Vai al contenuto

origine e nome molise e abruzzo


    LO SPAZIO ABRUZZESE E MOLISANO

    Origine ed estensione dei due nomi regionali.

    Molti studiosi hanno rivolto l’attenzione all’origine dei toponimi Abruzzo e Molise, ma fino ad oggi l’insufficienza delle fonti non ha dato la possibilità di dire a questo riguardo una parola chiarificatrice. Perciò il nome Abrutium o Aprutium rimane tuttora di significato oscuro, pur risultando piuttosto tardo: lo troviamo citato per la prima volta verso la fine del VI secolo in tre lettere di papa Gregorio Magno, una delle quali scritta al primo vescovo conosciuto di Teramo, Oportunus de Aprutio. E certo che tale toponimo si riferiva in quei tempi, e per vari secoli successivi, ad una sola parte della regione, quella più settentrionale fra i fiumi Tronto e Vomano, con il centro principale di Interamna (o Interamnia) Praetutiorum, l’attuale Teramo. Ed è proprio dai Pretuzii, abitanti di quel settore subappenninico, che Flavio Biondo da Forlì, storico umanista del Quattrocento, fece derivare l’origine del nome della regione. Ciò si spiega con un avvicinamento per aplologia fra ad Prae-tutium e Aprutium, che, anche se confutato da alcuni per una pretesa impossibilità di trasformazione fonetica, trova tuttora validi assertori. Il glottologo G. Bonfante ritiene invece che tale nome sia derivato da un gruppo di Bruttii rimasti nella regione prima di scendere più a sud, nell’attuale Calabria. E in fin dei conti sono queste le ipotesi più credibili: altri tentativi di spiegazione, da citare solo per curiosità, fanno derivare Abruzzo da abruptum per l’asprezza dei monti, da aper per la presenza dei cinghiali e perfino dalla forma originaria del nome degli aborigeni.

    Il nome Aprutium, comparso ufficialmente in epoca longobarda in uno dei sette gastaldati costituiti a sud del Tronto, corrispondente al Teramano, fu esteso sotto

    Federico II a un territorio ben più ampio, detto Justitieratus Aprutii, con capoluogo Sulmona, che si avvicina abbastanza ai limiti attuali. Da allora il nome fu adottato per tutta quanta la regione, benché della sua forma primitiva sia giunto a noi il ricordo soltanto nel nome della cittadina di Loreto Aprutino, in provincia di Pescara.

    Dalla seconda metà del XIV secolo, Abruzzo entrò in uso soprattutto al plurale, a causa della divisione del giustizierato in clue parti, effettuata da Carlo d’Angiò considerando come confine il fiume Pescara: Aprutiwn ultra et citra flumen Piscariae. Erano quindi due circoscrizioni (tre dal 1684) che nel loro insieme furono indicate con la voce Abruzzi, la cui tradizione può essere notata nei numerosi toponimi attuali (L’Aquila degli Abruzzi, Anversa degli Abruzzi, ecc.) contro uno solo espresso al singolare, cioè Schiavi di Abruzzo, in provincia di Chieti.

    Attualmente è degno di nota il fatto che la regione sia citata con la forma al plurale nel testo della nostra Costituzione. Malgrado ciò credo che, cessata la plurisecolare partizione, ormai solo la tradizione possa giustificare tale forma; ritengo quindi più corretta la voce Abruzzo, diretta derivazione dell’antico toponimo latino, anche in considerazione dell’unità organica regionale, che ha fatto altrove adottare Calabria in luogo di Calabrie e Puglia invece di Puglie.

    I limiti della Regio IV augustea,

    i popoli in essa inclusi e le principali vie romane (secondo P. Fraccaro).

    Per quanto riguarda il Molise, tale toponimo sostituì l’antico e glorioso nome di Sannio nell’alto medioevo, senza che se ne possano conoscere le ragioni. Nel XII secolo, in base alla divisione territoriale in contee da parte dei Normanni, ci troviamo di fronte alla costituzione di un Comitatus Molisii che prese il nome, a quanto pare, dal piccolo centro omonimo, situato nell’alto bacino del Trigno. Rimane il dubbio che la denominazione della vasta regione abbia potuto essere determinata da un borgo così piccolo, che mai è stato centro di fatti determinanti nella storia del paese, ma niente possiamo aggiungere in merito. Molise sembra derivato da una radice latina che ha per significato mola o macina di mulino, indizio delle colture cerealicole che anche allora venivano praticate su vasta scala, estensivamente.

    Mutevoli vicende delle circoscrizioni amministrative.

    Dall’intricato mosaico di popoli fieri delle loro tradizioni e della loro autonomia, solo la grande forza unificatrice romana poteva far nascere un primo organismo regionale. E ciò avvenne all’inizio dell’Impero, sotto Augusto, quando, divisa l’Italia in undici regioni, la Quarta (Samnium) comprese il Sannio e i territori dei Sabini, Equi, Vestini, Peligni, Marsi, Marrucini e Frentani. Molte erano, naturalmente, le differenze fra tale regione e l’Abruzzo e Molise attuali: a sudest mancava il territorio dei Larinates Frentani, aggregato alla Regio II, e a nordest quello dei Praetutii appartenente alla V; erano inclusi invece i territori sabini del Tiburtino, Nursino e Reatino che in seguito non hanno più fatto parte dell’Abruzzo. L’amministrazione civile e giudiziaria rimase municipale, in omaggio alle antiche autonomie, e il potere centrale si manifestò essenzialmente nella esazione delle imposte. Tale ordinamento durò per circa tre secoli, anche se con Adriano il potere centrale ebbe maggiore ingerenza, specialmente nell’amministrazione della giustizia.

    Con Diocleziano, ripartita l’Italia in otto regioni a loro volta suddivise in province, fu costituita nella nuova regione Samnium et Campania la Provincia Valeria con i territori dei Peligni, Marsi, Vestini e Sabini, mentre quella Sannitica si ridusse, oltre al Sannio vero e proprio, ai territori dei Frentani, dei Larinates e forse dei Marrucini, con limiti (a prescindere dal Sannio beneventano) che non si discostano molto da quelli del Molise attuale.

    Dopo un lungo, oscuro periodo caratterizzato dal disfacimento della potenza romana, per il quale le fonti sono per lo più frammentarie o incerte, nell’alto medioevo possiamo trovare notizia di un nuovo assetto territoriale dovuto ai Longobardi,

    con l’istituzione di sette gastaldati a sud del Tronto che rispondevano ai nomi di Aprutium, Pinne, Teate, Marsi, Amiterno, Forcona e Valva. Di essi non è possibile conoscere i confini, ma già il loro nome è quanto mai indicativo: si può dedurre infatti che in tali circoscrizioni rientrassero l’attuale territorio collinare fra il Tronto e lAlento e, all’interno, l’Abruzzo aquilano, le conche del Fucino e di Sulmona e le zone montane adiacenti. Sull’organizzazione territoriale a sud dell’Alento e nel Molise non sappiamo molto, eccettuata l’istituzione del gastaldato di Boiano e la creazione di un notevole numero di fare, tipiche comunità patriarcali longobarde, nella regione intermedia, delle quali rimane il ricordo del nome degli attuali centri di Fara Filiorum Petri e Fara San Martino, in provincia di Chieti. Con tale organizzazione l’antico Sannio, fino a Chieti, si trovò a far parte del Ducato (in seguito, dal 774, Principato) di Benevento, mentre i gastaldati più a nord appartennero al Ducato di Spoleto.

    La rappresentazione, estremamente distorta e imprecisa dell’Abruzzo e Molise nella carta di Pyrrho Ligorio,

    appartenente all’edizione del 1575 del « Theatrum Orbis Terrarum » dell’Ortelio.

    Dalla metà del IX secolo abbiamo notizia di un nuovo e più forte organismo politico autonomo, la contea di Marsia, nata nel cuore dell’Abruzzo dall’unione di varie contee minori, la quale spinse la propria giurisdizione fino a Chieti.

    Con i Normanni l’ordinamento politico-amministrativo subì cospicui mutamenti: nel 1033 il Principato di Benevento scompariva, diviso fra Ducato di Puglia e Principato di Capua, mentre la città formava un enclave sotto la giurisdizione della Chiesa; a nord, dal Ducato di Spoleto si era distaccato un vasto territorio appartenente al Ducato di Fermo, che degli antichi gastaldati aveva incorporato l’Aprutium e Pinne. Del Ducato di Puglia fece parte, oltre al Molise, il versante adriatico abruzzese a sud di Chieti. Ed è con i Normanni che alle contee si sostituiscono i giustizierati, sotto il diretto controllo dell’autorità centrale; nel 1143 cade la potente Contea di Marsia che viene incorporata nel Regno.

    L’Abruzzo Ultra alla fine del Seicento da una delle carte inserite nell’opera del Pacichelli (Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli, 1703).

     

     

     

    L’Abruzzo Citra alla fine del Seicento, dall’op. cit. del Pacichelli.

    Si inizia così il lento processo di unificazione politica del Mezzogiorno, che può dirsi in gran parte portato a compimento sotto il re Ruggero. Unico forte organismo autonomo è il Comitatus Molisii, specialmente fra il 1154 e il 1160 sotto il conte Ugo II.

    La monarchia sveva, continuando l’opera unificatrice normanna, perfezionò l’istituzione dei giustizierati, ampliandoli e fissandone con precisione i confini. Nel 1234, come già accennato, sotto Federico II comparve lo Iustitieratus Aprutii, con capoluogo a Sulmona, corrispondente a buona parte dell’attuale Abruzzo, il cui confine meridionale, al fiume Sangro, lo separava dal Molise e dal giustizierato di Terra di Lavoro.

    Carlo I d’Angiò non mutò in linea generale il precedente assetto politico-amministrativo, e nel 1272 suddivise il troppo ampio giustizierato abruzzese in due parti, citra et ultra flumen Piscariae, con capitale L’Aquila, mentre capoluogo e unica sede di Udienza della regione divenne la città di Chieti al posto di Sulmona, la fedelissima degli Svevi. Il confine fra i due Abruzzi, ben delimitato dalla Pescara, si faceva più complicato e tortuoso a monte di Pòpoli. All’Abruzzo Citeriore appartenevano la conca peligna, la valle del Sagittario, l’altipiano delle Cinquemiglia con Pescocostanzo, Roccaraso e Rivisóndoli, la valle del Sangro fino a Pescassèroli e lembi dell’attuale Molise, come Agnone, Forlì del Sannio e le terre della Badia Vulturnese fino a Colli e Fornelli; l’Abruzzo Ulteriore era formato dai rimanenti territori fino a Tagliacozzo, alla montagna aquilana e al fiume Tronto.

    Nello stesso anno il Molise, da lungo tempo appartenente ai conti di Celano, perse definitivamente la propria tradizionale autonomia, assorbito dal demanio e aggregato al giustizierato di Terra di Lavoro; a questo apparterrà fino al 1538, anno in cui sarà unito all’Udienza di Capitanata.

    Il Contado del Molise ai primi del Settecento nella carta maginiana riveduta ed aggiornata da Domenico Rossi (1714).

    Così i lineamenti dell’Abruzzo erano stati durevolmente fissati, anche se è naturale che in seguito si siano verificate talvolta alcune variazioni territoriali, non tanto a nord quanto a sud, al confine col Molise, ma tutte quante di lieve entità. Sotto gli Aragonesi, ad esempio, furono distaccate dall’Abruzzo Citra e aggregate alla Terra di Lavoro e Molise le terre della Badia Vulturnese. Ed è del 1641, durante il dominio spagnolo, l’istituzione di un’Udienza speciale per l’Abruzzo Ulteriore e la nomina di un governatore (o preside) nella città dell’Aquila, che solo allora divenne capoluogo amministrativo, spartendo tali funzioni con Chieti che prima ne era l’unica depositaria.

    Soltanto nel 1684, fautore il viceré Marchese del Carpio, fu costituita una nuova Udienza a Teramo, con giurisdizione su tutto il territorio adriatico dell’Abruzzo Ultra, ma ufficialmente la suddivisione della regione in Ultra I e Ultra II fu sancita agli inizi del 1807 da Giuseppe Bonaparte. Nello stesso periodo il Molise, dopo tanti secoli, ebbe nuovamente una propria fisionomia amministrativa e giuridica, con l’elevazione a provincia limitata ai distretti di Campobasso e di Isernia e comprendente dopo qualche anno anche il territorio di Lari no, distaccato dalla Capitanata.

    Con la restaurazione borbonica tale sistemazione divenne stabile per 44 anni: con la legge organica del i° maggio 1816 furono riconfermati il Molise, con capoluogo Campobasso, e il triplice Abruzzo, con i capoluoghi dell’Aquila, Teramo e Chieti. La ripartizione regionale era imperniata sulle province rette da un Intendente e divise in distretti, circondari e comuni. La provincia di Molise era formata da 3 distretti: Campobasso, con 15 circondari divisi in 57 comuni; Isernia, con 9 circondari divisi in 46 comuni; Larino, con 9 circondari divisi in 34 comuni. L’Abruzzo Citeriore era formato da 3 distretti : Chieti, 8 circondari e 41 comuni ; Lanciano, 9 circondari e 40 comuni; Vasto, 8 circondari e 40 comuni. L’Abruzzo Ulteriore i°, 2 distretti: Teramo, io circondari e 39 comuni; Penne, 5 circondari e 26 comuni. L’Abruzzo Ulteriore 2°, 4 distretti: Aquila, 9 circondari e 47 comuni; Solmona, 7 circondari e 27 comuni; Avezzano, 8 circondari e 33 comuni; Città Ducale, 8 circondari e 17 comuni.

    A questo assetto regionale, ormai affermato da lunga tradizione, portò un considerevole mutamento l’Unificazione. Nel 1860 Benevento cessò di essere un exclave dello Stato Pontificio e fu annesso col territorio del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. Inserita nella regione campana, l’importante città doveva senz’altro divenire capoluogo di provincia, e questa fu formata con territori delle circoscrizioni circostanti. Il Molise perse, con il suo lembo più meridionale, i circondari dell’alto Fortore (Basèlice) e dell’alto Tàmmaro (Colle, Santa Croce, Morcone, Pontelandolfo), per un totale di 15 comuni. La perdita fu ampiamente compensata dalla contemporanea acquisizione dell’alto Volturno, da Pizzone a Presenzano, comprendente fra l’altro la ricca piana di Venafro; i 13 comuni furono tolti alla vastissima provincia campana di Terra di Lavoro.

    Variazioni territoriali avvenute nelle due regioni dal 1860 ad oggi.

    1, Comuni distaccati dalla Terra di Lavoro e aggregati al Molise nel 1861; 2, Comuni distaccati dal Molise e aggregati alla costituita provincia di Benevento nel 1861; 3, Comuni distaccati dalla provincia di Benevento e aggregati al Molise nel 1927; 4, Comuni distaccati dalla Terra di Lavoro nel 1861 e aggregati al Molise. Distaccati dal Molise e aggregati alla provincia di Caserta nel 1878; 5, Comuni distaccati dalla soppressa provincia di Caserta e aggregati al Molise nel 1927. Tornati alla ricostituita provincia di Caserta nel 1945; 6, Comuni distaccati dalla provincia dell’Aquila e aggregati alla costituita provincia di Rieti nel 1927.

    Anche la struttura amministrativa delle regioni fu semplificata, con la suddivisione delle province, rette da un Prefetto, in circondari, corrispondenti agli antichi distretti, e in comuni. Il numero dei capoluoghi dei circondari rimase quindi invariato : tre nel Molise e nove nellAbruzzo, fra i quali Solmona e Città Ducale variarono il nome nella forma attuale di Sulmona e Cittaducale. Nel 1863, in seguito ad una revisione generale della toponomastica, un cospicuo numero di comuni subì aggiunte al nome originario spesso troppo generico. Fu così che, tanto per dare degli esempi, San Demetrio divenne San Demetrio ne’ Vestini, Cellino divenne Cellino Attanasio, Castiglione (CH) divenne Castiglione Messer Marino; molto minori furono i casi di mutamento del toponimo, come Fossaceca che divenne Fossacesia. Nello stesso anno scomparve anche l’antica denominazione dei tre Abruzzi, prendendo ogni provincia il proprio nome dal rispettivo capoluogo, e l’Abruzzo e Molise formarono un’unica regione.

    Eccettuata la restituzione a Caserta, nel 1878, del comune di Presenzano, troppo eccentrico per dipendere da Campobasso, nessun’altra variazione avvenne fino al 1927. L’esigenza di dare un nuovo assetto amministrativo allo Stato, dopo oltre mezzo secolo di vita unitaria, stimolò profondi mutamenti che interessarono sostanzialmente anche lAbruzzo e Molise. Alle quattro province tradizionali fu aggiunta quella di Pescara, il cui capoluogo, con la fusione dei due centri di Pescara e di Castellammare Adriatico, rivelava uno sviluppo urbano ed economico tale da esser preso in seria considerazione nell’ambito regionale. La provincia fu formata da 49 comuni, dei quali 32 appartenenti a Teramo, 15 a Chieti e soltanto 2 (Pòpoli e Bussi) all’Aquila.

    Ma l’Abruzzo ebbe una notevole mutilazione a nordovest, con il distacco di tutti i comuni del circondario di Cittaducale (ben 1362 kmq con 70 mila ab.), aggregati alla nuova provincia di Rieti. A tale decurtazione corrisponde a sud un’aggiunta: con la soppressione della provincia di Caserta furono aggregati al Molise 7 comuni relativi a un lembo della valle del Volturno e al versante occidentale del Matese (Pratella, Gallo, ecc.) e inoltre il comune di Cercemaggiore fu restituito dalla provincia di Benevento.

    Del 1927 è anche la soppressione dei circondari, in modo che l’ordinamento amministrativo si basò da allora unicamente sulle province e sui comuni; molti di questi furono aboliti ed aggregati ad altri più importanti, in base a princìpi di natura economica che prescindevano dal rispetto delle tradizionali autonomie talvolta plurisecolari. Da allora fino all’ultimo dopoguerra poche furono le variazioni: più che altro fu ricostituito un certo numero di comuni soppressi nel 1928 e, per quanto riguarda i toponimi, nel 1938, in omaggio alla retorica romana del tempo, Vasto fu mutato in Istonio, ma solo fino al 1945.

    In tale anno, essendo stata di nuovo formata la provincia di Caserta, le furono restituiti da quella di Campobasso i sette comuni aggregati nel 1927. I mutamenti successivi non hanno più riguardato la regione o le province, ma soltanto alcuni territori comunali. Dal censimento del 1951 ad oggi è degna di nota la creazione, in provincia di Teramo, dei nuovi comuni di Alba Adriatica (1956), con il vivace centro balneare che prima si chiamava Tortoreto Stazione, e di Martinsicuro (1963); a ciò si aggiunga la ricostituzione, in provincia dell’Aquila, dei due comuni di Sant’Eusanio Forconese e di Villa Sant’Angelo, distaccati da San Demetrio ne’ Vestini (1954) e, in provincia di Chieti, dei comuni di Pietraferrazzana (1963) e di Fallo (1964), staccati rispettivamente da Colledimezzo e da Civitaluparella. Il più recente esempio di cambiamento di toponimo è dovuto a Buonanotte, in provincia di Chieti, che nel giugno 1969 ha mutato il proprio nome in Montebello sul Sangro.

    Un particolare rilievo ha avuto infine, nel dicembre 1963, il riconoscimento ufficiale del Molise come nuova unità statistico-amministrativa distaccata dall’Abruzzo; fatto che in pratica ha avuto per ora ben poche conseguenze ma che potrà avere un’importanza rilevante allorché ad ogni regione sarà concessa l’autonomia politico-amministrativa, nel quadro costituzionale della Repubblica.

    L’Abruzzo e il Molise attuali: posizione, confini, estensione.

    Guardando le due regioni su di una carta, le vediamo estendersi al centro della penisola, vòlte all’Adriatico e giustapposte, l’Abruzzo al Lazio e il Molise alla Campania, con una simmetrica corrispondenza sul versante tirrenico. Considerandole unitamente, esse raggiungono a nord, alla foce del Tronto, 420 54′ di latitudine, e a sud, sulla Costa Stotera presso Sepino, 410 22′. Riguardo alla longitudine con riferimento a Monte Mario, l’Abruzzo e il Molise sono compresi fra o° 34′ est presso Orìcola (Abruzzo) e 20 43′ est alla confluenza del Tona nel Fortore (Molise). I punti estremi, estendendosi il territorio da nordovest a sudest, distano circa 180 km. in linea retta sia per la latitudine che per la longitudine, in modo che le due regioni prese in blocco possono essere ben rappresentate in un quadrato.

    Il parallelo medio dell’Abruzzo passa nel Lazio fra i laghi di Vico e di Bracciano, quello del Molise passa all’incirca per Velletri. Tale posizione è stata considerata determinante da alcuni autori per assegnare non solo l’Abruzzo ma anche il Molise all’Italia centrale. Ma il problema è più complesso di quanto non sembri a prima vista, e riveste anche una certa importanza, dato che in varie statistiche riassuntive l’Italia viene ripartita in settentrionale, centrale e meridionale.

    Il Molise, per quanto strettamente unito nell’ultimo secolo all’Abruzzo, rivela inconfondibili caratteri meridionali. Una prima ragione può essere il fatto di costituire una parte di quella più vasta regione storica del Mezzogiorno chiamata Sannio, che ancora è ben viva in tanti toponimi e che si estende dall’alto Molise fino ai rilievi a sud di Benevento. Da un punto di vista storico si può aggiungere che, pur prescindendo dal plurisecolare legame col Mezzogiorno, comune del resto anche all’Abruzzo, è da tenersi in seria considerazione la lunga unione del Molise con la Terra di Lavoro e, in seguito, con la Capitanata, che ha determinato verso di esse (e verso Napoli) un’indubbia gravitazione antropica ed economica. Giova notare inoltre che i limiti peninsulari sono concepiti perpendicolarmente rispetto all’asse orografico, e non secondo i paralleli: pressappoco alla latitudine di Roma si trova, ad esempio, il Gargano, che nessuno ha mai pensato di attribuire all’Italia centrale.

    L’abitato di Poggio Cancelli,

    posto al margine nord-occidentale del bacino di Campotosto, presso il confine dell’Abruzzo con il Lazio (Conca di Amatrice).

    L’Abruzzo si presta invece ad altre considerazioni che a mio parere contrastano con i secoli di appartenenza ad un più o meno unitario Stato meridionale. Gli stretti rapporti con il Lazio, l’Umbria e le Marche, il convergere su Roma delle principali direttrici di comunicazione, il limite fra Appennino centrale e meridionale che assegna al primo i massicci abruzzesi e al secondo i rilievi terziari molisani, sono tutti motivi che avvicinano la regione all’ambito dell’Italia centrale, malgrado forme di economia che si accostano in buona parte a quelle caratteristiche meridionali. Pur contro il parere di qualche illustre geografo, non riterrei perciò di considerare l’Abruzzo appartenente perentoriamente all’ambito del Mezzogiorno. Siamo di fronte a una tipica terra di transizione dove troppi elementi si mescolano in forme assolutamente originali e dove così molteplici sono le differenze fra una plaga e l’altra, da non poter esprimere al riguardo una precisa e sicura valutazione.

    Vedi Anche:  Uno sguardo al passato

    Come in altre regioni italiane, così anche nell’Abruzzo e nel Molise i confini mal si adattano all’orografia e all’idrografia alquanto complesse, avendo influito su di essi in maniera determinante cospicue eredità storiche ed etniche che hanno lasciato fino ad oggi un’impronta durevole.

    A nord il Tronto separa l’Abruzzo dalle Marche per una ventina di chilometri, indi il confine, allontanandosi da Ascoli Piceno, segue per un notevole tratto il corso del torrente Castellano, si innalza a toccare le cime più elevate dei Monti della Laga, discende sullo spartiacque tortuoso fino alla Sella di Corno e risale poi alle zone più alte del gruppo del Velino, senza però raggiungere la cima, lasciando al Lazio gli alti bacini del Velino e del Salto. Si può dire che fino a questo punto il confine, prima fluviale poi di spartiacque, segua con una certa precisione dei limiti fisici. Ma proseguendo da qui verso ovest, ben spiccate sono le anomalie: il confine taglia la valle del Salto, risale le pendici dei Monti Carseolani e compie un ampio arco attorno alla piana del Cavaliere, includendo in tal modo il bacino sorgentifero del Turano. Risale poi sulla dorsale dei Monti Simbruini ed Ernici, includendo nel territorio abruzzese l’alta valle del Liri (Val Roveto) che taglia fra Balsorano e Sora per salire nuovamente ai monti del Parco Nazionale fino al nodo orografico della Meta.

    Qui inizia il confine fra l’Abruzzo e il Molise, che discende tortuoso al fiume Sangro, lo abbandona dopo una quindicina di chilometri per volgere verso sudest a toccare l’alto Trigno presso Salcito e infine segue per intero il corso di questo fiume abbandonandolo soltanto a sette chilometri dalla foce per raggiungere l’Adriatico leggermente più a nordovest, presso San Salvo. Dalla Meta il limite regionale molisano prosegue a mezza costa sulle Mainarde, serpeggia sui rilievi che degradano al Volturno e dopo essere passato fra le piane di Cassino e di Venafro ed avere attraversato la valle a monte di Presenzano, si inerpica sul Matese seguendo, tranne che per la cima più elevata (Monte Miletto), lo spartiacque. Dai pressi di Venafro è già iniziato il confine con la Campania, alquanto recente e più volte modificato, che dopo il Matese si snoda sugli ondulati Monti del Sannio, includendo l’alto Tàmmaro (bacino del Volturno) e lasciando invece alla Campania l’alto Fortore. Toccando infine la Puglia, il limite segue per un lungo tratto il corso del Fortore, poi se ne discosta per volgere a nord fino all’Adriatico.

    Area di culminazione e vetta della Meta (rilievo a sinistra), punto triconfinale fra Abruzzo, Molise e Lazio.

    Entro questi limiti l’Abruzzo e il Molise si estendono rispettivamente per 10.794 e 4438 kmq.; delle province abruzzesi, L’Aquila è di gran lunga la più vasta (5034 kmq.); seguono Chieti (2587 kmq.), Teramo (1948 kmq.) e Pescara che con 1225 kmq. risulta una delle meno estese province italiane.

    Ambedue le regioni sono bagnate dal mare, ma in complesso, benché i rilievi siano più alti e impervi nell’Abruzzo, questo ha una maggiore marittimità, mentre il Molise è più interno. Infatti per il primo il confine terrestre è di 487 km. rispetto allo sviluppo delle coste di 129 km., mentre per il secondo le rispettive cifre sono di 394 e 38 km. E volendo specificare, troviamo l’Abruzzo confinante per 135 km. con il Molise, 286 con il Lazio e 66 con le Marche; il Molise — oltre che con l’Abruzzo — per 83 km. con la Puglia, 142 con la Campania e 34 con il Lazio.

    In definitiva siamo di fronte a due regioni che, pur inserite al centro della penisola, hanno in comune spiccati caratteri di continentalità. E ciò si è sempre manifestato sia per la scarsità di coste portuose, essendo per lunghi tratti la cimosa litoranea bassa e sabbiosa, sia per la millenaria tradizione di popoli che si sono volti sempre all’interno del Paese, verso il Tirreno senza mai raggiungerlo, ma non per tendere al mare, bensì alle fertili pianure costiere. Si può dire che le tradizionali fonti di vita e di lavoro, cioè l’allevamento e l’agricoltura, abbiano fortemente contribuito a dare alle due regioni la fisionomia e i confini odierni. Prova di tale tendenza è il fatto che i territori abruzzesi e molisani posti al di fuori degli stretti limiti fisici sono al di là dello spartiacque adriatico, su vie di penetrazione verso vaste pianure del Lazio e della Campania: le alte valli del Salto, del Turano e del Liri per l’Abruzzo, l’alto Volturno e il bacino sorgentifero del Tàmmaro per il Molise.

    LINEAMENTI E FORME DEL RILIEVO

    Aspetti generali del rilievo.

    L’Abruzzo appare nettamente diviso in due parti ben distinte che ne possono giustificare l’utilizzazione del nome al plurale, ormai superata da un punto di vista storico-amministrativo. Esistono in effetti due Abruzzi, che la diversità morfologica indubbiamente condiziona anche in chiare differenze antropiche ed economiche. All’interno, l’Abruzzo montano dalle cime calcaree aspre ed elevate che costituiscono la maggiore massa montuosa appenninica, dagli estesi altipiani carsificati, dalle vaste conche intermontane ; sul basso versante adriatico l’Abruzzo marittimo, dalle tenui colline degradanti verso il mare, dal largo letto ghiaioso dei fiumi, dalle marine biancheggianti lungo i vasti arenili.

    Il crinale appenninico, che a nord funge da spartiacque e che a sud si frantuma in grandi blocchi privi di unità orografica, diviene in questo settore meridionale più vario, più complesso. Siamo qui in un’area di transizione geomorfologica: presso il margine settentrionale abruzzese passa quell’ideale linea retta fra Ancona ed Anzio che i geologi indicano come divisione fondamentale dell’Appennino in due sezioni distinte da un diverso stile tettonico. Da una parte la cosiddetta facies occidentale (umbro-marchigiano-sabina) nella quale si hanno in materiali più o meno plastici varie serie di pieghe con sovrascorrimenti marginali, dall’altra quella di facies orientale (abruzzese-laziale-campana), con masse rigide di base e con gran numero di fratture e di faglie. Per facies abruzzese s’intende quindi in sostanza un esteso sistema prevalentemente calcareo-dolomitico nel quale le faglie, seguendo le due principali direttrici tettoniche (appenninica e tirrenica), spesso s’incrociano separando talvolta i massicci e determinando quegli sprofondamenti che sono stati la prima origine delle grandi conche intermontane. Ma il fenomeno di spezzettamento delle individualità orografiche non è certo pronunciato come nell’Appennino Campano: la morfologia è di transizione, intermedia fra quella umbra a sbarre e quella campana a blocchi isolati.

    Il Corno Grande (m. 2912), nel gruppo del Gran Sasso d’Italia, tetto della Penisola.

    Imponenti e compatti, i rilievi si allineano su tre direttrici quasi parallele, il cui aspetto generale di catene discontinue ha indotto in perplessità qualche autore,

    Carta oro-idrografica.

    facendo adottare (Ortolani, Demangeot) l’originale e discusso appellativo di Cordigliere abruzzese per la più esterna. Il principale fattore che accomuna tali rilievi, in connessione con la suddetta facies orientale, è la prevalenza assoluta dei calcari i quali, pur appartenendo a diversi periodi geologici, dal trias superiore al miocene medio, non danno luogo a frequenti e spiccate differenziazioni morfologiche.

    Si può dire che le forme fondamentali siano essenzialmente due, e su di esse più che altro ha influito una certa diversificazione del modellamento glaciale: creste aguzze che sormontano pareti verticali, aspre e dirupate, contrapposte a forme estremamente massicce e cupoleggianti, dalle alte superfici spoglie e sassose. Per il resto, il cospicuo numero di piani carsici e con essi la presenza di vaste plaghe con idrografia superficiale mancante o ad incerto deflusso testimoniano l’uniformità di effetti dell’azione carsica sulle masse rigide fratturate.

    Stratificazioni marmoso-arenacee nei Monti della Laga.

    Soltanto all’estremità nordoccidentale i terreni marini miocenici dei Monti della Laga interrompono bruscamente questo motivo morfologico dominante, innalzando potenti stratificazioni marnoso-arenacee oltre i 2000 m., inequivocabili testimoni della grande importanza che qui assumono anche gli intensi e periodici moti di sollevamento che indubbiamente hanno interessato tutta quanta la regione.

    Siamo al margine settentrionale dell’Appennino Abruzzese, separato dai Monti Sibillini per mezzo della profonda vallata del Tronto. Ha inizio qui l’Arco abruzzese esterno che separa dal mare il cuore della penisola con un poderoso allineamento di masse orografiche le quali, pur non costituendo lo spartiacque a causa di un’anomalia oro-idrografica, raggiungono le maggiori altitudini dell’Appennino. I massicci si susseguono da nordovest a sudest con andamento leggermente convesso verso l’interno, dove le ripide pendici cadono nel solco tettonico percorso dal fiume Aterno e sulla conca peligna.

    Il Passo delle Capannelle (m. 1283), fra l’estremità settentrionale della conca aquilana e l’alto Vomano, separa i Monti della Laga dal Gran Sasso d’Italia, che estende per oltre quaranta chilometri le grandi masse calcaree su un duplice allineamento di cime che coronano ad est la vasta depressione carsica del Campo Imperatore. La maggiore altezza è raggiunta dal Corno Grande (m. 2912), mentre molte altre cime si ergono al di sopra dei duemila metri: Corno Piccolo, Pizzo d’Intermèsoli, Monte Camicia, ecc. Dall’estremità orientale del Campo Imperatore, il massiccio procede fino alle gole di Pòpoli su un’unica dorsale che incombe con il versante orientale sulle colline argillose del Subappennino e degrada ad ovest con una serie di piani carsici a varia altitudine verso l’Aterno.

    Da questa lunga e stretta gola che è la più agevole via di penetrazione dell’Abruzzo dalla sponda adriatica, l’asse orografico procede verso sudest con la Montagna del Morrone (m. 2061), erto bastione che sovrasta la conca di Sulmona. Il rilievo s’incunea nel fianco occidentale della Maiella mediante una dorsale che discende all’insellatura del Guado San Leonardo, indi risale ripidamente fino al Monte Amaro (m. 2793), massima altitudine del massiccio e seconda dell’Italia peninsulare. Il fianco sudorientale della Maiella scende precipite sulla valle dell’Aventino, separato per mezzo del valico della Forchetta (m. 1276) dalla dorsale del Monte Sécine (m. 1883), ultima appendice dell’Arco abruzzese esterno che termina al solco del Sangro; un’altra dorsale ha fine sugli alti bacini carsici di Pescocostanzo e di Roccaraso con il Monte Rotella (m. 2127).

    Il secondo allineamento di massicci, l’arco abruzzese interno, è situato fra i due grandi solchi tettonici longitudinali dell’Aterno e del Salto-Liri. Ha inizio a nord con il Monte Nuria (m. 1888), che la valle del Velino separa dal gruppo del Terminillo, e dopo l’insellatura della Forca (m. 1350) sale a superare i duemila metri nei due poderosi massicci del Monte Velino (m. 2486) e del Monte Sirente (m. 2348), divisi dagli altipiani carsici delle Rocche.

    La mole compatta della Maiella veduta dalla Maielletta.

    Roccaraso e la montagna della Duchessa.

     

    Quaternario, i, Olocene: alluvioni e spiagge attuali e recenti (limi, sabbie, ghiaie), depositi travertinosi, detriti di falda; 2, Pleistocene (facies continentali): alluvioni terrazzate, depositi lacustri (argille, limi, sabbie e ghiaie), detriti di falda, depositi morenici. — Serie argilloso-arenacee pleisto-mioceniche. 3, Pleistocene-Pliocene (facies marine): argille e sabbie marine; 4, Miocene medio superiore: marne e arenarie. — Serie fliscioidi miocenico-cretacee. 5, argille varicolori caotiche, con masse calcaree inglobate; 6, arenarie e, subordinatamente, marne; argille, marne, arenarie e brecciole calcaree. — Serie carbonatiche mesozoico-cenozoiche. 8, Facies abruzzese: calcari e dolomie neritici; 9, Facies di transizione: calcari, dolomie, marne e conglomerati; 10, Facies umbro-marchigiana : calcari, dolomie, diaspri, marne e arenarie, neritici nella parte bassa (Trias sup. ; Lias inf.), poi pelagici.

    A sud, dopo la Forca Caruso, una stretta, allungata dorsale calcarea raggiunge la Montagna Grande (m. 2208) e il Monte Marsicano (m. 2245). La valle del Sagittario e del Tasso e l’alto valico Fonte di Pantano (m. 1553) dividono questa dorsale dall’altra, ad essa parallela, che culmina a nord nel Monte Genzana (m. 2170) e a sud nel Monte Greco (m. 2285). Anche l’arco interno ha come limite meridionale il solco trasversale del Sangro e si raccorda con quello esterno per mezzo dell’altipiano delle Cinquemiglia, che divide la dorsale del Monte Genzana da quella del Monte Rotella.

    La serie più interna dei rilievi è dominata dall’esteso gruppo dei Monti Simbruini e degli Ernici, compatta massa calcarea che supera di poco i duemila metri in alcune cime e che appartiene solo in parte all’Abruzzo, come del resto, più a nord, al di là del valico di Monte Bove (m. 1205), i meno elevati Monti Carseolani. La compattezza del rilievo è interrotta dal solco del Liri, oltre il quale un’aspra catena prosegue verso sudest fino ai monti del Parco Nazionale, con cime poco al di sotto dei duemila metri e al gruppo della Vieta (Monte Petroso, m. 2249), terminando con le creste calcaree delle Mainarde che dominano l’alto bacino del Volturno.

    Al margine meridionale dei grandi massicci calcarei abruzzesi ci troviamo di fronte a quella che il Demangeot chiama « facies molisana », composta essenzialmente di scisti argillosi bruni o verdastri (argille scagliose) con inglobati materiali vari, sia arenacei che calcarei, che danno luogo alle cosiddette formazioni del flysch, così diffuse nell’Appennino meridionale dal Molise fino alla Basilicata. Queste formazioni determinano a sud un vero e proprio limite fisico fra Abruzzo e Molise, mentre a nord, sulla fascia adriatica, si estendono come un cuneo oltrepassando il solco del Sangro, fino alla Pescara. Per lo più eocenico, il flysch è quindi geologicamente contemporaneo alla maggior parte dei massicci abruzzesi, mentre la morfologia che ne deriva è estremamente differente, a rilievi arrotondati e di mediocre altezza, facilmente erodibili e scalzati alla base da fenomeni, talora imponenti, di degradazione meteorica.

    Il Monte Capraro, uno dei maggiori rilievi del Molise, veduto da Capracotta. In primo piano, vaste distese coltivate a cereali e patate.

     

     

     

    Carta geotettonica dell’Abruzzo centro-settentrionale, secondo J. Demangeot.

    i, massicci calcarei e faglie; 2, depositi quaternari; 3, molasse dell’« Avampaese adriatico» e della Laga; 4, gole di erosione; 5, antichi emissari asciutti.

    I tre principali fiumi molisani, Trigno, Biferno e Fortore, inquadrano i rilievi scavando profonde ed ampie valli trasversali nelle tenere rocce eoceniche, poi nei materiali pliocenici e quaternari, serpeggiando nel caotico avvicendarsi di ripiani livellati, gobbe, depressioni. Siamo ben lontani dalla disposizione a quinte pressoché parallele dei grandi massicci, impressionati ormai da una monotonia che la caoticità dei rilievi non riesce ad attenuare.

    Più varia ed elevata è indubbiamente la zona ad altipiano che domina il Sangro, culminante nel Monte II Campo (m. 1745) a nordest di Capracotta e nel Monte Capraro (m. 1721), erto spuntone calcareo emergente dalle masse plastiche a nord di Vastogirardi ; altra superficie elevata è quella della Montagnola (m. 1428), fra gli opposti bacini del Trigno e del Volturno. Per il resto ci troviamo di fronte a un insieme di rilievi anonimi variamente disposti che a cavallo del Trigno (cioè del confine regionale), fra Montàzzoli e Palata, prendono il nome di Monti dei Frentani. Di notevole può essere citato il gradino, spesso abbastanza riconoscibile, che separa i rilievi eocenici da quelli, molto più attenuati, del Pliocene. Solo al margine meridionale i massicci della Meta e delle Mainarde trovano, al di là dell’ampio solco del Volturno, la naturale continuazione nel gruppo del Matese, le cui masse calcaree cretaciche appartengono al Molise soltanto nel versante settentrionale, con buona parte della fascia più elevata comprendente il Monte Miletto (m. 2050), altitudine massima della regione.

    Nei paragrafi successivi i principali rilievi delle due regioni, cui finora è stato riservato un fugace accenno, saranno osservati in particolare sia nella loro individualità geomorfologica, sia in connessione con gli svariati fenomeni (carsismo, glacialismo, ecc.) che hanno spesso potentemente concorso a plasmarne la fisionomia attuale.

    I Monti della Laga mostrano una certa complessità nella disposizione dei singoli rilievi: sono formati da una catena principale ad andamento meridiano dalla quale si distaccano verso est cinque dorsali che raggiungono al margine orientale un discontinuo, e quindi meno evidente, allineamento orografico da nord a sud. Siamo al confine di tre regioni, Abruzzo, Lazio e Marche, che segue per le prime due (province di Teramo e di Rieti) la cresta occidentale fino a nord del Pizzo di Sevo, dove si biforca per lasciare alla provincia di Ascoli Piceno buona parte della valle del Tronto.

    Pur costituendo, si può dire, il raccordo orografico fra i Sibillini e il Gran Sasso, il gruppo esprime nettamente la propria individualità nei loro riguardi sia per la diversa costituzione geologica, sia per la morfologia ad essa strettamente legata.

    Monti della Laga. Versante meridionale con l’altipiano di Campotosto.

    I Monti della Laga.

    Siamo di fronte, cioè, a un complesso di rilievi nei quali, ad eccezione della Montagna dei Fiori, le masse rigide di base (calcari) non compaiono, essendo coperte per più di mille metri da potenti stratificazioni marnoso-arenacee mioceniche. Su questi materiali teneri, portati da un vigoroso sollevamento a considerevoli altitudini, è facile pensare all’azione intensa del modellamento, dovuto principalmente alle acque dilavanti e fluviali. In contrapposto alle biancheggianti, aride superfici plasmate dal carsismo, qui si possono notare alla base profonde e ampie incisioni che prendono il nome locale di « fossi », in alto superfici tondeggianti e boscose a tenue pendio, spesso sormontate da sottili creste prive di vegetazione e incise da numerosi solchi d’erosione.

    Più di un autore sottolinea la poca varietà degli aspetti morfologici in connessione con l’uniformità geologica; si deve peraltro rimarcare che ciò non è del tutto esatto poiché vari altri elementi contribuiscono a determinare diversità alquanto sensibili. Anzitutto, da un punto di vista strutturale, indubbiamente la catena occidentale domina per imponenza e per continuità sugli altri rilievi. La grande faglia che ne segue l’andamento meridiano ha determinato, dall’estremità meridionale fino al Pizzo di Sevo, una spiccata dissimmetria, con ripidissime pendici sull’altipiano ondulato di Amatrice, in territorio laziale, e pendenze molto più tenui verso l’interno del gruppo. Più a nord la dissimmetria s’inverte, dato che la linea di faglia segue non più il versante occidentale della catena, ma quello orientale.

    Monti della Laga, con Cortino (a sinistra) e Cermignano.

     

     

     

    Valle del Tordino e Monti della Laga da Case Canetta (Cortino).

    Questa catena, che da vari elementi — fra cui l’allineamento di specchi di faglia recenti alternantisi a coni di deiezione situati allo sbocco delle incisioni vallive — si presume ancora in fase tettonica attiva di sollevamento, è una delle più elevate dell’Appennino, superando i duemila metri per una quindicina di chilometri. La massima altitudine è raggiunta nelle cime del Monte Gorzano e del Giaccio Porcelli (m. 2455) ma nell’irregolare profilo della cresta spicca soprattutto la nuda cuspide del Pizzo di Sevo (m. 2422), che domina l’altipiano di Amatrice.

    Le catene trasversali che volgono ad oriente hanno una forma ben diversa: divise da impluvi che si restringono notevolmente, talora in forre anguste, in corrispondenza del fondovalle, esse degradano con monotone groppe arrotondate che raramente superano i 1500 metri d’altezza, coperte da bosco ceduo o da pascoli. Spesso limitate superfici verticali mostrano il molteplice alternarsi delle marne e delle arenarie in strati talora vigorosamente contorti dall’azione tettonica.

    Al margine orientale la Montagna dei Fiori (m. 1815), che insieme alla Montagna di Campii e al Monte delle Tre Croci domina con orientamento meridiano le collineargillose del Subappennino teramano, ci presenta un aspetto del tutto diverso. Divisa ad ovest dalla Valle Castellana mediante una grande faglia, mostra, in mezzo al paesaggio oscuro delle molasse, i calcari biancheggianti che compongono la sua tozza mole. La facies, determinata più che dai calcari massicci da quelli stratificati, squarciati spesso da colate detritiche, è indubbiamente analoga a quella umbra meridionale.

    E naturale che nè la spessa coltre molassica nè i calcari stratificati abbiano dato luogo a frequenti fenomeni carsici di superficie, fra i quali è da notarsi particolarmente il laghetto situato a 1327 m. sulle pendici settentrionali della Montagna dei Fiori; il carsismo può invece manifestarsi in forma ipogea alla base di alcuni rilievi, come le due ampie grotte di San Cerbone nella valle del Rio Castellano e la grotta di Sant’Angelo nella valle del Salinello, sul versante meridionale della Montagna dei Fiori.

    L’erosione delle acque superficiali, molto accentuata specialmente sui versanti privi di vegetazione, dà luogo a forme caratteristiche, efficacemente descritte dal Pullè. Nell’alta valle del Rio Castellano, sul costone orientale del Monte Libretti, si sono formate, fra un banco e l’altro di arenarie, evidenti prominenze e rientranze per effetto della degradazione meteorica. E presentando il fianco della montagna

    Vedi Anche:  Le forme di insediamento

    Il Corno Grande visto dai ripiani molassici di Valle S. Giovanni, ultime pendici dei Monti della Laga.

    delle ampie falcature, i banchi hanno assunto l’aspetto di gradinate semicircolari, come in un teatro classico. Più in alto, nella stessa plaga, si possono notare interessanti nicchie negli spuntoni terminali delle creste, dovute probabilmente all’arrestarsi delle acque meteoriche e delle nevi su limitati aggetti rocciosi e alla loro azione erosiva prevalentemente chimica. Pochissime sono infine le formazioni calan-chiformi, e per giunta allo stadio iniziale, situate più che altro sulle pendici della Montagna di Campii.

    Alquanto ridotte sono le impronte dei ghiacciai quaternari, anche se si presume che il glacialismo abbia notevolmente interessato questi monti, data la loro considerevole altitudine media. Sono in tutto una diecina di circhi, situati fra il Monte Gorzano e la Macera della Morte a un’altezza di circa 1800 m. sul versante orientale. Talora, come nel caso della testata del Rio Castellano, il circo si allunga in una breve vallata a truogolo che termina all’inizio dell’incisione torrentizia. La facile disgregabilità delle rocce molassiche sotto l’azione erosiva postglaciale ha consentito ancor meno la conservazione delle morene, raramente identificabili; è tuttavia evidente il breve cordone morenico che ha dato origine per sbarramento al piccolo Lago Nero, posto all’altezza di 1550 m. sul versante sinistro della valle del Chiarino, tributario del Tronto, in territorio laziale.

    Il Gran Sasso d’Italia.

    Il massiccio del Gran Sasso d’Italia, avvicinandosi con il Corno Grande ai 3000 m. di altitudine, costituisce il tetto della nostra penisola. E ne è, oltre a ciò, anche il rilievo più « alpino », con ripide pendici, creste scoscese, guglie piramidali, truogoli e circhi plasmati dal glacialismo quaternario.

    Gran parte dell’asse orografico, con le più alte cime, si svolge in direzione ovest-est su due catene leggermente arcuate verso nord, separate da una marcata depressione. Di esse la settentrionale è di gran lunga più imponente, dominata dalle grandi masse del Monte Corvo (m. 2623), del Pizzo d’Intermèsoli (m. 2635), e, più ad est, del Monte Prena (m. 2561) e del Monte Camicia (m. 2564). Quella meridionale, che si erge in parte a guisa di ripida bastionata incombente sulla Valle del Vasto (percorsa dal Fosso Acqua San Franco), è molto più uniforme e raggiunge la massima altitudine fra il Pizzo di Camarda (m. 2232) e il Monte Portella (m. 2385) con l’erta piramide del Pizzo Cefalone (m. 2533); più ad est prosegue con forme cupoleggianti o tabulari, per lo più al di sotto dei 2000 m., che culminano nel Monte Scindarella (m. 2233) e all’estremità sudorientale nella prominente dorsale a due punte del Monte Bolza (m. 1927).

    Il fatto che la parte centrale del massiccio sia costituita dalle vette più alte in ambedue le catene conferisce una certa simmetria a tutto l’insieme, dominato al centro dal nodo orografico principale dal quale si allontanano verso est ed ovest le cime minori. In questo nodo mediano la grandiosa barra trasversale che unisce il Monte Portella con il Monte Aquila (m. 2495), il Corno Grande (m. 2912) e il Corno Piccolo (m. 2655) si protende a nord verso Pietracamela raccordandosi geologicamente, al di là del solco del Vomano, con la Montagna dei Fiori, e divide il gruppo in due sezioni morfologicamente ben distinte. Quella occidentale — la cui estrema appendice, il Monte San Franco (m. 2132), domina il bacino sorgentifero del Vomano — rivela una particolare complessità morfologica dovuta ad un certo numero di sbarre perpendicolari all’asse orografico delle due catene, le quali ripartiscono il solco mediano longitudinale in conche isolate. Si tratta evidentemente di faglie trasversali che, incrociandosi con quelle di direzione appenninica, hanno determinato questa struttura a piccole cellule separate, resa in seguito più evidente dall’azione carsica. Queste conche, accessibili con difficoltà dalla catena meridionale che mostra rari ed elevati intagli (Sella Malecoste, m. 2229; la Portella, m. 2260), sono invece aperte verso il bacino del Vomano. La più orientale, detta Regione Solagne, è un vasto pendio inclinato verso la Val Chiarino, angusta incisione longitudinale che solca l’estremità della depressione intermontana; in questo caso l’apertura è quindi di origine strutturale. Le altre due maggiori conche, cioè la Regione Venacquaro e il Campo Perìcoli, sono aperte a nord da profonde forre che smembrano la compattezza della catena settentrionale: per la prima, la Valle Venacquaro fra il Monte Corvo e il Pizzo d’Intermèsoli; per la seconda, fra il Pizzo d’Intermèsoli e il Corno Grande, la Val Maone, tributaria del Rio Arno che affluisce al Vomano tra Fano Adriano e Cerqueto. Per O. Marinelli e per M. Ortolani queste conche dovevano essere inizialmente due bacini chiusi sui quali agì l’erosione regressiva e la sovraescavazione glaciale. Pur rivelando indiscutibilmente la loro struttura a circo, esse si avvicinano alla forma quadrata con circa due chilometri di lato, e ci presentano il fondo quanto mai irregolare per la concomitanza degli effetti del glacialismo e del carsismo. Sono quindi in evidenza rocce arrotondate glaciali e depositi morenici che non hanno impedito, specie nella parte orientale del Campo Perìcoli, la formazione di numerose piccole doline raggruppate talvolta in veri e propri campi crivellati, mentre più in alto fanno corona numerosi circhi secondari.

    Il Massiccio del Gran Sasso d’Italia

    (da T.C. I., L’Italia fisica, con quote modificate).

     

     

     

    Profilo geologico del Gran Sasso, secondo F. Scarsella.

    1, morenico; 2, calcari glauconitici del Miocene inferiore e medio; 3, calcari e conglomerati del Paleogene; 4, «scaglia rossa» del Cretacico superiore; 5, calcari e conglomerati del Cretacico medio; 6, «maiolica» del Tytoniano-Neocomiano; 7, calcari neritici del Giurassico; 8, calcari marnosi del Lias superiore e calcari con selce del Lias medio; 9, « calcare massiccio » del Lias inferiore.

    Il Campo Perìcoli, bell’esempio di modellamento glaciale associato al modellamento carsico.

    Nello sfondo, sulla destra il Pizzo Cefalone.

     

    Uno dei più imponenti colossi del Gran Sasso: il Pizzo d’Intermèsoli.

     

     

     

    Campo Imperatore e Monte Frena: sono visibili la linea di milonitizzazione e l’esteso conoide di deiezione.

    La linea trasversale di dislocazione che congiunge la valle del Mavone con quella del Raiale divide il gruppo in due parti di diversa struttura. In corrispondenza del grande plesso mediano la bastionata meridionale è squarciata dal profondo intaglio dei Tre Valloni, che permette un agevole passo nella Sella di Pratoriscio (ni. 2130), ben nota per l’albergo e la stazione superiore della funivia di Assergi. Siamo al margine occidentale della vasta depressione di Campo Imperatore, fossa tettonica di sprofondamento probabilmente occupata nel Pleistocene da una superficie lacustre ed ora ampio ed allungato bacino a tenui declivi che a un’altitudine media di circa 1800 m. si estende da nordovest a sudest per una lunghezza massima di 27 km. e una larghezza media di 7.

    La differenza con le conche del settore occidentale del Gran Sasso è ben netta. Qui il paesaggio estremamente aperto perde gran parte della sua asprezza, essendo il margine meridionale caratterizzato da rilievi a gobbe o a limitate superfici tabulari; a nord le masse che culminano nelle cime più alte del Prena e del Camicia, pur costituendo una poderosa muraglia, non hanno certo l’imponenza che mostrano sul versante opposto, incombente sull’« avampaese » adriatico. La netta linea di milonitiz-zazione che separa il Campo Imperatore da questi rilievi è chiara nell’allineamento delle numerose incisioni che scorticano i pendii a pascolo, mettendo in risalto i biancheggianti calcari farinosi in vasti fenomeni di erosione ai quali corrispondono alla base ben pronunciati coni di deiezione.

    I calcari del fondo, che contengono spesso impregnazioni asfaltiche, sono ricoperti da una spessa coltre di materiali recenti dovuti sia a depositi lacustri, sia ad avanzi morenici, sia ai detriti della continua erosione dei fianchi da parte delle acque dilavanti, ed emergono solo nelle scabre gobbe che bordano la depressione a mezzogiorno. Sono quindi limitati i fenomeni carsici mentre al tempo stesso sono molto confuse le orme del glacialismo quaternario, chiare soltanto nei conoidi e nei bei circhi che si aprono sul versante settentrionale del Monte Scindarella. Il carsismo infatti si rivela essenzialmente in una zona marginale, al limite sud, cioè nelle « regioni » Ricotta,

    Campi crivellati del M. Bolza.

    Campo Imperatore orientale, con lo sfondo del Corno Grande.

     

     

     

    L’erta parete del Gran Sasso dal versante teramano. In primo piano il villaggio di Fano a Corno.

    Papa Morto e Malepasso, sull’altipiano calcareo degradante da una parte verso il Campo Imperatore, dall’altra verso Castel del Monte, e compreso fra i monti Bolza, Capo di Serre e Ripa Rossa. Qua si trovano veri e propri campi crivellati, con doline a scodella e ad imbuto per lo più di piccole dimensioni, campi carreggiati e, ad est, interessanti tronchi di valli inattive.

    Se a nord a causa dell’allineamento compatto dell’erte creste calcaree raramente si trovano dei passi, detti localmente « vadi », che mettano in comunicazione con il Subappennino (a occidente, il Vado di Corno, m. 1924, e ad oriente, il Vado di Siella, m. 1725), sul bordo meridionale, fra la Sella di Pratoriscio e Castel del Monte, si aprono innumerevoli passaggi che non possono nemmeno essere chiamati valichi, in connessione con la singolare morfologia di questo versante. Infatti ci troviamo di fronte a un complicato sistema di rilievi e di tavolati calcarei che con depressioni successive degradano fino al solco dell’Aterno. Copiosi sono i fenomeni carsici, dalle piccole doline ai grandi piani, per lo più allungati nella direzione appenninica; fenomeni diligentemente esaminati e illustrati dall’Ortolani e dal Moretti in una nota pubblicazione.

    Fra i piani carsici si possono citare i più caratteristici. Il vasto Piano San Marco (lunghezza, circa 3 km.; larghezza media, 500 m.), che si estende a un’altezza media di 1100 m. a sud di Castel del Monte, con forma allungata in senso meridiano e molto irregolare e slargata nella parte meridionale; circa la sua origine l’Ortolani, avendo individuato un lembo di alluvioni terrazzate, pone l’ipotesi che si tratti di un’antica valle con deflusso verso la conca di Capestrano. Più ad ovest si possono trovare il Piano di Calascio detto anche « il Lago » dal laghetto circolare situato al centro di esso e, a nord di Rocca Calascio, il Piano del Tagno, ambedue di forma pressoché triangolare e di ampiezza limitata. Questi fanno parte del complesso di bacini carsificati della zona fra Calascio e Santo Stefano di Sessanio, dei quali i più notevoli sono i due vasti piani Viano e Vuto, separati da una soglia a gradino che divide le depressioni, lunghe complessivamente più di 3,5 km., nelle quali il limite della superfìcie alluvionata si aggira fra i 950 e i 1000 metri. Come curiosità può essere citato anche, ad est di Santo Stefano, U Chianu, che evidentemente in dialetto abruzzese significa « il piano » e che è stato deformato nella nostra cartografia ufficiale in Piano Lucchiano. Più all’interno, tra i rilievi carsificati che si accavallano irregolarmente a sud del Monte Scindarella, si aprono altri numerosi bacini chiusi: i piani di Fogno, Locce, Passanete, Valle Ombrica, Fossa Pagànica, alcuni dei quali presentano sul fondo minuscoli specchi d’acqua a livello estremamente variabile (laghi di Filetto, di Pagànica, ecc.). Al di là della valle del Raiale, infine, i bacini chiusi di una certa ampiezza sono soltanto il Piano del Monte, a nord di Collebrincioni, e, all’estremità occidentale, il Piano Riali, a sudovest del Monte San Franco.

    Il Piano Viano e il villaggio di Santo Stefano di Sessanio in un paesaggio carsico di bacini chiusi, vallate secche e aride groppe arrotondate.

     

     

     

    Piano « il Lago » presso Calascio, tipico bacino carsico del versante meridionale del Gran Sasso.

    Con la regione carsica fra il Monte Bolza e il Vado di Siella termina il duplice allineamento di cime che caratterizza il gruppo del Gran Sasso, il quale prosegue a settentrione su una sola catena. Là dov’essa ha inizio si trova, a circa 1360 m. di altitudine, l’interessante Piano Moltigno, ampia conca chiusa che mostra sul fondo pressoché triangolare (circa 2 km. di lato) un reticolo idrografico interno a carattere temporaneo e numerose doline con specchi d’acqua variabili delle quali la più grande è occupata dal Lago Sfondo. Da questa plaga, la montagna prende un aspetto ben differente dalle altre parti del Gran Sasso: a causa del pendio ripido, benché dissimmetrico, dei due versanti, scompaiono i piani carsici; la minore altitudine non ha dato luogo a visibili fenomeni di glacialismo ; la mancanza di una linea di milonitizza-zione non permette le caratteristiche erosioni su dolomie e calcari tettonizzati. La massima altitudine è raggiunta nel Monte Cappucciata (m. 1801) mentre fino al Monte Roccatagliata (m. 975), ultimo rilievo che domina le gole di Pòpoli, l’unico valico è la Forca di Penne (m. 918). La direzione della catena è ormai, dopo un ampio arco, da nord a sud, e il più ripido versante interno prospetta la valle del Tirino, affluente della Pescara, alla cui testata si apre l’ampia conca di Capestrano, un tempo bacino lacustre del Villafranchiano, soggetta a notevole erosione come mostrano i lembi terrazzati ancora ben visibili sotto Ofena.

    E questa una delle tante depressioni quasi chiuse poste in serie lungo l’Aterno-Pescara, le quali non hanno origine carsica, ma sono fosse tettoniche occupate dal mare pontico che vi depositò la copertura di molasse. Secondo il Demangeot, all’erosione fluviale del Pliocene successe un rialzamento tettonico ai margini e l’occupazione dei bacini da parte dei laghi villafranchiani, indi la sedimentazione dei materiali del Villafranchiano superiore, del Mindel e dell’interglaciale Mindel-Riss. Ma al momento della grande ripresa dell’erosione, alla fine del Riss, l’azione si diversifica: le conche elevate sono progressivamente svuotate dalla molassa per risucchio dovuto alle fessure carsiche, mentre quelle più basse sono profondamente incise dall’erosione fluviale. Durante il Wurm vi fu prima un nuovo riempimento, poi un’altra incisione, infine il prosciugamento delle conche elevate. Tutto ciò ha determinato, come vedremo, gran parte delle caratteristiche idrografiche dell’Abruzzo attuale. E in tal modo si possono spiegare le differenze fra il lungo corridoio tettonico carsificato di direzione appenninica Barisciano-Navelli (20 km.) e — con la conca dell’Aquila — il fondovalle sovrainciso dell’Aterno.

    Resta da aggiungere, per quanto riguarda il carsismo in generale, che nel Gran Sasso esso è indubbiamente allo stadio ancora giovanile: vi sono piani carsici e doline condizionati da incroci di faglie, con una differenza fra le zone carsiche ad est e ad ovest della linea trasversale Raiale-Mavone. Ad est predominano i bacini chiusi, eccettuati taluni casi, come il piano di Villa Santa Lucia, nei quali è evidente la cattura in seguito a erosione regrediente; ad ovest, eccettuato il Piano del Monte, ci troviamo in presenza di bacini aperti, a deflusso superficiale, giustificati probabilmente dalle numerose ondulazioni trasversali all’asse orografico principale. Non esistono residui di terra rossa e manca inoltre quasi del tutto il carsismo ipogeo. L’unica cavità sotterranea di cui abbiamo notizie è la grotta A Male (o Amare), scoperta ed esplorata nel 1573 e in seguito descritta dall’ingegnere militare bolognese F. De Marchi, ormai riconosciuto come colui che nello stesso anno salì per primo la vetta del Corno Grande. La grotta si trova nella Valle del Vasto, sotto la Cresta delle Malecoste, a circa 3 km. da Assergi; è una profonda cavità che, dopo uno stretto cunicolo iniziale si dirama terminando con due laghi nei quali le acque si trovano sempre allo stesso livello, pur con forti oscillazioni stagionali, a causa di un sifone che le mette in comunicazione.

    Già più di un accenno è stato fatto infine sulle impronte del glacialismo: i grandi circhi, le morene e le rocce montonate della Regione Venacquaro e del Campo Perìcoli, ad esempio. Ma ritengo che la principale originalità del Gran Sasso a questo riguardo sia il fatto di ospitare l’unico ghiacciaio perenne della nostra Penisola: il Ghiacciaio del Calderone. Di superficie alquanto ridotta (circa 6 ha.), esso occupa il fondo e il pendio settentrionale di un circo alla base del Corno Grande e si allunga per quasi 400 m. fra i limiti altitudinali di 2867 e 2680 m., alimentando il bacino del fiume Mavone. Utili e concise sono le indicazioni che, in seguito ai numerosi rilevamenti del Tonini, ce ne dà il Landi Vittorj : « Pur senza una chiara separazione morfologica fra bacino collettore e bacino di ablazione presenta vari caratteri dei ghiacciai : crepacci terminali e trasversali, marcata zonatura superficiale, ghiaccio compatto verso la fronte, sviluppo di morene laterali e frontali e, anche, massi formanti tavola ». Oltre a questo, esistono soltanto pochi nevai perenni nelle zone più elevate volte a settentrione. Molto numerose e chiare sono invece le tracce del glacialismo quaternario. Grandi ed evidenti circhi glaciali si aprono con rimarchevole continuità sui versanti delle due catene esposti a nord: in quella settentrionale dal Monte Corvo al Monte Prena, in quella meridionale dal Monte San Franco al Monte San Gregorio di Pagànica, ultima appendice del Monte Scindarella. Al centro, le vette più elevate sono letteralmente coronate da circhi posti a varie altitudini. Oltre ai residui, spesso ancora evidenti, di cordoni morenici e ai numerosi conoidi wurmiani, suscitano un particolare interesse i lembi di conglomerati formati da ciottoli glaciali. Fra questi è stato studiato con particolare cura dal Demangeot il ripiano conglomeratico dei Prati di Tivo, al di sopra di Pietracamela, nel quale la massa morenica scavata dal truogolo del ghiacciaio wurmiano, è stata attribuita al periodo rissiano.

    Il Ghiacciaio del Calderone alla base del Corno Grande, unico ghiacciaio perenne della nostra penisola.

     

    La Maiella e il Monte Morrone.

    La Maiella è, immediatamente dopo il Gran Sasso, il più elevato gruppo dell’Appennino, emergente isolato come una tozza cupola nella vasta area compresa fra le valli della Pescara e dell’Aventino, la fossa tettonica di Caramànico e le alture ondulate del Subappennino Frentano. Anche a prima vista le differenze con il Gran Sasso sono estremamente marcate. Se quello appare come una doppia catena calcarea dominata in alto da creste aeree, da picchi tricuspidali, da erte pareti rocciose, contrapposti verso sud a una serie di bacini chiusi, la Maiella si presenta invece come un’enorme gobba anticlinale quasi inaccessibile, allungata da nord a sud e tagliata nettamente ad ovest da una gigantesca faglia di 1600 m. di dislivello. La parte culminale è formata da vette che superano i 2500 m. di altitudine: il Monte Amaro, il più elevato (m. 2793), i Tre Portoni (m. 2653), il Pesco Falcone (m. 2657) e, più ad est, il Monte Acquaviva (m. 2737). A nord la cresta principale si mantiene elevata e compatta fino alla Maielletta (m. 1995), dove perde quota rapidamente, diramandosi in vari speroni secondari; mancano o sono molto disagevoli i valichi, come la Sella Acqua-viva che è poco più di un semplice intaglio a 2050 m. fra il Monte Cavallo e il Blockhaus. Verso sud la montagna si fa meno complessa, allungandosi in una doppia dorsale che delimita il suggestivo vallone di Femmina Morta e degradando poi con la Tavola Rotonda (m. 2403) fino al Guado di Coccia (m. 1652) per rialzarsi nell’erto Monte Porrara (m. 2136).

    La Maiella è formata in gran parte da terreni terziari, essendo la massa principale costituita da calcari nummolitici dell’Eocene che poggiano su un basamento fortemente fagliato di calcari del Cretacico. Le ultime pendici a nord, verso la Pescara, hanno vaste impregnazioni asfaltiche, in prevalenza nei calcari miocenici, ma anche in quelli eocenici (Miniera di Santo Spirito) e perfino nei calcari concrezionati quaternari (Cusano). L’impregnazione che ha interessato, sebbene con importanza diversa, i vari livelli, si ritiene avvenuta ad opera di idrocarburi provenienti attraverso fratture da sedi profonde.

    Vedi Anche:  La popolazione

    Profilo geologico della Maiella (secondo A. Bally e J. Demangeot).

    i, Calcare cretacico; 2, «scaglia eocenica»; 3, calcare di scogliera eocenico; 4, calcare miocenico; 5, molassa pontica; 6, conglomerati mio-pliocenici; 7, Quaternario; 8, linee di milonitizzazione; 9, argille scagliose del Cretacico.

    Gli studi del geologo svizzero Bally e del Demangeot inquadrano chiaramente il massiccio dal punto di vista morfologico. Si tratta di una superfìcie d’erosione complessa costituita da gradini ciclici incastrati l’uno nell’altro.

    In primo piano, un tratto subappenninico squarciato da calanchi e il villaggio di Pennapiedimonte.

    La Maiella dal versante di Guardiagrele.

     

     

     

    La Maiella dal versante di Sant’Eufemia.

    Il grande numero di faglie incrociate ha fatto di essa un mosaico di poliedri indipendenti sui quali si sono ripercosse con effetto diverso le numerose spinte orogeniche succedutesi dall’Oligocene ad oggi.

    Quindi, ad onta del suo aspetto d’insieme alquanto monotono, la Maiella è un complesso organismo policiclico nel quale si possono distinguere quattro diverse zone. La principale è la regione centrale, compresa fra il Monte Amaro e la Maiel-letta, esposta più a lungo delle altre all’erosione perchè emersa per prima durante l’Oligocene inferiore. Qui si nota una morfologia più evoluta, dovuta alla perdita dell’inviluppo eocenico e alla marcata erosione dei torrenti. Dalle sommità tondeggianti, grigie e squallide per le aride pietraie, si giunge attraverso pendii ripidi e scabri ai fianchi squarciati da grandi canyons profondi talvolta quasi un migliaio di metri. Sono questi i due elementi morfologici più tipici del massiccio, che l’Ortolani descrive mettendo in contrapposizione Gran Sasso e Maiella, dei quali tende a giustifìcare le diversità morfologiche con il differente risultato erosivo sulle due facies calcaree, secondaria nel primo, eocenica nella seconda. « Al morbido fondo erboso del Campo Imperatore si contrappone lo sfasciume di breccia che riempie e ingombra la valle di Femmina Morta. Questo manto di brecciame e di materiale detritico si estende del resto a quasi tutta l’area sommitale dell’alta Maiella, che tende così ad assumere l’aspetto d’una immensa rovina, ove anche le cupole emergenti sembrano affogare ». I profondi valloni diramantisi a ventaglio dalla zona centrale hanno una incisione molto profonda e le creste d’intersezione dei versanti sono talvolta ridotte a sottili lame arcuate che fanno prevedere, sotto l’azione dell’erosione regrediente, future catture. Ancora più netta è questa impressione quando ci troviamo a contatto, su ambedue i versanti, con circhi glaciali sovrastanti spesso brevi truogoli sospesi che piombano improvvisamente nelle profonde incisioni dei canyons: tipiche, a questo riguardo, le insellature elei Tre Portoni, alla testata dell’Orfento. Altro elemento molto caratteristico è il restringersi dei valloni allo sbocco inferiore in intagli a V molto acuto, come a Bocca di Valle, presso Guardiagrele. A proposito di questi valloni, l’ipotesi di erosione carsica associata a quella normale, e quindi di una genesi per risucchio carsico e successivo crollo di volta, non riscuote molto credito. Meglio concordare con la tesi dell’erosione subaerea, per la quale il Demangeot porta inequivocabili argomenti. Il paesaggio è selvaggio e affascinante, dominato da enormi pareti verticali; particolarmente grandiosi sono il Vallone di Santo Spirito, che sbocca presso Fara San Martino, il Vallone di Pennapiedimonte e la Macchia di Caramànico, sul versante opposto. In generale il reticolo idrografico è solo parzialmente condizionato dalle faglie, considerando l’avanzata evoluzione del ciclo erosivo. Tuttavia talvolta si notano singolari esempi di aderenza agli schemi tettonici, come è il caso dell’Orfento, costretto da due faglie a trascurare la via più breve.

    Le gole del Sagittario, incise profondamente dal fiume a monte di Anversa degli Abruzzi.

     

     

     

    Un tipico intaglio delle superfici più elevate della Maiella:

    i Tre Portoni.

     

     

     

     

    Uno dei più caratteristici « canyons » della Maiella: il Vallone di Selvaromana, con allo sbocco l’abitato di Pennapiedimonte.

    Il versante occidentale, che divalla nella Fossa di Caramànico, è molto differente, estendendosi come una muraglia compatta e pressoché rettilinea, priva di gole e di rientranze, enorme specchio tettonico recente solcato da ripidissimi impluvi e bordato alla base da una spessa coltre di detriti. Famosi sono i depositi quaternari, sia fluviali che lacustri, della Valle Giumentina, non lontana da Caramànico, entro i quali è stato trovato abbondante materiale preistorico.

    Maiella: la valle asciutta di Femmina Morta,

    dal Monte Amaro.

     

     

     

    Gole del fiume Orta fra Salle e San Tommaso, nella fossa tettonica di Caramànico.

    Il versante meridionale, tra il Monte Amaro e il Monte Porrara, conserva l’idrografia impostata sul reticolo delle faglie appenniniche (Valle di Lettopalena, Vallone di Izzo) ma quasi del tutto carsificata. D’una desolazione grandiosa, il territorio è solcato da valli asciutte e forato da doline e inghiottitoi, come nella valle e nel fondo di Femmina Morta. I fianchi scendono ripidi sull’Aventino, affluente del Sangro, con le stratificazioni a franapoggio così inclinate che presso Lettopalena si può ammirare un enorme piastrone calcareo (circa i kmq.) slittato fino al fondovalle.

    Il versante settentrionale ha un particolare interesse per i ripiani a varia altitudine, indubbiamente ciclici, che testimoniano successive fasi di emersione orogenica dovute a spinte multiple; ad ogni periodo di riposo corrisponderebbe uno spianamento marginale più o meno esteso, mentre ad ogni spinta si sarebbe manifestata una ripresa dell’erosione (abrasione marina) e un altro tronco di pendio.

    Il carsismo, come del resto nel Gran Sasso, è ad uno stadio ben poco avanzato; oltre a tutto, lo sfasciume che ricopre le cavità e le non ripide aree sommitali non favorisce certo il manifestarsi in superficie di tali fenomeni, mentre le pendici erte e solcate dai valloni ne rimangono naturalmente esenti. Ciò nonostante si possono notare in varie plaghe, come sugli alti ripiani ondulati fra il Monte Amaro e i Tre Portoni, numerose piccole doline che crivellano il lieve pendio risparmiato dai detriti, oltre ad una di più vaste dimensioni, quasi al limite dei circhi che coronano la testata della Val Cannella.

    Ma il versante più generalmente carsificato è di gran lunga quello meridionale. La Valle di Femmina Morta è l’esempio più tipico di depressione d’origine tettonica, carsificata e indubbiamente anche riplasmata dai ghiacciai. Il fondo di questa valle, chiuso da un arcuato cordone interpretato dal Suter come morenico, è una vasta dolina a tinozza con il fondo crivellato da piccole doline e inghiottitoi. Su questo versante si trovano numerose grotte testimoni di un antichissimo scorrimento ipogeo, attualmente disorganizzato dai ripetuti recenti sollevamenti. La più celebre e la più esplorata è la Grotta del Cavallone, chiamata anche « della Figlia di Iorio » per il fatto che Gabriele d’Annunzio vi ambientò parte del suo noto dramma. Essa si apre nel Vallone di Tarànta Peligna, a 1465 m. di altitudine sulla scoscesa parete sinistra di calcari dell’Elveziano, con un grandioso finestrone al quale si giunge per una ardita via d’accesso tagliata in parte nella viva roccia. Consta essenzialmente di uno spazioso corridoio che discende leggermente, per uno sviluppo totale di 1360 m., all’interno della montagna seguendo la pendenza degli strati, con alcune ampie « sale » e frequenti concrezioni stalagmitiche. Per il Segre, che si è a lungo interessato del carsismo abruzzese, si tratta di una cavità pre-wurmiana « il cui riempimento avanzato, avvenuto con fasi alterne di franamenti e di incrostazioni stalagmitiche, si palesa ovunque con accumuli e pendii di blocchi concrezionati di mole talora cospicua ». Un particolare interesse ha la « Galleria della Devastazione », nella quale si trovano molteplici fessure nella roccia e numerose stalagmiti abbattute e parzialmente ricementate, particolari che hanno fatto pensare all’effetto eli uno dei tanti terremoti che si sono violentemente manifestati nella zona. Altre cavità si aprono nei calcari del Vallone di Tarànta: poco distante dalla precedente si trova la Grotta del Bove, ancora parzialmente inesplorata, che presenta scarsità di concrezioni e una notevole coltre di detriti sul fondo. Si possono citare inoltre la Grotta Nera, sita a 1360 m. sulla Montagna d’Ugno, sopra Pennapiedimonte, e la Grotta Canosa, semplice sgrot-tamento che si apre a 2604 m. ad est della testata della Valle di Femmina Morta.

    Fianco orientale della Maiella

    con il profondo vallone della Grotta del Cavallone terminante in basso presso Tarànta Peligna.

    A sinistra, si nota la superfìcie di distacco della frana di Lettopalena.

     

    Le forme glaciali non sono molto evidenti: la prossimità dell’Adriatico e quindi l’esposizione a masse d’aria anticicloniche scarsamente umide e la minore altezza del massiccio, inferiore nel Pleistocene di 2-300 m., sono le ragioni generali di una

    glaciazione alquanto attenuata. Inoltre dobbiamo pensare che la struttura cupoliforme con pendii molto ripidi mal si adatta a tale modellamento, mentre l’abbondanza delle brecce pleistoceniche e la facile alterabilità dei calcari eocenici non permettono spesso di distinguere agevolmente gli effetti dell’erosione carsica da quella glaciale e da quella recente dovuta al ruscellamento. E quindi più che altro difficile poter individuare gli avanzi morenici, mentre evidenti sono i bei circhi sotto il Monte Amaro, ai Tre Portoni e sul versante nord del Gran Pilastro.

    Il Guado San Leonardo (m. 1282) divide la Maiella dalla Montagna del Mor-rone (m. 2061), lunga impervia dorsale che a sud del profondo squarcio delle gole di Pòpoli prosegue l’asse orografico dell’ultima appendice meridionale del Gran Sasso, dominando la conca di Sulmona. Ambedue i versanti sono estremamente ripidi, a muraglia, solcati da numerosi impluvi rettilinei e sormontati da una regolare cresta che si aggira sui 1700-1900 m. di altitudine. Il gigantesco specchio di faglia che prospetta sulla conca ha molte affinità con il fianco occidentale della Maiella, mentre la superficie terminale, che appare aspra veduta dal basso, ci presenta un paesaggio a gobbe carsificate disposte caoticamente. E indubbio quindi che il Morrone richiama morfologicamente l’aspetto della Maiella piuttosto che quello del Gran Sasso, del quale è la naturale continuazione.

    Un magnifico particolare all’interno della Grotta del Cavallone,

    presso Tarànta Peligna.

     

     

     

    La Montagna del Morrone, con il vasto conoide delle Casette e la conca peligna vedute dal Monte Cosimo.

     

     

    Il gruppo del Velino-Sirente e gli altipiani delle Rocche.

    Nell’accidentato paesaggio di creste e di cuspidi che fra le grandi depressioni dell’Aquila e del Fucino torreggiano imponenti al di sopra degli altipiani delle Rocche si possono distinguere abbastanza nettamente tre blocchi principali : il Monte d’Ocre, il Monte Velino e il Monte Sirente.

    Il più elevato e complesso è senz’altro il massiccio del Velino, che appare da sud, dai Campi Palentini, come un’erta parete col tipico profilo a tre punte (Monte Sévice, m. 2331; Monte Velino, m. 2486; Monte Cafórnia, m. 2409), e si estende su un’area ben più vasta con ramificate dorsali che superano spesso i 2000 metri. Dominano i calcari, prevalentemente del Cretacico, cui si sovrappongono qua e là scarsi lembi di calcari, arenarie e brecce eo-mioceniche; la serie forma una grandiosa anticlinale di prevalente direzione da nordovest a sudest, troncata lateralmente, sul versante dei Campi Palentini, da una faglia longitudinale. L’affinità morfologica con il nodo centrale del Gran Sasso è evidente nella tipica forma a piramide aguzza di varie vette, fra cui quella del Monte Velino, e nel parallelismo delle due catene più elevate, congiunte dall’ardita barra trasversale del Monte Bìcchero. La dorsale interna si biforca a nordovest nelle creste del Morrone (m. 2141) e del Muro Lungo (m. 2184) che formano le Montagne della Duchessa; verso sudest, attraverso il bell’anfiteatro del Costone del Ceraso, s’innalza ancora nel Monte della Magnola (m. 2220) che scende con dolce declivio sulla valle di San Potito mentre strapiomba come una muraglia sul ripiano di Forme e sulla Valle Maielama. Verso nord la barra trasversale del Monte Bìcchero prosegue elevata fino al Monte Puzzillo (m. 2174), foggiato a nord ad anfiteatro, ramificandosi poi nella nuda dorsale del Monte San Rocco e

    L’esteso gruppo del Velino-Sirente e, in primo piano, i Campi Palentini.

    Monte Rotondo e in quella del Monte Orsello (m. 2043), dalla spiccata dissimmetria fra il versante meridionale nudo e dirupato e quello settentrionale boscoso e poco ripido.

    Il gruppo del Monte d’Ocre (m. 2204) si trova sull’orlo settentrionale del vasto altipiano di Rocca di Mezzo ed ha il consueto orientamento appenninico, allungandosi da nordovest a sudest al di sopra della conca aquilana e del solco dell’Aterno, separato dal gruppo del Velino mediante il Piano di Campo Felice e la Valle di Lùcoli.

    Al di là dei piani delle Rocche, il Sirente ha invece alcune affinità con la Maiella, presentandosi come una grande gobba allungata che termina in un lungo ed ondulato crinale, con ben scarse ramificazioni e un’accentuata dissimmetria dei versanti; quello volto a nordest è scosceso ed erto con alte pareti strapiombanti, mentre l’altro è in leggero pendio, in modo da presentare l’apparenza di una serie di alture allineate e continue. Così nel Sirente, la cui cima più alta, situata nella parte centrale, raggiunge i 2348 m., i versanti sono essenzialmente due, quello che prospetta l’Aterno e la Conca Subequana e quello che degrada fino al Fucino. Il motivo tettonico fondamentale è una serie di grandi fratture di direzione appenninica, fra le quali la più evidente è quella che corrisponde alla parete strapiombante volta a nordest, mentre sul lato opposto gli strati dei calcari cretacici, coperti da placche di calcari eocenici, seguono esattamente il pendio in modo che la superficie del versante è formata dai piani di stratificazione. Il paesaggio è spesso completamente brullo, desolato e grandioso, non solo nelle parti più alte ma anche in basso, immediatamente al di sopra dei centri abitati: basti pensare ai pendii aridi e pietrosi fra Collarmele, ai bordi del Fucino, e la Forca Caruso (m. 1107) al margine sudorientale del gruppo.

    Il Monte del Velino visto dalla piana del Fucino

     

     

     

    Inverno sul gruppo del Monte Velino verso il Rifugio Sebastiani.

     

    Non può essere, infine, tralasciato il bel rilievo della Serra di Celano (m. 1921), che incombe strapiombante sulla cittadina omonima limitato ad ovest dalla valle di San Potito e ad est dalla profondissima spaccatura delle gole di Celano, magnifico esemplare di canyon inciso dal torrente la Foce.

    Le asimmetrie dei versanti, che costituiscono una nota costante nelle dorsali di queste grandi masse calcaree, sono sempre dovute alla presenza di faglie, generalmente in serie come nel Sirente, o a pieghe-faglie che determinano il ribaltamento degli strati su terreni molassici più recenti, come è il tipico caso del Monte Cagno, al bordo nordoccidentale del piano di Rocca di Mezzo.

    Veduta del gruppo del Monte d’Ocre verso la conca di Tornimparte.

     

    Il Piano di Campo Felice, fra la valle di Lùcoli e l’altipiano delle Rocche.

    Il carsismo, naturalmente, domina un po’ dovunque nelle più svariate forme, dai vasti ed elevati piani ai minuscoli inghiottitoi spesso occultati dai detriti. I piani più estesi sono quelli delle Rocche, i quali costituiscono oltre a tutto la più agevole via di transito attraverso i massicci fra il Fucino e la conca aquilana. Questi sono in effetti due piani posti a diverso livello.

    Il piano di Rocca di Mezzo, a nord, è più ampio (lunghezza massima 7 km., larghezza da 2 a 5 km.) e si estende a una quota media di 1270 metri. Un dosso calcareo poco rilevato, al quale si aggrappa l’abitato di Ròvere, separa questo piano da quello di Ovìndoli, alquanto più alto (quota media, m. 1340) e di dimensioni più ridotte. La principale differenza fra i due piani sta nel fatto che il primo è un vero e proprio bacino carsico chiuso; il limitato reticolo idrografico superficiale, convoglia le acque nel Rio Gamberale che presso il villaggio di Terranera s’inabissa a 1253 m. di quota nell’ampio inghiottitoio di Pozzo Caldaia per poi riapparire in basso, presso il corso dell’Aterno, sgorgando a 696 m. dall’ampia apertura della Grotta di Stiffe. Le acque del piano di Ovìndoli vengono invece drenate in parte superficialmente, immettendosi nell’incisione della valle di Arano e giungendo al Fucino con il torrente la Foce.

    Altre importanti depressioni carsiche sono il Piano di Pezza (1400-1500 m.) fra il Monte Rotondo e il Costone del Ceraso, e il Piano di Campo Felice (oltre 1500 m.) fra il Monte Orsello e il Monte Cefalone, che il Vado della Crocetta separa dalla Valle di Lùcoli. Quest’ultimo piano è importante anche per i numerosi affioramenti di bauxite, in parte sfruttati.

    Le forme carsiche minori sono abbondanti, dai veri e propri campi crivellati della testata della Val Puzzillo alle numerose doline di maggiore ampiezza che si aprono sui versanti meno , ripidi delle Montagne della Duchessa e del Sirente, per finire ai tronchi di valle carsificati, fra i quali citiamo l’ampio Vallone di Teve, principale accesso, con le opposte valli del Bìcchero e Maielama, alle due maggiori catene parallele del Velino.

    I più begli esempi di grandi cavità carsiche, chiamati localmente « fosse », sono ad altezze molto minori, sulla parte inferiore del pendio del Monte d’Ocre che discende, a ben visibili gradini, sulla valle dell’Aterno. Molte se ne aprono fra San Panfilo d’Ocre, Fossa e Monticchio: la cavità più grande è la Fossa Raganesca, a forma regolare di enorme imbuto con il diametro dell’orlo superiore di circa 900 m., separata mediante un piccolo dosso calcareo da un’altra di forma e di dimensioni analoghe, detta Fossa del Castellano. Questi fenomeni hanno avuto una minuta descrizione da parte dell’Almagià, che vi ha trovato un particolare interesse perchè offrono in breve spazio esempi di tipi differenti per origine e per forma esteriore. La Fossa Raganesca, ad esempio, è dovuta ad erosione carsica superficiale; la Fossa Mezza-spada, a crollo in seguito ad erosione ipogea; le cavità occupate dai laghetti di

    San Raniero e di San Giovanni, a crollo della parte superficiale non calcarea (arenarie) in seguito all’erosione nei calcari sottostanti.

    Non molte sono le cavità sotterranee sufficientemente conosciute. La più nota è senz’altro la già ricordata Grotta di Stiffe che ha uno sviluppo di 600 m. e un dislivello complessivo di 65 m. Lungo il percorso ipogeo si incontrano vari laghetti, due grandi pareti verticali e, nella parte più interna, una certa abbondanza di concrezioni.

    Anche le impronte glaciali appaiono alquanto numerose. Depositi morenici si trovano sugli altipiani delle Rocche e nelle conche contigue, dal Piano di Pezza al Campo Felice, come ai piedi della parete del Sirente; grandiosa è la morena di Ovìndoli, deposta dal ghiacciaio della Magnola che partendo da un ampio circo si divideva in cinque rami, mentre il ghiacciaio di Pezza sboccava sull’altipiano di Rocca di Mezzo. Sul Velino il Suter ha individuato tracce glaciali inconfondibili: rocce levigate e striate, sul versante nord un magnifico anfiteatro formato da tre circhi sovrapposti a gradini terminanti con piani ricoperti di detriti, e inoltre soglie sospese, argini morenici e grandi massi erratici. Sul versante meridionale i ghiacciai, secondo il Gortani, sarebbero discesi fino a 1300 m. in corrispondenza del Vallone di Teve e fin sotto

    Il versante orientale del Monte Sirente dalla strada di Forca Caruso.

    i 1100 m. nella Valle Maielama, allo sbocco della quale si nota un residuo di cordone morenico che s’innesta direttamente nei depositi fluvio-lacustri dell’ampio ventaglio degradante da un lato verso Magliano dei Marsi, dall’altro verso Avezzano.