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storia di ieri e di oggi della popolazione veneta

    La popolazione del Veneto

    Gli abitanti nel passato e nel presente

    Tra le regioni italiane il Veneto risulta una delle meglio popolate tanto per numero assoluto di abitanti, che tendono a raggiungere i quattro milioni (essendo 3.836.837, secondo l’ultimo censimento della popolazione dell’ottobre 1961), che per densità. Ciò è da mettere in rapporto sia coll’esistenza d’una percentuale rilevante di terreni pianeggianti e collinari che si prestano al popolamento, valutati intorno ai sette decimi della superficie totale, e di contro un’estensione modesta di zone montagnose del tutto ane-cumeniche, sia con la natalità che si mantiene più alta che nelle altre regioni dell’Italia Settentrionale. La popolazione veneta costituisce ora il 7,8% di quella della repubblica.

    Intorno alle vicende del popolamento abbiamo già avuto occasione di far cenno in un altro capitolo. Il Veneto risulta abitato dall’uomo fin da epoca assai antica, come si rileva dai resti delle età preistoriche della pietra grezza, della pietra levigata, del rame-bronzo e del ferro. Liguri e Veneti sono stati gli abitanti più antichi. Nelle Alpi vivevano i Reti, a oriente si estendevano gli Illiri. Il Veneto entrò pacificamente nell’orbita di Roma dopo la deduzione della colonia di Aquileia (184 a. C.). Sotto i Romani il popolamento, testimoniato dalla toponomastica, si andò estendendo sia alle zone di montagna (specie dopo le vittorie riportate da Druso sui Reti nel 15 a. C.) che a quelle litoranee, rimaste fino allora dominio dei boschi, dei canneti e delle lagune, e nel periodo imperiale, accanto ai profitti derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento (di cui vi è traccia nella toponomastica, come appare dai nomi di Equilio, ora lèsolo, abitato da allevatori di cavalli, e di Càorle, dove è evidente l’allusione alle capre), il Veneto trasse vantaggi dalla viabilità (specie dopo la costruzione delle vie Postumia, Claudia Augusta, Emilia, Popilia, ecc.) e dal commercio terrestre e fluviale, fiorente specie in quei luoghi, come Aitino, Oderzo, Concordia, Càorle, dove i trasporti marittimi e fluviali diventavano terrestri. Modesta doveva invece essere l’attività industriale, limitata ai centri maggiori che erano allora Padova e Verona. La popolazione, compreso il Friuli, doveva sfiorare il milione di abitanti. In più luoghi del Veneto rimangono tracce della colonizzazione romana con la divisione del suolo in centurie o in strisce rettangolari.

    A cominciare dagli ultimi anni del secolo IV ebbero inizio le invasioni rovinose per il Veneto. Goti di Alarico, Unni di Attila, Ostrogoti, Franchi, Longobardi. Del 452 è la distruzione di Aquileia, del 640 quella di Aitino, del 667 di Oderzo, che costrinsero gli abitanti a trovar rifugio sia nelle regioni prealpine, sia nella fascia lagunare, dove occuparono Grado, Càorle, Eraclea, lesolo, Torcello, Malamocco, sovrapponendosi a una popolazione di pescatori, traghettatori, salinai. Dapprima il centro politico fu Eraclea, quello religioso Grado (erede di Aquileia), il commerciale Torcello, ma poi questi profughi a poco a poco si accentrarono a Rialto, dove riuscì più facile svincolarsi dal dominio bizantino. E questo che va fino al secolo XI un periodo di regresso demografico: verso il 1000 il Veneto (col Friuli) pare contasse meno di mezzo milione di abitanti. Poi coi secoli XII e XIII si ha un aumento della popolazione delle campagne e un risveglio della vita cittadina. Sappiamo, ad esempio, che nel 1281 Padova col suo contado contava 93.000 abitanti. E probabile che nel secolo XIV, quando Venezia aveva già 100.000 ab., Padova e Verona 40.000, si sia di nuovo raggiunto il milione, senza tuttavia poter mantenere stabilmente a lungo questa cifra a causa delle epidemie che infierirono nel secolo successivo. Verona e il suo territorio non arrivavano nel 1473 ad avere 100.000 abitanti. Ma il milione fu di nuovo raggiunto al principio del Cinquecento e superato nei decenni seguenti, con un primo regresso nel 1575-78 a causa della peste che colpì soprattutto Venezia e le pianure occidentali, e vide perire 100.000 persone, e un secondo regresso ancora più sensibile per l’epidemia del 1630-32, che causò 300.000 vittime. Occorse quasi un secolo perchè il Veneto si riavesse delle perdite subite e l’aumento fu anche in seguito molto lento, a causa dell’elevata mortalità e delle frequenti carestie. Al cadere della repubblica gli abitanti del territorio attuale non raggiungevano il milione e mezzo, mentre ora s’avvicinano ai 4 milioni. L’incremento risulta quindi maggiore nel secolo e mezzo successivo alla pace di Vienna (1815) che nei secoli precedenti. L’aumento è stato dapprima lieve sotto il regime austriaco e soprattutto verso il 1848, un po’ più celere negli ultimi decenni del secolo scorso (con un aumento annuo medio del 5,6 per mille tra il 1882 e il 1901), rapidissimo invece nel corso del secolo XX fin dal primo decennio (aumento medio per mille di 11,4). Ma non sempre i confronti sono agevoli tra un censimento e l’altro. Così nel 1911 poiché la rilevazione è stata eseguita durante la stagione estiva (10 giugno) non sono state conteggiate le persone che partecipano all’emigrazione periodica stagionale europea; in questo caso occorre tener conto della popolazione legale, sottraendo gli abitanti che dimorano occasionalmente nel luogo dove sono stati censiti e aggiungendo invece la popolazione temporaneamente assente, che si presumeva dovesse far ritorno entro l’anno.

    Antica fontana a Forno di Canale (Belluno).

    La popolazione presente nel Veneto tra il 1871 (data del primo censimento) e il 1951 ha segnato nell’ottantennio un aumento del 77,4% che è superiore a quello dell’Italia. Ma mentre in quattro province il valore non si discosta molto dalla media, Padova e Venezia (quest’ultima in conseguenza dell’incremento del capoluogo, dello sviluppo delle opere di bonifica e della creazione del centro industriale di Marghera) segnano un incremento sensibilmente maggiore, mentre minimo risulta quello della sovrapopolata provincia di Belluno. Anche il Polesine nel secolo scorso e nei primi decenni di questo secolo ha visto accrescere di molto la sua popolazione. Risulta che, contando anche i territori venuti a far parte del Polesine solo posteriormente, la popolazione nel 1820 era di poco inferiore ai 150.000 ab., passati a poco più di 200.000 nel 1871 e quasi 258.000 nel 1911. Soprattutto nella zona di bonifica moderna alcune località hanno segnato aumenti fortissimi. Ca’ Venier è passata dal 1780 al 1911 da 824 ab. a 3216, Donzella (già Ca’ Farsetti) da 841 a 3450, Tolle da 169 a 4187 abitanti.

    Non deve far meraviglia se durante i primi decenni del governo austriaco furono le regioni subalpine e quelle alpine che trassero profitto della migliore viabilità, mentre poi esse poterono giovarsi delle emigrazioni e delle attività turistiche. La dinamica demografica di questi ultimi decenni è stata dominata dagli spostamenti di popolazione dalla montagna verso la collina, dalla collina verso il piano, e da zone rurali verso centri industriali e commerciali. Specialmente nella provincia di Belluno una parte della popolazione agricola tende a spostarsi verso altre categorie sociali. Negli anni a noi più vicini il Veneto è l’unica regione italiana che abbia registrato un decremento della sua popolazione dal 1951 in poi. La causa deve ricercarsi nell’intensità assunta dal movimento migratorio netto talmente elevata da annullare il cospicuo saldo positivo dovuto al bilancio tra le nascite e le morti. Più intenso è stato lo spopolamento dove vi era una più alta densità di popolazione agricola. La riduzione della popolazione residente si è concentrata nelle province di Padova e di Rovigo. Le aree a più forte decremento (oltre il 12% in soli sette anni) sono localizzate, in particolare, nella sezione sudorientale (basso vicentino, basso padovano, comuni di Cona e di Cavàrzere in provincia di Venezia, tutta la parte centro-orientale della provincia di Rovigo), nelle estremità orientali delle province di Treviso e di Venezia e in alcune zone di quella di Belluno. Zone di accrescimento sono localizzate attorno ai capoluoghi (ad eccezione di Rovigo) e nei centri minori, nei quali si sia manifestato sviluppo industriale o commerciale.

    Il movimento demografico

    Il ritmo d’aumento degli abitanti ha stretti rapporti nel Veneto da un lato col movimento demografico, dall’altro con l’emigrazione, che come movimento di masse deve considerarsi un fenomeno d’origine recente. Il Veneto è dal punto di vista demografico una regione sana. In passato aveva la più alta natalità a fianco della Puglia e della Basilicata. Ora supera pur sempre Toscana, Piemonte e Liguria. La nuzialità non risulta più intensa che in altre regioni italiane e l’età media delle spose s’aggira sui 25 anni e mezzo, quella degli sposi sui 29 anni e mezzo. L’accrescimento risulta elevato per la considerevole natalità, che è stata del 37 per mille nel quarantennio 1871-1911, scesa però al 24,7 nel 1936-40, al 21,3 nel 1946-60 e poi al 16,9 per mille nel 1958. Essa era ed è tuttora in parte dovuta all’età giovanile degli sposi, alla bassa percentuale dei nati-morti sul totale complessivo delle nascite, ai parti multipli, alla mortalità poco elevata, specie dopo la scomparsa della pellagra e l’attenuarsi della malaria. La mortalità, come conseguenza del più elevato tenore di vita, delle condizioni igieniche migliori, è discesa infatti dal 29 per mille nel 1872-75, ai 19 nel 1906-10 e poi ancora all’i 1,7 nel 1936-40 e all’8,8 nel 1958. L’alta natalità accompagnandosi alla bassa mortalità l’accrescimento della popolazione è stato rapido, con valori che nelle province di Treviso e di Rovigo sono stati negli anni anteriori alla prima guerra mondiale del 22 per mille, tali da far raddoppiare la popolazione nel corso di 35 anni. Ora l’eccedenza dei nati-vivi sui morti (8,1 per mille nel 1958) tende ad attenuarsi, ma il Veneto, che continua ad avere gran numero di individui in età giovanile, mantiene pur sempre il primato rispetto alle altre regioni dell’Italia settentrionale. Caratteristica demografica del Veneto è pure la dimensione della famiglia (5,7 componenti), notevolmente superiore a quella media italiana (4,4). L’ampiezza della famiglia, per quanto la dimensione tenda a decrescere col declino della natalità, assume, in tutti gli strati sociali, valori elevati. Risulta infatti che il 14% delle famiglie (di contro ad una media di poco superiore al 9% in Italia) conta 7 e più figli. Frequente è il caso, specie nelle campagne, di famiglie patriarcali.

    Quanto al sesso degli abitanti nel 1881, quando l’organismo demografico non aveva ancora subito alterazioni, il sesso maschile prevaleva su quello femminile (nel rapporto 1020 su mille). Invece dal 1901 in poi comincia generalmente a prevalere il sesso femminile. Per quanto riguarda l’età si osserva che quelle senili aumentano la loro importanza relativa, mentre nel gruppo di età fino a 15 anni si nota un’ascesa fino al 1911, quindi una discesa, che diventa notevole nel 1951. Le età senili raggiungono una percentuale più alta nel Bellunese, in relazione coll’ampiezza del movimento migratorio e la diminuzione della mortalità: ivi quasi il 10% degli abitanti conta oltre 65 anni.

    Ma è opportuno prendere in esame con maggior dettaglio il movimento demografico dato che nel Veneto a contenere lo sviluppo della popolazione entro limiti più ristretti di quelli che si avrebbero in base all’incremento naturale (che nel triennio 1957-60 comporterebbe pur sempre un incremento annuo di 34.200 persone), interviene il saldo negativo del movimento migratorio. Di conseguenza l’aumento della popolazione non è continuo, ma risulta alquanto irregolare. Se si parte dal 1871, data del primo censimento, il periodo che va fino al 1881 è caratterizzato da alta natalità, alta mortalità e scarsa emigrazione, per cui l’incremento è stato simile a quello della popolazione italiana. Nel ventennio seguente (1881-1901) mentre la curva italiana sale, il Veneto presenta un incremento modesto, dato che comincia a far sentire la sua influenza la perdita causata dall’emigrazione verso paesi l’Oltremare (e specialmente l’America). Un incremento fortissimo si riscontra nel decennio 1901-11, sia perchè si è verificata una forte riduzione del saggio di mortalità, mentre la natalità è restata elevata, sia perchè l’emigrazione è stata in prevalenza temporanea. Nel decennio successivo, per quanto una parte del Veneto abbia subito l’invasione nemica e sofferti danni per la guerra combattuta sul Piave e sul Grappa, l’incremento si è mantenuto abbastanza elevato. Segno che la natalità è stata ancora alta, ma il fatto si piega forse meglio ricordando che nel 1921 (a differenza che nel 1911) il censimento è stato effettuato d’inverno, mentre era in corso l’opera di ricostruzione, alla quale prestarono la loro attività molti Veneti, ritornati temporaneamente ai loro paesi. Poi nel decennio 1921-31 l’aumento s’attenua. Invero la natalità, per quanto in regresso, supera ancora largamente la mortalità, essa pure in diminuzione, per cui il declino demografico va attribuito al fattore migratorio, che torna a esercitare la sua influenza attraverso le migrazioni interne. Per quanto riguarda infine il ventennio 1931-51 l’aumento del tasso d’incremento farebbe pensare a una ripresa demografica. Poi tra il 1951 e il dicembre 1957 si constata (prerogativa questa condivisa soltanto dall’Abruzzo) una diminuzione degli abitanti (limitata a 15.688 unità). Nel 1958 si è avuta un’ulteriore perdita di 131 unità, nel 1959 un guadagno di 12.741 persone e nel i960 una perdita di 3038, dati che dimostrano il dinamismo del fenomeno. In complesso tra il 1951 e il 1961 il Veneto ha visto calare i suoi abitanti di 81.000 unità, a causa soprattutto del declino demografico del Polesine, diminuito nel decennio d’un numero d’abitanti pari a quello di tutto il Veneto.

    Vedi Anche:  Regioni storiche e amministrative del Veneto

    La raccolta del fieno nella montagna bellunese.

    Ma occorre tener conto che si tratta più che altro d’una diminuzione apparente, dato che essi si sono trasferiti in altre regioni italiane. Esaminati i dati nel loro insieme sarà opportuno considerarli anche nelle singole province. Per quanto riguarda il movimento della popolazione, la natalità risulta un po’ più alta (1958) nella provincia di Vicenza e in quella di Padova (17,7 per mille) e più bassa nel Bellunese (13,4). E poiché quest’ultima regione registra pure il quoziente di mortalità più elevato (10,5), ha di conseguenza un quoziente di accrescimento minimo (2,9), mentre la provincia di Venezia ha quello più elevato (9,4).

    Nel periodo che va tra il 1871 e il 1951 la provincia di Venezia ha visto aumentare di continuo i suoi abitanti, in modo costante ma relativamente lento fino al 1921, poi più rapido, in dipendenza del suo sviluppo industriale. Anche per la provincia di Padova si rileva un incremento continuo e abbastanza notevole, ma poi a cominciare dal 1936 s’inizia una diminuzione provocata dalla sensibile prevalenza dell’agricoltura sull’industria, che spinge una parte degli abitanti a migrare. Nel Vicentino si ha aumento fino al 1901, quindi continua diminuzione fino al 1931, mentre le cifre sono successivamente quasi stazionarie. Per il Veronese si rilevano nel periodo cifre oscillanti. Diminuzione a partire dal 1911 si ha nella Marca Trevigiana e la causa s’intravvede nella sua struttura prevalente agricola, che dà luogo a un reddito medio relativamente modesto. Nella provincia di Belluno si rileva una discesa costante dal 1871, tranne nel periodo 1911-21, ma con ritmo decrescente.

    Per quanto riguarda infine il Polesine si hanno oscillazioni d’un certo rilievo. Dal 1871 al 1901 la popolazione presente tendeva a diminuire abbastanza rapidamente, per poi aumentare fino al censimento del 1936 e in seguito di nuovo diminuire, a causa dell’alta percentuale di popolazione agricola e dello scarso sviluppo industriale. Una notevole eccedenza di emigrati (11.400) sugli immigrati (4830) si è avuta nel quinquennio 1952-56 soprattutto nei quattro comuni del Delta padano maggiormente colpiti dalle alluvioni. Questi ripetuti disastri hanno spinto numerosi Polesani ad abbandonare una terra che lasciava loro esiguo margine di sicurezza economica e di tranquillità umana. Lo stesso fenomeno, con manifestazioni in qualche caso drammatiche, di grave depressione economica, si osserva in quei comuni della provincia di Venezia che condividono le caratteristiche ambientali del Delta padano.

    Aumento di popolazione delle città del Veneto (1820-1961).

    I risultati del censimento della popolazione effettuato nell’ottobre 1961, hanno confermato quel declino demografico che già si intravvedeva attraverso le rilevazioni anagrafiche. Tra le province venete solo Verona e Vicenza segnano un modesto aumento. Le altre cinque hanno visto invece diminuire i loro abitanti, ma mentre per Belluno, Treviso, Venezia il calo è di lieve entità, Padova (—20.000) e Rovigo (—81.000) mostrano una sensibile flessione. Invece i comuni capoluogo di provincia, salvo Rovigo che è diminuito di 600 ab., sono tutti in aumento, confermando l’attrazione esercitata dai centri urbani.

    Condizioni sociali e culturali

    Fino agli inizi del secolo attuale nel Veneto, come del resto nelle altre regioni italiane, la maggior parte della popolazione traeva i suoi mezzi di vita dall’esercizio dell’agricoltura. Il censimento del 1901 rilevò infatti come appartenenti al settore agricolo il 62% della popolazione attiva veneta, mentre nel 1951 gli agricoltori erano appena il 43%, per diminuire ancor più negli anni seguenti, chiaro indice dello sfollamento delle campagne, che va in parte messo in rapporto con la progressiva meccanizzazione. Di contro le persone occupate in attività industriali sono aumentate nello stesso periodo dal 21 al 33%, cifra lievemente superiore alla media nazionale. Occorre tener conto che nel cinquantennio considerato la popolazione attiva si è accresciuta nel complesso di 400.000 unità. Quella spiccata prevalenza delle attività agricole è andata perciò diminuendo, dapprima in modo lento, ma poi in maniera sempre più celere, mentre si riscontra un rapido sviluppo delle attività industriali. Il Veneto presenta poi un numero di addetti al commercio e alle altre attività connesse lievemente inferiore alla media italiana (che è del 25,7%). Se si passa ad esaminare i valori delle singole province quella di Treviso detiene, per numero di addetti all’agricoltura, il primo posto, seguita da Padova, mentre il terzo posto (che in passato spettava al Vicentino) è tenuto ora dalla provincia di Verona. Invece per numero di addetti all’attività industriale la provincia di Vicenza risulta costantemente prima, seguita con un modesto distacco da quella di Venezia, mentre Padova è al terzo posto. Nelle attività commerciali le cifre più elevate si riscontrano nella provincia di Venezia, seguita da Verona e da Padova. Nel Polesine la struttura eminentemente agricola si è mantenuta pressoché inalterata con una percentuale del 60% di agricoltori, dato lo scarsissimo sviluppo industriale; l’apertura dei pozzi di metano ha avuto infatti limitata importanza, dato che impiegano soltanto una scarsa quantità di manodopera. Nel Bellunese, regione caratterizzata da un’economia montana, le risorse offerte dall’agricoltura locale, che in passato riusciva a far fronte alle esigenze degli abitanti, sono diventate insufficienti e come conseguenza si sono accentuati sia l’emigrazione che lo spopolamento montano. Perciò il numero delle persone che attendono alla lavorazione dei campi e all’allevamento del bestiame, soprattutto bovino, si è sempre più ridotto, mentre è aumentato il numero di coloro che hanno trovato in loco occupazione nelle industrie (delle costruzioni, degli occhiali, ecc.), nel commercio e soprattutto nel turismo, per quanto in numero inferiore a quanto appaia nel censimento, dato il caso di molti piccoli proprietari che esercitando qualche attività non agricola, denunciano questa come professione principale.

    Tutt’altro che modesto risulta nel Veneto il numero dei disoccupati, che però non hanno mai superato in questi ultimi anni il 5% delle forze di lavoro occupate, con tendenza alla diminuzione, mentre le forze di lavoro risultano in costante aumento. Di contro si è verificato, come abbiamo visto, un accentuato movimento migratorio che s’inquadra con modificazioni sensibili nella struttura economica del Veneto, il quale partecipa così, attraverso il lavoro dei suoi figli, allo sviluppo economico in atto nel Paese.

    Quanto ai salari, il Veneto nel suo insieme si trova in una posizione intermedia tra la Lombardia, il Piemonte e la Liguria, ove le ricompense sono più elevate, e le zone delle province meridionali, che sono più arretrate nello sviluppo industriale. Ma nel Veneto stesso i salari di Venezia sono più alti di quelli che si praticano a Treviso ed a Rovigo.

    Il Veneto si era venuto a trovare nel campo dell’istruzione in una situazione meno favorevole delle altre regioni dell’Italia Settentrionale, ma in questi ultimi tempi ha progredito molto in questo campo ed anche se l’analfabetismo non è stato ancora del tutto eliminato, ha in gran parte colmato la distanza che lo separava dalla Lombardia e dal Piemonte. Confortante è anche il fatto che per adeguarsi sempre meglio alle richieste del mercato della manodopera si è cercato di potenziare le scuole che preparano alle professioni più richieste. Alla data del primo censimento (1871) il Veneto contava il 65% di analfabeti sulla popolazione superiore a sei anni, contro 42% nel Piemonte e 45% nella Lombardia. Nel 1911 (quarantanni dopo) gli analfabeti risultavano diminuiti del 59% (mentre in Italia la diminuzione era del 47%). Essi erano il 26% degli abitanti di oltre sei anni, contro 37% della media nazionale. E poiché a.quella stessa data il Piemonte aveva l’i 1% di analfabeti e la Lombardia il 13%, il Veneto, alla vigilia del primo conflitto mondiale, aveva una percentuale di analfabeti superiore di molto a quella del Piemonte e della Lombardia, ma sensibilmente inferiore a quella dell’Italia. Una considerevole diminuzione si è avuta anche nel quarantennio 1911-51, durante il quale la percentuale di analfabeti si è ridotta nel Veneto ulteriormente di 20 punti, contro una riduzione di circa 8 nel Piemonte e di circa 10 nella Lombardia. Così alla data del penultimo censimento (1951) non era ancora colmato il distacco tra la nostra regione e le altre dell’Italia settentrionale prese a confronto, ma si era andato progressivamente attenuando. Le percentuali più alte di analfabeti si riscontrano nelle province di Rovigo (11,8%) e di Venezia (8,8%) mentre Belluno (3,1%) e Vicenza (3,8%) hanno le percentuali più basse. Ma poiché le province che nel 1911 avevano il maggior numero di analfabeti hanno segnato una diminuzione maggiore, si osserva ora un sensibile livellamento, simile a quello che abbiamo visto essere intervenuto nel Veneto rispetto alle regioni vicine. Così nel Polesine la percentuale di analfabeti si è abbassata (1911-51) dal 36 al 12%, con una diminuzione di 24 punti, mentre Venezia ha visto la percentuale ridursi di 23 punti; di contro Belluno e Vicenza hanno ridotto nello stesso periodo le loro percentuali soltanto di 14 e di 15 punti.

    Facciata dell’Università di Padova. È detta il « Bo », dal nome di un antico albergo del Bove, ivi esistente, di cui resta una torre, dove è una campana che chiama gli studenti alle lezioni.

    La posizione del Veneto rispetto all’evasione dall’obbligo scolastico non può dirsi grave. La grande maggioranza della popolazione di età non inferiore a sei anni è dotata d’un titolo di studio, con percentuali che vanno dall’82% a Verona al 66% a Rovigo. Il titolo prevalente è, come era da aspettarsi, quello di scuola elementare, seguito a grande distanza dalla licenza di scuola media inferiore e quindi dal diploma di scuola media superiore e dalla laurea.

    Il penultimo censimento (1951) ha contato nel Veneto 22.715 laureati, pari al 0,65% della popolazione, cifra che risulta inferiore a quella media dell’Italia, che è invece dell’ 1%. Una percentuale alquanto superiore alla media ha la provincia di Venezia, sensibilmente inferiore il Polesine. Sono stati contati in quello stesso anno nel Veneto 88.000 diplomati, con prevalenza dei maestri, titolo molto ambito dai Veneti, in confronto ai licenziati del liceo classico e scientifico, mentre la percentuale di periti agrari è modesta, nonostante l’importanza dell’agricoltura nell’economia delle province venete. Si sono poi contati 160.000 Veneti con licenza della scuola media inferiore.

    All’istruzione elementare provvedono 2950 scuole pubbliche (1957-58), dotate di 12.700 aule e frequentate da 281.000 alunni, ma a queste occorre aggiungere le scuole rette da privati e soprattutto da istituti religiosi, che nel Veneto si contano in gran numero e che hanno in molti casi una antica tradizione e una buona fama.

    Il cortile dell’Università di Padova notare a sinistra gli stemmi di antichi studenti.

    Un pescatore del Garda.

    Vi sono poi 141 scuole medie (con 30.500 alunni) e 150 scuole d’avviamento (con 37.700 alunni). Per numero di diplomati si nota la prevalenza dei maestri in tutte le province, indice della propensione dei Veneti per studi di carattere umanistico a differenza della vicina Lombardia, la quale può contare invece su maggior numero di ragionieri, geometri e periti industriali. Il secondo posto è tenuto ora dai ragionieri (Rovigo, Treviso, Verona), ora dal liceo classico (nelle altre province), salvo a Belluno, dove il terzo posto è tenuto dai periti industriali. In questi ultimi tempi (1957-1958) in aumento risulta la frequenza negli Istituti tecnici commerciali (7850 allievi in 24 istituti) rispetto agli Istituti magistrali (6500 allievi in 34 istituti), ai Ginnasi licei (6170 in 36 scuole), ai Licei scientifici (3140 in 20 scuole) e agli altri Istituti tecnici (industriali, agrari, nautici).

    Vedi Anche:  Storia del Veneto

    L’Università di Padova continua ad essere il faro culturale che attrae studenti anche da altre regioni italiane e straniere « veramente maestra al mondo non solo di sapienza, ma di alti sensi liberali. Qui al sicuro da ogni persecuzione superstiziosa potevano serenamente esporsi e spiegarsi tutte le più ardite teorie filosofiche, qui tutte le fedi erano egualmente rispettate, qui tutti gli uomini erano fratelli innanzi alla scienza» (Moschetti). Essa conta (1958-59) 8575 studenti (comprendendo anche 2500 studenti fuori corso) con prevalenza per le facoltà di scienze naturali (1650), medicina (1240), giurisprudenza (870), magistero (700), lettere (500) e ingegneria (480). Buon numero di studenti (2500) ha anche l’Istituto universitario di economia e commercio e letterature straniere di Venezia.

    I Veneti conservano forse più che in altre regioni, dato il lungo periodo di tranquillità goduto sotto il governo della Serenissima, una delle tendenze che contraddistinguevano il carattere e la psicologia dei Romani, cioè l’humanitas. Essi appaiono per lo più affabili ed espansivi, semplici e bonari. L’esperienza ereditata dal passato si manifesta nella rapidità con cui sanno adattarsi ai bisogni quotidiani del vivere. Ma presentano poi differenze da una parte all’altra. Così caratteri innati del montanaro veneto, e in particolare del Bellunese, sono l’attitudine ai lavori manuali e la facilità di perfezionarsi, come pure lo spirito di risparmio, per cui emigrano volentieri per poi costruirsi una casa o comperare un pezzo di terra. Ogni vallata aveva in passato caratteristiche proprie, ma negli ultimi decenni, con la costruzione delle strade e con la diffusione dei mezzi automobilistici, si è avuto un livellamento generale. Nel Bellunese si osserva un minore senso di religiosità (dovuto forse alla consuetudine con gente d’Oltralpe), che nel Vicentino e nel Trevisano. Anche nel Polesine il contadino è d’animo mite, laborioso ed onesto, ma è più propenso a favorire idee avanzate nel campo sociale, per cui anche il numero degli atei e dei nati fuori del matrimonio è maggiore che nelle altre province.

    La regione veneta presenta una notevole regolarità nella distribuzione geografica dei caratteri antropologici, quali l’indice cefalico, il colorito della pelle e la statura. In tutta la regione, come in Lombardia e in Emilia, predomina uniforme la brachi-cefalia, con valori dell’indice cefalico più alti attorno a Venezia e in alcune zone padovane; la media regionale è infatti di 84,9 (Italia 80,7-81,7) con minimi nel Polesine e nel Veronese e massimi a Venezia e Padova (85,3); questi elevati valori della brachicefalia sono probabilmente da mettere in rapporto con influenze del tipo dinarico. Il tipo chiaro, con capelli biondi e occhi azzurri, è più frequente che nelle altre regioni d’Italia e aumenta da sud a nord e da est a ovest con valori massimi nel Vicentino (16%), mentre nel Veronese e nel Padovano, come pure nel Polesine, si osserva maggior numero di bruni (50%); caratteristico di Venezia è il tipo coi capelli rossi (9%), la classica tinta tizianesca. Le alte stature aumentano in proporzione diretta col biondismo, così che appaiono più frequenti nel bacino superiore e medio del Piave, negli altopiani prealpini e nella fascia pedemontana. Nel Veneto la statura media dei coscritti risulta alquanto superiore (cm. 170,4 per i nati nel 1935) a quella media dello Stato italiano (167,8). Solo Liguria, Venezia Giulia e Toscana hanno stature lievemente più alte. I Polesani sono però caratterizzati da statura lievemente più bassa, indice cefalico pure più basso della media, maggiore prevalenza del tipo bruno che nel resto del Veneto.

    Densità e sua distribuzione

    Il Veneto è una delle regioni italiane con più elevata densità di popolazione, essendo preceduto soltanto dalla Campania, dalla Liguria, dalla Lombardia e dal Lazio e avendo una media (213 ab. per kmq.) notevolmente superiore a quella dell’Italia. Ma vi sono grandi differenze tra una regione e l’altra e tra provincia e provincia, con popolazione più densa in quella di Padova (329 ab. per kmq.), quasi del tutto pianeggiante e interna, e più rada in quella di Belluno (66 per kmq.),, che comprende l’alto bacino del Piave, con vaste aree improduttive. Anche la frangia lagunare e deltizia con acquitrini e terreni vallivi e palustri dove fino a poco fa era frequente la malaria, è poco popolata, ma mentre in questa non si hanno mai densità inferiori a 25 ab. per kmq., nell’area alpina e in quella prealpina si scende in molti comuni a valori più bassi, essendo la popolazione distribuita più irregolarmente con predilezione per le conche e per i bacini, i ripiani e le terrazze soleggiate, spesso separate tra loro da vaste aree anecumeniche ; più regolare invece, anche se rada, risulta la distribuzione degli abitanti negli altopiani della zona prealpina. La statistica ci dice che poco più di tre quarti della popolazione vive nella pianura, la decima parte in montagna, il resto nelle regioni collinose. Tra le regioni montane e prealpine poco popolate e la fascia marittima si stende la parte principale della pianura veneta, che presenta in media una densità di 200 ab., distribuita in modo abbastanza uniforme, ma con zone dove la densità risulta più alta; come è il caso d’una vasta porzione delle province di Padova, Vicenza, Treviso, dove in zone agricole particolarmente fertili e ben coltivate, si superano i 250 ab. con punte di 500-600 ab. in corrispondenza ai centri urbani e ai distretti industriali. Minor attrazione esercitano i corsi d’acqua maggiori, come l’Adige e il Po, a cagione della loro non grande navigabilità e del pericolo di piene rovinose per cui il Polesine risulta avere una densità alquanto inferiore alla media del Veneto con valori più alti (225) nel Medio Polesine (che comprende il capoluogo), meno alti nel Basso Polesine (dove si trovano vaste estensioni che sono ancora in corso di bonifica), con valori intermedi nell’Alto Polesine (196). Via si tratta di valori che, riferendosi a regioni in prevalenza agricole, risultano pur sempre elevati e sono da mettere in rapporto più ancora che con la fertilità del suolo, con la tenace attività degli abitanti che riescono a strappare alla terra tutto quello che occorre ai bisogni della loro parca esistenza.

    Densità di popolazione nel Veneto

    D’un certo interesse per rendersi più esattamente conto del fenomeno è anche prendere in esame la densità della sola popolazione sparsa, lasciando da parte la popolazione dei centri e dei nuclei. Densità molto elevate di popolazione sparsa, pari ad oltre 300 ab. per kmq., si osservano nella parte centro-occidentale della provincia di Venezia, al confine con quella di Padova e particolarmente intorno a Dolo. Invece limitata densità di popolazione sparsa (da 10 a 50 ab. per kmq.) troviamo dove prevalgono le grandi aziende agricole, come nelle terre di bonifica recente del Basso Polesine, del Cavarzerano e della pianura compresa tra Basso Piave e Tagliamento, come pure nella regione alpina e prealpina dove si scende a valori inferiori a 10 ab. per chilometro quadrato. Il Veneto si differenzia dalle altre regioni dell’Italia settentrionale (e specialmente dal Piemonte) anche perchè non vi si è verificato che in forma molto attenuata quel fenomeno che vien detto spopolamento montano. Esso minaccia piuttosto che le regioni alpine interne, a prevalente economia boschivo-pastorale, le quali integrano i loro redditi con l’economia turistica (specie il Cadore) e con l’emigrazione temporanea, la zona alpina esterna, che per natura del terreno, morfologia, condizioni climatiche, agricoltura arretrata, ha minori possibilità di trarre in loco le risorse per vivere. Tra i rimedi che sono stati invocati per combattere lo spopolamento ricordiamo la ricostruzione del patrimonio boschivo, il miglioramento dei pascoli e del caseificio, l’appoggio alle industrie turistiche, l’incoraggiamento alle piccole industrie, gli alleviamenti fiscali.

    Migrazioni del passato verso l’interno e verso l’estero

    Non meraviglia quindi, dopo quanto abbiamo detto, che il Veneto sia, fin da epoche lontane una delle regioni italiane nelle quali il fenomeno migratorio si è presentato con maggiore intensità. La causa principale va ricercata nello squilibrio tra la popolazione continuamente crescente e la scarsezza relativa dei mezzi economici, come la povertà dell’agricoltura, la debolezza dell’attrezzatura industriale, la limitatezza dei traffici. Nei paesi di montagna del Cadore, dello Zoldano e dell’Agor-dino, poiché d’inverno la copertura nevosa impedisce i lavori agricoli e per di più la produzione risulta in genere modesta e insufficiente ai bisogni, per ristabilire l’equilibrio tra le risorse locali e il potenziale demografico, gli uomini validi erano costretti nei mesi invernali a cercar lavoro altrove con un movimento regolare, simile a quello degli uccelli migratori. Erano contadini che approfittando del fatto che i lavori agricoli (per es., la mietitura del frumento e la mondatura e la raccolta del riso nel Polesine) si effettuano in pianura in epoche diverse che in montagna, si trasferivano

    in luoghi dotati di clima migliore. Oppure erano montanari venuti a smerciare prodotti dei loro paesi o da essi preparati, per esempio gli Zoldani dolci, frutta cotta e in epoca più recente gelati, gli abitanti dei Sette Comuni oggetti di legno per uso domestico o a esercitare mestieri particolari, come i seggiolai di Gosaldo (caregheti), che per di più facevano uso d’un gergo particolare. Frequente era anche il caso di commercianti girovaghi, per lo più isolati, che risalivano gli erti sentieri montuosi e visitavano le piccole piazze delle borgate isolate col loro piccolo bazar, che in minimo spazio reca i prodotti più svariati. Questo movimento di commercianti girovaghi persiste tuttora nel comune bellunese di Lamón, dove alcune decine di abitanti traggono guadagno dalla vendita di oggetti di merceria e di chincaglieria; muniti di una o più cassette (casele) che si caricano sulla schiena o trasportano servendosi della bicicletta, essi alternano il loro soggiorno nel paese natale con lunghi giri: per esempio, esercitano il loro commercio nomade da febbraio ad aprile, passano maggio e giugno a casa, luglio o agosto restano fuori, quindi ritornano a casa da agosto a metà ottobre, per riprendere nella stagione invernale i loro faticosi spostamenti. Talvolta questi movimenti avvenivano anche d’estate e vi partecipavano, come del resto vi partecipano tuttora, persone di servizio, nutrici ed operai.

    Ricamatrici al tombolo a Burano.

    Il movimento dell’emigrazione temporanea nella forma moderna ha cominciato ad avere un notevole impulso verso la metà del secolo scorso. Sappiamo così che nel 1869 parteciparono a tale migrazione circa 10.000 Bellunesi e il fenomeno, pur attraverso oscillazioni causate dalle crisi economiche, crebbe ancor più di intensità negli anni seguenti e vide allargarsi il campo dei movimenti non più soltanto verso la monarchia austro-ungarica, dove fervevano i lavori per costruire una buona rete stradale e ferroviaria, ma anche verso la Svizzera, la Francia e la Germania. Era difficile prima che scoppiasse la prima guerra mondiale trovare nel Bellunese contadino che non fosse stato « via sui lavori », « via per la strade » e gli « esamponari », cioè coloro che lavoravano sull’Eisenbahn si differenziavano anche per il loro portamento meno dimesso e il loro caratteristico pantalone di velluto alla zuava, il berretto basso e le scarpe coi tacchi alti. In passato molte donne (dette ciode) e ragazzi (ciodetti) erano reclutati per lavorare nel Trentino e nel Tirolo specie nelle piccole industrie o in quei campi dove il terreno leggero rende agevole il lavoro. Ma la maggior parte erano contadini e soprattutto montanari del Bellunese (e in minor misura delle province di Vicenza e di Treviso), che trovavano condizioni favorevoli di lavoro come muratori, braccianti, fornaciai, minatori e anche capomastri e imprenditori. Dal 1876 al 1901 sono emigrati temporaneamente dal Bellunese circa 350.000 ab. (di contro a 12.000 partiti definitivamente), mentre si calcola che nel 1903 il numero degli emigranti temporanei dal Veneto sia stato di 100.000. Il movimento che era dapprima invernale e aveva il carattere di occupazione aggiuntiva nei mesi di riposo dei campi allo scopo di integrare i bisogni, formarsi un piccolo capitale, costruire una casa, migliorare il tenore di vita, in seguito, essendo riuscito agevole, data la proprietà poco frazionata, cedere i lavori agricoli ai meno validi, l’emigrazione è diventata l’occupazione principale e, attenuati i rapporti con le cause geografiche, si svolge in tutte le stagioni, con conseguenze spesso dannose di trascurare il lavoro dei campi e di rallentare i vincoli familiari. Tale movimento, che risente fortemente della situazione economica mondiale, è continuato anche in seguito (nel 1901 è emigrato dal Bellunese il 14% della popolazione con valori massimi per alcuni comuni dell’Agordino di circa un terzo degli abitanti; nel 1909-13 emigrava ogni anno il 7,5%) e, sia pure attenuato, perdura tuttora. Il fenomeno non interessa solo i paesi alpini, come in passato, ma anche quelli del piano; le distanze percorse sono ora di gran lunga maggiori e l’epoca della partenza non è più l’autunno ma piuttosto la primavera, mentre in ottobre e novembre si effettua il ritorno, dato che sia coloro che sono occupati nei lavori di costruzione sia i braccianti trovano più difficilmente un’occupazione nei mesi invernali. Il Coletti dà per la Venezia le seguenti cifre di di emigranti annuali per 10.000 ab.: 134 tra il 1876 e il 1886, 324 (cioè la cifra più alta) tra il 1887 e il 1900, 298 tra il 1901 e il 1909 e poco meno negli anni precedenti la prima guerra mondiale. Un indice significativo dell’entità dell’emigrazione temporanea si desume dai censimenti confrontando la popolazione legale con quella presente. Per quanto i limiti dell’assenza siano stati considerati da un censimento all’altro in modo diverso, la popolazione presente nelle regioni di più forte emigrazione come il Bellunese, risulta sempre notevolmente più bassa di quella legale. Inversamente le maggiori città, dove è agevole trovare un’occupazione, hanno sempre popolazione presente superiore a quella legale. Nel 1951 sono stati contati 168.000 Veneti che risiedevano temporaneamente in altre regioni, con prevalenza per i compartimenti vicini: Lombardia (31.000), Friuli-Venezia Giulia (27.000), Venezia Tridentina (10.000), Emilia (23.000).

    Vedi Anche:  Montagne e pianure

    Ma a partire dal 1880 e specialmente tra il 1886 e il 1893, si è avuta pure una considerevole emigrazione permanente dalla Bassa (parte meridionale della provincia di Treviso e di Verona, Padova, Rovigo) causata da salari minimi, da disoccupazione di braccianti agricoli e da spirito imitativo, mentre nella montagna il movimento fu di scarsa entità e durata per il forte attaccamento dell’alpigiano alla terra. Purtroppo per il movimento migratorio da e per l’estero non si dispone dei dati che si vorrebbero, nè quelli disponibili sono comparabili tra loro, date le modificazioni introdotte nel concetto di emigrante. Incerti sono pure i dati dei rimpatri. L’emigrazione transoceanica ha raggiunto il culmine nel quinquennio 1891-95, in cui 154.705 emigranti lasciarono la regione dirigendosi verso le Americhe, riducendosi poi negli anni seguenti e mantenendosi sempre in proporzioni modeste. Il movimento migratorio in certi anni ha raggiunto in alcune province l’enorme valore del 6-7% della popolazione totale (fino a 12 e perfino 18% in alcuni comuni) nei quali sono rimasti nel paese appena 60-70 individui. Nel 1888, che è stato l’anno di maggior esodo, sono partiti per paesi transoceanici 85.000 Veneti (75.000 nel 1891 e 40.000 nel 1893), in grande maggioranza in qualità di coloni agricoli diretti al Brasile, dove resta il loro ricordo nel nome di molte località (Nuova Bassano, Nuova Padova, Nuova Vicenza, ecc.). Non erano più soltanto persone isolate che partivano, ma intere famiglie che vendevano un piccolo podere, il bestiame, i mobili in cerca di fortuna. L’emigrazione fu notevolissima dal Polesine dopo la piena del 1882, data l’esistenza di gran numero di contadini giornalieri e il sistema delle affittanze. Nel 1891 sono partite 16.625 persone, pari al 7,9% della popolazione, con valori che per alcuni comuni sono stati pari al settimo della popolazione presente (specie Villa d’Adige e Villadose), valori altissimi, paragonabili solo a quelli dell’Irlanda, sì che essendo emigrato da alcuni villaggi quasi metà della popolazione è stato necessario far venire dal Padovano chi esercitasse l’agricoltura. Il Polesine ha visto partire altre 13.700 persone nel 1888 e 11.300 nel 1895 con una media del 26,1 per mille all’anno nel decennio 1887-96; in 15 anni (1887-1901) 64.000 persone si sono recate nel Brasile. Le cause di questa emigrazione polesana sono state messe in chiara luce dal Cavaglieri : « accrescimento di popolazione e sovrabbondanza di braccia da un lato; d’altro lato, assenza completa di altre fonti di lavoro e di ricchezza che non l’agricoltura, scarso capitale disponibile per impiegarsi nella terra, specialmente col frazionarsi delle locazioni, e mancato incontro tra capitale e lavoro, sì che ove questo si applicherebbe intenso, non trova incoraggiamento nella potenza dell’industria agraria e al colono mancano le abitazioni convenienti e perfino l’acqua potabile; infine il diffondersi di bisogni meno primitivi e il lento evolversi economico e rurale delle popolazioni rurali ».

    « Dato ciò non è meraviglia che, alla prima occasione, sotto il più piccolo impulso esteriore sorga impetuoso nelle popolazioni agricole il desiderio di recarsi là, ove la fortuna sembra facile a realizzarsi. Bastava che gli agenti d’emigrazione si mostrassero più attivi e persuasivi perchè alcuni cominciassero a chiedere il passaporto e dietro si precipitasse la fiumana. E, in seguito, le lettere soddisfatte di alcuni dei primi partiti; l’udire, mentre tremavano dal freddo, che i loro compagni avevano foreste a libera disposizione e legna in quantità, che sul focolare ardeva un ceppo tanto grosso che da un mese non si consumava, che al Brasile uno poteva avere quanto terreno voleva da coltivare per conto proprio, erano tale incoraggiamento che nulla avrebbe trattenuto gli illusi ». Un minor numero di essi ha fatto ritorno poi nei paesi d’origine, mentre la maggior parte sono diventati Brasiliani, dimenticando la loro lingua e assimilandosi alla maggioranza. Non tutti però. Così recentemente (1958) una studiosa brasiliana (Altiva Pilatti Balhana) ha descritto le condizioni d’un paese dello Stato di Paranà, Santa Felicidade, popolato per la massima parte da coloni veneti, il quale conserva tuttora molti aspetti interessanti della sua cultura originaria. I contadini, che vi sono affluiti a partire dal novembre 1878, coltivano in prevalenza la vite e il mais, si nutrono di polenta e mantengono superstizioni e credenze popolari del tutto simili a quelle persistenti nel Veneto, mentre tra i giochi popolari le bocce tengono il posto d’onore.

    Merita di essere ricordato anche il caso di Cataloi, colonia di circa un migliaio di agricoltori della provincia di Rovigo, che in un venticinquennio di tenace lavoro erano riusciti a dissodare più di mille ettari di terreno boschivo nella Dobrugia ed a coltivarlo, con tenaci sforzi e sacrifici indicibili, a cereali e a vigneti con eccellenti risultati. Settantadue famiglie della provincia di Rovigo nel 1877 erano state fatte venire da un ricco signore romeno in un suo tenimento presso Jassi, ma nel 1888 dovettero trasferirsi nel villaggio di Cataloi in Dobrugia, dove ottennero dal governo romeno in affitto 1080 ha. di terreno boschivo e vi costruirono 88 casette, allineate ai lati d’un largo viale alberato, con la chiesa cattolica e la scuola italiana. Ma poiché la nuova costituzione statuiva che il territorio della Romania non può essere colonizzato da popolazione di nazionalità straniera la colonia è stata rimpatriata tra il 15 e il 20 giugno 1940, quando già l’Italia aveva iniziato la sua partecipazione al secondo conflitto mondiale.

    Dall’inizio del secolo il movimento verso paesi d’Oltremare si è attenuato e di rado si sono avute partenze superiori al 3 per mille della popolazione, salvo una ripresa nel 1906 e nel 1913 con meta il Nordamerica e l’Argentina. Arrestatosi in seguito alla prima guerra mondiale, all’inizio della quale si sono avuti molti rimpatri, il movimento è ripreso nel dopoguerra mutando carattere; sono allora partiti molti agricoltori per la Francia, per colonizzare le spopolate campagne del bacino della Garonna, ma è stato un esodo di breve durata culminato negli anni 1925-26. Nel decennio 1921-30 sono partiti in media ogni anno per paesi transoceanici 12.000 Veneti e il movimento d’espatrio per paesi transoceanici in forma attenuata dura tuttora (1946-50: 7200 persone). Occorre tenere presente che il movimento migratorio a carattere permanente, in questo secondo dopoguerra, risulta di relativamente lieve entità, analogamente a quanto si è verificato nell’ultimo quinquennio prebellico. Statistiche precise in proposito tuttavia non esistono. Si sa ad ogni modo che nel 1958 sono partiti per paesi d’Oltremare 4350 Veneti (e ne sono tornati, specialmente dal Venezuela e dall’Argentina, 2670), che rappresenta la più alta cifra delle regioni settentrionali, ma appena la quarta parte dei partiti dalla Sicilia e dalla Calabria e la terza parte della Campania e dell’Abruzzo, essendosi avute in quell’anno da tutta Italia quasi 98.000 partenze. I Veneti si dirigono ora di preferenza verso il Canada, l’Australia, il Venezuela.

    Le migrazioni interne dell’epoca presente

    Più ancora che verso l’estero, quei Veneti che in seguito all’aumento naturale non hanno la possibilità di trovar lavoro nel paese natale, migrano ora verso altre regioni italiane e vi si trasferiscono in modo definitivo. Nel decennio 1901-10 l’aumento derivante dall’eccedenza dei nati sui morti avrebbe dovuto essere di 570.000 ab., mentre invece è stato notevolmente minore (421.000) a causa dell’eccedenza degli emigranti sugli immigrati. Ora solo una piccola parte di queste 150.000 persone ha lasciato il Veneto per trasferirsi in paesi d’Oltralpe o d’Oltremare: la grande maggioranza (113.000) si è spostata verso altre regioni italiane, e specialmente la Lombardia, il Piemonte e il Lazio.

    Poi molti profughi che avevano lasciato il Veneto al tempo dell’invasione seguita alla rotta di Caporetto non sono più tornati nei paesi d’origine, mentre negli anni successivi un considerevole numero di coloni è stato assorbito dal Grossetano (specie famiglie provenienti da Monsélice e dai comuni vicini) e dall’Agro Pontino; basterà dire che tra le 500 famiglie trasferite nel 1932 a Littoria, 206 provenivano dal Padovano.

    Di questi spostamenti, anteriori al 1951, possiamo renderci conto esaminando quella tavola del censimento che riporta nelle varie regioni il numero degli abitanti secondo il loro luogo di nascita. I Veneti che risiedono stabilmente in altre regioni sono 635.000, mentre nel Veneto risiedono soltanto 168.000 persone nate in regioni diverse dal Veneto. Buon numero di Veneti troviamo soprattutto nella Lombardia (222.000) e nel Piemonte con la Valle d’Aosta (147.000), dove costituiscono il 5,1% e il 3,2% della popolazione. Anche il Lazio (sia Roma, sia l’Agro Pontino) ha attirato molti Veneti (53.354, pari al 12,3 per mille). Forti colonie di Veneti troviamo pure nel Friuli-Venezia Giulia (55.000), nella Venezia Tridentina (40.000), nell’Emilia (43.000), nella Liguria (25.000) e nella Toscana (19.000). Tutte le altre regioni, salvo la Campania (7200) presentano valori modesti (Puglia, Sicilia e Sardegna: 4500 Veneti ciascuna), chiaro indice che le regioni meridionali non costituiscono un’attrazione per i Veneti.

    Per gli anni successivi, allo scopo di conoscere gli spostamenti verso altre regioni italiane occorre utilizzare i dati anagrafici, che tuttavia peccano per difetto non potendo essi determinare l’entità dei movimenti clandestini, che sono d’una certa entità. In base alla differenza tra iscritti e cancellati risulta che nel 1957 il Veneto ha perduto 37.500 ab., 32.600 nel 1958, 24.000 nel 1959, 40.500 nel i960, in media quindi 33.800 ogni anno. Ma se tutte le province segnano una perdita è soprattutto il Polesine che mostra un preoccupante declino demografico: nel quadriennio quasi 50.000 persone sono andate perdute. Anche la provincia di Padova (23.800) e quella di Venezia (18.800) hanno visto partire molti rurali. La destinazione prevalente è stata la Lombardia, che nel 1957 ha accolto 22.000 Veneti (di cui da 4000 a 5000 per ciascuna dalle province di Rovigo, Padova, Verona); poi il Piemonte (17.000, di cui 6000 dal Polesine e 3000 ciascuna delle province di Padova e di Venezia); quindi il Friuli-Venezia Giulia (4700) e l’Emilia (4200). Modesto invece lo spostamento verso regioni dell’Italia centrale (se si prescinde da 1750 Veneti affluiti a Roma) e ancor più verso l’Italia peninsulare ed insulare.

    Questo andamento demografico è stato confermato dal censimento della popolazione, che è stato effettuato il 15 ottobre 1961. Da esso risulta che nel decennio 1951-61, 414.000 Veneti, cioè oltre un decimo degli abitanti, si sono spostati in altre contrade. E poiché l’incremento naturale è stato di 330.000 abitanti, la popolazione complessiva del Veneto è diminuita di 84.000 abitanti, pari al 2,1%. Sensibilissimo risulta il declino demografico del Polesine, che ha visto diminuire gli abitanti d’oltre un quinto del totale (22,7%).