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Il folklore e le tradizioni popolari

    Il folklore e le tradizioni popolari

    Il ciclo della vita. Usanze e tradizioni.

    Ancora fino a qualche decennio fa si poteva credere all’importanza che nella vita del popolo aveva quella sua storia intima formata appunto da tutto il bagaglio di tradizioni, credenze, leggende, usi, che costituiscono l’essenza stessa del folklore. Oggi il ritmo convulso della vita moderna, l’ampliarsi continuo dei piccoli orizzonti di prima, la coscienza che l’uomo va sempre più acquistando di se stesso, hanno portato ad un tale capovolgimento di valori che anche quel qualcosa di antico, ancestrale e tradizionale che è rimasto è molto spesso svuotato del suo contenuto e significato primitivo. In altre parole, se ancor oggi si continuano a ripetere certi riti, si fa più per forza di abitudine o per motivi turistici che per intima convinzione.

    Tale fenomeno, peculiare delle regioni più aperte, si riscontra anche nell’Abruzzo e nel Molise, ma in scala più ridotta, data l’assoluta prevalenza delle zone montane che per i loro particolari caratteri d’isolamento hanno una maggiore resistenza agli influssi disgregatori e costruttori del mondo moderno. E la popolazione, dedita in gran parte alle attività agricole e pastorali, è, per il tipo stesso di vita che conduce, più ancorata di altre a certe forme tradizionali. Resta perciò un sostrato di credenze e di abitudini legato, qui più che altrove, ad ogni particolare momento dell’esistenza. È chiaro però che questo si riscontra soprattutto nelle campagne, nei luoghi più isolati, nei piccoli centri, poiché il ritmo accelerato della vita moderna ha spazzato via dalle città tale tipo di usanze e tradizioni.

    Già prima della nascita ci si occupa di questo evento con la formulazione di pronostici, auguri e voti, dal momento che il matrimonio sterile è considerato come svuotato della sua caratteristica peculiare e quasi come opera del diavolo. Nell’opinione corrente i figli sono un dono della Provvidenza e i coniugi che ne sono privi sono considerati egoisti e tenuti in certo modo in disparte. Perciò le donne che temevano la sterilità indossavano abiti di spose prolifiche, bevevano particolari filtri e ricorrevano a tanti altri mezzi di cui oggi ben poco è rimasto. Ormai si preferisce andare da un medico, pur continuando a pregare Sant’Anna, per la quale molte donne hanno una particolare devozione e a cui non mancherebbero mai di accendere un cero nel giorno della sua festa.

    Quando finalmente il figlio atteso si annunzia, incominciano le previsioni circa il sesso del nascituro. La forma che assume un pezzetto di pasta di pane dopo la sua cottura, la posizione delle mani della futura madre se le si chiede a bruciapelo di mostrarle, quello che a riguardo dicono i bambini i quali, « innocenti », possono sapere ciò che ai grandi non è dato conoscere, tutto è buono per prevedere quello che se poi non avverrà sarà dovuto allo zampino del diavolo o all’influsso di altre forze malefiche. Si crede infatti, spesso incondizionatamente, a tutto quello che maghi o indovini pronosticano. E strano invece che non si faccia molto affidamento sulla fortuna, nei confronti della quale si è in genere scettici. « Se la furtuna vole, la casa la sa », dicono gli abruzzesi, convinti che a poco giovi invocarla. Ha però, quasi in contraddizione, grande importanza il giorno della nascita: infatti sarà fortunato chi nasce di domenica, sfortunato chi nasce di venerdì, e così via. In tal modo, considerando i giorni della settimana e i mesi, sarà « lunarie » (lunatico) chi nasce di lunedì o di marzo, « candarine » (canterino, cioè allegro) di aprile, « callose » (caloroso) di agosto, tanto per dare alcuni esempi. Sono ritenuti malefici i giorni 17 e 13, — tranne il 13 giugno in cui si verifica la favorevole congiuntura detta « il punto di stelle » — e soprattutto la notte di Natale. Infatti la tradizione vuole che i nati in quella notte diventino stregoni, collegando forse il fatto alla credenza, diffusa fra la gente di mare, che « lu scijone », il temuto spirito malefico che provoca le trombe marine e le tempeste, sia una creatura umana nata alla mezzanotte di Natale. Il Toschi così descrive il modo impiegato per neutralizzarne i dannosi effetti : « Per scongiurarlo ci vuole un marinaio che sia primogenito : egli, con un acuminato coltello dal manico nero traccia sull’albero maestro, o su una tavoletta, il segno di Salomone e vi conficca in mezzo il coltello, mentre pronuncia uno scongiuro trasmissibile solo la notte di Natale: così la tempesta viene ” tagliata “».

    Nelle campagne ancor oggi, arrivato il momento del parto, si provvede che tutto sia in ordine in casa, senza niente di annodato come funi o lacci e niente di traverso come pali o pezzi di legno, che, secondo la credenza popolare, ostacolerebbero il parto. A questo assistono la madre, la levatrice e la suocera, mentre il marito si allontana da casa conducendo con sè gli altri figli, se ve ne sono, e non ritornandovi che a parto avvenuto. Se nasce un maschio l’evento è accolto con gioia: « L’òmmene vale», dice un vecchio proverbio abruzzese che si porta dietro tutta la concezione popolare del rango superiore riservato all’uomo. Una bambina invece viene accolta con poco entusiasmo — è ancora un vecchio proverbio ad ammonirci che « la femmene tè capili’ assa’ e cervelle poche » — e annunciandone al padre la nascita si usa dire « libbre e cristiane », quasi a consolarlo del fatto. La puerpera viene circondata di molte cure, che tendono però soprattutto a far sì che diventi una buona balia. Anche i doni che parenti e conoscenti le portano hanno in genere questa funzione, e si dà quindi molta importanza ai suoi pasti (caratteristica è una densa brodaglia di pasta grattugiata), augurandole che quello che mangia diventi « sangu’ i latte ». Comunque la devozione a Sant’Agata e l’aver portato un pendaglio detto « lattaruolo » dovrebbero in precedenza assicurare l’allattamento.

     

    Il neonato dev’essere soprattutto e immediatamente preservato da influssi malefici e dal malocchio. Dopo il bagno, la prima fasciatura e tutto il cerimoniale di scongiuri che queste operazioni comportano, si depone nella culla, « …e vi son dentro i chicchi di frumento / e i granelli di sale e le molliche / e la cera… », gli amuleti che D’Annunzio ricorda nella « Fiaccola sotto il moggio » e che ancor oggi si crede servano a scongiurare i malanni. Si mette poi fra le sue manine qualcosa che abbia attinenza con quel che si desidera che faccia da grande, e per lo più si battezza nelle 24 ore secondo la credenza diffusa un po’ dovunque dell’anima che si libera dal Purgatorio. Il battesimo non si inserisce infatti in una tradizione superstiziosa ma rimane assolutamente legato al concetto religioso. Il bambino è nel Molise portato in chiesa da un piccolo corteo aperto dal compare, dalla comare e dalla levatrice. Nell’Abruzzo si dà grande importanza al corteo di battesimo, ma alla cerimonia non partecipa la madre perchè è considerata ancora « impura ». Il neonato, avvolto in una mantellina sotto cui si nascondono, in stridente contrasto con il rito religioso, i soliti amuleti, viene portato in chiesa da una bambina. Si sceglie con molta cura il padrino perchè si pensa che le sue qualità possano essere trasmesse al neonato e, diventando egli quasi un nuovo parente, si vuole che sia giovane, affinchè possa accompagnare il figlioccio il più a lungo possibile nella vita. Quanto al nome, esso è scelto un po’ come dappertutto ed è qui molto diffusa l’abitudine di « rallevà », dare cioè il nome di uno dei nonni.

    Molteplici e spesso simili a quelle di altre regioni d’Italia sono le usanze che precedono il fidanzamento e il matrimonio. Da quella del ceppo che l’innamorato pone la sera davanti alla porta della ragazza e che troviamo ancora nel Molise, a quella antichissima e non ancora scomparsa del fazzoletto ricamato che lo spasimante in Abruzzo dona alla ragazza come pegno d’amore: accettarli o meno significa accettare o no l’amore che con quei simboli si offre. Sono ancora diffuse la credenza che i tre fagiuoli sotto il cuscino possano rivelare alle ragazze, a seconda di quello che scelgono, la posizione economica del futuro marito, e quella dei tre confetti che faranno sognare il promesso sposo, usanze che troviamo spesso anche altrove. In Abruzzo, avuto il consenso di entrambi i genitori, il fidanzato può andare a casa della propria ragazza, dov’è accolto come persona di famiglia. Non così per la fidanzata: se non vi sono infatti motivi particolari, questa non va a casa del futuro sposo prima del matrimonio. Perciò anche la cerimonia della « conoscenza », in cui si conoscono appunto i genitori dei due giovani, avviene in casa della donna. In quest’occasione è d’uso che l’uomo regali un anello, d’oro o d’argento a seconda delle possibilità, e che la ragazza ricambi con un fazzoletto sul quale ha ricamato le iniziali. E di rito un banchetto, e fra l’altro si parla della dote, ma soltanto tra i familiari ; infatti è ormai scomparso l’uso della stesura, davanti a testimoni, della carta dotale, in cui era elencato tutto ciò che la sposa portava, compreso quello che aveva indosso al momento del contratto: « zita calzata e vestita come si trova ». Sono ancora in uso invece la serenata, detta « partenze », che lo sposo canta la sera prima del matrimonio sotto le finestre della ragazza e il carro parato a festa, come in Sardegna e nelle Marche, che qualche giorno prima trasporta il corredo dalla casa della sposa a quella del marito. Se il carro è di una famiglia povera compie il suo viaggio di notte per passare il più possibile inosservato, ma se proviene da una casa ricca è seguito dai familiari e ha l’aria di passare in parata, tutto addobbato com’è di fiocchi, fiori e pennacchi, quasi a far mostra di quello che si possiede e si porta. A quest’uso è connessa la particolare cura che gli artigiani pongono nella fabbricazione dei cassoni per il corredo, spesso finemente intagliati. La mattina del matrimonio le amiche e le parenti, con un cerimoniale che ha l’importanza di un rito, aiutano la sposa a indossare il vestito bianco, che ha ormai sostituito i costumi a tinte vivaci. Tanto in Abruzzo che nel Molise gli sposi vanno in chiesa accompagnati da un corteo nuziale. Singolare è quello di Scanno, nel quale gli sposi, i parenti e gli amici vanno in chiesa e ne ritornano disponendosi in fila a coppie, formando i cosiddetti « catenacci ». Talvolta, soprattutto se la ragazza lascia il paese, il corteo può trovare la strada sbarrata da nastri, che lo sposo provvede a far tagliare mediante il pagamento simbolico di confetti e monete. Giunti all’altare, lo sposo abruzzese si inginocchia sopra un lembo del vestito bianco, che la sposa avrà cura di porre sotto di lui in segno di soggezione. Sempre in Abruzzo, dopo il festoso ritorno in corteo, è la suocera che riceve la nuora sulla porta di casa e, ponendole al collo una catenina d’oro, le augura di essere apportatrice di pace e di prole abbondante. Come dovunque è di rito il banchetto al quale però non partecipa la madre della sposa, rimasta in casa quasi a simboleggiare che il giorno della partenza della figlia non è per lei una festa. Fra i brindisi, il più ricorrente è naturalmente quello che riguarda i figli : « Cente figlie maschie che puozze fare! »; infine l’immancabile ballo chiude la festa. Permangono ancora l’uso della serenata sotto la finestra degli sposi e la cosiddetta « rescite », cioè la loro ricomparsa in pubblico — in genere la domenica seguente a quella delle nozze — dopo che per otto giorni essi sono rimasti in casa, senza lavorare, a ricevere le visite di parenti ed amici. Presente anche in altre regioni è l’uso della singolare serenata canzonatoria che, al suono di padelle, pentole e campanacci, accompagna due sposi anziani, ed è chiamata nel Molise « scurdìa ».

     

    Molte delle credenze che riguardano i presagi di morte sono comuni per lo più ad altre regioni. In alcuni paesi d’Abruzzo viene prevista entro l’anno la morte del capofamiglia della casa presso cui il « crocifero » si riposa durante la processione del venerdì santo. Tipico per un popolo particolarmente dedito all’agricoltura e all’allevamento è il credere che bruciare un giogo o spostare un termine siano causa per colui che l’ha fatto di lunga agonia, che potrà essere abbreviata soltanto con un giogo nuovo o una pietra sotto il capezzale. Appena qualcuno muore, si apre la porta di casa affinchè le anime degli altri defunti entrino liberamente e perchè ognuno possa venire per le abitudinali visite di condoglianze ai parenti. L’annuncio della morte è dato nei paesi dalle campane, che nella zona di Sulmona suonano però a gloria quando muore un bambino, quasi a significare la certezza del suo ritorno in cielo. Durante la veglia al morto uno dei parenti più stretti, sostituitosi ormai alle lamentatoci, intona una particolare nenia — con i nomi tipici di « arpetà » a Lanciano, « piagne lu morte » a Pettorano, « rappetà » ad Avezzano, « archiamà » a Sulmona — che, tessendo le lodi del defunto, ne richiama alla mente le immancabili virtù. Uso comune delle due regioni, come di altre più meridionali, è il famoso pranzo funebre, detto con parola quanto mai espressiva « consolo », preparato dai parenti per i familiari del defunto in un’altra casa, giacché l’usanza vuole che il fuoco dove abitava il morto resti spento. I cortei funebri hanno ora una particolare semplicità. Si usa adornare di tovaglie di lino, che un tempo spettavano al parroco, la croce in testa al corteo, e il sacerdote si ferma spesso (« pusate ») per intonare preghiere. Le leggi dei lutto sono ancora molto osservate, naturalmente con maggior rigore nei piccoli centri più lontani dagli influssi della vita moderna. Il lutto più stretto e rigoroso è quello della vedova, che arriva a vestire per una diecina d’anni in nero e senza nessun ornamento, ricoprendo di nero anche quei monili, come gli orecchini, che è solita portare. Naturalmente il nero dell’abito si accompagna a un grigiore estremo di vita, dato che la vedova dovrà condurre un’esistenza quanto mai riservata e soprattutto lontana da qualsiasi rapporto con uomini, anche se parenti stretti.

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    Riguardo alla vita post-terrena e all’influsso che i morti possono esercitare sui vivi, varie sono le credenze. Alcune arrivano a far considerare il defunto capace di compiere azioni del tutto umane, ed è per questo forse che nel giorno dei morti si usa, in Abruzzo, lasciare una conca d’acqua presso la porta di casa, perchè questi possano dissetarsi. Si crede inoltre che i defunti intervengano a una particolare messa e restino con i familiari fino al giorno dell’Epifania. Per questo prima si raccomandava di non far dondolare in tale periodo la catena del focolare, che avrebbe disturbato il loro riposo. Si crede ancora che le anime dei morti per disgrazia vadano raminghe e ritornino spesso sul luogo della sciagura, finché non è giunto il momento del naturale trapasso. Chi, invece, è stato assassinato, sconta i propri peccati sul luogo del delitto, e ogni viandante, passandovi, suole gettare un sasso e recitare una prece per scampare alla collera dell’ucciso. All’idea della morte violenta si ricollega la credenza che un particolare vento vorticoso, detto « vutarella », altro non sia che lo spirito del morto aggirantesi in quel luogo.

    Molto simili agli spiriti sono nella tradizione popolare abruzzese strani esseri come il « mazzamarella », fantasma burlone temuto soprattutto dalle donne, o il « pandafecha », che sotto la forma di un grosso gatto nero incute spavento a quanti credono d’incontrarlo. Ma è soprattutto nei fenomeni atmosferici — grandinate, tempeste, trombe marine — che il popolo vede la presenza di spiriti malefici; ed è per premunirsi contro di loro che ancora si pratica una gran quantità di scongiuri.

    L’influenza non più di spiriti, ma di forze oscure e malefiche che certi individui hanno il potere di trasmettere è tenuta ancor oggi in grandissima considerazione ed è molto temuta. Contro il malocchio e la « fattura » si portano addosso ogni sorta di amuleti. Li abbiamo trovati nella culla del neonato, ma già durante la gestazione la donna abruzzese proteggeva il figlio dal malocchio mangiando tre foglie di ruta ogni tre mesi di gravidanza. Si può dire quindi che già da quando è nel ventre materno l’uomo comincia a credere nei « magaruni », strani individui che sanno togliere e fare le « fatture », nelle streghe, nelle donne che levano il malocchio con gli scongiuri dell’olio e dell’acqua. E sino dall’infanzia si abitua a credere in tutti quegli usi e quei riti che, a questo riguardo, lo accompagneranno durante la vita. Le forme di superstizione sono infatti difficili a morire ed ancora oggi si ricorre volentieri allo stregone con la certezza che, facendo come egli dice, ogni cosa possa risolversi in breve tempo. Un rito tuttora in uso in qualche villaggio dell’Abruzzo aquilano è quello dei « nov’archi », specie di processione composta dalle donne di famiglia, dal bambino « stregato » e da qualche uomo armato di scuri e falci per proteggere il gruppo. Questa si snoda per nove sere di seguito, passando sotto nove di quelle arcate che sono un elemento tipico dell’architettura rustica dei centri compatti montani. A conclusione si dovranno battere i vestitini del bambino, ravvisando in essi il corpo della fattucchiera; per tener poi decisamente lontane dalla casa le streghe bisognerà seppellire sotto il gradino più basso delle scale un cagnolino.

     

    Si può dunque ben comprendere come accanto a queste forme di superstizione sussista ancora una cieca fiducia in erbe o intrugli capaci anch’essi di guarire dai mali. E una specie di medicina popolare, di cui nel secolo scorso ci parlava il Finamore, la quale prescrive, su basi empiriche ma ragionevoli, l’aglio per le indigestioni, i vermi e il mal di stomaco, la cipolla e la malva per il mal di pancia, l’acqua delle capsule di papavero (« sunnareglie ») per l’insonnia, e così via. Ma l’elemento irrazionale riaffiora allorché vediamo curare il mal di testa con una padella calda posta a raffreddare sul capo del paziente (« fresseranne »), o quando per preservarsene si consiglia di tagliarsi i capelli il primo venerdì di marzo. Strani usi sono pure quelli di strofinarsi i denti con la fuliggine per proteggerli dalla carie o di portare orecchini d’oro per conservare buona la vista. Come si vede, accanto a rimedi abbastanza accettabili ve ne sono altri del tutto immaginari, quando non sono addirittura derivati da intrugli di speciali guaritori, come l’« acqua archibugiata » di Avezzano, fatta con erbe raccolte sul Velino e sulla Maiella, che avrebbe la proprietà di guarire le ferite.

    Festività e sagre popolari.

    Le tradizioni relative alle maggiori festività religiose hanno quasi dappertutto un fondo comune, sebbene alcune di esse siano caratterizzate da qualche spunto o motivo particolare. Anche nelle nostre due regioni per Natale il centro della festa è il ceppo che, cosparso di vino, viene bruciato. A Palena, in memoria di Gesù e dei dodici apostoli, vengono arsi altri tredici pezzetti di legno, mentre ad Isernia il ceppo è benedetto dal capofamiglia con l’acqua santa. Ad Agnone la sera di Natale bellissimo è lo spettacolo delle fiaccolate (‘ndocce). Dappertutto naturalmente è di rito il solito pranzo coi piatti tradizionali, come la minestra di cardoni, in uso principalmente nel Chietino e nell’Aquilano, e le varie specialità di dolciumi, come il cervone, i taralli, i calciumi e le papatille, tipici del Molise, di prammatica nei pranzi di Natale e nel tradizionale cenone di Capodanno. Il cenone, insieme con le abitudini di gettare via la notte di San Silvestro la roba vecchia e di indossare il giorno dopo qualcosa di nuovo, rientra nelle tradizioni diffuse ovunque. Sia in Abruzzo che nel Molise i ragazzi usano andare a Capodanno o nella notte di San Silvestro di casa in casa, cantando canzoncine augurali che variano per ogni famiglia e ricevendone in compenso piccoli doni: gentile usanza, diffusa specialmente nella Màrsica, che è chiamata « strina ». Nell’Abruzzo poi è tuttora in uso attingere la mattina di Capodanno l’« acqua nova » che, come simbolo di purificazione, viene portata in dono dalle donne povere alle famiglie benestanti, le quali ricambiano con dolci e cibi di vario genere. Sempre legata all’acqua è la leggenda che si narra a Pettorano sul Gizio, secondo la quale una donna, ignorando che a mezzanotte l’acqua del fiume si trasformava in oro, andò ad attingerla e tornò a casa con la conca piena del prezioso metallo.

     

    Come dovunque, col variare solo del dialetto e dell’accento, « Pasque Befanie tutte le feste se porte vie », e al tempo stesso la Befana porta i consueti doni ai bambini. Soltanto da una ventina d’anni si svolge a Rivisòndoli l’ormai famoso « Presepio vivente », che richiama un numero sempre maggiore di turisti, affascinati dalla suggestività dello spettacolo. Al suono delle zampogne e alla luce di centinaia di fiaccole, la sacra rappresentazione ha inizio con l’annuncio della buona novella ai pastori — i veri pastori d’Abruzzo — e prosegue con il continuo affluire dei più disparati personaggi verso la grotta della Natività, per chiudersi con l’arrivo dei Re Magi e con la rituale offerta di oro, incenso e mirra. Fra i seicento protagonisti, i principali vengono scelti anche in località distanti, fuori della regione, mentre Gesù Bambino è di regola l’ultimo nato del paese che, secondo una ormai radicata credenza, avrà il dono di crescere sano e robusto.

    A Pescocostanzo si ricordano per la vigilia dell’Epifania le soste che i reali di Napoli vi facevano durante i loro viaggi attraverso la « Via degli Abruzzi ». Il tema centrale della manifestazione è l’arrivo del corteo reale nel paese straordinariamente animato, con le donne in costume e i prodotti dell’artigianato locale che fanno bella mostra nelle vie tra una folla variopinta in festa.

    Per la ricorrenza di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) molti sono i riti e le cerimonie che si celebrano, soprattutto nei villaggi dove l’agricoltura e la pastorizia sono ancora le principali risorse. E logico quindi che il punto culminante di ogni festa sia la benedizione degli animali, che si svolge sulla piazza principale del paese con grande concorso di gente e di bestie parate a festa con nastri, fiocchi e coperte di merletto. Il sacerdote benedicente usa distribuire, in cambio di un’offerta, i « panini di Sant’Antonio », che si ritengono atti a guarire gli animali. Il piatto di rito è la polenta, e tipicamente abruzzesi sono i « granati », granturco lessato che le famiglie benestanti cuociono in gran quantità, distribuendolo poi ai vicini. Nel Molise, alla vigilia della ricorrenza c’è ancora in molti luoghi l’usanza di andare in giro cantando le virtù del Santo e invocandone i favori. Un altro elemento tradizionale della festa è quello dei fuochi, detti in Abruzzo « focaracci » o « focaroni », che si accendono nelle piazze e che trovano la loro espressione più notevole nella Festa delle Farchie, a Fara Filiorum Petri nel Chietino. Vuole la leggenda che nel 1799, quando i francesi muovevano verso Fara, si verificasse un prodigioso intervento del Santo che, in difesa dei faresi, formò un esercito di fuoco con le querce di un bosco. Si ricorda questa leggenda la sera del 16 gennaio con l’incendio delle « farchie », alti fasci di canne legate insieme. Ognuna delle dodici piccole borgate che costituiscono il comune di Fara appronta, a gara con le altre, la propria farchia, le cui canne secondo la tradizione debbono essere rubate. Sul sagrato della chiesa dedicata al Santo, dove si trova una gran folla, vengono innalzate le farchie e ad ognuna viene appiccato il fuoco che le brucerà solo in parte. Quello che resta è portato di nuovo a spalla al seguito della processione che muove col Santo in testa verso la chiesa parrocchiale; qui termina la cerimonia con un unico rogo dei resti delle 12 farchie, davanti al quale viene elevata la statua di Sant’Antonio benedicente.

    Nel giorno della Candelora c’è ancora fra le donne abruzzesi l’usanza di recarsi in chiesa a prendere la candela benedetta che allontana i fulmini dalla casa. Molta devozione ha il popolo per San Biagio (3 febbraio), che si ritiene in potere di guarire i sofferenti di gola e, per una confusione ormai radicata, è diventato anche il protettore dei golosi. Nel Molise c’è l’usanza di preparare certi speciali ravioli di pasta dolce detti « picellati » e di farli benedire in chiesa insieme a certe pagnottelle, chiamate « pantizze », che si consumano il giorno della Candelora. Pare che le pantizze siano originarie di Ragusa e del litorale dàlmata, dal quale si sono avute le note immigrazioni, e che al di là dell’Adriatico si veneri San Biagio con riti molto simili a quelli tuttora in uso nel Molise.

    Quasi tutte le tradizioni riguardanti il Carnevale sono oggi praticamente scomparse: dall’uso di organizzare rappresentazioni di ispirazione storica come quella delle gesta dei reali di Francia ad Arsita (Teramo) al processo con testamento e relativa condanna a morte del pupazzo (raffigurante il carnevale stesso) che si celebrava con particolare animazione ad Agnone. Il classico sacrificio del Carnevale che veniva impiccato o bruciato è infatti dovunque sparito, anche se ne resta il ricordo in certe manifestazioni a conclusione di sagre o di feste patronali, nelle quali, insieme con altri motivi di carattere agricolo-propiziatorio, ritroviamo nel pupazzo bruciato la reminiscenza del rito carnevalesco. Nel Chietino, ad esempio, vediamo partecipare alle feste locali di fine primavera un fantoccio di cartapesta, detto « pupa », circondato da un’impalcatura di fuochi artificiali, con un uomo all’interno che lo manovra. Il fantoccio esegue una specie di danza durante la quale vengono accesi i fuochi in un crescendo che culmina nel gran finale con l’accensione della girandola che ha sulla testa. La tradizione trova il suo epicentro a Casalincontrada e ci riporterebbe, col motivo purificatorio e propiziatorio del fuoco, anche all’antico carattere magico-agreste del rito, svuotato però del suo contenuto ancestrale, dal momento che nella « pupa » si vede ormai soltanto un elemento che conferisce maggiore attrazione alla festa.

    Durante la Quaresima i motivi tradizionali sono scarsi, e tutti strettamente legati al dominante sentimento religioso. Dalla « squilla » che, a Lanciano, allo sciogliersi delle campane chiama tutti a riconciliarsi, alla benedizione del « lu fasce », che ogni contadino metterà nei campi per proteggere il raccolto, al fuoco acceso sul sagrato della chiesa e portato a casa dai fedeli insieme con l’« acqua nova ».

    E però nelle processioni e nelle sacre rappresentazioni della Settimana Santa che il sentimento religioso, unito a elementi tradizionali da esso indissolubili, forma con questi un tutt’uno così armonico che riesce diffìcile capire quanto il motivo religioso abbia contribuito al valore spettacolare e quanto invece dell’apparato spettacolare si sia giovato il fondo religioso. Gran folla richiamano le processioni del Cristo Morto di Vasto, di Campobasso, di Campodipietra, di Ferrazzano, di Riccia, che si svolgono al crepuscolo, al lume di torce e candele. La più suggestiva e spettacolare è però, senza dubbio, quella del Venerdì Santo a Chieti, che risale al Cinquecento. Essa si snoda per la città, illuminata per l’occasione da fiaccole accese su tripodi di ferro battuto, con un corteo formato da numerose confraternite, i cui membri indossano un saio bianco e il tipico cappuccio che lascia scoperti soltanto gli occhi mediante due fori.

    Lo stesso carattere religioso-spettacolare è palese nelle sacre rappresentazioni, che fanno rivivere la Passione e la morte del Cristo (Gessopalena) o la sua Resurrezione (Lanciano, « Incontro dei Santi ») o ancora la ricerca e l’incontro della Vergine col Figlio morto (Tèrmoli). Particolarmente spettacolare è la mattina di Pasqua, a Sulmona, la rappresentazione della « Madonna che scappe » : nella piazza del Mercato avanzano verso la statua della Vergine quelle degli apostoli che le annunciano la resurrezione del Figlio; all’improvviso appare anche la statua di Gesù risorto e mentre la Madonna corre verso di lui, le cade il manto nero che la ricopriva e uno stormo di colombi prende il volo in un festoso suonar di campane. A Pasqua la tradizione non presenta niente di diverso dagli altri luoghi. Possiamo osservare soltanto qualche particolarità relativa a certi dolci e pani tradizionali, vera e propria forma di artigianato gastronomico, come il cavalluccio, che raffigura un cavallo con un uovo sodo al centro, il pupazzetto di pasta dolce chiamato palomba, o certi pani speciali che si trovano a Pescara, con le figure dell’agnello e della colomba.

    Vedi Anche:  Lineamenti Regionali

    La settimana di Pasqua, con il sopraggiungere della primavera, dà inizio ad una serie di pellegrinaggi e processioni che spesso uniscono al motivo religioso di una ricorrenza festiva quello agricolo-propiziatorio, soprattutto per il prossimo raccolto. Questo particolare carattere hanno le numerose processioni che si snodano nel giorno dell’Ascensione verso i campi che il sacerdote benedice col cero pasquale. Che il fattore propiziatorio-agreste sia alla base di tali manifestazioni si può dedurre anche dal fatto che nelle ricorrenze seguenti, che non segnano più l’inizio della primavera — come, ad esempio, la Pentecoste — i cortei sono molto meno imponenti e si limitano a percorrere le vie cittadine (processione dei Rosecci all’Aquila). In questo periodo una processione festiva, a carattere religioso-spettacolare, è giustamente famosa in tutto il Molise: quella dei « Misteri » a Campobasso per il Corpus Domini. Dodici congegni di ferro e di acciaio che risalgono al Settecento, interamente nascosti dagli addobbi e adorni di fanciulli che riproducono immagini ed episodi sacri, avan-

    zano in processione fra un gran folla accorsa anche da lontano per ammirare questi quadri viventi di notevole valore espressivo.

    I numerosi pellegrinaggi — singolarissimo e raffigurato anche dal Michetti quello che dal 9 all’11 giugno riunisce gli storpi al Santuario della Madonna dei Miracoli di Gasalbordino — si concludono in agosto, quando per l’Assunta è di rito la visita ad almeno uno dei tanti santuari mariani, situati un po’ dovunque. Ad essi partecipano interminabili teorie di fedeli, divisi in « compagnie » che conservano ancora, in taluni casi, abitudini di chiara derivazione pagana, come quella di dormire la notte sulla nuda terra, tipica reminiscenza della incubatio.

    Questo sottofondo pagano si ritrova anche in alcune feste e sagre popolari nelle quali, filtrate attraverso il motivo cristiano, si possono riconoscere tracce di antichissimi riti. Tali tracce, però, sebbene facilmente ravvisabili, sono ormai così profondamente entrate a far parte del costume popolare da perdere l’antica fisionomia, senza più riferimento alla loro origine. Come nella festa dei Talami ad Orsogna, in cui il culto di Cèrere affiora nei carri agricoli, adorni di mortella e di alloro, cogli uomini che gettano spighe benedette e le donne che seguono con ceste colme di doni per la Madonna del Rifugio. Questo antico culto si è ormai profondamente amalgamato con la sovrapposizione cristiana della processione delle sette piattaforme di legno (« talami »), sulle quali anche qui gruppi di bambini compongono quadri molto belli di soggetto religioso.

     

    Tracce di paganesimo si scorgono in maniera ancor più evidente nelle feste dei Serpari che si svolgono nel primo giovedì di maggio a Cocullo e a Pretoro in onore di San Domenico. « This is no Christian festival », notava Anne Macdonell che scriveva sul finire dell’Ottocento intorno alle tradizioni abruzzesi. E infatti più che per il Santo la festa sembra in onore dei serpenti, i quali vengono raccolti in gran quantità dai fedeli che se li attorcigliano intorno al corpo e ne ricoprono la statua del Santo. La serpe, appena catturata, viene resa innocua facendole mordere un feltro e tirandolo con violenza in modo da strapparle i denti. E chiaro il rapporto esistente con il culto pagano della dea Angitia, alla quale i Marsi, abitanti preromani della regione, riconoscevano un potere taumaturgico riguardo al morso dei rettili, potere che viene oggi attribuito al Santo. Ad antichi riti pagani di fertilità sembra debba collegarsi anche la benedizione dei pani che durante la festa sono portati in gioiosa processione. Carattere assolutamente cristiano ha invece la pantomima del bambino rapito dal lupo, che a Cocullo e a Pretoro s’innesta alla festa dei Serpari, con la rappresentazione del ratto e del miracoloso intervento di San Domenico che, ammansita la fiera, salva il piccino.

    Un singolare rito si svolge durante la festa di San Zopito a Loreto Aprutino, nella quale, il lunedì dopo la Pentecoste, un bue parato a festa con nastri e fiori e ricoperto di una gualdrappa a tinte vivaci segue la processione e si genuflette poi davanti alla porta della chiesa al momento dell’elevazione; indubbio residuo di rito pagano è il fatto che dai suoi escrementi vengano tratti pronostici per il raccolto.

    Il motivo agricolo, che abbiamo visto predominare, è presente ancora in feste come quella dei Saraceni a Villamagna e quella dei Turchi a Tollo, in cui a prima vista sembra emergere il carattere celebrativo di una particolare ricorrenza. In entrambe le feste infatti, alla rappresentazione dei combattimenti fra infedeli e cristiani e al ricordo dei miracolosi interventi di Santa Margherita e della Vergine si accompagna, con tipico carattere propiziatorio-agreste, il monte di grano sul quale viene innalzata la statua della salvatrice. D’altro canto il profondo sentimento religioso delle genti abruzzesi e molisane ha dato luogo a numerose feste commemoranti leggende o miracoli, come quella del Perdono a Ortona, che con una bellissima processione a mare ricorda lo sbarco di Leone Acciaiuoli, ritornato dall’Oriente con le reliquie di San Tommaso apostolo. Altre da ricordare sono quella della Madonna del Carpineto a Rapino — la cosiddetta « Festa delle Verginelle » — a ricordo di una siccità cui un prodigio pose termine; o quella della Madonna del Porto a San Vito Chietino, dove si celebra una suggestiva messa su di una barca al largo, mentre tutt’intorno altre barche fanno corona.

     

    Il motivo religioso si è aggiunto anche all’originario carattere celebrativo e spettacolare di una delle più note feste d’Abruzzo, quella dei « Banderesi » a Bucchiànico. La festa vera e propria ha luogo il 25 maggio per Sant’Urbano, ma già da qualche giorno dopo la Pasqua il paese comincia ad essere in fermento per l’elezione del « capobanderese », scelto fra una trentina di contadini-proprietari alla presenza del sindaco e del parroco, e responsabile di tutta l’organizzazione. Egli dovrà apprestare l’« esercito » di 250 persone che ripeterà lo strattagemma con il quale i Bucchiani-chesi posero fine, nel XIII secolo, a un assedio dei Chietini, facendosi credere — con rumori e strepiti — molto più numerosi di quanto non fossero in realtà. Essi eseguono perciò nel giorno della festa nove giri di una marcia a zig-zag, la « ciammai-chella » (chiocciola), e, vestiti di costumi variopinti, si lanciano in cariche spericolate su cavalli bardati, armati di alabarde e spade. Dai giorni che precedono la festa fino

    al gran banchetto di chiusura è un susseguirsi di lauti pranzi in cui tutte le specialità gastronomiche del Chietino fanno bella mostra: dai maccheroni alla chitarra, patrimonio di tutto l’Abruzzo, a un grosso vitello immolato per l’occasione, a certi pani molto grandi fabbricati proprio per questa festa, ai dolci casalinghi (pizzelle, nèvole) accompagnati da vini locali e dal « Corfinio », il liquore racchiuso nelle caratteristiche anfore disegnate dal Michetti. L’allegria è generale, e ad essa contribuiscono anche i tipici personaggi in costume, quali il « sergentiere », il « tamburiere », la moglie del « capobanderese », che costituiscono — pur nella serietà con cui assolvono i loro compiti — un variopinto insieme festaiolo. L’elemento religioso è evidente nella confessione dei banderesi, nelle visite che essi fanno alle varie chiese e nelle processioni che si snodano per le vie con gli immancabili carri agricoli preceduti dalla statua di Sant’Urbano.

     

     

     

     

    Il carro agricolo è ancora l’elemento essenziale delle principali feste del maggio molisano. Vere e proprie corse con buoi addestrati e carri a due ruote più leggeri di quelli normali si svolgono a San Martino in Pènsilis per San Leo (30 aprile), a Ururi per il « Legno della Croce » (3 maggio) e a Portocannone (il martedì dopo la Pentecoste), in onore della Madonna di Costantinopoli. Secondo la leggenda questa sarebbe giunta in paese su di un carro sfuggendo alla persecuzione dei Turchi, indubbia reminiscenza della fuga dei primi abitanti dalla madrepatria albanese. Grande è l’animazione dei vari « partitanti » nei giorni precedenti alla corsa, e tutta la vita si concentra intorno alle gare, dall’allestimento dei carri (ogni « partito » ne ha uno) al programma per i festeggiamenti della vittoria. Le corse di allenamento cominciano già la Domenica delle Palme. A San Martino in Pènsilis si collega la

    corsa alla leggenda del ritrovamento miracoloso dell’urna con le ossa di San Leo: dopo una disputa fra i vari signori per il possesso delle reliquie, dietro consiglio del vescovo di Larino, queste furono poste su un carro trainato da buoi che per ispirazione del Santo si arrestò in prossimità del paese. I « carrieri » si recano qui a « laudare la carrese », lunga nenia popolare che due persone intonano inneggiando alla primavera e chiedendo grazie al Santo davanti alla porta della chiesa a lui dedicata. Le corse dei carri prendono il via a qualche chilometro dagli abitati in una atmosfera rovente di scommesse e di previsioni. Il carattere a volte brutale della corsa è dimenticato negli immancabili banchetti e nelle processioni che i carri parati a festa seguono poi per le vie straordinariamente animate. Anche a Larino, per la Sagra di San Pardo (25-27 maggio), sono al centro delle manifestazioni, ma senza carattere agonistico, i carri trainati da buoi che, in numero di cinquanta, sfilano parati a festa in processione per le vie della città e verso il Monte Arone dove si conserva la statua del Santo.

    Il mese di maggio si presenta, come abbiamo visto, molto ricco di feste e di riti, che fanno pensare ad una connessione con il rigoglio della primavera. Nel Molise una tradizione, molto diffusa fino a qualche tempo fa e ancor oggi viva a Fossalto, celebra l’inizio del maggio con la « pagliara maie maie », strano appellativo dato a un uomo ricoperto di rami, foglie e fiori. Questi si sofferma ad ogni casa accompagnato da uno zampognaro e da un cantore che tesse le lodi del mese e della famiglia davanti alla cui porta il gruppo si è fermato. Gli vengono gettati addosso secchi d’acqua al grido di « grascia maie! », augurandogli così l’abbondanza, poiché si vede racchiuso nell’uomo che rappresenta l’albero (« u maio ») il simbolo della fertilità e della vitalità perenne della natura. Il rito ha termine con l’offerta di doni propiziatori.

     

     

     

    Quasi a conclusione del ciclo stagionale, quando al sopraggiungere dell’ottobre i pastori partono, troviamo la festa del solco a Rocca di Mezzo; si tratta di una gara notturna che vede i montanari tracciare con l’aratro solchi più diritti possibile sui fianchi del Monte Rotondo, al lume delle torce. Il giorno seguente i concorrenti, cogli aratri adorni di fiori e festoni, prendono parte alla processione e alla premiazione del vincitore.

    S’inseriscono infine nel contesto tipicamente agricolo-pastorale delle due regioni anche le varie feste e sagre in onore dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. Possiamo ricordare quella delle fragole in agosto alla Maielletta, le numerose sagre dell’uva nel Chietino, la fiera di San Pietro ad Isernia, vero trionfo dei bulbi di cipolla, la sagra della porchetta a Ripa Teatina e quella del « pitone » (è il nome che qui si dà al tacchino) a Nereto nel giorno di San Martino. E uno spettacolo particolarmente originale è quello offerto durante la sagra del grano — che si svolge il 26 luglio a Jelsi — dal corteo delle « traglie », antichissimi veicoli con scivoli ferrati al posto delle ruote, che sfilano pittorescamente adorni di covoni di grano.

    Artigianato e costumi.

    Espressione del sentimento popolare che si estrinseca talora in forme di notevole valore estetico, l’artigianato, fiorente nei tempi passati, è ancora ben vivo, soprattutto in Abruzzo.

    Essenzialmente legato alla vita dei pastori, ai loro quotidiani bisogni e all’impiego del loro tempo è l’artigianato del legno. Si tratta per lo più di oggetti di cui il pastore usa servirsi, come i lunghi bastoni (« angini » = uncini), che lo aiutano ad afferrare per una delle zampe posteriori la pecora da trarre fuori dal gregge, o quei cappi (« cacchi ») dalla forma ricurva con cui egli tiene ferme le pecore al momento della mungitura. O ancora gli stampi per il burro, che spesso rappresentano le tipiche figure della sposa in costume e del guerriero; gli sgabelli per mungere, le borracce, gli astucci, con simboli religiosi, floreali, motivi stilizzati e spesso con il nome del proprietario, la data e una frase di ricordo. Si nota sempre in questi artigiani la tendenza ad intagliare ed ornare con notevole senso artistico questi oggetti di uso comune. Tendenza che ritroviamo anche nella decorazione di cucchiai, mestoli, forchettoni, nei quali l’affinità con l’artigianato pugliese è spiegato dai lunghi contatti dovuti alla transumanza. Il centro dove queste forme di arte minore si sono maggiormente affermate è perciò un paese di pastori: Castel del Monte. Da ricollegarsi all’artigianato del legno sono infine i carri agricoli, diffusi specialmente nelle colline subappenniniche, che, come quelli delle vicine Marche, hanno decorazioni floreali molto ricche e vivaci.

    L’arte minore che in Abruzzo raggiunse un altissimo livello e della quale ancor oggi si mantiene viva la tradizione è quella dell’oreficeria. Bisogna però distinguere fra un’oreficeria religiosa che impiegò soprattutto l’argento ed ebbe il proprio fulcro a Guardiagrele e un’oreficeria di ornamento personale che ebbe il suo maggiore centro a Pescocostanzo. La prima ebbe nel medioevo e nel Rinascimento i periodi di più alto splendore. Gli orafi argentieri raggiunsero vertici di arte purissima nei loro paliotti, calici, ostensori, croci, e basterà ricordare il nome di Nicola da Guardiagrele per comprendere l’eccellenza artistica della produzione. A Pescocostanzo la tradizione, anch’essa illustre e antica, è tuttora viva e vivace, specialmente nei consueti lavori di filigrana, eseguiti con particolare cura e raffinatezza. Fra questi ricordiamo le spille, le « cannacche » (collane a grani ») e i « crinali » (spilloni per fermare i capelli o i fazzoletti sulla testa). Sono noti anche, sebbene di altra fabbricazione — affine a quella fiorentina dei « getti » — gli « odorini » (specie di portaprofumi) e i « testoni » (anelli d’oro con incisa una testa), entrambi cloni di fidanzamento.

    Nel Molise ritroviamo le « cannacche » talvolta un po’ variate di disegno e recanti un pendente a forma di stella con in mezzo due cuori, simbolo dell’amore. Sembra anzi che il centro di diffusione di questi pendenti, che troviamo anche in altre regioni del Mezzogiorno, sia proprio Agnone, dove l’arte dell’oreficeria fu molto prospera, Ancora in oro sono gli orecchini a cerchietti con piccole stelle appese all’interno, detti « palombelle », mentre d’argento sono i grandi spilloni che si appuntano sulla « mappa », e le « ciappe » a forma di cuore che vediamo rilucere sul corpetto del costume femminile di Roccamandolfi.

    Vedi Anche:  Uno sguardo al passato

     

     

     

     

    Anche l’arte del ferro battuto è stata fiorente in Abruzzo più che altro a Pesco-costanzo e Guardiagrele. Ce lo mostrano i bei balconi, le inferriate, i cancelli che ancor oggi si possono ammirare nel cuore dell’abitato. Per la lavorazione del rame sono soprattutto da ricordare le belle conche da acqua, anticamente poco ornate ed oggi invece ricche di decorazioni a incisione o a sbalzo.

    La notorietà della ceramica abruzzese è essenzialmente legata al nome di Castelli, la cui produzione ha influenzato quasi tutte le forme di questo artigianato nella regione. Qui fiorirono, fin dalla seconda metà del secolo XIII, veri e propri artisti della ceramica che, tramandandosi i loro modelli di generazione in generazione, dettero ai loro prodotti un alto valore estetico. Ma soltanto fra il Cinquecento e il Seicento, con Antonio Lolli si arrivò al distacco dai modelli faentini, per raggiungere poi con i Grue una particolare eccellenza e originalità nel disegno e nel colore. Questa attività svolta anche da altre famiglie fra cui primeggia quella dei Gentile, giunse in due secoli a tale sviluppo che verso la metà del Settecento esistevano a Castelli ben 35 fabbriche. La produzione, pur con alterne vicende di decadenza e di ripresa, non si è mai spenta, e ai grandi maestri del passato ha fatto seguito una nutrita schiera di discendenti e discepoli. Attualmente nel paese è sorto un apposito istituto statale d’arte che, provvedendo alla specializzazione dei giovani, assicura la continuità della tradizione. I colori predominanti erano, prima dell’Ottocento, il verde, l’azzurro e il giallo, poi anche il rosso, in composizioni di rara bellezza e vivacità cromatica; disegni svariatissimi — paesaggi, fiori, animali, argomenti di carattere religioso, storico o allegorico — adornano piatti, vasi di ogni tipo, mattonelle, fiasche.

    Un notevole centro di produzione di ceramiche è anche Rapino (Chieti), dove ci si basa essenzialmente sulla fabbricazione di piatti, vasi, fiasche con bei fiori e paesaggi dai luminosi colori. E la festosa gamma cromatica che distingue le ceramiche abruzzesi si ritrova ancora nei bei fiori simmetrici dei piatti di Bussi sul Tirino e in quelli stilizzati dei vasi e dei boccali di Palena. Un esempio di produzione più commerciale e in serie è dato dai prodotti di Lanciano — più che altro stoviglie — che ebbero una particolare diffusione ai tempi delle grandiose fiere ed assunsero un carattere proprio sia nelle forme che nei colori (soprattutto giallo, con verde e bianco). Nel Molise le ceramiche di Venafro ricordano la ricchezza decorativa abruzzese, mentre un carattere più originale hanno quelle di Campobasso, per lo più colorate in verde e ornate di animali o foglie in rilievo.

    Alla particolare grazia del lavoro femminile restano legati l’artigianato dei tappeti e quello dei merletti, che ebbero nelle due regioni periodi di notevole splendore. I più antichi esemplari di tappeti abruzzesi risalgono al Seicento, e il centro di maggiore e migliore produzione fu, fino a tutto l’Ottocento, Pescocostanzo; tale forma di artigianato si trova diffusa anche in altri luoghi come Castel di Sangro, Castel del Monte e Tarànta Peligna, nota ancor oggi per la fabbricazione delle caratteristiche « tarante », a motivi e colori molto vivaci. Bisogna però anzitutto precisare che per lo più questi non sono veri e propri tappeti da pavimento, bensì coperte da tavolo o da letto e soprattutto « bancali », cioè coperture per cassoni nuziali. Per la fabbricazione si adoperava la lana di pecora colorata naturalmente coi prodotti locali: zafferano per il giallo, foglie di mandorlo, frassino o faggio per le varie tonalità del verde, vinacce per il rosso e fuliggine con foglie di noce per il marrone che insieme al blu scuro è uno dei fondi tipici dei tappeti di Pescocostanzo. La tecnica di fabbricazione si avvicina alquanto a quella dei tappeti « Sumac », e forse per questo una leggenda vuole che essa sia stata importata in Abruzzo da schiave turche verso il Seicento. Si tratta di una tessitura che ricorda molto anche il ricamo, e in essa vengono create contemporaneamente fondo e disegno che, in un intrecciarsi di fili ad angolo retto, risulta stilizzato sul motivo principale della linea diritta. Gli ornamenti e le figurazioni si estendono a tutto il campo centrale, molto vasto, e ripetono i motivi della fontana d’amore, di animali stilizzati, della sirena, dell’Agnus Dei, insieme con altri talvolta tratti dal mondo agreste. Purtroppo l’arte di un tempo è scomparsa, anche se oggi questo artigianato, che ha trovato il nuovo centro all’Aquila, sembra riprendere vigore con la fabbricazione in serie di tappeti che seguono i modelli antichi. Anche nella lavorazione dei merletti le donne dell’Abruzzo e del Molise seppero raggiungere un livello notevole. I più belli risalgono al Cinquecento e, pur risentendo dell’influsso veneto, hanno spesso nel disegno caratteristiche prettamente locali.

    I merletti sono eseguiti a tombolo o a fuselli; in Abruzzo trovarono il loro centro soprattutto all’Aquila (è rimasto famoso l’originario « punto antico aquilano ») e a Pescocostanzo, luogo, quest’ultimo, dove da qualche decennio tale attività va rifiorendo. Anche nel Molise la tradizione non è spenta e ad Isernia si possono tuttora vedere nelle strade donne che in gruppo lavorano ai merletti (« pizzigli »), appoggiando il tombolo alla spalliera di una sedia o a uno speciale panchetto, in maniera del tutto simile a quella primitiva.

    Creazione anch’essi dell’artigianato locale, i bei costumi che una volta si potevano frequentemente ammirare sono ora relegati al rango di « costume » vero e proprio, vestito cioè di parata, riservato a giorni di feste particolari per motivi molto spesso più turistici che tradizionali. Nel passato le fogge dei costumi avevano una notevole varietà e differivano a seconda del luogo, della condizione e perfino dello stato civile di chi li portava; oggi essi sono ormai scomparsi come fatto normale anche nelle località meno esposte e più conservative.

    Fra tutti il più noto è rimasto in Abruzzo il costume femminile di Scanno che si può ancora vedere soprattutto di domenica. In esso il corpetto azzurro cupo, detto « comodino », ha sul dietro un lembo e sul davanti una striscia (« pettiglia ») con bei bottoni d’argento. E chiuso a giro collo lasciando intravedere il merletto increspato della camicia e le maniche sono larghe e pieghettate alle spalle e ai polsi. La gonna (« casacca »), anch’essa scura, ha fitte pieghe sul dietro ed è completata dalla « mantera », grembiule di lana che può essere di vari colori. La parte più originale del costume è il copricapo, formato dalla « tocca » nera e dal « fasciatoio » e chiamato « incappatura » nell’abbigliamento feriale, che si trasforma nei giorni di festa in « cappelluto » con l’aggiunta del « violetto » a righe verticali variamente colorate o anche di filigrana. I capelli, divisi in due bande, sono intrecciati a nastri e girati dietro le orecchie a formare due semicerchi. La singolarità non finisce comunque qui, perchè d’inverno a questo copricapo si aggiunge l’« abbruodaturo », fazzoletto scuro che copre la parte inferiore del viso e si annoda sopra il cappelluto.

    Originale anche il copricapo del costume di Pettorano sul Gizio, una grande « tovaglia » bianca sulla quale se ne appoggia una più piccola di un bel rosso vivo ; e quello di Roccamandolfi, col grande spillone d’argento che spicca sul fazzoletto variopinto chiamato « mappa ». Singolare ma sempre più raro — come del resto quelli finora descritti — è il costume di Boiano, con le maniche allacciate al corpetto per mezzo di nastri e la grande « mappa » bianca triangolare che, inamidata, rimane rigida sul capo.

     

     

     

    Per gli uomini poi sono ormai scomparsi i panciotti di panno, gli « zampitti », i cappelli a cono e tutte quelle fogge particolari oggi sostituite da normali capi di vestiario.

    Canti e danze popolari. Letteratura dialettale.

    In Abruzzo la musica e il modo di cantare, con modulazioni eseguite su scale poco comuni, hanno un carattere particolare e difficilmente confondibile con quello di altre regioni. E carattere particolare hanno anche i due strumenti che, accanto alla serie comune degli zufoli, degli scacciapensieri, delle varie cannule, restano i più tipici della regione: la zampogna e il piffero. La prima, diretta discendente della romana tibia utricularis, è di fattura alquanto più semplice della cornamusa inglese. Con quattro canne e un singolare sistema di fori soltanto in quelle laterali (quattro fori per ciascuna), mentre le due centrali ne sono prive, essa emette quell’inconfondibile suono arcaico che ancor oggi si può udire quando, all’approssimarsi del Natale, gli zampognari, nel loro tipico costume, vanno di città in città suonando le solite, semplici melodie. Il piffero, tagliato in diverse tonalità, è una specie di oboe con otto fori laterali e senza chiavi; un tempo, unito alla zampogna, formava con due dei suoi tipi (in re e in sol) il terzetto dei musici ambulanti che accompagnavano i canti popolari.

    Questi canti, prodotto tipico di un popolo semplice dedito per lo più all’agricoltura e alla pastorizia, s’ispiravano al lavoro dei campi, alla natura, alla gioia per un fatto agreste come la vendemmia o la mietitura. Ed è per quest’ultima soprattutto — per la raccolta del grano — che il canto si faceva più solenne, quasi rievocazione di un antico e sacro rito.

    Dalla culla alla tomba c’erano poi canti per ogni momento della vita. Semplici ninne-nanne, arie d’amore e a dispetto, « partenze », che i giovani pastori si radunavano a cantare sotto la finestra dell’innamorata prima di partire per la Puglia con i loro greggi. O ancora, testimonianza di uno spirito fondamentalmente religioso, nenie mistiche che s’ispiravano soprattutto alla Passione di Cristo e al dolore della Vergine.

    Infine i canti e le musiche che accompagnavano le danze popolari fra cui diffusissima l’aria della « saltarella » che veniva ballata durante le feste nuziali insieme al « ballo dello specchio » e a quello « del fazzoletto ». La saltarella è anche alla base di due balli figurati molto antichi della provincia di Teramo: il «laccio d’amore» di Penna Sant’Andrea e il « ballo dell’insegna » di Forcella.

    Tradizione abbastanza recente e del tutto diversa — se pure di carattere schiettamente canoro e popolare — hanno le « maggiolate » di Ortona, che tengono in vita forme regionali di musica e di dialetto in una specie di festival della canzone abruzzese. Uno spettacolo folkloristico di carri parati a festa con giovani in costume accompagna queste canzoni paesane e i bei cori, fra cui è rimasto celebre il « Vola, vola ». Sono però cori e canzoni che nulla hanno a che vedere con gli antichi canti, anche se di essi serhano la grazia e la melodia.

    Il più antico nome di poeta dialettale abruzzese è quello di Buccio di Ranallo, del quale conosciamo la data di morte (1363) e due opere: la Storia di Santa Caterina d’Alessandria e la Cronaca aquilana rimata. Quest’ultima narra la storia della città dalle origini al 1362, e nelle rime ruvide ma efficaci che la compongono troviamo espressa una sorta di austera impassibilità che porta l’autore a giudicare imparzialmente gli avvenimenti. Ritroviamo in Buccio l’influenza più o meno indiretta dei giullari e della poesia francese, che giungeva all’ambiente culturale dell’Aquila per il suo continuo contatto con la corte di Napoli. In una forma metrica propria della poesia didascalica e narrativa francese è anche il poemetto su Santa Caterina. Esso segue un filone molto diffuso nella letteratura medievale e rientra in quel genere di leggende sacre rimate che molto spesso erano lette durante le rappresentazioni drammatiche delle laude; queste, provenienti dalla vicina Umbria, trovarono in Abruzzo terreno fertile per attecchire con linguaggio e stile locali.

    La cronaca di Buccio diede luogo ad una ricca fioritura di seguaci, fra i quali per primo Antonio di Buccio che riprese la cronaca dal 1363 e la portò fino al 1381, e scrisse anche un poema sulla venuta di Carlo Durazzo. Niccolò Ciminello di Bazzano, sempre nel dialetto aquilano di Buccio, narra in 11 canti le vicende di Braccio da Montone durante la spedizione contro L’Aquila e, sebbene nella sua fantasia — imbevuto com’è di tradizioni bretoni e carolinge — gli eroi diventino paladini, la realtà storica dei fatti non ne soffre.

    A parte questi poeti-cronisti, la letteratura antecedente alla diffusione del toscano non registra cose originali o che abbiano una fisonomia spiccatamente regionale rispetto alla produzione, comune un po’ dovunque, di carattere religioso o giullaresco. Sono le solite leggende agiografiche sui santi, le canzoni epico-liriche che da Rinaldo alla « bella Cecilia » e alla « finta monacella », rimangono qui come in altre regioni prodotti d’importazione e in cui, d’altra parte, si comincia già a notare un’azione più marcata di livellamento linguistico a sfavore del dialetto.

    La tradizione del centro linguistico-culturale dell’Aquila prosegue — come fattore isolato però — nei sonetti di Mariano Mererio nel Cinquecento e in quelli di Loreto Mattei nel Seicento. Ma ormai, con la diffusione del toscano, il dialetto è senz’altro passato a un rango nettamente inferiore, e, riservato tutt’al più alle modeste espressioni della satira locale o dell’umile racconto religioso, comincia ad avere un carattere marginale rispetto alla letteratura ufficiale.

    Curiosità e tendenze più che altro folkloristiche portarono nell’Ottocento a un rinnovato interesse per le forme dialettali e, favorendo in un certo senso il risveglio del genere, dettero vita ad opere di qualche pregio. Ricordiamo fra le altre le comme-diole dialettali di Orazio Delfico, quelle di Luigi Anelli (Proverbi vastesi) e i suoi scritti (Macchiette vastesi). E ancora le poesie di Fedele Romani che con quelle di Alfredo Luciani e di Cesare de Titta esprimono compiutamente la vera anima del popolo d’Abruzzo. Di Cesare de Titta è interessante anche un tentativo di teatro dialettale, e, sempre con questo intento, la traduzione in abruzzese della Figlia di Iorio, che fu messa in scena a Pescara nel 1923.