e le rese son passate, in complesso, da un massimo di 62 q. per ha. nel 1958 a 36 nel i960. D’altra parte, le crisi legate all’andamento dei mercati han messo a dura prova le aziende viticole e vinicole, or che i vini siciliani sono usati prevalentemente come vini da taglio per correggere quelli settentrionali meno forti e farne vermouth meno liquorosi. Molti stabilimenti vinicoli hanno dichiarato fallimento, e alcuni importanti complessi, di gran nome sul mercato mondiale, come il Florio, sono stati recentemente assorbiti da case settentrionali. Ciò spiega anche il variare, da un anno all’altro, delle aree investite a vigneto: per quanto le spese d’impianto siano molto elevate, e gravino fortemente sul bilancio aziendale, e i primi frutti non si vedano se non dopo tre anni dall’impianto, non si esita talvolta a sradicare i vigneti. Si cerca di passare ad altre colture, dove possibile anche agli ortaggi; e sull’Etna, alle più elevate altezze, le viti cedono il posto ai frutteti, e lungo il limite inferiore della coltura lo cedono invece agli agrumi, che con maggior prepotenza negli anni a noi vicini cercano di ricacciare la vite su per le pendici del vulcano. La vite fa allora figura, per quattro o cinque anni, tra i filari dei frutteti come tra i filari degli agrumeti, di coltura intercalare, che aiutata dall’acqua che il contadino offre con maggior larghezza a quegli alberi, dà un frutto molto più abbondante di prima, seppur più acquoso.
Sistema tradizionale di pigiatura dell’uva, nei pressi di Alcamo (Trapani).
A questa recente tendenza della viticoltura — cioè a questo suo ridimensionamento nell’ambito delle regioni di coltura intensiva — fa riscontro, d’altra parte, una tendenza contraria, che a prima vista pare di difficile interpretazione. All’interno della Sicilia, cioè, si assiste ad uno sviluppo anarchico, febbrile, delle piantagioni di vite: e la loro diffusione qui — uno degli effetti della riforma agraria: fino al 1962 ne sarebbero stati piantati ben 12 milioni di ceppi (sono un miliardo circa quelli della Sicilia) — è legata al desiderio dei contadini divenuti proprietari conduttori di dare una base diversa da quella semplicemente granaria alla loro azienda, e di liberarsi nel contempo anche da quei tratti del paesaggio — largo, sconfinato, disalberato, bruciato dal sole nell’estate — che ricordano loro i tristissimi tempi da poco cambiati. Nella vite, che fa verde i campi quando le messi imbiondano, l’estate, e che riposa mettendo a nudo la terra, d’inverno, quando il grano trasforma in una verde prateria gli altipiani interni, i contadini hanno scoperto pure altre qualità: hanno capito che la vite dà redditi più elevati, e che offre anche maggiori possibilità di lavoro: da 115 a 150 giornate l’anno per ettaro contro le 25-40 della cerealicoltura. La vite appare in genere in piccoli spezzoni di terra posti intorno alla casa dei nuovi proprietari creati dalla riforma, nell’aperta campagna; ma anche in più estese aree specializzate, ora razionalmente coltivate, di medi e grandi proprietari più aperti ad una modernizzazione agricola — che significa poi miglioramento economico e sociale per tutti — dove si portano a lavorare, trasferendovi le loro tecniche affinate dalla lunga tradizione, moltissimi vignaiuoli di Marsala.
Certo, la coltura della vite rappresenta un elemento importantissimo della struttura produttiva agricola della Sicilia: il valore della sua produzione, pari al 15,9% della produzione lorda vendibile nel 1964 (13,5% per il vino, e 2,4% per l’uva) lo attesta chiaramente. Eppure l’isola, particolarmente ben dotata dal clima in ordine alla viticoltura, potrebbe prestarsi a ben altri risultati. Gli impianti per le uve da tavola, come ho detto, interessano soltanto l’8% della superficie vitata, e hanno dato una produzione di appena 829.400 q. nel 1964: cioè poco più di un quarto della produzione della Puglia (3,1 milioni di quintali), e circa i due terzi di quella dell’Abruzzo, contribuendo con il 10,7% alla produzione complessiva italiana. E invece questa coltura dell’uva fresca da tavola potrebbe molto utilmente essere estesa, e il mercato potrebbe assorbirne facilmente la produzione, data anche la precocità della sua maturazione. E davvero un peccato — come ha sottolineato l’agronomo R. Dumont — che non si passi dalla produzione del vino a quella di uva da tavola: questa persistenza a produrre vino si risolve fatalmente in uno spreco del potenziale climatico dell’isola.
L’olivo: un’antichissima coltura in letargo
Di introduzione antichissima, forse anche più antica della vite, l’olivo rappresenta la terza grande coltura legnosa della Sicilia, per il valore della produzione, subito dopo la vite stessa e gli agrumi. Che però la sorpassano di molto: alla produzione lorda vendibile dell’agricoltura siciliana l’olivo contribuisce infatti con appena il 6,3% (ma era del 10,5 nel 1956) e più precisamente con il 5,4% dell’olio e con lo 0,9% delle olive. E a differenza sia della vite che degli agrumi — il cui sviluppo è stato esaltato dagli stimoli della speculazione di mercato, che ha favorito la formazione di regioni viticole e agrumicole specializzate — l’olivo soltanto in parte è andato soggetto a tale fenomeno, e ancor oggi agli impianti puri, schietti, di tipica piantagione, e ricadenti normalmente entro i limiti di grandi o grandissime proprietà, si giustappongono estensioni ancor più notevoli — quasi triple, anzi — di seminativi più o meno arborati con olivi. Attualmente la coltura specializzata di olivi interessa 119.500 ettari, e la coltura promiscua 280.400. Ciò si deve evidentemente alla diffusissima tradizione di tenere dove possibile, sul pezzo di terra in proprietà, o in affitto o a mezzadria, un certo numero di alberi di olivo, che possa soddisfare i bisogni di grassi nell’alimentazione della famiglia. E tanta importanza si è sempre data a questi alberi, che non rari sono tuttora i casi di divisione ereditaria di parcelle ormai minute e trascurabili che hanno lasciato il campo a un figlio e gli olivi o una parte degli olivi ad un altro figlio: come avviene in molti altri paesi mediterranei di antica civiltà, ma in tutto o in parte almeno ancora legati a deficienze tecniche, a sovraccarichi di popolazione, a inusitate tradizioni, che rendono tuttora possibile ciò che appare semplicemente inimmaginabile ed anzi assurdo.
Vecchi oliveti tra Santa Maria di Licodia e Paterno (Catania) sulle pendici sudoccidentali dell’Etna.
Ora, se non si può dire che la coltura dell’olivo è in crisi, si può a buon ragione affermare che si trova almeno in letargo: e ciò a dispetto anche del grande amore del contadino siciliano, che da un quindicennio cerca di piantare gli olivi anche nelle regioni più interne, sui terreni acquisiti grazie alla riforma agraria del 1950, o acquistati attraverso il libero mercato, e che in effetti è riuscito a metterne in sede più di 300.000 tra il 1952 e il 1962: prevalentemente su terreni sabbiosi, o conglomeratici o calcarei, ma non su quelli prevalentemente argillosi, di gran lunga più estesi. Le argille sono ancora oggi ostiche all’albero, in genere, e frustrano i sogni dei contadini che aspirano a piantare il latifondo: cioè a cambiargli d’abito, in modo da dimenticarne anche i caratteri esteriori più evidenti e peculiari. In letargo è la coltura dell’olivo, perché già all’inizio del secolo scorso, verso il 1830, gli oliveti schietti avrebbero occupato, in base ai rilievi del vecchio catasto siciliano, intorno a 100.000 ettari, e 104.000 nel 1870-74 secondo i dati ufficiali dello stato italiano, con una graduale salita fino ai primi anni del nostro secolo: 134.000 ettari nel 1890-94, e poco più un decennio dopo. Durante tutto questo periodo, la produzione di olio — scesa per contro da 730.000 a 583.000 ettolitri tra il 1870 e il 1905, quando la superficie investita tendeva ad aumentare, ed in effetti si era innalzata di un terzo — rappresentò tra il 19,5 e il 21,5% della produzione complessiva italiana, secondo gli anni. Successivamente, le superfici olivetate schiette cominciarono a diminuire — e non è da accettare il dato di 328.000 ettari delle statistiche, per il 1909-13: perché le superfici si sarebbero quasi triplicate, e la produzione per contro quasi dimezzata: 300.000 ettolitri negli stessi anni, in media — contraendosi a 93.000 ha. nel 1936-39: e il contributo siciliano alla produzione italiana si riduceva così ad appena il 12,7%. Ma dopo la guerra gli impianti si sono un poco allargati: 117.000 ha. nel 1951-56, e 119.500 nel 1964, e la produzione ancor più sensibilmente accresciuta: 424.000 ettolitri nel 1951-56, e 614.000 nel 1964: il 16,8 e il 14,7% sul totale italiano, rispettivamente. Tuttavia ancora meno che nell’Ottocento e nel primo decennio di questo secolo: la produzione d’olio siciliana è stata infatti superata, anche se di poco, da quella calabrese, e in modo evidentissimo da quella pugliese, di cui rappresenta poco più dei due quinti. La produzione siciliana di olive da colture specializzate è di 2,1 milioni di quintali, e quella da colture promiscue di 1,5: in complesso, per i nove decimi vengono deificate. Il contributo degli olivi in coltura promiscua è dunque particolarmente notevole, anche se il tenore d’olio dei loro frutti è sempre piuttosto basso.
La distribuzione dell’olivo, come ho brevemente accennato all’inizio, si presenta in modo molto eterogeneo. E non soltanto perché si trova in tutta l’isola in promiscuità con altre colture: nei seminativi, dove talora la fittezza degli alberi è rimarchevole (anche fino a 50 per ettaro), e ancora nei vigneti, nei mandorleti, nei carrubeti, e persino nei noccioleti; ma perché anche molti boschetti specializzati si trovano intercalati ad altre colture, soprattutto lungo le fasce costiere, ravvivando il paesaggio, ma rendendo difficile una puntuale descrizione delle aree olivetate più ricche. Ciò nonostante, alcune zone ad oliveto relativamente molto estese e compatte si possono osservare su tutti i versanti, a poca distanza dai litorali. E tra queste si impongono specialmente le grandi formazioni olivicole della fascia costiera tirrenica, che dal mare, orlato dalle più ricche colture della vite, degli agrumi e degli ortaggi, si spingono anche fino a 500-600 m. di altitudine, per lasciare poi il posto ai seminativi, al bosco, o alla macchia mediterranea e al pascolo: un gran nastro tra Casteldaccia e Cefalù, interrotto solo in corrispondenza delle brevi piane alluvionali del San Leonardo, del Torto e dell’Imera settentrionale; e una seconda placca, anche più estesa, che dal Tusa, nei territori di Motta d’Affermo e Pettineo, si spinge fino al Capo Rasocolmo, ormai nei pressi dello stretto messinese, con qualche piccola interruzione, tenendosi a mezza costa sulle pendici arenaceo-argillose dei Nébrodi e dei Peloritani, e risalendo — in questi ultimi — fin sulle prime ondulazioni cristalline. Poi, sullo Ionio, l’olivo domina su una gran placca calcarea che fa corona ai golfi di Siracusa e di Augusta; e lungo il versante africano su zone, pure calcaree, dell’Agrigentino tra il Plàtani e il Bélice, oltre il quale l’oliveto schietto si espande intorno a Castelvetrano a formare una delle più vaste regioni olivicole dell’isola, ed una delle più fitte d’alberi: gli olivi si contano qui fino a 180-190 per ettaro, mentre nelle zone di impianti schietti del Messinese se ne osservano soltanto 125. In queste zone di coltura specializzata si concentra il grosso della produzione di olive della Sicilia; e talora l’oli-veto schietto vi occupa fino al 20-25% della superficie agraria: come tra Santa Margherita di Bélice, Caltabellotta, Sambuca di Sicilia e Burgio nell’Agrigentino, e tra Sant’Agata di Militello e Patti nel Messinese. Fuori da queste zone, l’olivo appare in coltura specializzata soltanto in macchie di discreta estensione o anche minute ma sempre largamente distanziate le une dalle altre, e infine pure in più grandi aree miste, ad olivo e vite, che formano come le propagginazioni interne dei più compatti distretti litorali, sia viticoli che olivicoli : da dove l’olivo è stato in gran parte cacciato ora dalla stessa vite, ora invece dagli agrumi e dagli ortaggi, ai quali vanno le maggiori cure. In queste aree miste, olivo e vite si integrano non soltanto al suolo, ma anche sul piano economico, secondo un chiaro intendimento dell’agricoltore, che alla crisi o alla cattiva annata di uno dei due prodotti spera di ovviare con il conseguimento di maggiori redditi sul secondo. Infine, l’olivo compare ancora in più o meno estese corone di coltura promiscua attorno ai centri abitati dell’interno : dove, insieme alla vite, al mandorlo, al fico, al seminativo stesso, forma una ricca aureola di vegetazione, quasi un’oasi rigogliosa in mezzo alle monotone distese cerealicole degli altipiani.
Oliveti a Capo d’Orlando (Messina).
Olivi presso le sponde del lago artificiale di Pozzillo, sul Salso di Regalbuto, nei pressi dell’abitato (Enna).
La coltura dell’olivo, al pari di quella del grano, ha conservato nell’insieme una gran parte delle più antiche tecniche di coltivazione. E se si possono osservare meravigliosi oli veti, specie nel Siracusano, altrove, specialmente nelle aree più interne o lontane dalla costa, gli olivi son magri, contorti, mal tenuti. E la densità della chioma, che fa superbo l’olivo, non va confusa con la produttività dell’albero: al contrario può indicare semplicemente l’incuria dell’uomo, cioè l’abbandono dell’albero alla natura, la mancanza o almeno la deficienza delle potature, che dovrebbero liberare l’albero dalle fronde eccessive per farlo caricare di frutti, più numerosi e più corposi: le drupe, nell’altipiano interno, sono invece sovente magre e striminzite. E si continua poi sempre e quasi dovunque a coltivare il terreno sotto gli alberi: operazioni che potrebbero di riflesso apportare un considerevole aiuto agli olivi con le arature e le concimazioni, ma che poi, con le colture appunto, privano il terreno di sostanze preziose. Ed infine le olive vengono ancora abbattute a terra, invece di essere raccolte con sistemi moderni, che ne faciliterebbero anche la conservazione togliendole all’umidità del terreno e agevolandone le operazioni di raccolta; né si procede ancora ad una lotta razionale, concertata, su base regionale, contro la mosca olearia, l’« occhio del pavone » e la cocciniglia, che più che dimezzano spesso la produzione. A dispetto di esempi notevoli in tutta l’isola di piantate di olivi fatte e curate a regola d’arte, da giovani agricoltori — tecnici e agronomi — sensibili alle novazioni tecniche e solleciti della funzionalità e della convenienza economica delle loro aziende, anche l’olivicoltura siciliana, al pari della cerealicoltura, si trova ancorata a sistemi antiquati che pesano gravemente sulla produzione, e anche sulla stabilizzazione della produzione. Non fa meraviglia dunque che questi elementi o fattori negativi, collegandosi o combinandosi anche a fattori climatici e di mercato, abbiano a condizionare prepotentemente questo settore dell’economia agricola siciliana. Ne fanno fede gli stessi dati della produzione annua: per fermarci agli ultimi anni, la produzione è stata di 2,7 milioni di quintali nel 1961, di 1,7 nel 1962, di 3,5 nel 1963, di 2,2 nel 1964, di 3,6 nel 1965. Ne balza subito fuori la precarietà di questa coltura, che significa poi precarietà di bilancio di molte famiglie contadine, di conduttori in proprio o lavoratori giornalieri nelle grosse aziende: gli anni magri corrispondono ad anni di minor lavoro, e quindi di bassissime retribuzioni.
Il mandorlo, il nocciòlo, il pistacchio, il carrubo: colture che attendono cure maggiori e una razionale utilizzazione
Gli alberi da frutta a guscio duro o a baccello costituiscono uno dei campi più tradizionali dell’agricoltura siciliana; ma rappresentano nello stesso tempo, per l’estrema adattabilità ai suoli più poveri e per la capacità a fruttificare senza che il contadino vi dedichi cure particolari — che anzi li abbandona spesso alla natura occupandosene quasi soltanto al tempo della raccolta dei frutti — uno dei settori di maggior spreco delle reali possibilità di sfruttamento che offrono.
Tra queste colture, il mandorlo si impone senza dubbio per il maggior peso sul piano economico, e per la più diffusa presenza nell’isola. Introdotto fin dall’antichità, almeno dal periodo greco, ha sempre rappresentato una nota di colore vivace per la sua splendida fioritura all’inizio della primavera, sia che si unisse a formare più o meno estese aree di coltura schietta, sia che si distribuisse in mezzo ai campi di grano o si intercalasse all’olivo e alla vite, o facesse da ornamento alle poche’case isolate in campagna, insieme al fico. Attualmente, interessa circa 96.300 ettari in coltura specializzata, e 159.500 in coltura promiscua. Non manca in nessuna parte dell’isola; ma la sua predilizione per la primavera mite — teme soltanto le brine e le gelate tardive di primavera, dopo la fioritura, che ne compromette appunto l’alligazione — tende a spingerlo verso il settore meridionale, quello più tiepido, da Siracusa sino al Bélice. Le aree di elezione sono due: la prima — per la quale le mandorle vanno famose nel mondo, e specialmente sul mercato tedesco e inglese, sotto il nome di « mandorle di Avola » — si fìssa nella regione sudorientale, cioè nel settore siracusano degli Iblei che ricade nei territori di Avola e di Noto. Qui il mandorlo forma la più estesa plaga specializzata di tutta la Sicilia; e da qui si spinge, con propagginazioni o insinuazioni più o meno robuste e continue, fin quasi all’Anapo, intorno a Floridia, e verso sud, bloccato dai grandi vigneti del Pachinese, tende al di sopra di Rosolini a penetrare nella provincia di Ragusa, dove si fa ancora compatto intorno ad Ispica e a Scicli, e nell’agro di Vittoria, invece, quasi abbraccia le aree viticole, verso il mare come verso l’altipiano interno. In complesso, in questa regione il mandorlo lascia i terreni più bassi e più ricchi, e più facilmente irrigabili, ora all’agrume ora agli ortaggi, e si spinge in alto fino intorno ai 400 m. di altitudine; ma ogni volta le opere irrigue si espandono e attingono le terrazze più elevate, poste intorno ai 200-250 m., anche da qui vien respinto sulle più alte dorsali dalla prepotente invasione degli agrumi. In oasi sparse il mandorlo sale dunque, in piantagione compatta, ad altitudini maggiori, e ancor più in alto in coltura promiscua: come intorno a Ragusa e a Chiaramonte Gulfi, tra i 450 e i 650 m. Nel Siracusano, si trovano in complesso 18.130 ettari di mandorleti schietti, e soltanto 4.870 in coltura promiscua; ma più della metà delle piantagioni di mandorlo — cioè quasi 11.000 ha. — appare concentrata nei soli comuni di Avola e di Noto. Nell’insieme, con i 3.350 ha. di impianti specializzati del Ragusano, questo settore sudorientale dell’isola comprende circa un quinto della superficie occupata dai mandorleti siciliani, e contribuisce, a seconda degli anni, con il 18-33% produzione complessiva: che nella media degli anni 1959-64 è stata di 1.041.000 quintali.
Nuovi impianti di agrumeti, tra Àvola e Siracusa.
Per superfìcie — 34.655 ha. in coltura specializzata e 12.200 in coltura promiscua — e per produzione (da appena il 5 fino al 30% di quella complessiva siciliana, secondo gli anni), si impone però la provincia di Agrigento: dove i mandorleti si presentano soprattutto tra il Salso e il Plàtani, e poi nel Menfese, a ridosso del Bélice, che oltrepassano per invadere i territori trapanesi di Castelvetrano e soprattutto di Par-tanna. I caratteri di questa regione mandorlifera sono tuttavia molto diversi da quelli dell’Avolese, per vari motivi: in questo settore del versante africano il mandorlo forma isole schiette più minute e distanziate tra di loro, che punteggiano con macchie di varia estensione l’altipiano e si coagulano di preferenza attorno ai centri abitati — dove con l’olivo e la vite formano una corona o aureola arboricola in mezzo ai seminativi semplici — o dai centri stessi si tengono non molto discoste: ma talora, quando i villaggi e le borgate son più numerosi, tali macchie si congiungono l’una all’altra mediante lunghe, esili strisce che seguono le strade e le più aride dorsali dei colli. Eppoi, questi mandorleti sono distinti da un gran numero di varietà, e delle più rusticane per giunta, che cedono per la qualità al prodotto di Avola: e quindi le mandorle che da qui si ricavano sono molto meno ricercate e si vendono ad un prezzo molto più basso. Anche qui, come ad Avola, se ne occupano in prevalenza i piccoli proprietari: ma nell’Agrigentino la raccolta vien fatta alla rinfusa, mescolando il buono al cattivo, e compromettendo il prezzo dell’intera produzione: ciò che rende più debole la capacità di conservare i mercati stranieri, di fronte alla concorrenza esercitata dalle mandorle spagnuole, non migliori ma più curate nella presentazione, e dalle mandorle statunitensi — della California — altrettanto buone di quelle di Àvola. Nell’Agrigentino, tra Salso e Plàtani, il mandorlo penetra nell’interno fin verso i 600 metri di altitudine, invadendo la provincia di Caltanissetta — dove grosse piantate di mandorleti schietti circondano per largo tratto lo stesso capoluogo e da qui si spingono fino a San Cataldo e a Serradifalco — e anche quella di Enna — risalendo da Butera e Mazzarino fin nel territorio di Piazza Armerina, dove tocca gli 800 metri di altezza. L’Ennese e il Nisseno, in verità, sono le province che dopo Agrigento e Siracusa risultano dotate delle maggiori estensioni a mandorlo: l’Ennese, con i suoi 16.220 ettari di piantate schiette e 3.460 in coltura promiscua, dà circa il 10-12% nelle annate buone e il 18-22% nelle annate cattive della produzione siciliana: la sua produzione è cioè più regolare di quella delle altre province; mentre il Nisseno, con 12.960 e 32.390 ettari rispettivamente, contribuisce alla produzione totale con il 12-17%.
Un bel mandorleto presso Avola (Siracusa).
Mentre nelle regioni fin qui considerate prevale la coltura specializzata su quella promiscua, per quanto riguarda la produzione e talora anche la superficie, nel Catanese si impone come distintiva la distribuzione dei mandorli in mezzo alle altre colture : soltanto 5.400 ettari di piantate schiette, ma 64.200 in coltura promiscua. In questa provincia le coagulazioni principali, oltre che nel Caltagironese, che forma macchia isolata, si trovano pressoché tutte nel bacino del Simeto. Il mandorlo lo risale fino a grandi altezze — intorno ai 1200 m. — sui versanti meridionali e occidentali della mole etnea: ma la produzione si aggira soltanto sul 4-8% di quella complessiva dell’isola. E altrove, nel Palermitano si tocca appena il 3-6%, e nel Messinese si scende addirittura all’1-3%: quest’ultima regione è certamente quella meno propizia alla coltura del mandorlo, per la notevole montagnosità dei rilievi, per la maggior piovosità e umidità che la contraddistinguono, per i freddi invernali e primaverili più rimarcati.
Anche il mandorlo, come si è già osservato in particolare per l’olivo, dà una produzione che varia entro limiti estremamente larghi da un anno all’altro: fu di 711.900 quintali nel i960, di 1.608.500 nel 1961, di 532.400 nel 1962, di 650.400 nel 1963, di 1.396.400 nel 1964, di 1.043.100 nel 1965 (di cui un po’ più dei due terzi da piantate schiette). E anche se le gelate primaverili sono largamente responsabili di queste fortissime oscillazioni, non si può tacere l’importanza assunta da certe pratiche colturali antiquate nel deprimerne la produzione.
Del resto, sono proprio le insufficienze tecniche e la mancanza di cure — cioè l’assenza di una metodica lotta antiparassitaria e di una razionale concimazione, la non adeguata lavorazione del terreno e l’insufficiente governo degli alberi, la necessità mai soddisfatta di un ringiovanimento degli impianti e la persistenza di vecchi sistemi di coltivazione e di raccolta — a spiegare le forti oscillazioni di produzione anche del nocciòlo: con negative ripercussioni pure sul piano sociale, dal momento che la manodopera, nelle regioni del noccioleto, numerosa e a buon mercato, non riesce nemmeno a trovarvi soddisfacente impiego, dopo il raccolto, ed è costretta a periodiche migrazioni stagionali. La coltura del nocciòlo, pressoché tutta specializzata — si tratta di 17.000 ettari complessivamente — presenta rimarchevoli caratteri di concentrazione: a differenza del mandorlo, piuttosto ubiquista in Sicilia, il nocciòlo mostra di prediligere il settore nordorientale dell’isola, nonostante qualche macchia di noccioleto si innalzi intorno a Piazza Armerina nell’Ennese che volge al Mar d’Africa, e vi dia frutti di alta qualità. In effetti, è la catena settentrionale tirrenica che dà ricetto al noccioleto: boschi di fitti alberi cespugliati ammantano i monti intorno a Polizzi Generosa nelle Madonie, ma più grandi ed estesi si fanno ad est, nei Nébrodi orientali : da Frazzanò a Galati Mamertino, si stendono fino a Patti e a Montalbano di Elicona, dai primi colli verso il mare, di fronte a Capo d’Orlando e a Capo Calavà, su su fin sullo spartiacque — dove toccano in aree sparse anche i 1000-1200 m. — e da qui si spingono da una parte fin nel territorio di Novara di Sicilia e di Fondachelli, lungo la cerniera di giunzione tra Nébrodi e Peloritani, e dall’altra, al di qua dello spartiacque, tracimano giù nella valle dell’Alcàntara sino a formare una grossa macchia intorno a Castiglione di Sicilia. Particolarmente impressionante è la grande distesa di noccioleti che fa corona a Tortorici, Ucria e Raccuia, e da lì divalla lungo le fiumare Zappulla, Sinagra e Sant’Angelo. Dai noccioleti siciliani si son ricavati 43.400 quintali di nocciòle nel i960, 99.800 nel 1961, 77.400 nel 1962, 174.800 nel 1963, 153.000 nel 1964, 154.700 nel 1965: per il 98% dalla grande zona del noccioleto dei Nébrodi orientali.
Anche più concentrata del nocciòlo appare un’altra coltura: quella del pistacchio, peculiare, in Italia, alla sola Sicilia. Innestato sul terebinto, pianta spontanea resisten-tissima alla siccità, il pistacchio, alto fino a una decina di metri e dall’ampia chioma verdastra e lucida, inserisce nello scuro e spesso desolato paesaggio delle colate laviche etnee, dove son più imponenti e meno disgregate, una nota di vita gagliarda. Si trova quasi tutta qui, isolata, la coltura del pistacchio: sul versante etneo occidentale, dove fu forse ricacciato dalla sua resistenza non solo ai forti calori estivi ma anche alle gelate invernali molto frequenti, e dalla sua capacità di attingere la sostanza necessaria alla maturazione dei frutti ai terreni più poveri: è pressoché la sola pianta che riesce a sfruttare le « sciarette », cioè le recenti colate laviche toccate in sorte ai contadini al momento della spartizione dei demani comunali. Questa coltura forma una grande fascia da Misterbianco e Belpasso fino quasi sotto Bronte, dalla infossa-tura del Simeto risalendo le prime propagginazioni etnee, dai 400 fin sopra gli 800 m. : e intorno a Ragalna, nel settore del comune di Paterno, e tra Adrano e Bronte si innalzano le più vaste aree di pistacchieto puro : un migliaio di ettari nella prima zona, e 1400 nella seconda, oltre a 4.400 ettari in coltura promiscua. Da qui proviene la quasi totalità della produzione catanese (i 4/5 circa), e il 50% di quella siciliana, pari a un po’ meno di 10.000 quintali annui. Il risalto che la coltura del pistacchio ha sulle falde etnee occidentali non lo riveste per contro altrove: dove tuttavia, su appena alcune centinaia di ettari in coltura schietta e sparso qua e là tra mandorli e viti — intorno a Caltanissetta, e in una zona che fa capo a Sant’Angelo Muxaro, Ravanusa, e Santo Stefano Quisquilia nell’Agrigentino — il pistacchio dà rese molto più elevate, traendo notevolissimo vantaggio dai suoli più ricchi (sia piantato su placche sabbiose che conglomeratiche) e dalle cure che i contadini portano alle altre colture, cioè dalle più profonde lavorazioni del terreno, dalle concimazioni e persino dall’irrigazione. Gliene viene danno soltanto dal caldo umido, e dai parassiti, contro i quali non si è tentato finora un radicale trattamento. Anche questa coltura potrebbe dunque essere organizzata meglio: la sua produzione trova facile sbocco sul mercato europeo (dove non ha concorrenti), e l’industria dolciaria — specie inglese e francese, oltre alla nostra — è in grado di assorbirne quantità di gran lunga maggiori.
In una situazione anche più grave si trovano altre colture: il carrubo specialmente. Quest’albero, alto fino a più di trenta metri, dalla larga chioma scura, e fitta, è tipico della regione iblea: entro i suoi ripiani calcarei forma anche piantate schiette, sui terreni più avari, che rompono in modo perentorio gli assolati campi di grano divisi da muretti a secco. Ma si tratta appena di 5.700 ettari in coltura pura, e di ben 64.200 in coltura promiscua: in mezzo ai cereali, prevalentemente. Le sue sìlique, già alimento ricco per i cavalli (« la pietanza » degli equini era costituita da carrube, ancora una trentina di anni fa, nelle stalle lombarde) e usate anche come succedaneo dello zucchero in tempo di guerra e gustate dai bambini quasi come dolci, servono ora soltanto nell’industria farmaceutica — che ne fa pastiglie contro la tosse — e in quella chimica in genere — che ne ricava alcool. Eppure, il suo uso nell’alimentazione del bestiame potrebbe dare maggior vigore a questa coltura: come ricorda R. Ro-chefort, da pochi anni, in un ambiente più arido della Sicilia — cioè nello stato di Israele — il carrubo è diventato « l’albero-foraggio miracolo ». In un’isola come la Sicilia, dove le foraggere non sono molto rappresentate anche per deficienza di risorse idriche, l’utilizzazione delle sìlique di carrubo nell’alimentazione bovina potrebbe vantaggiosamente rafforzare le basi dell’allevamento stesso, il cui sviluppo è in sommo grado auspicabile, particolarmente nelle regioni interne. Senza possibilità di rinascita, al contrario, appare il sommacco, che ancora nella seconda metà dell’Ottocento occupava circa 30.000 ettari, specie nel settore occidentale dell’isola, in una fascia da Palermo a Tèrmini Imerese, e in un’altra da Trapani a Sciacca, oltre che in qualche area sperduta nell’interno: Corleone e Caltagirone. Le sue foglie davano il tannino, sostanza conciante utilissima, e in gran quantità. Lo sviluppo di sostanze chimiche più a buon mercato ne ha segnato definitivamente la decadenza. E nemmeno florida appare la coltura del frassino da manna (4.000 quintali nel 1962) concentrato soprattutto a Castelbuono, Geraci Siculo e Pollina, nelle Madonie, e a Misilmeri (nella valle dell’Eleutero) ; e in contrazione anche la produzione di radice di liquirizia: ormai insufficiente anche per i bisogni dell’industria siciliana (Catania), che ne trae succo ed estratto.
La frutta polposa: un settore trascurato dalle ampie prospettive
Gli alberi da frutta a guscio duro e a baccello contribuiscono alla produzione lorda vendibile dell’agricoltura siciliana con circa l’8% del suo valore; quelli a frutta polposa, per contro, appena con l’i%, nel 1962. Non si può nemmeno dire che si sia in Sicilia all’inizio di sviluppi razionali e pianificati in questo campo: in generale, la febbre degli agrumi ha conquistato pressoché tutti i coltivatori delle regioni dai suoli più fertili e con relativa facilità di irrigazione, e non ha lasciato di conseguenza la possibilità di intraprendere azioni decise ai fini dello sviluppo degli altri alberi da frutta. La frutticoltura siciliana presenta in effetti un carattere tipicamente « campestre », secondo l’espressione dello Zito, cioè appare per lo più limitata ad alberi sparsi nei campi; o al più —• come avviene intorno all’Etna, in una grande fascia che da Bronte attraverso Adrano, Paterno, Pedara, Trecastagni, Zafferana e Giarre recinge torno torno per gran parte la montagna etnea — appare in forme di pseudo specializzazione, nelle quali gli alberi da frutta polposa si trovano frammisti tra loro, oltre che con gli agrumi e con la stessa vite. Soltanto raramente si osservano piantate schiette, come nella Conca d’Oro, dove i territori di Ficarazzi, Bagheria e soprattutto di Trabia sopportano bellissimi nuovi impianti di nèspoli. La frutticoltura industriale è dunque ancora soltanto una possibilità, in Sicilia, piuttosto che un’aspirazione. E di fatto le colture specializzate interessano appena 7.650 ettari e quella promiscua 77.000 (1961). Ma qualcosa si sta pur facendo in varie contrade, così che la produzione, stazionaria — seppur molto oscillante da un anno all’altro — fino al 1961, si va gradualmente innalzando, e anche in modo sensibile, soprattutto per le colture del pesco e del pero. Le quali, insieme al melo, sono certamente le più importanti in questo settore, e occupano tutte grosso modo circa 1500 ettari in coltura specializzata. La produzione di pesche, oscillante intorno ai 100.000 quintali fino al i960, si è triplicata in questi ultimi anni (93.600 q. nel i960, 182.700 nel 1963, 306.200 nel 1965), e quella di pere, pur attraverso variazioni molto forti in un periodo ancora vicino, si irrobustisce da poco in modo sicuro (129.700 q. nel 1959, 86.200 nel 1960, 155.500 nel 1962, 253.900 nel 1963, 288.600 nel 1965). Instabile appare invece ancora la produzione di mele (143.600 q. nel 1957, 113.800 nel 1961, 179.100 nel 1963, 131.900 nel 1964, 196.700 nel 1965), il cui contributo alla produzione italiana è tuttora inferiore all’uno per cento (è del 203% per le pesche e le pere). La superficie occupata da queste colture è superata soltanto da quella interessata dal fico (2600 ha.), la cui produzione (intorno ai 250.000 q. nel 1960-61) tende però a diminuire: così che i fichi secchi prodotti (all’essicazione vanno i due terzi di quelli freschi) si aggiravano intorno a 28-30.000 q. ancora pochi anni fa, ed ora (1965) sono soltanto 16.200: appena il 5% della produzione nazionale. I dati ufficiali di queste produzioni (come di quelle relative all’albicocco, al susino, al ciliegio, al cotogno, al melograno: tutte stazionarie, e in coltura promiscua) sono senz’altro molto al di sotto dei valori reali, in quanto una gran parte della frutta polposa viene consumata dalla stessa famiglia coltivatrice, o si disperde nei mercati locali, sfuggendo ad ogni rilevazione statistica: è ciò che capita a tutta la produzione non commercializzata, di qualsiasi genere, e in particolare nelle regioni in cui lo sviluppo economico non è ancora decisamente avviato, e lascia quindi larghe possibilità di azione a mercati locali non controllati.
È forse utile aggiungere, qui, a margine della breve descrizione delle colture di frutta polposa, alcune parole su un frutto largamente consumato in Sicilia, come in tutto il Mezzogiorno, e che pare avviarsi anche a qualche fortuna di carattere commerciale. Alludo al gustoso e carnoso ficodindia, che caratterizza quasi pianta indigena il paesaggio mediterraneo, al quale si è invece perfettamente adattato soltanto dopo la scoperta del Nuovo Mondo : da là venne, infatti, con la patata, il mais o granturco, il pomodoro, il peperone, e altre piante. Il ficodindia occupa ora, in Sicilia, circa 10.000 ettari in coltura schietta, ma sottolinea con filari fitti i limiti dei campi, delle proprietà, delle strade, ed entro gli stessi campi — specie negli orti — viene talora piantato a far da barriera frangivento: ne sono particolarmente ricchi i litorali ionico da una parte, e trapanese dall’altro. Ma lo si trova dovunque, e nelle aree di piantata specializzata lo si sforza, togliendogli i primi germogli, ad una tarda maturazione, che rende più abbondanti e più succose le bacche con l’aiuto delle prime piogge della tarda estate e dell’autunno. Accanto a quelle ricordate, altre piante da frutta polposa potrebbero avere più largo sviluppo in Sicilia. Ottime prospettive ha ad esempio la coltura delle fragole, che nel bacino irriguo del basso Verdura, presso Ribera, mostra il suo maggior centro di produzione: ancora fortemente oscillante tra i 2 e i 3 mila quintali annui.
Le colture industriali: primato degli ortaggi e anchilòsi del cotone
Sono le colture nuove, o meglio le colture di recente passate dall’orto al pieno campo, da un’economia legata al fabbisogno familiare o al ristretto mercato di paese o al più largo ma sempre limitato mercato della più vicina città, ad imporsi oggi tra le cosiddette colture industriali : quelle cioè la cui produzione può o deve passare attraverso una elaborazione negli opifici industriali prima di essere immessa al consumo. Nel volgere degli ultimi cinque o sei lustri le colture orticole, pur continuando ad allargarsi attorno alle città in armonia con l’accrescimento della popolazione urbana e ancor di più con le maggiori richieste rese possibili da un più alto tenore di vita — così appaiono oggi molto estesi gli orti alle porte orientali di Palermo, a quelle meridionali di Messina, a quelle settentrionali di Siracusa e intorno a quasi tutti gli altri capoluoghi provinciali e alle altre più consistenti cittadine — da queste loro sedi che son state preferenziali per secoli si son spostate nella campagna aperta, e lì han dato origine ad estesi orti industriali a pieno campo. La distribuzione di questi orti è prevalentemente e tipicamente marginale, periferica: interessa soprattutto le frange costiere, nei tratti più vicini al mare. Qui si aprono le non grandi pianure siciliane, ora nastri lunghi e sottili a ridosso di monti incombenti, ora cunei più o meno grossi che insistono sugli apparati terminali dei corsi d’acqua, anche i più piccoli e asciutti per lunghi mesi ogni anno, e di lì si insinuano un poco nell’interno. Sono queste appunto le aree dove i terreni alluvionali di trasporto son più freschi e leggeri — dopo che sono stati in qualche caso bonificati per la presenza di qualche stagno — e dove un po’ d’acqua è sempre presente lungo l’asta fluviale, o nascosta nella falda sotterranea. E di qui queste colture si sono espanse da una parte sulle fasce litorali dunose, più calde ed atte ad un frutto molto precoce, e dall’altra verso l’interno, soprattutto dove i terreni risultano formati da substrati sabbioso-conglomeratici. La Conca d’Oro intorno a Palermo, la Piana di Milazzo, in assai trascurabile misura almeno per ora la maggior pianura dell’isola, cioè la Piana di Catania — a causa dell’ancor giovane opera di bonificazione e di sistemazione idraulica e irrigatoria — la pianura a nord e a sud di Siracusa, la fascia litoranea che da sotto Scicli attraverso Santa Croce Camerina va fino a Vittoria e a Gela — quest’ultima pianura soltanto in parte sfruttata nelle sue notevoli potenzialità produttive — le piane di Alcamo-Partinico e di Licata e del Trapanese, e infine moltissime altre plaghe minori, strette tra monte e costa (da Rometta Marea a Spadafora, nel Messinese, ad esempio) o insinuate all’interno lungo il fondo vallivo dei corsi d’acqua (lungo l’Oreto, come lungo il Simeto, nei territori di Adrano e Biancavilla) sono le aree di maggior concentrazione degli ortaggi, che occupano attualmente — compresi quelli suburbani — un’estensione di circa 54.700 ettari in coltura ripetuta.
Tra queste colture orticole, quella che s’innalza sulle altre per intensità e produttività è il pomodoro, che ha avuto un eguale grande sviluppo negli ultimi decenni in tutte le regioni meridionali. Intorno al 1938 il pomodoro occupava circa 9.000 ettari ed oggi ne interessa intorno a 25.000: la sua produzione — divisa in due parti: quella del pomodoro tardivo o autunnale, e quella del pomodoro precoce, di primavera : entrambe di grande valore per la possibilità di raggiungere i mercati in momenti di particolarmente forte richiesta —• è passata da 1,3 milioni di quintali nel 1938 a 1,5 nel 1949, a 2,4 nel 1951, a 3,8 nel 1957, a 4,9 nel 1965: pari, in quest’ultimo anno, al 15,5% di quella nazionale. Le più forti produzioni sono offerte dalla provincia di Ragusa, dal Sciclitano al Vittoriese (quasi la metà). Molto viene consumato fresco, in Italia e anche nell’Europa occidentale (dove viene avviato un buon 10% della produzione isolana) ma per più della metà è assorbito dall’industria conserviera. Ma notevole diffusione hanno assunto recentemente anche i carciofi (su circa 10.000 ha., e con una produzione di 866.000 q., pari al 18% di quella italiana); i cavolfiori (860.000 q. : 12,5%), le melanzane (300.000 q. : 13%), le patate prima-ticce (870.000 q. : 22%), i finocchi e i cardi (620.000 q. : 13,3%), le cipolle e l’aglio (400.000 q. : 8%), i piselli freschi (460.000 q. : 20%), i poponi e i cocomeri (650.000 q. : 7»5%)» e ancora i cavoli (242.000 q.) e i fagiuoli freschi (213.000 q.). Il valore degli ortaggi, pari al 15,8% della produzione lorda vendibile siciliana, nel 1964, era dovuto in modo preminente al pomodoro (3,8%), al carciofo (1,1), al cavolfiore (1,3), al pisello fresco (1%), alle patate (1%) e ai finocchi e cardi (0,8%).
Ben scarsa figura, di fronte al recente sviluppo delle colture ortensi, fanno le colture industriali tradizionali, e in particolare il cotone: importante e noto più in virtù della sua storia secolare — qui fu introdotto dagli Arabi fin dal IX secolo, ed ebbe qualche momento di prosperità nella pianura di Palermo — e delle sue recenti traversie, che per il suo valore reale: non incide sulla produzione lorda vendibile dell’agricoltura siciliana che per lo 0,2%. La ripresa della coltura del cotone, in Sicilia, è stata sempre determinata da qualche motivo esterno. Fu nel secolo scorso la guerra di secessione americana a stimolarne la diffusione fino intorno a 34.000 ettari nel 1864: di cui 12.500 nel Nisseno (nella piana di Gela), 8.000 nella piana di Catania, 6.200 ai piedi di Agrigento, 3.900 nel Messinese (Piana di Milazzo). La coltura del cotone si è poi ristretta nel volger di pochi anni a 11.000 ha. nel 1873 e a 7.000 appena — secondo le rilevazioni del Damiani al tempo dell’inchiesta agraria Jacini — nel 1880, e non fu nemmeno ricordata, trent’anni dopo, dal Lorenzoni, nella relazione dell’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini siciliani del 1910. In questo secolo, fu la politica autarchica del regime fascista a provocare una sua nuova espansione — ridicola, del resto, perché avrebbe potuto dare soltanto uno scarsissimo contributo alle reali necessità di fibra delle industrie italiane: in effetti fu in grado di produrre appena il 4,7% del fabbisogno nazionale, nel 1938 —: da 9.000 ettari nel 1936 si passò così a 19.000 nel 1937 e a 31.000 nel 1938, con una produzione di circa 80.000 q. di fibra. Subito dopo la guerra fu il crollo, a circa 10.000 ettari. E dopo una breve, forte ripresa, in rapporto alle possibilità di una coltivazione intensiva mediante l’irrigazione — e si toccarono così nel 1957 quasi i 35.000 ha., di cui 14.500 nell’Agrigentino, e il resto quasi tutto nella Piana gelese e in altre aree sparse del Nisseno — la coltura del cotone è di nuovo ridiscesa a 17.000 ha. nel 1962 e a 12.875 nel 1965: con una produzione di 40.000 q. di fibra e di 65.000 q. di semi, e per giunta di cattiva qualità. Si è di nuovo tornati, in effetti, prevalentemente alla coltura asciutta, come nel periodo prebellico: e molti agricoltori la praticano ancora soltanto perché le più profonde arature che comporta e la necessità di laute concimazioni lasciano poi il terreno particolarmente adatto ad incrementare in modo sensibile la produzione delle colture che seguono nella rotazione: che ora sono spesso gli ortaggi. Le aree di coltivazione si sono ridotte alla Piana di Gela, all’agro di Sciacca nei pressi della città, oltre a qualche area sparsa del Trapanese e della Piana catanese, cioè ad aree nelle quali i danni provocati dalle piogge al tempo della maturazione delle capsule sono estremamente rari per la grande secchezza dell’aria: esse hanno infatti una piovosità media annua inferiore a 500 mm., e in settembre di appena 5-10. Ma si tratta di una coltura senza avvenire: le rese ancora oggi sono bassissime (5-6 q. per ha., che in certi anni scendono a 1,5 per la coltura asciutta, e a 3,5 per quella irrigua), cioè inferiori ai rendimenti unitari dello stesso vecchio Sud statunitense, dove questa coltura è in crisi, e lontanissime da quelli della California e dell’Arizona (da 12 a 15 q. per ha.).
Campo di cotone, giunto a maturazione, nella Piana di Gela (Caltanisetta).
Se il cotone è in disarmo, nemmeno piede hanno messo, si può dire, le altre colture industriali: pressoché assenti il lino (appena un migliaio di ettari, con una produzione di 5.500 q. di tiglio), l’arachide (168 ha.), il tabacco (53 ha.), e la stessa barbabietola da zucchero, che ha pur avuto un promettente inizio: 4.600 ha. nel 1957, ma già soltanto 1.600 nel i960, appena 126 nel 1961, e assente del tutto nel 1965. Ciò ha indotto l’assessorato regionale per l’agricoltura a tentare una stima delle aree adatte alla barbabietola da zucchero: che interesserebbero una superficie di 11.000 ettari già atti a riceverla, e altri 35.000 di possibile sfruttamento. Certo la vicina Calabria — che ha pur avuto in questo campo un decollo incerto — con circa 5000 ettari investiti a barbabietola da zucchero e una produzione di 1,2 milioni di quintali potrebbe servire di esempio e di riferimento.
E nemmeno i fiori hanno avuto finora successo, contrariamente alle possibilità dell’isola: poco più di un migliaio di ettari, di cui 375 in coltura specializzata: fiori da recidere nel Palermitano; fiori e foglie da profumeria, specialmente la tipica coltura del gelsomino, nel Messinese (a Contesse, a Santa Lucia, e nella Piana milese), ora in contrazione. Con un valore che è appena un settantesimo di quello toccato dalla produzione floristica italiana.
Gli agrumi: una coltura in prorompente sviluppo
Sul piano economico-finanziario, le colture tradizionali della Sicilia sono state da poco superate, in modo netto, da una coltura che giovanissima non è, ma che da nemmeno un secolo, e in maniera più spiccata nel corso degli ultimi quattro o cinque lustri, ha avuto uno sviluppo a dir poco prorompente: gli agrumi. Essi contribuiscono oggi alla produzione agricola della Sicilia con il 20,4% del suo valore: e tali risultati conseguono su una superfìcie relativamente limitata : appena poco più di un decimo di quella occupata dai cereali, e un terzo di quella della vite, limitatamente alle sue piantate schiette. In verità, come ho accennato, non si tratta di una coltura nuovissima: la Sicilia ha conosciuto l’arancio forte e il limone durante la dominazione araba, nel secolo IX, soprattutto nella pianura che fa corona a Palermo, e nel XVI — allorché le lontane terre dell’Asia orientale entrarono in modo definitivo entro l’orizzonte politico ed economico dei popoli europei — l’arancio dolce, tramite navi portoghesi (e con il nome di « Portogallo » è noto ancora oggi, nel nostro Mezzogiorno come nei dialetti del Nord) e più tardi, soltanto nel secolo scorso, il mandarino, giunto in Europa dalle isole della Sonda. Tuttavia, la coltura degli agrumi non aveva fatto grandi passi: prima dell’unificazione, i dati dell’antico catasto descrittivo siciliano fissavano le superfici investite ad agrumi ad appena 8.000 ettari, e le indicavano quasi soltanto strettamente limitate a quelle aree che fin dall’epoca araba ne erano state, in maggior o minor misura, interessate: la pianura di Palermo e quella dominata da Milazzo: in settori, dunque, che guardano al Tirreno, e soltanto con qualche piccola oasi sparsa lungo la stretta cimosa ionica di Messina a sud della città. Sporadica era la presenza degli agrumi altrove. E la produzione era ancora di appena due milioni di quintali — di cui una metà esportati — nel 1870-74, secondo quanto riferiscono il Milone e l’Arcuri Di Marco. Dal secolo scorso le colture degli agrumi hanno mostrato la tendenza ad allargarsi a più ampie aree, nonostante alcuni ostacoli, a volte molto gravi: il mal della gomma nei primi decenni successivi all’unificazione, e contemporaneamente i cospicui prelevamenti di capitali effettuati dallo Stato e dalle banche a detrimento dell’economia regionale. Verso il 1880 si contavano appena 10 milioni di alberi d’agrumi (erano quattro o cinque, dieci anni prima), e si toccava una produzione di 3,5 milioni di quintali: troppi tuttavia in rapporto alla capacità di assorbimento dei mercati italiano e straniero, quest’ultimo reso più pesante, due decenni dopo, dalla concorrenza di altri paesi produttori e da una politica doganale di protezione, mirante a frenare l’importazione di prodotti non considerati di prima necessità, come l’agrume. Un fattore affatto trascurabile, nel contrarre o comunque nel limitare l’espansione delle correnti del traffico agrumario, era d’altra parte rappresentato dalla difficoltà dei trasporti, nonostante le ferrovie cominciassero ad im-magliare tutto il corpo insulare della Sicilia. Comunque nel 1929, nell’anno stesso in cui cala sul mondo lo spettro di una gravissima crisi economica, si contavano già 19.000 milioni di alberi di agrumi, su una superficie di 39.000 ettari in coltura schietta e di circa 15.000 in coltura promiscua: e anche la produzione era raddoppiata rispetto al 1880, aggirandosi intorno ai 7 milioni di quintali, di cui metà esportata fuori dell’isola. In questo periodo, il primato della provincia di Palermo è da tempo venuto meno: la produzione era scivolata — dal momento che proprio lì si erano fissati i nuovi impianti — nel Messinese (che ne dava una buona metà) e nelle province di Catania e di Siracusa. La crisi economica del ’29, e la propagazione, nel Messinese, del malsecco, che investì e distrusse gran parte degli impianti — in particolare i limoni, molto più delicati degli aranci e dei mandarini — arrestarono il movimento di sviluppo: nel 1938, la situazione areale era ancora quella di dieci anni prima — 39.000 ha. in coltura specializzata e 13.000 in promiscua — ma la produzione era di appena 5,3 milioni di quintali, con una diminuizione di circa un quarto.
Distribuzione delle aree irrigue e tipi di derivazione delle acque (interpretazione e libero adattamento della carta delle irrigazioni .
Lo sviluppo dell’agrumicoltura siciliana, bloccato anche dalla guerra, ha ripreso con insolito vigore dopo il 1945: ed è stata una propagazione prepotente, di intensità mai prima osservata. Le superfici agrumetate si erano raddoppiate lungo l’arco di cinquant’anni, tra il 1880 e il 1930; ed ora quasi si raddoppiano — pur con un inizio assai incerto nel primo lustro del dopoguerra — in appena vent’anni: 38.000 ha. in coltura specializzata nel 1946, 48.000 nel 1957, 70.000 nel 1964. Questo grande sviluppo degli agrumi ha preso luogo in aree ristrette, di particolare elezione. E a ciò han contribuito diversi fattori: in primo luogo, piuttosto che la natura dei suoli, che pur amano freschi e leggeri — e pertanto evitano le pesanti terre argillose — e ancor più dei caratteri del clima — che pur vogliono dolce in inverno, non sopportando a lungo temperature anche soltanto inferiori a 4 centigradi, e solo per poco temperature minime intorno o appena sotto lo zero — la disponibilità di acqua, che nella stagione estiva possa dissetarli in modo conveniente. Dove l’acqua abbonda per la presenza di sorgenti, o si può dedurre dai fiumi, anche dai più piccoli, o dai serbatoi che si son andati diffondendo numerosi, grandissimi e minuscoli, in tutto l’interno dell’isola, o ancora dove la falda freatica è ricca e vi si può facilmente e abbondantemente attingere: lì la coltura degli agrumi si è sviluppata, bandendo non soltanto i seminativi, ma anche il mandorlo, l’olivo, la vite. Le aree irrigue della Sicilia si sono infatti accresciute quasi di pari passo con l’espansione degli agrumi — 35.580 ettari irrigati nel 1905; 110.000 nel 1948; ancora 100.150 nel 1956; 156.160 nel 1958 — e gli agrumi pressoché tutte le occupano insieme con gli ortaggi. Ora, queste condizioni preferenziali di suolo, di clima, di acque, tendono insieme a fissare la coltura degli agrumi lungo la fascia costiera, e a limitarne la diffusione verso l’interno. Verrebbe pertanto fatto di credere tutte le pianure litorali, grandi e piccole, e le aste fluviali che da queste muovono insinuandosi tra le regioni collinari interne, e le più o meno larghe cimose costiere, interessate dall’agrumicoltura. Altri fattori contribuiscono per contro a limitarne ulteriormente la diffusione: e son questi fattori prettamente umani. Gli agrumi, in effetti, risultano limitati a quelle aree in cui più pesante appare la pressione demografica: alcuni settori del litorale tirrenico e soprattutto lungo la fascia costiera ionica, da dove penetrano verso l’interno qualche volta per più di una cinquantina di chilometri. Questa coltura richiede infatti una somma enorme di lavoro: circa 200 giornate lavorative per ettaro, annualmente: senza contare le diuturne fatiche, durate un secolo e non ancora finite, intese alla preparazione dei terreni, al loro terrazzamento sui pendii, alle recinzioni con muretti lungo i corsi d’acqua, all’apertura di canali di irrigazione, alla perforazione di pozzi. Così che tutta la fascia africana dell’isola, dal Trapanese fino al Ragusano, è priva di agrumeti — qualche piccola oasi qua e là è legata strettamente al consumo locale, e qualcuna, specie nel Ragusano, seppur da tempo intrecciata a forti correnti commerciali, fa figura di eccezione —: la più antica febbre della vite, e la più recente diffusione nelle aree irrigue nuove degli ortaggi hanno limitato il formarsi di una agricoltura specializzata sugli agrumi, resa d’altra parte più difficile dagli eccessivi calori estivi e soprattutto dagli infuocati venti sahariani (occorrerebbe impiantare alte e fitte barriere frangivento, a riparo), oltre che dalla maglia più rilassata degli insediamenti umani. Forse alla vite — anche per uva da tavola — e agli ortaggi piuttosto che agli agrumi pare legata la valorizzazione agricola di questo dorso dell’isola.
Frutteti sulle ceneri dell’Etna. Sullo sfondo, il vulcano coperto di neve.
La più antica regione agrumicola siciliana è quella che si sviluppa nella Conca d’Oro: dal Lido di Mondello gli agrumeti si espandono a gran parte della pianura — talora rotti da estese placche ortive — che a mezzaluna si appoggia ai monti calcarei che fan corona a Palermo, fino al monte Catalfano, rilevato tra i golfi di Palermo e di Tèrmini Imerese. Da questa pianura, formata da terreni derivati da tufi calcarei e da calcari, dove l’acqua d’irrigazione è attinta alla falda freatica, prevalentemente, da un numero cospicuo di pozzi, oltre che alle sorgenti pedemontane e al serbatoio di Piana degli Albanesi, gli agrumi risalgono nell’interno lungo l’Oreto, dal suo fondo alluvionale innalzandosi su per i pendii della valle fino ad inglobare in compatta, larga fascia Monreale e Altofonte — spingendosi sin al di sopra dei 300 metri nei luoghi più riparati dai venti — mentre ad est invadono la valle dell’Eleutero fin sotto a Marineo (a circa 500 m. di altitudine) e in forma compatta occupano tutto il piano di Bagheria, raggiungendo il golfo di Termini Imerese a S. Flavia, a Casteldaccia, ad Altavilla Milicia. Lungo le aste fluviali all’irrigazione si provvede anche con derivazioni da canali, demaniali o consortili. Oasi sparse di agrumi si trovano anche più ad ovest e più ad est della Conca d’Oro, e ne sono come filiazioni: una macchia di agrumeti si fissa lungo la fiumara di Nocella, nel territorio di Montelepre, nell’estremità nordorientale della pianura vitata di Alcamo-Partinico; una seconda occupa la piccola piana litorale di Ci’nisi-Terrasini, e una terza quella vicina di Carini e Villa-grazia, molto più ampia: tutte irrigate con acqua di falda. E ad est, ormai presso Tèrmini Imerese, Trabia forma un’oasi particolare: i suoi impianti sono infatti costituiti principalmente da cedri.
Il lago artificiale di Piana degli Albanesi, costruito nel 1923, a scopo idroelettrico e irrigatorio nell’alto corso del Bélice destro (Palermo) tra campi a grano e pascoli.
Il lago artificiale dell’E. A. S., nell’alto bacino dell’Eleutero (Palermo).
Questa regione agrumicola palermitana, fino alla seconda metà dell’Ottocento ancora la principale dell’isola, vede ora gli agrumi occupare soltanto 9623 ettari, pari al 13,7% della superficie agrumicola complessiva. Lo scivolamento della coltura verso oriente, cioè verso la fronte ionica dell’isola, è stata rilevantissima durante gli ultimi due decenni. Da Trabia, in effetti, non tanto l’esiguità della cimosa costiera — dove del resto appaiono frequentemente la vite e gli ortaggi — quanto invece la natura argillosa dei terreni ha tenuto lontano l’agrume: che ricompare soltanto in provincia di Messina, intorno a Santo Stefano di Camastra, e con maggior intensità a Sant’Agata di Militello. Qui i « giardini » di agrumi occupano le esili cimose alluvionali che i Nébrodi soprattutto e in parte i Peloritani serrano da presso. Ma dal litorale gli agrumi tendono tenacemente verso l’interno, occupando i via via più larghi e svasati letti delle fiumare, di cui i ripari costituiti da muretti si sforzano di trattenere la furia delle acque durante il periodo delle piogge. E mentre ai piedi dei Nébrodi occidentali la maggior montagnosità del rilievo li ferma a qualche chilometro appena dalla costa (lasciandoli penetrare per ben 9 km. soltanto lungo la fiumara di S. Stefano), a ridosso di quelli orientali gli agrumeti risalgono profondamente tutti i fondi vallivi: specie quelli di Zappulla, per 12 km. fin sotto San Salvatore di Fitàlia, e di Naso, fino a Sinagra, a circa 300 m. di altitudine, e occupano poi gran parte della piccola pianura di Patti, e infine da Oliveri e Falcone si fanno via via più larghi fino a formare — ormai ai piedi dei Peloritani — una corposa zona intorno a Barcellona-Pozzo di Gotto; e al di là, lasciando alle uve da tavola e agli ortaggi un cospicuo tratto della pianura milese orientale, ritornano ancora robusti, e si addentrano di nuovo notevolmente lungo le fiumare di Mela e Meri (per più di 13 km.), Floripòtamo, Gualtieri, Niceto (per circa 16 km., e fino ad una altitudine di 450 m.), Monforte e Saponara. I tradizionali vigneti del Faro e gli orti del Messinese bloccano poi l’espansione degli agrumi, che riappaiono sul bosforo siculo-calabrese. E qui, alimentati dalle sorgenti e dalla falda freatica, interessano tutto il litorale, seppur in oasi sparse, fissandosi sui terreni di trasporto più freschi e leggeri, e risalendo sugli stessi terreni i fondi delle fiumare, numerosissime: specialmente lungo quelle di S. Filippo e di Mili appena a sud di Messina, e poi lungo quelle di Pagliara (per circa 8 km.) di Sàvoca e d’Agro. Ma lungo il versante ionico dei Peloritani, il lavoro paziente e tenace del contadino già dal secolo scorso, e ancor più largamente oggi nel suo desiderio di espandere questa ricca e redditizia coltura, trasforma anche i più ripidi pendii delle valli in stupefacenti gradinate, con onerosi lavori di scasso e di ciglionamento. Su questi terreni acclivi, di natura cristallina, i magri pascoli e la macchia cedono il posto ai « giardini »: in questa fronte dei Peloritani, in un solo anno (i960) la superficie coltivata ad agrumi è stata estesa di 120 ettari, sui quali sono stati messi a dimora, insieme agli alberelli di agrumi, anche olivi e alberi da frutta: questi ultimi, dove la derivazione delle acque è più difficile e comunque più problematica.
Ma ancor più fitti gli agrumeti si fanno al di là del promontorio tauromenio, dove sfocia allo Ionio l’Alcàntara. Dispersi in oasi sparse in questa stessa valle, specie a nord del fiume fino a inglobare largamente Francavilla di Sicilia, gli agrumeti cominciano a Calatabiano, a sud del fiume e ad appena quattro chilometri dal mare, ad espandersi più fittamente nella più larga piana costiera che orla la montagna etnea, e di qui si spingono sulle più basse propagginazioni dell’apparato vulcanico, toccando generalmente i 250-300 metri, ma spingendosi talora a più di 400: alcuni aranceti isolati — come ha rilevato F. Speranza — entro l’Alcantara, nel territorio di Castiglione di Sicilia, raggiungono, in diversa posizione, i 430 e i 530 m. La fascia di agrumi ha respinto verso l’interno, cioè verso l’alto, i vigneti e gli oliveti, ne ha grado a grado fagocitato i lembi residui nel piano dove le colture più povere, come il grano, tendono a scomparire: in inverno e in primavera, grossi mucchi di scorze d’agrumi punteggiano rosseggianti le sponde dei letti delle fiumare, vicino alla foce. Questa fascia si allunga ormai fino al Simeto, a sud di Catania, occupando prima terreni di origine vulcanica e poi terreni alluvionali, nella frangia costiera che limita la Piana. Affacciate a questa si aprono poi le due aree agrumicole più importanti della Sicilia: in posizione dunque interna, non più marittima. In provincia di Catania, questa area gravita sull’asta del Simeto: ma non si serve, almeno per ora, dell’acqua del Simeto, ma di quelle che provengono dalle ricche sorgenti etnee, che qui fuor-escono dove le masse vulcaniche terminano e riaffiorano le sottostanti argille, inclinate verso la doccia fluviale. Da Paterno, il centro del commercio agrumario della regione, i « giardini » di agrumi scendono profondamente (fino intorno alla stazione di Motta Sant’Anastasia) e in forma compatta lungo il Simeto, che oltrepassano in corrispondenza del cuneo di confluenza Simeto-Dittàino (all’altezza delle stazioni di Gerbini e di Portiere Stella) risalendo poi in piccole aree sparse il Dittàino fin verso Catenanuova: l’area tracima dunque nella provincia di Enna, che per questo settore appunto entra attivamente nella produzione agrumaria: con 2900 ettari. Ma da Paterno gli agrumeti risalgono largamente anche la valle del Simeto, dal corso del fiume su per i versanti etnei nei territori di S. Maria di Licodia, di Biancavilla, di Adrano, dove si spingono fino intorno ai 560 metri. E si insinuano anche al di là della confluenza con il Salso, ormai lontani dal mare tra 50 e 60 chilometri fin sotto l’alto colle di Centuripe e fin quasi sotto Regalbuto. Si tratta di un’area di recente sviluppo, enucleatasi prevalentemente in questo secolo: da poco più di 20 ettari ad agrumi in questi comuni dell’Etna sudoccidentale a metà del secolo scorso — come attesta lo Schipani — si è ora giunti a migliaia di ettari: e questa regione vedrà ulteriori espansioni in rapporto ai lavori di derivazione di acque dal Simeto, ora che è stata portata a termine la sistemazione idrica degli alti corsi dello stesso Simeto, del Salso e del Troina.
Oliveto negli immediati dintorni di Noto (Siracusa).
A quest’area, corrisponde a sud della Piana catanese quella che si addossa al versante settentrionale degli Iblei. Regione agrumicola ancor più giovane questa, che si può considerare divisa in due: più ad occidente, ancora in territorio catanese — dove le acque si son reperite in quantità soltanto dopo il 1920 — la macchia di agrumi si fa molto densa intorno a Patagonia, e da qui si addentra da una parte lungo il largo fondo vallivo del Margi di Caltagirone, fin quasi sotto la cittadina omonima, largamente interessando anche i territori di Mineo, Vizzini e Grammichele, e dall’altra trabocca intorno ai rilievi iblei fino ai territori di Scordia e di Militello in Val di Catania: qui gli agrumi si spingono fin sui 350 m., là fin sui 400. La seconda area si trova spostata più ad est, in territorio siracusano. Il grande centro commerciale è qui rappresentato da Lentini, e invero gli agrumeti circondano con un fitto manto verde la grossa cittadina e si allungano fino a Carlentini e a Villasmundo in direzione di Siracusa, e costipandosi lungo il Lentini, il Trigona e il Margi tendono ad unirsi alla prima area descritta intorno a Francofonte. Anche qui salgono discretamente, fin sui 350 m. — e in aree sparse anche al di sopra dei 400 — fuor dai terreni alluvionali della pianura sui terreni calcarei dell’altipiano ibleo: e le opere di terrazzamento dei versanti, anche se meno difficili che sugli scoscesi pendii dei Peloritani ionici, sono al loro confronto ancor più grandiosi, estesi e impressionanti. Si attinge alla falda acquifera con profonde perforazioni attraverso i calcari. Da sola questa area interessa circa 9.000 ettari. Al di là, gli agrumi ricompaiono nella pianura che si sviluppa intorno a Siracusa, da dove risalgono l’Anapo e il Caradonna, allargandosi fin sotto Floridia. Piccole oasi sparse, seppur in forte espansione, si ritrovano più a sud, cioè lungo il Cassibile e infine intorno ad Avola e a Noto.
La fronte orientale della Sicilia è dunque oggi preminente per quanto concerne la coltura degli agrumi. In base ai dati più recenti pubblicati dall’Istituto Centrale di Statistica, per il 1964, Catania aveva investito ad agrumeti 26.190 ettari in coltura schietta, Siracusa 16.625, Messina 9.590: cioè il 74,8% di tutta la superficie agru-metata dell’isola. E Palermo, che vantava la regione ad agrumi più importante nella seconda metà dell’Ottocento, appena 9.625 ettari (13,7%). Seguiva poi Enna, per il settore che fa tutt’uno con l’area catanese del Simeto, con 2.900 ha. (4,1%), e Ragusa con 2.755 (3>9%)- Appena 870 ettari ne aveva Trapani, 1.030 Agrigento, 460 Caltanissetta. E per la produzione i rapporti sono pressoché eguali (con discrepanze dovute in particolare ai nuovi impianti non ancora in produzione): nel 1964, Catania con 3.495.000 quintali (28,7%), Siracusa con 4.266.100 q. (35,1%), Messina con 1.416.400 q. (11,6%), Palermo con 1.879.000 q. (15,4%). L’importanza di questo settore agricolo appare poi in tutta la sua evidenza se si considera il peso della Sicilia in rapporto alla produzione complessiva italiana: 6.058.800 q. di arance nel 1964 su 10.196.000 (cioè il 59,4%), 5.090.950 q. di limoni su 5.595.000 (9!%)» 985.750 q. di mandarini su 1.638.000 (60,2%). Soltanto per i cedri, prodotti tipici della vicina Calabria, la Sicilia pare molto al di sotto (appena 6.700 q. dai 70 ettari dell’oasi agrumicola di Trabia, sul golfo di Tèrmini Imerese, di fronte ai 51.800 di quella regione), mentre è distinta dall’assenza completa di bergamotti, prodotto pressoché esclusivo del settore reggino della Calabria.
Non tutte le regioni agrumicole siciliane si dedicano con eguale intensità agli stessi tipi di agrumi; ché anzi si osservano aree di particolare elezione. In complesso, nel 1964, su 69.960 ettari di agrumi in coltura specializzata, 36.340 spettavano agli aranci, 27.774 limoni, 5.846 ai mandarini; e gli stessi tipi interessavano in coltura promiscua aree non molto ampie né molto diverse, cioè rispettivamente 4.940, 6.030 e 5.850 ettari. La Conca d’Oro palermitana era un’area di prevalente coltura di aranci, nel secolo scorso; ma dopo gli aranci sono stati sostituiti in gran parte dai limoni, che furono nei primi decenni del secolo disastrosamente provati da parassiti e malattie, e soprattutto dal malsecco. Nonostante ciò, sono stati proprio i limoni ad imporsi sui terreni di nuova piantagione, insieme ai mandarini, specie tra l’Oreto e il Milicia: sicché la provincia di Palermo contribuisce ora con un quarto alla produzione siciliana di limoni e con più dei due quinti a quella dei mandarini. Anche la provincia di Messina era stata fortemente danneggiata dal malsecco all’inizio del secolo: il limone — che domina incontrastato sul litorale tirrenico da Sant’Agata di Militello a Brolo : dove si raccoglie il « primofìore », cioè il limone precoce, e più ad est il limone tardivo — fu invece sostituito in parte dall’arancio, più resistente, sul litorale ionico, dove viene preferito nei nuovi impianti. La fascia etnea, che segue, è costituita in prevalenza, al contrario, da limoni, favoriti dal clima più tiepido e dalla migliore esposizione, mentre ai margini della Piana di Catania l’arancio rappresenta l’essenza fondamentale insieme al mandarino: sono queste specie, più resistenti, che si inoltrano con maggior prepotenza entro le valli interne, e si innalzano in maggior misura in altitudine: sull’Etna, ad esempio — dove il problema dei limiti è stato dettagliatamente studiato da F. Speranza — il limone si ferma intorno ai 250-300 metri (anche se con esemplari si spinge molto più in alto) mentre gli aranci e i mandarini salgono fino a 350-400 m. sul versante meridionale, e a 450-500 su quello occidentale: aranceti isolati, in coltura schietta, si trovano però anche a 530 m. nella valle dell’Alcàn-tara nel territorio di Castiglione, e a 560 m. nel territorio di Adrano. E alberi isolati di aranci e di mandarini si trovano anche più in alto, a 680 m. intorno a Ragalna, a 696 m. tra Adrano e Bronte, nella contrada di Passo Zingaro. Le notevoli differenze ambientali che contraddistinguono i vari settori produttivi della provincia catanese, conferiscono a Catania, come alla vicina Siracusa, un vero primato nella produzione complessiva siciliana: alla produzione isolana contribuisce infatti con circa un quarto per le arance e per i mandarini, e con un terzo per i limoni. L’area siracusana appare ancora legata all’arancio, specie nell’interno, intorno a Lentini: e mentre dà alla produzione siciliana la metà delle arance, offre soltanto un quinto dei limoni (dalle zone più marittime) e il 17% dei mandarini. Tipica, dal punto di vista delle specie coltivate, è poi Enna: la sua posizione interna lascia largo margine alle arance (401.500 q. : 6,6%), e poco spazio invece alle altre essenze (appena 10.500 q. di mandarini: 1,4% e 1.200 q. di limoni, nel 1964).