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Costumi, tradizioni e parlate venete

    Costumi, tradizioni e parlate venete

    Le tradizioni e le feste di Venezia.

    Nel Veneto permangono usi e costumi caratteristici, la cui origine è da ricercarsi nelle epoche più remote, ma in molti casi si assiste alla rapida scomparsa di queste testimonianze del passato: le comunicazioni divenute sempre più rapide, il peso sempre maggiore che hanno i centri urbani, l’emigrazione dei giovani, le attività turistiche finiscono per metter da parte tradizioni che sono persistite attraverso i secoli fino ai giorni nostri. Ma alcune hanno potuto conservarsi, sia nelle città di pianura che nei paesi alpini.

    Soprattutto Venezia è rimasta legata alle tradizioni del suo luminoso passato e molte delle feste che avevano reso celebre la Serenissima nel periodo del suo declino sopravvivono tuttora e non mancano di attirare gran numero di stranieri e di popolani.

    La festa più solenne era un tempo quella della Sensa, cioè dell’Ascensione. In quel giorno, che cade durante la primavera, Venezia festeggiava il simbolico sposalizio col mare, a ricordo del dominio da essa imposto a tutte le genti che veleggiavano nell’Adriatico. In origine la festa era stata istituita per celebrare la conquista della Dalmazia avvenuta verso il Mille da parte del Doge Pietro Orsèolo II, ma in seguito, avendo il Pontefice fatto dono al Doge d’un anello, per ricompensa dei servigi resi alla chiesa, la festa si rinnovò ogni anno in forma quanto mai solenne. Il Doge assieme alla Signoria, al clero, ai legati esteri prendeva posto su un dorato battello chiamato « Bucintòro », che veniva spinto a remi da centinaia di arsenalotti, e scortato da barche, da gondole e da natanti d’ogni sorta, parate a festa, moveva per il porto del Lido e arrivato all’imboccatura, dopo la benedizione del mare impartita dal vescovo di Castello (più tardi patriarca di Venezia), il Doge si affacciava da una porticina, situata a poppa del Bucintòro, e gettava in mare l’anello pronunciando le parole tradizionali: «In segno di eterno Dominio, Noi Doge di Venezia, ti sposiamo, o mare! ». Questa cerimonia era l’inizio d’una serie di festeggiamenti, che duravano alcuni giorni e culminavano con una Fiera, che si effettuava nella Piazza di San Marco: ivi tutte le principali attività industriali di Venezia esponevano i loro prodotti. Ora della festa non rimane altro ricordo che la comparsa, sulla Torre dell’Orologio, dei tre Re Magi, i quali avanzano da una porticina a sinistra, s’inchinano davanti alla Madonna e scompaiono dalla porta di destra.

    La festa del Redentore a Venezia.

    La « regata storica » a Venezia. Il corteo delle « bissone » accompagna le autorità alla « macchina » da dove assisteranno alla competizione.

    Se questa festa non è più ormai che un lontano ricordo, non è raro poter assistere a Venezia allo spettacolo della regata, che di solito viene effettuata in forma solenne nella prima settimana di settembre. In quel giorno il Canal Grande presenta per i colori e il movimento uno spettacolo incomparabile. Attori di essa sono i gondolieri, sia quelli che remano le gondole dei traghetti, sia quelli delle famiglie private, i quali si tramandano di padre in figlio glorie e soprannomi. Essi montano, uno a poppa e l’altro a prua, sui sandolini, che sono delle barchette assai allargate e leggere, simili come sagoma alle gondole, e portano per distintivo una sciarpa e un fazzoletto di vario colore. La partenza dei regatanti avviene presso i Giardini pubblici. A un colpo di pistola i sandolini si staccano rapidi dalla riva, attraversano il bacino di San Marco tra la Riva degli Schiavoni e l’isola di San Giorgio, quindi proseguono per il Canal Grande, dove migliaia di persone sono affacciate alla finestra o seguono l’andamento della corsa stipati sui natanti più diversi. I sandolini, percorso tutto il canale, arrivano nelle vicinanze della stazione ferroviaria a Santa Chiara, dove iniziano il ritorno. In mezzo al canale, in un punto ben in vista, si trova «il paletto», attorno al quale i vogatori, spesso già stanchi del lungo percorso, devono girare con destrezza, allo scopo di non perdere tempo. Ripercorrono quindi metà del Canale per giungere al traguardo che si trova presso Ca’ Foscari. Ivi tutti gli anni viene eretto un palco (« la macchina »), dove sono poste le quattro bandiere, che vengono strappate a mano a mano dai primi arrivati.

    Sopravvivono tuttora anche varie feste religiose, soprattutto di carattere votivo. Tra quelle più care alla tradizione dei Veneziani va ricordata la veglia per la Festa del Redentore, che cade tra il sabato e la terza domenica di luglio. Essa si svolge nell’ampio canale della Giudecca che viene agevolmente attraversato, tra le fondamenta delle Zattere e la chiesa palladiana del Redentore, mediante un ponte provvisorio di chiatte. Ma la Festa ha luogo specialmente sulle acque della laguna: barche d’ogni specie, gondole, battelli, sandoli snelli e « peate » atte al trasporto di merci pesanti, vengono ornate con lampioncini e con festoni e accolgono comitive che, tra canti e suoni, consumano abbondanti cene. Tutto il Canale si accende fantasticamente di luci e di fuochi multicolori. Solo chi non è riuscito a procurarsi una imbarcazione s’accontenta di assistere allo spettacolo dalle finestre delle case o dalle strade e attende che al termine della festa, i fuochi artificiali diano il suggello trionfale di luci e di colore. E per molti la veglia si conclude al Lido per assistere ad un altro spettacolo luminoso: la levata del Sole.

    Festa delle luci sul Canal Grande.

    Un’altra festa votiva veneziana, istituita qualche anno dopo che era terminata la spaventosa pestilenza del 1630 che fece quasi 47.000 vittime, s’intitola alla Madonna della Salute; essa si effettua ogni anno il 21 novembre e ricorda il voto da parte della Signoria di erigere un grande tempio in onore della Vergine al termine della terribile pestilenza. In quel giorno un ponte provvisorio di chiatte unisce le due rive del Canal Grande di fronte alla mirabile chiesa del Longhena e il popolo non tralascia, dopo aver assistito alla Messa, di mettersi a tavola per mangiare un cibo tradizionale, la « castradina », carne di montone salata. Ma all’infuori di queste feste tradizionali di carattere religioso non mancano altri spettacoli che si possono ammirare soltanto a Venezia. Non passa estate che lungo il Canal Grande non si svolga la Serenata, «una gran barca tutta illuminata, da palloncini di vetro multicolori: sotto a questo sfavillio di luci, rosse, bianche, gialle, verdi trovano posto orchestra e cori; segue uno stuolo di barche e di gondole, su cui tremano piccoli lumi come lucciole vaganti; e il Canal Grande al passaggio di questa scia luminosa, fantastica, avvolto in riflessi rossi e verdi dei fuochi di bengala, si anima come per incanto, ha palpiti di vita per ritornare poi nel silenzio e nell’ombra consueta » (Lorenzetti). Per lo più allo spettacolo, che dà sempre una profonda suggestione, partecipano gli stranieri, che in gran numero invadono durante tutta l’estate la città, ma gli stessi Veneziani fin dai tempi più remoti amano durante le serate più calde prendere « il fresco » in barca e girare cantando per il Canal Grande. Ma non solo le acque durante la stagione buona si animano. Anche la strada assume nella vita veneziana un particolare carattere e, soprattutto nei quartieri popolari, si preferisce uscire dalle case, spesso umide e malsane, e vivere all’aperto, nei campielli o sulle fondamenta e mentre i bimbi giocano, le donne passano la loro giornata a discorrere e a lavorare. Quest’abitudine di vivere all’aperto è comune anche nelle isole di Murano e Burano. In quest’ultima è assai frequente vedere le donne intente all’arte della trina, nella quale avevano acquistato in passato un’abilità sorprendente; poi questa attività era decaduta e quasi del tutto scomparsa e verso la fine del secolo scorso soltanto una vecchia isolana settantenne, la Cencia Scarpariola conservava il segreto e l’abilità del punto buranese (o « punto in aria ») di eseguire, senza appoggiarsi alla tela, fiori, animali ed altre figure con squisito senso d’arte; mediante le cure della contessa Marcello e di altri la preziosa arte isolana potè di nuovo rivivere e seguendo l’evoluzione della moda dar luogo ancora a trine preziose, veri prodigi di pazienza e di eleganza. Tipica industria di Pellestrina è invece l’arte del merletto a fuselli.

    Ponte eli barche che conduce alla Chiesa del Redentore alla Giudecca per la festa del Redentore.

    Le tradizioni delle altre province venete

    Anche nelle altre regioni vi sono tradizioni popolari che ancora si conservano, perchè continuano tradizioni antichissime. La sera dell’Epifania la campagna veneta, dal Tagliamento all’Adige e alla Laguna è tutta illuminata dai fuochi, accesi « per illuminare la strada ai Re Magi che vanno in Oriente ». I ragazzi preparano ai crocicchi delle strade, sulle aie delle case, in luoghi un po’ rilevati dei roghi di sarmenti e di canne di granturco e poco prima del tramonto i falò vengono accesi, mentre i familiari si dispongono attorno a spiare la direzione verso cui piega il fumo, che illuminato dal fuoco, brilla di faville. I bambini cantano allora «pan e vin, pan e vin » e, simili a invocazioni religiose, gli altri componenti della famiglia ripetono frasette augurali, ricavando pronostici per i raccolti. Sussiste tuttora, specie nei paesi di montagna, la tradizione di accendere i falò durante la notte della vigilia di qualche festa religiosa. Alla vigilia dell’Epifania, in alcune zone, è ancor viva l’usanza che i ragazzi si rechino processionalmente di casa in casa a chiedere un’offerta reggendo su un bastone una grossa stella di carta e intonando inni d’occasione.

    Vedi Anche:  storia di ieri e di oggi della popolazione veneta

    Le tradizioni popolari seguono il ritmo delle stagioni, le solennità religiose, i più importanti avvenimenti della vita. Dal giorno delle Ceneri il ragazzo lavora a fabbricare la «vecchia» (veda), fantoccio di paglia vestito di carta colorata o di stracci e talvolta anche di abiti usati, con un volto da maschera al posto del viso. La sera di mezza quaresima il fantoccio viene issato su un palo in mezzo al cortile o su una piazza sopra un rogo di sarmenti e viene bruciato, mentre tutti lanciano al suo indirizzo frizzi e insulti. Nelle notti di primavera i giovani contadini usano « portar maggio », cioè fare scherzi e dispetti alle donne, lasciando simbolici omaggi agresti nei pressi delle loro case. Quando arriva l’inverno, le famiglie trascorrono le serate nelle stalle, ove il calore è maggiore. E questo il filò, una delle più tenaci tradizioni paesane. Alla luce d’una lampada, che fino a pochi anni or sono era a olio o a petrolio, le donne siedono a filare o a cucire, mentre gli uomini preparano attrezzi per il lavoro dei campi; fabbricano gerle o cesti, accomodano scarpe, scambiano pensieri sulla prossima semina. Le ragazze cuciono, sedute su una panca rustica, di solito in un angolo della stalla, un po’ discoste dagli altri.

    Di ogni stagione sono le processioni: in primavera con le Rogazioni, per invocare dal cielo la benedizione sulla terra; in estate, per le ferie d’agosto, in gloria al Redentore e dell’Assunzione di Maria Vergine; in autunno per la Madonna del Rosario, con l’offerta dei grappoli d’uva per il vino della Santa Messa.

    Altre feste popolari si rinnovano per i battesimi, per le cresime, per le nozze, soprattutto per le nozze, con suoni d’armonica, balli e banchetti che durano intere giornate. E poi le feste dei fiori, le feste del narciso, la vendemmia, le ottobrate con le castagne e il vino nuovo. E le feste paesane, le sagre delle ciliege a Cazzano di Tramigna e a Maróstica, la sagra del mare a Chioggia, le millenarie Fiere di San Luca sulle rive del Sile e moltissime altre. Padova è meta d’un pellegrinaggio che è tra i più popolari d’Italia, quello che si svolge soprattutto durante il mese di giugno (durante il quale ha ora luogo anche la Fiera Campionaria). I devoti si recano a visitare la tomba di Sant’Antonio, il Santo per antonomasia, che portoghese di nascita, è sempre vissuto in Italia, dove ha compiuto numerosi miracoli. Anche il richiamo alle armi dà luogo a una certa emozione. Il giorno precedente la partenza per il reggimento, i coscritti girano a gruppi per il paese cantando e ognuno porta ben in vista sul cappello la cartolina di precetto, penne e fiori di carta. I muri del paese vengono istoriati con scritte simboliche, fatte con inchiostro o con colori a olio, in modo che possano resistere per anni a ricordo della « classe ». Le scritte rispecchiano o rispecchiavano l’entusiasmo dei giovani soldati. Nei paesi di montagna, soprattutto in quelli del Bellunese, molte tradizioni popolari si sono conservate più a lungo, tanto che hanno potuto trovare chi le descriva con intenti scientifici. Per lo più le leggende hanno per protagonisti Gesù Cristo, la Madonna ed i Santi, ma alcuni racconti non sono privi di riferimenti geografici. Tale è il caso della leggenda che cerca di spiegare l’origine delle masiere di Vedana. Fioriva su quei luoghi otto secoli e mezzo or sono una ubertosa campagna, popolata dai due villaggi di Cornia e di Cordova, che a poco a poco s’ingrandirono sempre più. Ma la fortuna delle due nuove città, dovuta ai cloni del cielo, alla fertilità del suolo e alla dolcezza del clima fece insuperbire gli abitanti, che, dominati da egoismo, trascuravano le pratiche religiose, dandosi al lusso e ai divertimenti. In cielo vi furono delle lagnanze e per vedere come veramente stessero le cose venne in terra Gesù sotto le sembianze d’un vecchio eremita. Entrò nell’abitato di sera, pieno di fame e di freddo. Gran parte degli abitanti erano già a letto. S’aprì soltanto la porta d’un forno e Gesù chiese del pane, ma una giovane gli chiuse la porta in faccia. Il pane allora in quel forno divenne pietra. E la mattina dopo, le storie riferiscono perfino il giorno preciso, 7 gennaio 1114, una frana seppelliva d’improvviso i due paesi.

    Padova: la processione di Sant’Antonio nel giorno della festa del Santo (13 giugno).

    Un’altra leggenda ci dà notizia del modo come si sono formate quelle rocce striate e scannellate che sono frequenti nel piano di Fedaia, ai piedi della Marmolada. Quelle striature sarebbero le vestigia dell’antica via per mezzo della quale si trasportava il fieno dai prati, che occupavano il posto dell’antico ghiacciaio. La leggenda narra che una ostinata vecchietta volle raccogliere fieno nella festa votiva del 5 agosto, dedicata a Santa Maria della Neve. La notte seguente cominciò a nevicare e nevicò tanto fino a formare il ghiacciaio, che tuttora esiste e sotto il quale giace la vecchietta. Presso Belluno l’Ardo scorre impetuoso sotto il Ponte della Mortis e la leggenda narra che un gruppo di giovani vi passasse un giorno burlandosi della presenza del diavolo in fondo al torrente. Essi vennero allora travolti e quando il vento fischia tra le rupi il montanaro afferma che son quelli i gemiti dei giovani che per superbia incontrarono così orribile morte.

    Tra le leggende religiose del Cadore la più nota è quella del Cristo di Val-calda presso Pieve. Il Cristo è in legno nero con barba e capelli di peli veri, il capo inclinato sul petto e un’espressione di atroce patimento; il corpo è pieno di piaghe e intriso di sangue. Si dice che barba e capelli crescono di continuo e che ogni anno inclina un po’ più la testa sul petto. La leggenda narra che molti anni addietro un contadino spingeva i buoi per arare il campo, che era presso la chiesa e a un tratto le bestie si chinano e piegano i ginocchi. Nulla vale a farle rialzare e allora si scava il terreno e si scopre una cassa con dentro il Gesù crocifisso dal volto dolente, dai lunghi capelli intrisi di sangue.

    Presso Treviso si crede al tesoro nascosto dai profughi altinati in un profondo pozzo e non più ritrovato. Onde nei contratti di vendita dei terreni si soleva inserire la clausola: salvo jure putei; e la suggestione di questa fantastica ricchezza sepolta nel terreno era tanto forte che, in pieno secolo XIX, secondo la testimonianza del Coletti, un valentuomo fece diroccare gran parte di una sua villa presso Biancade e sconvolgerne le fondamenta, nella speranza di trovarvi il famoso tesoro. Nei terreni dov’era Aitino, si attende invece di trovare sotterra il famoso « Carro d’oro ».

    Meno ricco di tradizioni è il Polesine, ma i laghetti d’acque stagnanti (gorghi) che s’incontrano numerosi nelle campagne sarebbero sui luoghi di antichi villaggi sommersi, che un tempo erano ben popolati. Essi sono ritenuti senza fondo, malgrado la canna palustre che vi vegeta rigogliosa. E lì sotto si trovano dei resti delle città scomparse, in modo particolare campanili, con campane che in passato, la notte di Natale, facevano sentire lontani rintocchi. Tipici del Polesine sono i canti delle « zapparesse » e degli « scariolanti », cori contadini molto armoniosi, in cui le voci di vario tono si alternano e si sovrappongono con istintiva naturale precisione.

    Nei vecchi proverbi, che corrono ancora sulle bocche dei contadini polesani si trovano riunite saggezza ed esperienza di secoli, specie in quelli che espongono le semplici norme che governano la vita della campagna. Si predica in essi la necessità di vivere a contatto dei campi («La campagna da vizin la dà el pan e ‘l vin: la campagna da luntan no la dà gnanca el pan»), si riconosce il valore dell’esperienza (« I bo veci move el caro »), si espongono norme agricole (« El formenton l’è un sbe-vacion»; «Avena de febr aro, impinisse el granaro»).

    Nè mancano anche altrove riferimenti meteorologici, sia sotto forma di proverbi, che prevedono la pioggia (« Quando Serva mete el capei, piova in Campedel », riferito a Belluno) o il bel tempo («Quando el Tomadego ga el capelo, tempo belo», per Feltre) o alludono alle temperature rigide che caratterizzano il clima invernale di Feltre (« Chi voi sentir le pene de l’inferno, vada a Trento l’istà e a Feltre l’inverno»). E poi credenza dei contadini che il suono delle campane quando infuria il temporale porti calma all’atmosfera turbata e preservi dal flagello della grandine. In passato alcune operazioni agricole erano subordinate alle fasi lunari. Così non è opportuno piantare le viti quando la luna è piena, l’uva non si deve pigiare e il vino non si deve travasare se la luna non ha fatto il primo quarto, a luna crescente non si devono seminare cavoli e lattughe.

    Vedi Anche:  Montagne e pianure

    Interessante è la collaborazione data dagli Zoldani nello sgombero delle nevi in caso di abbondanti nevicate. Ogni frazione o regola, secondo un preciso ordine secolare aveva il suo tratto di strada da liberare onde permettere l’allacciamento con la valle del Piave. Altra caratteristica era la ronda del fuoco. Funzionava in autunno fino alla caduta delle prime nevi. Era costituita da giovani che nelle ore notturne fino al suono delle campane mattutine dovevano percorrere la frazione da un capo all’altro, girando intorno alle case.

    D’un certo interesse sono anche i pregiudizi popolari medici, del resto non del tutto scomparsi nei villaggi più isolati, pregiudizi che in parte sono stati raccolti e illustrati verso il 1885 dal dottor Alpago Novello. Ciarlatani che sfruttano l’altrui ignoranza se ne possono trovare tuttora e soprattutto nel caso di slogature i contadini ricorrono di frequente a persone che curano per pratica, dette giusta-ossi. Il dottor Alpago Novello riferisce dunque d’aver visto curare una carie all’articolazione del piede da parte d’un mago con invocazione degli spiriti con lettura d’un libraccio cabalistico e con l’applicazione di sette lumache vive. A un altro medico toccò di esser chiamato in tutta fretta per allacciare un’arteria che un mago aveva reciso per aver voluto estirpare a un contadino un tumoretto. Lo sterco di bue e la polvere di travi tarlate sono ottimi rimedi per le piaghe suppuranti. Le malattie dell’apparato uditivo si curano con l’istillazione nell’orecchio di latte umano che provenga da donna lattante un bambino maschio. L’olio di scorpione rimargina le ferite. Oppure occorre mettere su di esse la carne sanguinolenta d’una gallina nera appena squartata.

    Altre tradizioni e superstizioni bellunesi e cadorine sono state raccolte su per giù nello stesso periodo da Angela Cibele Nardo che le ha pubblicate nell’« Archivio delle tradizioni popolari » del Pitré. La Befana (che a Venezia viene chiamata « maràn-tega», dall’antico alto ted. mara «incubo»), è detta Redósega ed è uno spauracchio temuto e prepotente che non porta doni ai bambini, ma li spinge ad andar a letto presto. E noto anche il Massarol, un folletto di temperamento allegro, piccolo e grassottelle, che fa più bene che male, proclive alle burle, ma non vuol esser visto e non gradisce ricever ricompense per le sue azioni. Invece i bimbi si commuovono nell’aspettazione di San Nicolò che giunge alle loro case nottetempo, montato sulla sua mula che vola senz’ali e che raccoglie sulle finestre socchiuse un mucchio di fieno, un pugno di avena, una manata di sale, preparati per essa. Vicino stanno le scarpe del bimbo, che egli ritrova la mattina, ripiene di doni. Dall’Agordino ci viene la leggenda dell’Uomo Selvatico (Om Selvadech) che si celebrava a Ponte Alto. Il 25 aprile dai colli di Paluc il suono d’una musica annuncia la venuta d’un uomo coperto da capo a piedi di ramoscelli d’abete, con una compagna al fianco. Egli fa ingresso al paese, dà inizio al ballo e poi scompare.

    Nel Feltrino le leggende più note sono quelle religiose: dalla vecchietta che con le sue mucche porta sul Monte Miesna, là dove poi sarà costruito un noto Santuario, i corpi dei Santi Vittore e Corona, al prigioniero che invocando San Silvestro si svincola dagli sbirri, agli uccelli che trasportano col becco sabbia e pagliuzze sul luogo dove dovrà sorgere la chiesetta di San Mauro, alla Madonna che portata a Colmirano di giorno, di notte ritorna al Santuario di Tessore e tante altre.

    Costumi della Valle d’Ampezzo.

    Costumi delia valle d’Ampezzo.

    Il costume femminile delle donne bellunesi è abbastanza semplice. Vestono la sottana alpina, generalmente corta, o rialzata nei giorni di lavoro, tanto più corta quanto più si va verso l’alto; lunga ed ampia per le feste, abitualmente di panno, talora pieghettato, oppure orlato di velluto o da balze di colore, corredata da un grembiule. Il corpetto, generalmente abbottonato davanti, senza maniche, vien posto sopra la camicia bianca. Naturalmente d’inverno questa camicia scompare sotto un corpetto con maniche, corpetto di velluto, di panno o di maglia. Il grembiule, di vario colore, è ampio e decoroso, legato da nastri. Altro elemento caratteristico è il fazzoletto che, se grande, fa da scialletto sulle spalle. A mano a mano che si sale il costume si fa più semplice; e le donne cercano che vi sia un’armonia coloristica tra il fazzoletto da testa e da spalle e il grembiule. Poi ogni conca, ogni vallata ha la sua nota che la contraddistingue. Caratteristica del Comélico e della valle dell’Ansiei è la scioltezza data ai movimenti del corpettino che non si allaccia e rimane aperto sul petto ed è senza maniche d’estate, con maniche aderenti d’inverno.

    L’Ampezzano si contraddistingue invece per una certa eleganza che si ispira non solo al primo Ottocento, ma anche al costume dell’Alto Adige.

    Le stoffe venivano in passato confezionate nei paesi, utilizzando le materie prime locali. Ma ora sono quasi del tutto scomparsi i telai casalinghi. Tuttavia negli anni scorsi si è cercato di rimettere in uso il varot, una speciale tessitura, eseguita con un telaio rudimentale, nata dalla felice unione fra i « gramolai » (rimasugli ottenuti dalla lavorazione a mano della canapa e filati a mano) e una trama formata da striscioline di ritagli variopinti attorcigliati, striscioline normalmente ricavate da abiti smessi, tessuti fuori uso, cenci. E con essi si fecero copriletti, tendoni, pannelli da muro, tappeti.

    Gli usi matrimoniali bellunesi sono in parte comuni a quelli di altre regioni venete, in parte peculiari della regione montana. La ragazza da marito suole interrogare il cuculo per sapere tra quanto tempo andrà sposa (« Cucco, bel cucco dalla coda rizza, quanto ghe voralo prima che me fazza novizza? »). In alcuni paesi le fanciulle hanno l’usanza di esporre nella notte di San Giovanni una bacinella sul davanzale della finestra e al mattino si lavano con quell’acqua. Nelle sere d’inverno le donne del paese si raccolgono nella stalla a filò (cioè a lavorare e a filare la lana con la rocca e il fuso); se all’entrata del giovane la ragazza che egli ha adocchiato da tempo si alza e gli offre la sua sedia, sedendogli poi vicino, può essere sicuro d’esser corrisposto da lei e di esser ben accetto ai suoi parenti. La sposa, entrando nella casa dello sposo, se oltrepassa la soglia trova una scopa sul pavimento, deve rialzarla, dimostrando di esser buona massaia. Finito il pranzo dovrà lavare tutte le stoviglie e mostrarsi così buona donna di casa. Quando le pianticelle di canapa vengono disposte a seccare al sole in circolo (roda del canevo) annunciano al paese esservi una ragazza che va a marito e che quella canapa le è destinata in dote. A Sappada, tra la popolazione tedesca, non si è smesso del tutto il ratto della sposa, che può avvenire all’uscita dalla chiesa, dopo la benedizione nuziale. La sposa è allora sotto la protezione del Prautfierar (guida della sposa), che gelosamente la deve custodire fino alla partenza per il viaggio di nozze. Ma si escogitano tutti i modi per rapirla e avvenuto il ratto sposa e bevitori si recano in qualche ritrovo pubblico a bere a spese del Prautfierar. Egli accompagna pure la sposa alla chiesa e quando troverà la strada sbarrata da una stanga dovrà pagare il pedaggio per farla levare. Anche le pubblicazioni di matrimonio davano luogo a Sappada a usanze caratteristiche. La domenica in cui viene dato in chiesa l’annuncio del formarsi della nuova famiglia, i vicini inscenano alla sposa una manifestazione di simpatia; calzati gli scarponi, muniti di corde e di lanterne si avviano alla casa di lei e annunciano ai familiari che la sposa non è stata trovata. La famiglia ringrazia e prega di cercarla ancora. Allora la sposa ricompare, offrendo a tutti da bere. Costumi analoghi relativi al ratto della sposa vigevano un tempo nel Livinallongo.

    Tra le consuetudini che permangono tuttora vitali nel Cadore sono da considerarsi alcuni privilegi le cui origini risalgono a tempi antichissimi, i quali spettano a varie corporazioni esistenti nei comuni moderni. Sono queste le « regole » che esercitano il pascolo su porzioni del territorio comunale, secondo disposizioni determinate in statuti secolari e sono inoltre proprietarie di « malghe » con la proibizione d’accogliere animali che non spettino a componenti della regola. Gli aderenti hanno pure diritto di prendere dai boschi comunali il legname da fabbrica per le consuete riparazioni alla casa o al « tabià », per la cui assegnazione viene riscossa però una tenue imposta di legnatico, e di procurarsi i rami di conifera, di cui si servono per avvolgere il carro quando trasporta il fieno. Un decreto del maggio 1948 ha di nuovo riconosciuto alle regole della Magnifica Comunità cadorina, costituite a norma degli antichi statuti, la personalità giuridica di diritto pubblico, allo scopo di gestire e conservare i beni silvo-pastorali ad esse pertinenti.

    Vedi Anche:  Storia del Veneto

    Comuni alle popolazioni agricole della pianura veneta sono l’operosità, la mitezza d’animo, la prontezza d’intelligenza e di parola, la moralità, la fede religiosa, ma anche la scarsa previdenza, la leggerezza nelle decisioni, l’uso eccessivo di bevande alcooliche.

    Filatura e tessitura dei « varot » in provincia di Belluno.

    Le parlate del Veneto

    Malgrado le numerose invasioni e la vicinanza del confine, il Veneto è linguisticamente territorio del tutto italiano; solo nella toponomastica restano forti tracce dei sostrati antichi e qualche vestigia delle passate dominazioni; alla periferia, in zone montagnose di rifugio, permangono piccoli gruppi di alloglotti. Per mancanza di influenze gallo-italiche il dialetto veneto, il cui uso è tuttora vivissimo in ogni ceto sociale, assomiglia all’italiano assai più degli altri dialetti dell’Italia settentrionale, specie il veneziano che ha avuto anche carattere ufficiale come lingua forense e che a poco a poco si è sovrapposto sui dialetti della terraferma, con i quali ha avuto comune il processo di latinizzazione e l’estinzione o indebolimento delle consonanti intervocaliche. Un po’ diversa dal dialetto veneziano o lagunare è la parlata delle altre regioni ed è possibile distinguere tre gruppi diversi: il veronese, il vicentino-padovano-polesano e il trevisano-feltrino-bellunese. Questi ultimi conservano meglio alcuni caratteri di arcaicità.

    Il dialetto di Venezia è ora la parlata delle persone civili di tutta la regione; esso imprime al Veneto il suggello d’una certa unità di linguaggio e dà all’abito linguistico dei suoi abitanti, affabili ed espansivi, semplici e bonari, un’impronta speciale che va sfumando verso i confini; così a Portogruaro si parla friulano, nel Polesine giungono propaggini di dialetti emiliani (e il confine ancora coincide con il confine tra la repubblica veneta e il ducato di Ferrara); Livinallongo e Comélico, appartengono all’area ladina, mentre l’Ampezzano come dialetto si apparta dal ladino e si accosta maggiormente al cadorino.

    Qua e là il dialetto assume una cadenza particolare. Tale è il caso, per esempio, di Pellestrina, dove par quasi che la parlata lenta e sbiascicata assecondi il ritmo della voga, dato che la gente del posto passa gran parte del suo tempo nelle barche.

    Il dialetto bellunese (o bellunatto), simile al feltrino, è parlato nella Val Belluna e lungo la valle del Piave fino a Longarone. Caratteri peculiari del bellunese, che tuttavia vanno sempre più attenuandosi, sono le spiranti dentali (sorda e sonora), i plurali in -oi (per es., parói, per padroni) e la eliminazione di alquante vocali finali. Varietà del bellunese sono da considerarsi i dialetti che si parlano nella zona di Lamón (valle del Cismón), nell’Alpago, nello Zoldano, nell’Agordino, nel Cadore. Ma a Belluno e a Feltre, come del resto in ogni altra città del Veneto, si può notare la tendenza a sostituire le forme indigene ed arcaiche (per es., magnón, andón della prima persona plurale dell’indicativo) con forme veneziane (magnemo, andemo) o italianizzanti e a far scomparire i caratteri peculiari dei dialetti locali. In passato, come appare dalle poesie d’un notaio bellunese della prima metà del secolo XVI, il Cavas-sico, il bellunese era molto più simile ai dialetti settentrionali della provincia (che l’Ascoli ha definito ladino-veneti) e al ladino dolomitico. Quest’ultimo, parlato nelle valli che si dipartono a raggiera attorno al gruppo di Sella, è tuttora in uso nell’alta valle del Cordévole, cioè nel Livinallongo e mentre altrove (per es., nella vai Gardena e nella vai Badia) ha subito un assai forte influsso tedesco, qui ha potuto mantenersi meglio per le influenze che venivano dalle vallate plavensi, tanto che ora è molto difficile segnare dei limiti precisi tra i dialetti ladino-veneti e il ladino vero e proprio. Così le parlate del Livinallongo da Arabba e da Pieve degradano verso il basso con lievi modificazioni, e mentre il dialetto di Rocca Pietore può ancora considerarsi ladino, quello di Selva e di Caprile è piuttosto ladino-veneto. Del restò’ nemmeno i linguisti sono d’accordo sulla posizione di questi dialetti e mentre Graziadio Isaia Ascoli ha insistito soprattutto sul mantenimento di fasi linguistiche arcaiche (che si possono individuare anche nell’Ampezzano, in una parte del Cadore e nel Comélico), Carlo Battisti tien conto invece delle influenze d’ordine storico-linguistico, in base alle quali la genesi del ladino è molto diversa da quella che ha determinato le parlate dell’Ampezzano, dell’Alto Cadore e del Comélico. La discussione, non priva di riflessi politici, è stata vivace soprattutto per quanto riguarda la posizione di Cortina d’Ampezzo, che non fu mai (a differenza delle altre valli ladine) feudo del vescovo di Bressanone, ma invece ha sempre avuto rapporti molto stretti col Cadore.

    Solo alla periferia compaiono piccoli gruppi che parlano dialetti estranei al mondo neolatino. Gli alloglotti del Veneto hanno origine recente, poiché risalgono a tentativi di colonizzazione tedesca avvenuti nei secoli XII e XIII. Si distinguono due gruppi, quello di Sappada nel Bellunese (collegato alle isole alloglotte tedesche di Sauris e Timau nella Carnia) e quelli prealpini dei Sette Comuni vicentini e dei Tredici Comuni veronesi, negli impervi altipiani tra Adige e Brenta. G. Marinelli valutava il loro numero nel 1891 a 10.300 individui (di cui 8000 nei Sette Comuni, 1000 nei Tredici Comuni e 1300 a Sappada), diminuiti a 3400 nel 1911, ma ora sono molto meno numerosi e per lo più bilingui. L’uso del tedesco è conservato ancora a Sappada, nei comuni di Roana, Rotzo e Foza (Vicenza) e nella parrocchia di Giazza (Verona). Il più antico documento veronese che li ricordi è del 1287. Abbiamo già detto che non ha alcun fondamento la vecchia teoria umanistica secondo cui questi alloglotti sarebbero discendenti dei Cimbri.

    Tale opinione è stata quella dominante fino al principio del secolo scorso. Fu un filologo bavarese della prima metà del secolo scorso, J. A. Schmeller, che nel 1838 potè dimostrare che non si tratta d’un insediamento molto antico dato che il dialetto tedesco che essi parlano è simile al linguaggio alto tedesco dei secoli XII e XIII. Data la loro origine e la loro parlata gli abitanti si riunirono per salvaguardare i loro diritti e quando all’inizio del secolo XIV Vicenza venne in potere degli Scaligeri, costituirono la Reggenza dei Sette Comuni, che riuscì a far rispettare gli aviti privilegi anche sotto Venezia (alla quale la Reggenza fu fedelissima) e perdurò fino al 1807, quando Napoleone l’incorporò nel Regno d’Italia.

    Il dialetto rustico padovano (detto anche pavano), che ha per centro il territorio di Padova, ma si dirama anche nei territori vicini, ha dato luogo nei secoli scorsi ad una letteratura scherzosa, rivolta a prendere in giro i contadini e a metterne in rilievo il carattere, venata talvolta da una nota di compatimento. Una stilizzazione di questo dialetto è dovuta al padovano Angelo Beolco, detto Ruzzante (1502-42), il quale nei suoi drammi e nei suoi dialoghi seppe approfondire i caratteri e descrivere con crudo realismo la vita dei campi. Anche in seguito il dialetto rustico padovano continuò ad essere usato e larga diffusione ebbero soprattutto le rime di Magagnò, Menon e Begotto, soprannomi di tre diversi verseggiatori, di cui uno era un prete maestro di coro e l’altro un sarto analfabeta. Imitazioni di questo dialetto si usano talvolta ancora in occasione di feste, lauree o nozze.

    Scorcio di una « Calle » veneziana.

    Venezia: «fondamenta» della Croce.

    Ma pittore della vita sociale veneziana, e soprattutto del suo popolo e della borghesia piuttosto che dei nobili e dei patrizi (la cui vita è rappresentata invece nei quadri di Piero Longhi), fu soprattutto Carlo Goldoni (1707-93), spirito mite e bonario, il quale ci porta nelle sue commedie tra le calli veneziane e nei campieli, pieni del chiacchierio dei gondolieri, dei mereiai, dei paroni de tartana e soprattutto delle donne, sia Mirandolina, la locandiera vivace e maliziosa, sia Lucieta, la protagonista di Barufe Chiozzotte. In questa commedia, in cui alcuni personaggi parlano in chioggiotto stilizzato, Goldoni portò sul palcoscenico la vita d’un intero paese, che egli aveva osservato da vicino quando era addetto alla cancelleria criminale del luogo. Appaiono nelle commedie goldoniane molte figure vive, le cui vicende, narrate in tono bonario, mettono in risalto i lati comici della vita. Egli vi dipinge «quella Venezia che sfugge allo storico, quella che vive fuori del Palazzo Ducale e della Piazza… vediamo sul palcoscenico la calle, il campiello, il canale, il caffè, il ridotto, l’ingresso del teatro, l’altana della casa, la stanza un po’ nuda dove abita l’umile borghesia; si vive molto al sole, all’aria; si sente l’odore del pesce nella tartana; si corre in maschera tra le baldorie di carnevale; si mangia e si beve spesso, si fa all’amore quasi sempre, giovani e vecchi, ma senza sporchessi »