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La popolazione e la sua distribuzione

    La popolazione e la sua distribuzione

    L’aumento della popolazione

    Nella protostoria, genti di diversa stirpe e provenienza, Liguri, Celti ed Etruschi, raggiunsero il territorio lombardo e tutte vi presero stanza senza manifeste capacità di predominio o qualità di assimilazione, probabilmente anche per la natura stessa del territorio, che, frazionato da acquitrini e da foreste, a ciò mal si prestava. Tale fatto fu sicuramente anche causa di un limitato insediamento specialmente nella bassa, talché ai Romani sopravvenienti la regione dovette sembrare ancora scarsamente popolata. L’avvento romano impresse al territorio una profonda trasformazione e lasciò un’impronta duratura. Già nell’età repubblicana si tracciarono le grandi strade dirette ai valichi alpini, si affrontarono le prime opere di sistemazione delle acque, si fondarono colonie allo scopo di vigilare le vie di comunicazione e attorno ad esse si andò sviluppando l’agricoltura, talché, per quanto esteso fosse ancora il dominio del bosco e delle acque, la regione, a testimonianza degli antichi scrittori, potè venir considerata — ma forse non senza esagerazione — la parte più ferace della penisola con la quale si osava appena confrontare la felice Campania. Certamente però la colonizzazione romana dovette dare un grande impulso al popolamento; soprattutto s’avvantaggiarono le borgate ai guadi dei fiumi, come Ticinum, come Cremona, Hostilia e Mantua, e allo sbocco delle valli, come Comum, Bergomum e Brixia. Mediolanum, poi, favorita dalla sua posizione geografica, divenne il centro più degli altri popoloso ed attivo. Anzi, quando Roma decadde, Milano e le altre città non mostrarono di seguirne oscuramente il declino, ma divennero validi centri di resistenza alle cui mura convergevano gli abitanti delle campagne indifese e insicure. Poi, sommerse dall’orde barbariche sopravvenienti a ondate, vennero anche esse più volte rase al suolo e la loro popolazione fu decimata e dispersa; ma ogni volta risorsero più popolose e più vitali.

    Quanta popolazione assommasse durante le alterne vicende dei lontani secoli il territorio che si assegna alla Lombardia attuale non è dato di sapere; ma le indicazioni che si possono trarre dagli scrittori dell’epoca sono tuttavia tali da far sicuramente ritenere che sin dal Medioevo la Lombardia fosse una delle regioni a più fitta popolazione non solo dell’Italia ma dell’intera Europa.

    Solamente con l’Evo Moderno si possono avere alcuni valori sulla consistenza numerica della popolazione lombarda, ma, almeno nei primi secoli, poco indicativi, perchè riferiti a superfici territoriali corrispondenti alle divisioni politiche del tempo e quindi non coincidenti con l’attuale territorio assegnato alla Lombardia. Così l’indagine storica attesterebbe che verso la metà del secolo XVI la popolazione del Ducato di Milano avrebbe raggiunto 104.000 fuochi, ossia circa 600-700 mila anime; ma la configurazione territoriale di quel ducato non comprendeva che una modesta porzione della Lombardia attuale, e il dato non permette illazioni. Bisogna giungere al secolo XVIII per avere un conteggio abbastanza sicuro relativamente alla maggior parte dell’area attuale. Verso la metà del secolo, ossia all’inizio del regno di Maria Teresa, il settore di territorio lombardo che costituiva lo Stato di Milano (press’a poco corrispondente alle attuali circoscrizioni provinciali di Milano, Como, Varese, e parte di quella di Cremona — escluso però il territorio di Crema — al circondario di Pavia e al territorio di Treviglio) contava esso solo 1.050.000 ab. (secondo la valutazione del Bellati, 1.055.155); risulta poi dai «Sommari generali della popolazione », compilati dal 1770 per volere di Maria Teresa, che lo stesso territorio aveva visto accrescersi nel volgere di vent’anni la sua popolazione di poco più di 50.000 ab., cifra che coincide con il saggio medio d’incremento del medesimo periodo calcolato da diversi valenti ricercatori. Con l’integrazione dei dati di popo-

    L’aumento della popolazione assoluta (presente) in Lombardia dal 1750 al 1956.

    lazione assoluta del medesimo periodo relativi agli altri territori è stato possibile valutare la popolazione lombarda, entro limiti territoriali di poco inferiori agli attuali, a circa 2.100.000 ab., sicché da questa e dalle cifre precedenti pare possibile dedurre che, verso la metà del XVIII secolo, il territorio della Lombardia contasse approssimativamente 2 milioni di abitanti. La valutazione della popolazione assoluta nel secolo scorso dispone di maggior copia di indicazioni e il suo aumento può essere meglio seguito. Entro i confini posti dalla restaurazione con il Congresso di Vienna del 1815 (per cui dal computo restano esclusi la Lomellina e l’Oltrepò pavese), la popolazione lombarda era di 2.180.000 ab. su circa 21.570 chilometri quadrati. Alla data del primo censimento generale della popolazione lombarda, effettuatosi il 31 ottobre 1857, gli abitanti erano 2.843.000 e il dato è ritenuto lievemente errato per difetto. Nei quarantadue anni intercorrenti, l’aumento (dovuto soprattutto a incremento naturale) fu quindi di almeno 664.000 anime con un indice di variazione rispetto al 1770 da 100 a 135. L’accrescimento demografico, già manifesto nel secolo precedente, si andava dunque accentuando con il progredire del tempo. Infatti le indagini compiute ce lo rivelano negli ultimi decenni del secolo XVIII ancora saltuario e poco marcato, con un saggio di aumento oscillante attorno a una media di 2,4%o, poi continuo e deciso, con un saggio di aumento che tra il 1810 e il 1857 (se si escludono le funeste conseguenze della crisi economica, che ha caratterizzato i primi anni della restaurazione, e del colera, che ha imperversato nel 1836 e 1837) si mantenne intorno a una media del 7,2‰, con massimi superiori al 9%o. È da tener presente che tale aumento devesi soprattutto attribuire ad incremento naturale, a proposito del quale si deve pure aggiungere che, mentre nei primi decenni del secolo scorso l’incremento demografico fu ugualmente intenso sia nelle aree rurali che nei centri di commercio, nei decenni seguenti l’incremento nella campagna e nella montagna si andò accentuando sì da superare nettamente ogni valore riscontrabile nelle città.

    Il grandioso panorama del centro di Milano dall’aereo.

    Veduta aerea di Bergamo alta, che costituisce l’antico abitato, e di Bergamo bassa, che testimonia il successivo sviluppo.

    Magenta e la pianura a oriente dell’abitato, disseminata di centri

    Compiutasi l’unificazione italiana, la Lombardia, da quell’anno, si trovò ad essere, per popolazione assoluta la prima tra le regioni italiane. Entro i nuovi limiti regionali, che, salvo lievi modifiche, corrispondono agli attuali, il Censimento generale della popolazione d’Italia le assegnò 3.261.000 ab., pari al 13% della popolazione del Regno (entro i confini del tempo), mentre il rapporto territoriale della regione era dell’8% rispetto allo Stato.

    L’accrescimento della popolazione assoluta della Lombardia dal 1861 agli albori del nostro secolo continuò nel complesso ancor più imponente che non nel passato. Infatti il Censimento del 1901 dava una popolazione presente di 4.282.728 con un aumento complessivo esattamente di 1.021.728 ab. nel volgere di soli 40 anni, vale a dire con un aumento medio annuo dell’8,7‰. Ma, per una migliore valutazione della situazione, è opportuno tuttavia sottolineare che l’accrescimento della popolazione della Lombardia, a partire all’incirca dalla seconda metà deH’Ottocento, non si deve attribuire unicamente all’incremento naturale. Com’è noto, nel volgere di quel cinquantennio in tutta la Penisola vennero prendendo consistenza intensi movimenti di masse, in conseguenza degli squilibri arrecati dall’accresciuta popolazione nei confronti delle risorse locali e del richiamo determinato dal progressivo incremento dell’industria. Nell’àmbito della Lombardia, per la stessa varietà geografica del suo territorio, si manifestarono perturbazioni più complesse che altrove, perchè accanto ad aree che si potrebbero chiamare, per intenderci, di repulsione demografica, come quelle della montagna dove infatti si manifestavano i primi sintomi di esodo, si venivano via via delineando aree di attrazione, il cui richiamo, a causa del progressivo sviluppo industriale, si espandeva dalla regione lombarda all’intera Penisola. Rispetto alle direttrici degli spostamenti di popolazione nell’àmbito della regione (che verranno meglio lumeggiati nelle pagine seguenti) si può notare sin d’ora un abbandono delle aree rurali non solo della zona montuosa in genere e alpina in particolare, ma altresì della bassa, e nel contempo una convergenza, sempre più vivace, nell’area industrializzata o in via di industrializzazione, che corrisponde all’alta pianura e alla collina, e in particolare nei centri di esse. Ma non si trattava solo di trasferimento di popolazione locale dalla campagna alla città: contemporaneamente si accresceva anche il flusso dei lombardi che emigravano in cerca di lavoro nei vicini Stati europei o si avventuravano oltreoceano, il cui numero, tuttavia, era assai più esiguo di quello dei connazionali che giungevano dalle altre regioni.

    Pertanto nel primo decennio del nostro secolo il saggio di aumento della popolazione lombarda raggiunse le sue maggiori punte con una media annua dell’11,8‰ per stabilizzarsi poi sull’8‰ nei decenni successivi. In totale la popolazione lombarda presente al Censimento del 4 novembre 1951 risultò di 6.518.421 con un aumento, rispetto al 1750, della impressionante cifra di quattro milioni e mezzo di anime, delle quali ben 2.335.000 a partire dall’inizio del nostro secolo, nonostante che questo sia stato particolarmente generoso di crisi gravissime di ordine politico ed economico, culminate nelle due guerre mondiali. Dai rilevamenti annuali compiuti dopo il 1951 risultò che, a distanza di cinque anni, la popolazione lombarda era già di 6.879.000 ed è quindi facile presumere che alla data del prossimo Censimento essa avrà superato i 7 milioni.

    Rho e l’alta pianura milanese.

    Ovviamente la progressione e l’intensità dell’accrescimento numerico della popolazione ha manifestato notevoli differenze da zona a zona, in quanto, come già s’è accennato, alcune, come la pianura asciutta e la collina intensamente industriali, sono più ricettive ed altre, come la montagna e anche la pianura intensamente irrigua, sono meno ricettive. Ciò lo si nota del resto anche nella statistica per provincia. Quella che denuncia un aumento più notevole della popolazione assoluta, com’è facile intuire, è la provincia di Milano, che tuttavia ha un incremento naturale assai modesto; essa nei novant’anni intercorsi tra il Censimento del 1861 a quello del 1951 è cresciuta di 1.557.318 ab. (popolazione presente) e ciò pur sottraendo i circa 200.000 ab. del circondario di Varese che nel 1927 passarono a far parte della provincia omonima. Per contro l’aumento numerico di popolazione più modesto lo registra la provincia di Sondrio (che pure vanta un incremento naturale tra i più alti); per essa i dati statistici denunciano nel volgere di novantanni (1861-1951) un accrescimento di sole 44.128 unità.

    Nel complesso la zona dove la popolazione ha manifestato un più forte aumento è quella compresa approssimativamente tra il margine delle Prealpi e la linea dei fontanili, ossia quella della pianura asciutta e della collina, che corrisponde, come è illustrato altrove, alla zona di maggior sviluppo industriale. Minore è stato l’aumento della pianura irrigua e ancor minore quello della montagna, l’una prevalentemente agricola e quindi meno ricettiva di quella industriale, l’altra, agricolo-pastorale e, almeno in parte, comprensibilmente repulsiva.

    Il movimento naturale

    L’accrescimento della popolazione lombarda, come già s’è fatto cenno, non si deve attribuire al solo incremento naturale o, meglio, si deve attribuire in prevalenza ad esso soltanto, sino al periodo in cui la prosperità economica della regione, conseguente allo sviluppo commerciale e industriale, non cominciò ad esercitare un forte richiamo sulla popolazione di ogni parte d’Italia. Non ci si potrebbe spiegare infatti così forte aumento di popolazione, specialmente negli ultimi decenni, se si dovesse far riferimento solamente all’incremento naturale, non solo per il fatto che l’accrescimento è così cospicuo, ma anche perchè le statistiche dell’incremento naturale denunciano in media un progressivo e deciso regresso.

    A tal proposito è anzitutto da notare che l’andamento della nuzialità è tra tutti i fattori del fenomeno naturale il più stabile nel tempo, per quanto denunci anche esso una continua sebbene lenta regressione. Infatti la media lombarda nella seconda metà del Settecento è stata calcolata di 9 matrimoni annui su mille abitanti; nella prima metà dell’Ottocento di 8,5 matrimoni su mille abitanti. E tali dati paiono fondati, perchè nella seconda metà dello stesso secolo la media, calcolata su statistiche ormai sicure, oscillava attorno agli 8 matrimoni annui per mille abitanti con una leggera superiorità rispetto alla media generale dell’Italia. Pur regredendo lentamente entrambe le medie, tale vantaggio si mantenne nel nostro secolo sin verso il 1940, dopo il quale la media lombarda, flettendosi sui 7 matrimoni annui ogni mille abitanti, si trovò al di sotto del livello medio nazionale. Quest’ultimo sensibile regresso viene attribuito a diverse cause concomitanti: anzitutto alla contrazione della natalità durante e dopo la prima guerra mondiale, contrazione che in Lombardia fu più sensibile che altrove, per cui a distanza di due decenni si ebbe un minor numero di individui in età matrimoniale; poi anche all’aumento del livello medio di età degli sposi dovuto a motivi d’ordine generale, cui devono aggiungersi, per la Lombardia, motivi dipendenti dallo sviluppo regionale, quali l’accresciuta indipendenza economica della donna, le esigenze di arredamento della casa, ecc.

    Ovviamente si potrebbe obiettare che se tali motivi valgono per le aree più progredite della pianura e della collina lombarda, meno dovrebbero valere per la montagna dove gli abitanti conservano legami più saldi alle tradizioni. Tale situazione non è chiaramente deducibile dalle statistiche, per quanto i dati della nuzialità nelle circoscrizioni di montagna presentino talvolta (salvo il periodo che riflette le conseguenze della prima guerra mondiale) medie leggermente superiori a quelle delle circoscrizioni di pianura e di collina. Ad ogni modo vi può essere una giustificazione nel fatto che già dallo scorso secolo la montagna è teatro di un esodo (di cui si danno indicazioni appresso) che riguarda soprattutto i giovani in età matrimoniale.

    Metanopoli, cittadina di recentissima formazione presso San Donato Milanese, pochi chilometri a sud della metropoli.

    E’ evidente che la situazione riguardo alla nuzialità non possa che avere riflessi negativi sulla natalità, per quanto essa sola non sia sufficiente a spiegarne il cospicuo calo. E da notare infatti che il coefficiente medio della natalità lombarda non solo presenta, com’è fenomeno diffuso, una costante tendenza decrescente a cominciare dalla seconda metà del secolo scorso, ma manifesta, nella contrazione, un andamento tra i più accentuati. Lo possono rilevare con evidenza alcune medie a distanza di tempo: così mentre dalla metà del secolo XVIII alla metà del XIX si hanno quozienti oscillanti tra 40 e 42 nati l’anno per mille abitanti, nel 1872-75 la media del 37‰ già dimostra una notevole contrazione, pur rimanendo superiore a quella del Regno (36,8‰) nello stesso periodo; all’inizio del secolo (1901-05) la media era discesa al 34,8‰; nel 1925-29 al 24,8‰ e quindi ormai nettamente inferiore a quella dello Stato (27,2‰); nel 1949-53 media lombarda era addirittura del i5,4‰. E per quest’ultimo dato si noti che in esso si riflette il rialzo compensatore del dopoguerra, per cui è immaginabile che il coefficiente subisca ancora un calo, come già fanno intravvedere i dati di anni successivi. Nel complesso, soltanto nel nostro secolo, la media della natalità in Lombardia si è contratta del 56%, contro il 43% Per l’intera Italia.

    Fasano, stazione climatica del Garda, sul delta formato dal torrente Bornico.

    Riguardo alla situazione della natalità nelle diverse zone della Lombardia risulta interessante notare anzitutto che, sino al tramonto dello scorso secolo, la provincia di Milano teneva un primato nella natalità (39,2‰ nel 1872-75) seguita da Bergamo e Pavia (rispettivamente 38,5‰ e 37,6‰ nel medesimo periodo); Brescia invece aveva i valori più bassi (33,4‰ nel medesimo periodo). Lo scarto da zona a zona non era dunque molto marcato. Ai giorni nostri la situazione è ben differente. Le province di Bergamo, Sondrio e Brescia, pur registrando tutte un regresso nel tempo, mantengono coefficienti superiori non solo alla media lombarda e alla media italiana, ma anche e soprattutto alla media di altre province della regione; la loro media nel quinquennio 1949-53 è stata rispettivamente del 22,1 ‰, 20,9‰, 20,8‰, che dimostra un netto distacco dalle medie delle province di Milano con il 12,7‰ e di Pavia con il 10,8‰ per lo stesso periodo. Non si può far a meno di rilevare che i tre coefficienti massimi di natalità riguardano tre province i cui territori, adiacenti tra loro, si estendono in buona parte o in tutto nell’àmbito delle Prealpi e delle Alpi. Non si tratta di una coincidenza casuale: a giustificazione si può ricordare che nella montagna la tradizione patriarcale, benché non manchino attualmente segni del suo affievolirsi, ha più profonde radici. Ancor pochi anni or sono un’indagine sulla popolazione della Valfurva metteva in evidenza il gran numero di famiglie con una discendenza da 10 a 14 figli. Ma se tali tradizioni hanno potuto conservarsi più a lungo lo si deve anche alla tranquillità di cui ha goduto, per la sua situazione geografica, la maggior parte di questo territorio al limite della frontiera alpina; e lo dimostrano chiaramente, come esempio, gli avvenimenti dell’ultimo grande conflitto, durante il quale la zona fu più delle altre risparmiata.

    Il centro di Dervio, sul grande delta a ventaglio allo sbocco della vai Varrone.

    All’estremo opposto per valori di natalità si trova il Pavese, sul cui minimo contribuisce notevolmente la Lomellina, dove — si legge in una recente indagine — si è instaurato un regime di natalità propriamente francese, non solo nelle città ma anche nella campagna, come ugualmente si verifica nel vicino Piemonte. La contiguità geografica della Lomellina al Piemonte, e di questo alla Francia, costituisce un fatto geografico forse non trascurabile per spiegare la situazione demografica, tanto più se si tien conto delle vicende storiche e, tra queste, dell’appartenenza della Lomellina al Piemonte sino all’unità d’Italia e del legame tra essi vivissimo per la contiguità e le caratteristiche del territorio. Il regime di controllo delle nascite, ormai stabilizzatosi nel Pavese, manifesta per diversi segni di espandersi progressivamente in altre parti della pianura lombarda, soprattutto, com’è comprensibile, nei centri industriali, che sono in così gran numero a occidente dell’Adda, e particolarmente in Milano, la cui modesta natalità, che di poco supera la mortalità, porta un peso notevole sul coefficiente medio della provincia.

    Vedi Anche:  Gli abitanti delle città della Lombardia

    Rispetto alla mortalità il coefficiente medio per la Lombardia ha subito, di pari passo a quello nazionale, un regresso continuato nel tempo. Nella seconda metà del secolo XVIII, pur con oscillazioni di una sensibile ampiezza, la mortalità registrava una media di 37 morti per mille abitanti, mentre nella prima metà del secolo scorso, nonostante le epidemie del 1817 e del 1836, si manifestava una tendenza al declino con medie oscillanti sul 35‰. Nel 1872-75 l’indice medio annuo era del 30,4‰; poi, riducendosi ancora più nel nostro secolo, giunse nel 1949-53 a un livello medio del io,7‰, di solo qualche punto, quindi, superiore alla media annua dello Stato (10,i‰ per lo stesso periodo). Si ritiene comunque che la media lombarda non possa ulteriormente diminuire, poiché su di essa si riflette la composizione per età della popolazione che, in Lombardia, per il contrarsi della natalità, presenta percentuali di adulti nettamente superiori a quelle dei giovani. Le differenze di mortalità tra zona e zona non sono molto sensibili; tuttavia è facile rilevare che essa è nel complesso leggermente superiore nell’area di montagna, minore in quella di pianura; così alle medie annue del io°/0o e del io,2%o delle province di Milano e di Mantova (calcolate nel periodo 1949-53) fa riscontro un i2,4‰ della provincia di Sondrio. L’eccezione di Pavia per la zona di pianura, con un i2,i‰, avvalora l’affermazione precedente riguardo all’invecchiamento della popolazione conseguente alla bassa natalità. La stessa cosa non può dirsi ovviamente per la zona di montagna dove si registra invece un’alta natalità; quivi la maggiore mortalità si deve al fatto che i morti nel primo anno di vita sono ancora assai numerosi rispetto alla pianura, per le minori provvidenze di assistenza ginecologica, ostetrica e pediatrica; ma il distacco di mortalità infantile tra pianura e montagna è attualmente meno forte che nel periodo precedente la guerra e va progressivamente attenuandosi. Ciò avrà l’effetto — rileva giustamente un’indagine eseguita dalla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde — « di mettere a nudo statisticamente il contrasto tra province ‘ giovani ’ e province ‘ vecchie ’, tuttora mascherato dagli indici della mortalità infantile ».

    Com’è ovvio tutte le precedenti considerazioni scaturiscono anche dall’esame della situazione riguardante l’incremento demografico, derivato dall’eccedenza dei nati vivi sui morti. Il suo indice medio annuo (cui s’è già fatto cenno per i secoli XVIII e XIX) non poteva essere molto elevato nel passato per l’alta mortalità e non può essere elevato neppure ai nostri giorni per la bassa natalità. La media annua più alta si è avuta all’inizio del nostro secolo (11,8% nel periodo 1901-1905), allorché gli accentuati progressi della scienza medica giovarono a ridurre vieppiù la mortalità e il controllo delle nascite non aveva ancora accentuato il freno alla natalità; da allora la media d’incremento è venuta via via riducendosi sino a segnare 4,7‰ come media degli anni 1949-53, nettamente inferiore alla media annua generale dello Stato (pari a 8,6‰ per lo stesso periodo).

    I dati medi d’incremento annuo per provincia mostrano notevoli disparità. I più elevati (alcuni superiori anche alla media generale italiana) riguardano le province di Bergamo, di Brescia e di Sondrio con rispettivamente l’11,2‰, il 10,3‰ e l’8,5‰ (media 1949-53). Per contro i più bassi riguardano le province di Milano con il 2,7‰ e di Pavia che denuncia addirittura un indice negativo di -1,3‰, il che vuol dire che la mortalità supera la natalità. Ancora una volta quindi balza all’occhio la profonda disparità della situazione demografica tra le regioni montane e pianeggianti, al cui chiarimento ritornano utili le considerazioni precedenti. Ad esse si possono far seguire alcune considerazioni conclusive. Anzitutto che dall’esame dei dati regionali e provinciali pare di potere con fondamento asserire che, sotto l’aspetto demografico, la Lombardia si presenta come un’area di transizione tra il Piemonte e le Venezie. Infatti mentre la sezione occidentale della Lombardia, sia nella porzione di pianura come in quella di montagna, e cioè dalla Lomellina e dall’Oltrepò al Varesotto, presenta netti caratteri o evidenti prodromi di quella decadenza della natalità e quindi dell’incremento naturale che si è affermato come normalità nelle regioni piemontese e ligure, la sezione orientale, soprattutto nella porzione di montagna, ma anche, seppure in minor misura, in quella di pianura, e cioè dalla Valtellina al Mantovano, conserva coefficienti di natalità e quindi di incremento naturale ancora elevati che si accentuano come normalità nel Veneto e nel Trentino. E non par possibile fare tali constatazioni e considerazioni senza trovare un nesso, sia pure in forma interrogativa, con le vicende storiche regionali sino all’unità d’Italia, che a loro volta dan motivo di correlazioni, sia pure generali, con l’ambiente geografico. E infine un’ultima considerazione che vuol avvalorare quanto precedentemente esposto circa l’aumento della popolazione assoluta. A proposito di incremento demografico risulta che nel quinquennio considerato 1949-53 l’eccedenza dei nati sui morti per la Lombardia è stata in cifra totale di 155.329, mentre per lo stesso periodo si registra un aumento di popolazione assoluta di 251.642. È evidente che la differenza di 93.313 rappresenta il saldo positivo del movimento migratorio, ossia il flusso di connazionali giunti in quel periodo da ogni parte d’Italia a prender dimora in Lombardia. Generalizzando si può dunque dire che in anni recenti all’aumento della popolazione assoluta lombarda ha contribuito per circa il 60% l’incremento naturale e per il 40% l’immigrazione.

    Laveno, il maggior centro lacustre della sponda lombarda del Verbano.

    La densità di popolazione

    Addentrandoci nell’esame distributivo della popolazione lombarda giova anzitutto esaminare la situazione riguardo alla densità. Come informazione generica si può ricordare che sin dal Trecento la Padania insieme con le Fiandre costituivano le due aree di maggior addensamento di popolazione dell’Europa. Per quanto approssimativamente indicativo, può essere utile ricordare anche che, verso la metà del Cinquecento, sui circa 16.000 kmq. di territorio del Ducato di Milano si aveva, secondo un’indagine accreditata (Beloch), una densità media di 62 ab. per chilometro quadrato. Tale media (in considerazione della distribuzione del territorio del Ducato tra montagna, collina e pianura) non doveva scostarsi di molto da quella reale del territorio propriamente lombardo. È probabile che risulti molto vicina alla media reale anche la cifra di 93 ab. circa per chilometro quadrato ottenuta sui valori dedotti per la popolazione assoluta della Lombardia verso la metà del Settecento. Tale cifra trova convalida pure in dati successivi derivati da calcoli più sicuri, secondo i quali nel 1770 la densità sarebbe stata di 97 ab. per chilometro quadrato e nel 1815 di 101. I valori di densità media s’accrescono con ritmo progressivo e ininterrotto negli anni successivi: nel 1836, ad esempio, la densità media era già di 114 ab. per chilometro quadrato.

    Rappresentazione schematica della densità media per kmq. in Lombardia. Nella zona alpina e prealpina la densità è indicata entro i limiti dell’insediamento umano permanente di cui è segnata qualche quota indicativa.

    La sponda lombarda del Benaco a Gardone

    Dopo l’unità d’Italia, delineatosi nei suoi limiti fondamentali e ormai stabilmente il territorio delle province lombarde, il ritmo ascendente della popolazione relativa attraverso i censimenti decadali si manifesta con maggior precisione: 145 ab. per chilometro quadrato nel 1871; 182 all’inizio del nostro secolo; 233 nel 1931 ; 273 nel 1951. I calcoli annuali dopo tale anno rivelano che nel 1957 si erano superati i 290 ab. per chilometro quadrato e certamente la prossima data censuaria ne rileverà più di 300. Naturalmente i suddetti valori di densità subiscono un notevole accrescimento se, anziché sulla superficie territoriale vengono calcolati sulla superficie agrario-forestale: in tal caso nel 1951 già si raggiunge un valore di 327 ab. per chilometro quadrato. Nel primo caso, in una graduatoria per regioni d’Italia, la Lombardia si pone al terzo posto dopo la Campania e la Liguria, nel secondo caso invece la nostra regione si pone immediatamente dopo la Campania precedendo la Liguria.

    Il quadro della densità per province manifesta notevoli differenze. Al Censimento del 1951 i valori della circoscrizione di Milano detenevano il primato con 907 ab. per chilometro quadrato (di superficie territoriale), seguita a distanza da Varese con 396. Como aveva una densità poco inferiore alla media (272 ab. per kmq.), quindi, con decrescendo sensibile, seguivano nell’ordine Bergamo (244 ab. per kmq.), Cremona (217 ab. per kmq.), Mantova (179 ab. per kmq.), Brescia (177 ab. per kmq.), Pavia (170 ab. per kmq.) e da ultimo Sondrio con una densità di soli 46 ab. per chilometro quadrato. Rispetto alla totalità delle province italiane la circoscrizione di Milano si trovava al secondo posto nella graduatoria per densità, mentre Sondrio stava con Bolzano al terz’ultimo posto, seguita cioè da Nuoro (35 ab. per kmq.) e  da Aosta (29 abitanti per kmq.).

    Menaggio, sulla sponda occidentale del Lario, e la soglia che immette nella valle di Porlezza e al lago di Lugano.

    Per quanto le circoscrizioni provinciali non coincidano con le attuali, sembra tuttavia interessante e utile notare la situazione che si aveva invece, secondo i calcoli di M. Romani, nella prima metà del secolo scorso e precisamente negli anni 1816 e 1848. Sin d’allora la provincia di Milano risaltava per il suo primato (225 e 286 abitanti per kmq.); ad essa seguivano le province occidentali della pianura irrigua: Lodi con il territorio di Crema (162 e 179 ab. per kmq.), Cremona (126 e 146 ab. per kmq.), Pavia (135 e 156 ab. per kmq.) e ultime erano quelle che s’estendevano dalla collina alla montagna: Brescia (91 e 102 ab. per kmq.), Bergamo (73 e 86 ab. per kmq.) e Sondrio (24 e 28 ab. per kmq.).

    Il confronto di questa con la precedente situazione sembrerebbe permettere un’utile osservazione: che, nell’ascesa dei valori di densità, le province della pianura irrigua occidentale della Lombardia abbiano avuto un crescendo assai meno vivace di quelle il cui territorio si estende dalla pianura asciutta alla montagna. Poiché in queste non è stata certo la zona montuosa a influire positivamente (e i dati di allora e di oggi per la provincia di Sondrio lo dimostrano) occorre dire che l’aumento del loro valore di densità si debba attribuire esclusivamente alla pianura asciutta e alla collina.

    A completamento delle precedenti osservazioni può giovare l’esame distributivo della popolazione lombarda per le tre aree morfologiche: pianura, collina, montagna. A tal proposito ci si può avvalere, per il secolo scorso, dei dati del Cattaneo riferiti al 1836. Però, è da tener presente che le superfici delle tre zone calcolate dal Cattaneo differiscono da quelle attualmente adottate; ma più che della differenza di area, che del resto è di poco inferiore all’attuale, occorre tener conto delle varianti rispetto ai limiti tra una zona e l’altra. Tali varianti tuttavia, per l’evidenza morfologica, non sembrano sostanziali al punto da vietare un confronto con la situazione recente dato che in tutte e due i casi nel tracciato del limite tra montagna e collina si assegnano a quest’ultima i grossi centri pedemontani di Varese, di Como, di Bergamo e di Brescia. Orbene, dall’elaborazione dei dati del Cattaneo risulta che nel 1836 la zona di montagna sommava 504.000 ab., la collina 322.000 e la pianura 1.644.000. A distanza di quasi un secolo (Censimento del 1931) la popolazione di montagna risultava di 716.000 ab., quella di collina di 1.075.000 e quella della pianura di 3-753-ooo. Riguardo alla densità, per il 1836 si contavano 58 ab. per chilometro quadrato nella zona di montagna, 150 nella collina, 153 nella pianura; per il 1931 risultavano invece 76 ab. nella zona di montagna, 333 nella collina e 339 nella pianura. Particolarmente interessante si presenta il confronto statistico sia distinta mente per le due date, sia congiuntamente. È anzitutto facile rilevare, alle due date, l’altissimo popolamento della pianura; ma di particolare interesse risultano le varianti delle zone di montagna e di collina; quest’ultima, infatti, inferiore nel 1836 per numero assoluto di abitanti alla prima, a distanza di un secolo sopravvanza la montagna con un distacco tanto netto da esser significativo, nonostante il lieve divario dei limiti divisori tra le due parti. Del resto, anche se non si vuol dar peso al precedente confronto statistico, le deduzioni sono corrispondenti alla realtà (risultante da varie testimonianze e da diversi particolari), e si può anche aggiungere che la mutata situazione del popolamento delle due zone è lo specchio della mutata situazione economica delle stesse. Di fatto, la popolazione della zona collinare, nel primo Ottocento, aveva come fondamentale e grama risorsa la coltivazione del terreno arido ed avaro; ma nella seconda metà dello stesso secolo e più ancora nel nostro secolo lo sviluppo delle comunicazioni e delle industrie profuse la prosperità. Per contro lo stesso periodo portò nella zona di montagna la povertà, chè l’allevamento, dal quale un secolo fa il montanaro traeva la sua modesta prosperità, non ha potuto eguagliare, con il suo reddito, le esigenze dei montanari del tempo nostro, anche e soprattutto in conseguenza dell’altissimo incremento naturale.

    Clusone (648 m.) il maggior centro della media e alta valle Seriana, a dominio della morbida e ampia insellatura tra le valli del Serio e del Borlezza

    Rimane a questo punto ancora un fatto da chiarire: se davvero, come s’è prospettato precedentemente, la decantata fertile e pingue pianura non abbia tenuto, nel progredire del popolamento, un ritmo pari a quello della collina, problema per il quale le precedenti considerazioni non danno alcun apporto utile. Ma a tal proposito è anzitutto necessario ribadire una distinzione tra alta e bassa pianura, chè il quesito, se ha fondamento, può averlo solo nei riguardi della bassa, non dell’alta pianura che in ogni tempo è stata luogo dei massimi concentramenti.

    E’ un fatto che l’insediamento nella preistoria, secondo quanto attesterebbero i reperti, si diffuse maggiormente nella collina e nell’alta pianura; forse anche in periodo protostorico i popoli sopravvenuti nella nostra regione mostrarono di preferire le medesime aree; ciò che è comprensibile se si tien conto che allora la bassa, dove non era dominata dalla foresta, era invasa dagli acquitrini. Ma l’attrazione o la repulsione delle diverse zone sulle antiche popolazioni non serve ovviamente a spiegare il quadro distributivo della popolazione nei secoli più recenti, soprattutto se si tien conto, nei riguardi della bassa, che il lavoro e l’ingegno, risolvendo mirabilmente il problema della regolamentazione delle acque, determinarono lentamente ma progressivamente, a partire dall’epoca della colonizzazione romana, la bonifica di vaste aree. La bassa venne dunque via via trasformandosi in area fertile e ricca e, di conseguenza, si è indotti a supporre, anche di richiamo sulla popolazione. La fase avanzata della bonifica della bassa lombarda può dirsi raggiunta agli albori dell’Ottocento, se non prima, e non può far dunque meraviglia di trovarvi, come risulta dalle statistiche del 1816 e del 1848, un’addensamento che, se pur sempre inferiore a quello dell’alta pianura sede del massimo centro lombardo, sopravanza nettamente quello della collina, nè molto fertile nè suscettibile, almeno nel passato, d’irrigazione. Era quello un periodo in cui le massime risorse economiche si fondavano sull’agricoltura e quindi nessun’altra parte della Lombardia e dell’Italia poteva vantare una ricchezza pari a quella della bassa lombarda. Ma dopo la metà dell’Ottocento veniva delineandosi il felice connubio dell’agricoltura e dell’industria che si affermò dapprima nell’alta pianura e poi anche nella collina, favorite entrambe anche da più fitte vie di comunicazione. Di conseguenza, mentre in queste la nuova associazione di attività favoriva l’addensamento di popolazione, e tanto più intensamente quanto maggiore diveniva lo sviluppo industriale, nella bassa, meno favorevole per le sue stesse caratteristiche alla localizzazione degli impianti industriali, si stabiliva un ritmo di accrescimento demografico più moderato che ha portato alla situazione attuale. Questa scaturisce eloquente dalla rappresentazione cartografica costruita sui dati di popolazione residente offerti dal Censimento del 1951.

    Ponte di Legno (1258 m.) nell’ampia conca alla confluenza dell’Oglio Frigidolfo e dell’Oglio Narcarello.

    Dalla rappresentazione è facile anzitutto rilevare il sensibile variare della densità per fasce grossolanamente parallele tra loro e dirette da oriente a occidente. Di fatto spicca l’esistenza di una fascia mediana alla regione lombarda, allungata tra il corso del Chiese, nel tratto tra lo sbocco pedemontano e Montichiari, e le sponde del Ver-bano e del Ticino, nel tratto tra il limite prealpino e la linea alta dei fontanili, più espansa a occidente che a oriente, in cui la densità media oscilla tra i 200 e 500 abitanti per chilometro quadrato, più uniforme nella parte orientale che in quella occidentale e nel complesso con rarissime e piccole oasi al di sotto del minimo e vaste aree al di sopra del massimo e anche con più di 1000 ab. per chilometro quadrato. A lato di questa si dispongono rispettivamente a sud e a nord due altre fasce a densità minore: quella meridionale con densità media oscillante tra i 100 e i 200 abitanti per chilometro quadrato, pure con uniformità maggiore nella parte orientale e minore in quella occidentale; quella settentrionale con densità nel complesso oscillanti al di sotto dei 100 ab. per chilometro quadrato, ma con notevoli variazioni.

    È evidente la corrispondenza approssimativa di queste zone di addensamento con quelle altimetrico-morfologiche : quella mediana di altissime densità corrispondente grosso modo all’area dell’alta pianura e della collina compresa tra il limite superiore dei fontanili e la linea pedemontana; quella meridionale di medie densità corrispondente alla bassa; quella settentrionale di minori densità corrispondente alla montagna. Si potrebbe cioè dire, in via di prima approssimazione, che la variabilità di addensamento secondo la suddetta distinzione è riflesso della variabilità altimetrico-mor-fologica, per concludere ovviamente mettendo in rilievo l’influenza di questa su quella.

    Vedi Anche:  Tradizioni e dialetti regionali

    Bormio (1225 m.), nella vasta conca dell’alta Valtellina, alla confluenza del Frodolfo nell’Adda.

    Ma, fatte queste considerazioni generali, le tre zone si prestano a osservazioni particolari. Nella zona mediana spicca per la sua estensione l’area ad altissima densità del Milanese. Quivi l’area comunale di Milano ha, com’è ovvio, il primato con 7011 ab. per chilometro quadrato; ma densità ugualmente altissime presenta tutta l’area dei quadranti a settentrione della città, specialmente lungo le vie di comunicazione verso le città pedemontane, dove sono disseminati gran numero di centri industriali formanti una conurbazione, ossia centri molto ravvicinati tra loro e con tendenza a riunirsi l’un l’altro per mezzo di sobborghi lineari, talché in una rappresentazione cartografica, necessariamente sommaria, risulta un aggregato unico di altissimo addensamento; ma la stessa rappresentazione non manca di testimoniare del peso delle comunicazioni, mettendo in evidenza le ramificazioni di maggiore densità che a guisa di stecche di un ventaglio irradiano lungo la via di Varese, di Como, di Lecco e di Bergamo. La stessa cosa del resto si nota, seppure con diverso livello di densità, nel settore a sud di Milano. Quivi la linea dei fontanili, subito a sud della città, segna un netto calo di densità, ma ramificazioni e oasi di maggiore densità s’allineano lungo le vie di comunicazione specialmente dirette a Pavia, a Lodi e Codogno e lungo le congiungenti di queste città tra loro e infine tra Bergamo, Crema e Codogno, città che vanno assumendo via via un ruolo sempre più importante nel recente sviluppo industriale, favorito in parte dalle vicine sorgenti di metano. La maggiore uniformità dei valori di densità, che, fatta eccezione per i grandi centri, caratterizza, come già s’è accennato, la Lombardia orientale, è il riflesso di una maggiore uniformità di attività economiche e della palese insufficienza delle comunicazioni. Di latto è un’area ancorata per vaste zone quasi esclusivamente all’agricoltura, che, per quanto progredita e redditizia, pone pur sempre un limite alle possibilità di popolamento. Situazioni di disagio non mancano, ma non si prospetta, almeno per ora, una situazione acuta come quella della Lomellina in cui l’esodo di popolazione e la denatalità giustificano le vaste aree con densità nettamente al di sotto dei 100 ab. per chilometro quadrato.

    Gromo (675 m.), nell’alta val Seriana.

    Nucleo (= piccolo agglomerato di più di cinque case) sui prati-pascolo presso Campo Tàrtano (valTarlano) a 1050 metri.

    Nella zona di montagna il quadro della distribuzione della popolazione rispecchia con evidenza le caratteristiche delTaltimetria e della morfologia. E facile infatti rilevare come l’insediamento accompagni i fondivalle e la rappresentazione cartografica delinea bene tali zone a guisa di punte penetranti dalla fascia di collina nella zona della montagna, con sviluppo maggiore o minore in relazione alla maggiore o minore lunghezza della vallata stessa. Ma le diverse caratteristiche di altimetria e di morfologia della fascia prealpina nei confronti di quella alpina danno un’impronta diversa alla manifestazione nelle due zone. Si può dire, in breve, che, nell’àmbito della fascia alpina, l’area di più intenso insediamento si restringe tanto più vicino al fondovai le quanto più il solco si addentra tra i colossi montuosi e ne sono caratteristici esempi le valli di Chiavenna, la Valtellina e la Valcamonica. Nella lascia prealpina, invece, l’insediamento si espande maggiormente dal fondovalle su per i versanti, sui terrazzi, sui poggi, e l’area di maggiore densità, quindi, si espande dal fondovalle alla montagna. Caratteristico è l’esempio delle Prealpi bergamasche. Naturalmente il fatto non va oltre un certo limite; l’altimetria ovunque s’impone, sicché rimane sempre valida la legge per cui con l’altimetria l’insediamento dirada e scompare.

    Il limite massimo dell’insediamento permanente (se non si tien conto dei rifugi aperti tutto l’anno, tra i quali il « Casati », nel Cevedale, segna il massimo con 3267 m.) è costituito da Trepalle, frazione di Livigno, sotto il passo di Foscagno dal lato danubiano. Il centro è a 2079 m., ma la più elevata delle sue diverse dimore sparse si trova a circa 2200 metri. In versante padano il limite massimo è costituito da Montespluga, a 1908 m., alla testata della vai San Giacomo. Ma nel complesso il limite delle abitazioni permanenti oscilla su quote meno elevate; per quanto esso vari da luogo a luogo, si può ritenere che nell’àmbito alpino oscilli in media tra i 1000 e i 1200 m. con punte di maggior elevazione alle testate delle valli; nelle Prealpi tra i 700-900 m. con punte massime sino a 1600 m., pure alle testate delle valli.

    Trepalle, frazione di Livigno, l’abitato permanente più elevato della montagna lombarda. Veduta invernale.

    L’esodo dalla montagna

    La popolazione assoluta della montagna, come già s’è messo in evidenza, manifesta da almeno due secoli un ininterrotto progresso numerico, ma tale aumento da forse un secolo non sembra proporzionato all’incremento naturale, che conserva valori piuttosto alti, e ciò a causa dell’esodo di una parte della popolazione e soprattutto dei giovani. Il fatto non è esclusivo della montagna lombarda, e qui, come altrove, esso ha avuto origine allorché si è manifestato uno squilibrio dipendente da cause complesse, ma originato in fondo tra quello che le risorse locali potevano come massimo offrire e quello di cui gli abitanti necessitavano o che aspiravano ad avere e, sia per il loro numero sia per le accresciute esigenze, non potevano ottenere; situazione che è indice di superpopolamento. A tal proposito i valori di densità non hanno significato, per cui anche il dato medio per la provincia di Sondrio, pur cosi basso, non contraddice. Più significative semmai possono essere le statistiche di reddito: la stessa provincia, ad esempio, nonostante la sua economia prevalentemente agricola, concorre con il 2,86% al reddito totale agricolo della Lombardia e soltanto con l’i% al reddito totale della regione; nè in situazione molto più vantaggiosa, di quella che denunciano i suddetti dati per il territorio di Sondrio, si trovano le altre zone di montagna. Di conseguenza, poiché le risorse locali non sono suscettibili di notevole incremento, è ovvio che volendo conservare un reddito prò capite corrispondente alle già modeste esigenze del montanaro, una parte della sua numerosa famiglia cerchi lavoro altrove e che siano i giovani ad affrontare il trasferimento.

    Quando sia iniziato il fenomeno è difficile precisare anche per un àmbito ristretto come quello della montagna lombarda; comunque, nel 1931, un’analisi particolare sui risultati dei censimenti accompagnata da un’indagine accurata in luogo hanno permesso di studiarne l’andamento dal 1871 e di notarne l’accentuarsi di anno in anno sino al decennio 1921 -31, che per le manifestazioni di intensità del fenomeno non mancò di destare allarmi. Complessivamente il 53% dei comuni della montagna lombarda avevano denunciato un regresso più o meno forte di popolazione. Ma più che l’entità numerica dell’esodo, preoccupava il vero e proprio spopolamento della montagna, ossia l’abbandono delle dimore isolate permanenti, che nei casi migliori divenivano dimore temporanee ma spesso andavano in rovina, lo svuotarsi via via di frazioni più elevate e disagevoli che finivano in un desolato abbandono e, di conseguenza, l’inutilizzazione a cui erano destinati i terreni già coltivati e produttivi; insomma, l’abbassarsi progressivo dei limiti altimetrici dell’insediamento umano e dell’agricoltura in tutta la zona di montagna. Il fenomeno tuttavia non raggiunse le manifestazioni che si notarono nella montagna piemontese, ma non fu tuttavia così blando come nella montagna trentina e veneta: tra queste e quella lo spopolamento della montagna lombarda ebbe quasi un aspetto di transizione.

    Data la situazione del 1931, era ovvio, allora, presumere un progressivo aggravarsi, o, nella migliore delle ipotesi, un permanere inalterato della situazione. Invece, i dati del Censimento del 1951 dimostrano un sensibile attenuarsi, nel ventennio intercorrente, del fenomeno di esodo. Infatti, secondo una valutazione compiuta per tutta la regione montana della Lombardia nel periodo 1931-51, solamente il 12% dei comuni montani — contro il 23% del precedente periodo 1921-31 — denuncia una diminuzione superiore del 10% della rispettiva popolazione e, nello stesso ventennio, solamente il 22% dei comuni montani — contro il 30% del precedente decennio — accusa una diminuzione della popolazione inferiore al 10%. In totale dunque una riduzione tra i due periodi da 53 a 34%. Da controlli sporadici eseguiti in diversi luoghi risulterebbe tuttavia che l’abbandono delle dimore e dei coltivi non si sarebbe arrestato, pur non aggravandosi nella misura del passato.

    L’intensità dell’esodo dalla montagna lombarda non si presenta, ovviamente, uniforme, ma, al contrario, con notevoli differenze da zona a zona, da comune a comune; grosso modo si può dire che, secondo le indagini condotte nel 1934, esso fosse più accentuato nel settore occidentale e più attenuato in quello orientale; ma l’indagine sui risultati del Censimento del 1951 sovverte un poco tale generica caratteristica; infatti, mentre l’esodo risulta ancora vivace nel settore centrale della montagna lombarda e vivacissimo specialmente nella valle Brembana, al contrario risulta attenuato nel Varesotto da un lato, nel Bresciano dall’altro.

    Nelle montagne del Varesotto l’esodo ebbe impulso dall’apertura della ferrovia del Gottardo (1882) che accrebbe il richiamo verso la Svizzera, anche per il fatto che in quegli stessi anni si manifestava in modo ruinoso l’invasione della fillossera.

    Dimore in rovina in seguito ad abbandono a Campagnana nella valle Veddasca.

    La zona più colpita dall’esodo della popolazione fu la vai Veddasca, ma non furono esenti la Valcuvia e la Valganna. La prima è ancor oggi tra le zone lombarde di più intenso spopolamento, mentre altrove il fenomeno è notevolmente diminuito in relazione, probabilmente, allo sviluppo industriale della fascia pedemontana varesina e, in più modeste proporzioni, delle valli ad essa sboccanti. Nella montagna comasca la migrazione stagionale, già assai vivace sin dal secolo scorso, agevolò forse l’esodo definitivo di parte della popolazione. Il fenomeno si manifestò con particolare intensità — e tuttora continua, seppure con qualche attenuazione — nelle valli del Ceresio e dell’alto Lario quali la Valsolda, le valli del Liro, del Livo e di Albano. Nella valle Brembana l’esodo della popolazione è divenuto intensissimo dal 1921 al 1931 e, per quanto manifesti nel seguente ventennio una tendenza a decrescere, si mantiene tuttora il più intenso della regione lombarda. Ancor oggi la diminuzione numerica degli abitanti, che, con esodo spesso di imponente proporzione, colpisce oltre il 60% dei comuni, « è accompagnata dall’accentuarsi del carattere antirurale della popolazione; non solo il montanaro trasporta i centri della sua vita dalla alta e media montagna nel fondovalle, ma abbandona i terreni coltivati o li lascia degradare a forme meno attive e intense. Così non è infrequente incontrare terreni terrazzati in ottime esposizioni, un tempo vitali, adatti a piantagioni legnose, attualmente ridotti a prati stabili e persino a pascolo cespugliato e a incolto produttivo» (I.N.E.A.). La situazione muta sensibilmente nella adiacente valle Seriana, dove i segni esteriori dell’abbandono delle terre e delle abitazioni mancano o sono rari, come rari erano anche venti anni or sono, quando il fenomeno era più accentuato che non oggi. In realtà nella vai Seriana solo 3 comuni su 22 presentavano nel 1951 una diminuzione di popolazione; tutti gli altri, in compenso, presentavano un accrescimento di popolazione di notevoli proporzioni, cui non è probabilmente estraneo lo sviluppo industriale della valle. Ad accentuare il fenomeno in quella zona contribuiscono però la vai Borlezza e la vai Cavallina, dove l’esodo è sempre vivace. Nelle montagne di Sondrio e di Chiavenna l’esodo, già in atto da lungo tempo, non ha mai presentato una intensità uguale a quella della valle Brembana, nè mai ha manifestato segni esteriori di abbandono e di degradazione. Dopo l’accentuarsi del fenomeno nel decennio 1921-31, si constata nei decenni successivi una tendenza stazionaria, in conseguenza probabilmente dell’intensificarsi delle comunicazioni vallive, dello sviluppo del turismo e dell’incremento industriale della valle, non soltanto nel ramo idroelettrico. Un caso particolarmente interessante è quello della Valcamònica dove l’esodo, che pure tra il 1921-31 si era manifestato con notevole intensità, si è contratto al punto che nessun comune nel 1951 denuncia più, rispetto al 1931, una diminuzione di popolazione. Da ultimo è interessante ancora notare come lo spopolamento rimanga vivace sulle sponde lacustri così del lago d’Iseo, come del lago d’Idro, come anche del lago di Garda.

    Se il fenomeno di abbandono della montagna ha richiamato l’attenzione degli studiosi per la sua maggiore evidenza, non si può tralasciare di notare che esso non può considerarsi fenomeno limitato a quella sola regione. Anche le aree agricole della pianura, anche della parte più pingue, ne sono contagiate. Le manifestazioni più accentuate si avvertono nelle aree agricole della Lombardia occidentale e particolarmente nel Pavese. Nella Lomellina, ad esempio, tutti i comuni e in particolar modo quelli intensamente risicoli (fatta eccezione per Vigévano), sino al 1931 denunciavano un esodo a volte impressionante di popolazione. In epoca più recente il fenomeno sembra essersi attenuato, sia per l’insediarsi e lo svilupparsi in luogo di notevoli industrie, che assorbono gran numero di mano d’opera, sia per la crisi degli alloggi che, specialmente in seguito alla guerra, si è manifestata ovunque e soprattutto nelle città, sia infine per l’intensificarsi delle comunicazioni, che permettono trasferimenti quotidiani verso i centri industriali.

    Le stesse osservazioni possono valere anche per altre zone agricole del Cremonese, del Mantovano, del Milanese, della Bergamasca e del Bresciano, sebbene in esse il fenomeno si sia manifestato con più ritardo e in forma più attenuata. In ogni caso sono soprattutto i salariati e i giovani che si muovono: i primi spinti dallo stato di disagio economico, i secondi dalla ribellione al lavoro dei campi. L’attrazione è costituita, in genere, dall’industria e dalla città e in tal modo si dà vita a due fenomeni concomitanti : l’urbanesimo e l’emigrazione.

    Gerola Alta (1051 m.) nella valle del Bitto, che nel decennio 1921-31 denunciò lo spopolamento più forte della Valtellina (32%).

    Antichi opifici di lavorazione del ferro e del rame in rovina, a Gemmo (Valcamònica).

    Emigrazione e immigrazione

    Riguardo all’emigrazione si può anzitutto asserire che nel complesso il flusso emigratorio della Lombardia è stato, in proporzione al totale della popolazione ivi insediata nei diversi tempi, numericamente piuttosto modesto; ancor più modesto appare al confronto con altre regioni, anche adiacenti come il Veneto, e con il totale dell’emigrazione italiana. Si può altresì aggiungere che al flusso emigratorio dalla Lombardia fece riscontro in ogni tempo un flusso immigratorio, numericamente superiore, da altre regioni anche lontane, verso la Lombardia.

    L’emigrazione lombarda si manifestò fievolmente nella prima metà del secolo scorso con carattere stagionale o comunque temporaneo. In quel periodo il legame politico con l’Austria favoriva l’emigrazione verso di essa e colà si recavano quindi i lavoratori lombardi, in prevalenza muratori, fornaciari, scalpellini, manovali e piccoli commercianti. Per l’indole dell’economia alpestre era poi normale il trasferimento stagionale oltre confine di alpigiani.

    Dopo l’unificazione dell’Italia, il flusso lombardo di emigrazione, già più cospicuo per numero, ma ancora con un netto carattere stagionale, deviò dai Paesi tedeschi verso la Francia e, in misura minore, verso la Svizzera. In breve volgere di tempo il flusso prese notevole consistenza, sicché i primi accertamenti del 1876 presumono un contingente di emigrazione di 21.000 lombardi, pari a un sesto circa della totalità degli emigranti italiani, che, com’è noto, in quel periodo erano prevalentemente settentrionali. Mentre però andava via via aumentando e infine prevalendo nel quadro generale della emigrazione l’apporto meridionale, il flusso migratorio lombardo, posteriormente al 1876 e per circa venticinque anni (cioè sino alla fine del secolo) rimase oscillante attorno ai 20.000 emigranti l’anno, con percentuali, quindi, rispetto al totale dell’emigrazione, nel complesso progressivamente decrescenti. E interessante notare come in tale venticinquennio fine secolo il numero degli emigranti lombardi diretti sulle vie tradizionali, e cioè verso i Paesi europei, sia man mano decresciuto mentre andava ingrossando il numero degli emigranti diretti oltre Oceano. Di fatti, se ancora nel 1880 (anno che conserva le caratteristiche migratorie dei decenni precedenti),    su 17.575 partenti    dalla Lombardia, il 77,4% era diretto nei Paesi europei e il 21,9% nei Paesi d’oltre Oceano, quattro anni dopo, e cioè nel 1884, le percentuali pareggiavano (1i); quindi l’anno seguente il flusso transoceanico prendeva decisamente il sopravvento con il 70,9% (contro il 28% dell’emigrazione verso i Paesi europei). Tale situazione si conservava inalterata sino al 1898, anno in cui nuovamente e altrettanto bruscamente avveniva un capovolgimento (2) che riportava stabilmente gli emigranti sulle direttrici tradizionali (3).

    Nei primi tre lustri del Novecento anche per la Lombardia avvenne la grande emigrazione: infatti dal 1899 il flusso emigratorio lombardo si ingigantiva progressivamente sino a raggiungere il massimo assoluto nel 1913 con 87.133 emigranti, che rappresentavano un decimo dell’emigrazione totale italiana. In quell’anno, degli emigranti lombardi, il 73,6% muoveva verso i Paesi europei e specialmente verso la Francia e verso la Svizzera, il 25,2% verso l’America e specialmente verso l’Argentina, il Brasile e gli U. S. A., e il restante 1,2% verso le altre parti del mondo. E particolarmente interessante notare che, contrariamente a questa situazione generale per la Lombardia e per la massima parte dei territori di essa, la provincia di Pavia ha dato in ogni tempo un più elevato contributo all’emigrazione transoceanica che non a quella europea (4).

    Di frequente sulla montagna, a sopportare disagi e fatiche, rimangono i vecchi, poiché i giovani sono inclini a cercare lavoro nelle industrie e a trasferirsi nella pianura.

    Il flusso di emigrazione dalla Lombardia, per quanto consistente, non rappresentò, nemmeno al suo acme, una preoccupante emorragia demografica per questa nostra regione, tanto più che esso veniva largamente compensato da una contemporanea e più cospicua immigrazione di connazionali confluenti verso la Lombardia da altre regioni. La simultaneità dei due movimenti, che può apparire in se stessa irragionevole, serve in parte a chiarire i motivi dell’emigrazione lombarda. E evidente che, se al flusso emigratorio si contrapponeva un flusso immigratorio ancor più consistente, non poteva esserci carenza, in un quadro generale, di possibilità di lavoro. Ma queste erano variamente ripartite per i diversi settori di attività: crescenti in quello industriale, calanti in quello agricolo, e il trasferimento della mano d’opera da questo a quello non è soltanto problema di semplice buona volontà. Meno duttile a inserirsi nell’industria e nel commercio si dimostrò il montanaro ed è precisamente la montagna lombarda, dove più acuta si manifestava la crisi, che diede il maggior contributo all’emigrazione.

    Vedi Anche:  Ghiaccia, fiumi e laghi

    Il soggiorno estivo all’alpe (valVarrone).

    L’emigrazione dalla Lombardia tra il 1876 e il 1955.

    Un quadro abbastanza dimostrativo della situazione per le singole zone della Lombardia lo può dare il calcolo delle medie di emigrazione per provincia negli anni culminanti del fenomeno: tra il 1908 e il 1912 per ogni mille abitanti della Lombardia vi era una emigrazione media di 12,9 unità contro la media generale per lo Stato di 17,5. Nel 1912 tra le singole province lombarde quella di Milano precedeva ogni altra per il coefficiente più basso, di 7,3‰- Seguivano nell’ordine le province di pianura: Cremona (con 8,6‰), Mantova (con 10,1 ‰), Pavia (con 13,9‰); poi quelle che comprendono anche territorio di montagna: Brescia (con 19,9‰), Como (con 26,3‰), Bergamo (con 30,1 ‰); da ultimo Sondrio con ben 47,4‰.

    Il flusso emigratorio dalla Lombardia deve quindi ascriversi a un complesso di cause concomitanti connesse con la particolare morfologia del territorio e con la relativa economia, con il rapido sviluppo delle industrie di vario tipo e con la qualificazione della mano d’opera da queste richiesta. In un quadro geografico si deve soprattutto alla varietà naturale del territorio se mentre alcune zone erano e sono economicamente povere e quindi demograficamente repulsive, altre, al contrario, erano e sono economicamente ricche e quindi demograficamente attrattive, cosicché mentre in quelle si è verificata una forte emigrazione, in queste si è manifestata un altrettanto vivace e anzi numericamente più cospicua immigrazione.

    Interessante è il consolidarsi in questo periodo di alcune correnti migratorie tipiche per il particolare mestiere esercitato e per la provenienza ben circoscritta, quali ad esempio, quella dei cuochi dalla vai Veddasca (Varese), di ombrellai dalla montagna del lago Maggiore e del lago di Como, di stuccatori da San Fedele Intelvi (Como), di bottai e di arrotini da Caspoggio (Sondrio), di fornai da Morbegno (Sondrio) e di coltellinai da Premeno (Como).

    Dopo la parentesi determinata dalla prima guerra mondiale, l’emigrazione lombarda (come quella italiana) riprese nello stesso 1918 con vivacità, ascendendo nel 1919 a 47.836 emigranti, per ridursi quindi a una media poco superiore ai 30.000 emigranti l’anno nel decennio 1920-29. Nel decennio seguente il flusso emigratorio prese via via a diminuire, in Lombardia come in ogni altra regione, in relazione alla particolare situazione politica, sino a interrompersi del tutto con l’inizio della seconda guerra mondiale. La caratteristica più evidente dell’emigrazione lombarda, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, è data dal progressivo ridursi sino a discendere a cifre irrisorie del flusso transoceanico; non che la Lombardia avesse dato antecedentemente un alto contributo all’emigrazione oltre Oceano, ma il progressivo contrarsi e il quasi annullarsi di questa, denuncia chiaramente il prevalere del carattere di temporaneità dell’emigrazione, in quanto il lavoro nei vicini Paesi europei conveniva maggiormente. E da sottolineare infatti (e l’osservazione vale per l’emigrazione lombarda di qualsiasi periodo) che solo una bassa aliquota degli emigranti lasciava il Paese con un definitivo addio; i più rientravano dopo un periodo anche molto prolungato di lavoro all’estero.

    Dopo la seconda guerra mondiale l’emigrazione rinacque, ma, com’è noto, con caratteri nettamente differenti dai periodi precedenti, differenti soprattutto dal periodo dell’emigrazione antecedente la prima guerra mondiale. Dopo un primo momento di convulsa emigrazione clandestina, che però toccò assai poco la Lombardia, vi fu una moderata ripresa di emigrazione di lombardi della montagna verso i vicini Paesi europei e particolarmente verso la Francia per lavori di ricostruzione edilizia e di lavori agricoli; verso il Belgio e il Lussemburgo per lavori di miniera; verso la Svizzera per lavori agricoli e, limitatamente all’elemento femminile, per lavori domestici. Verso l’America meridionale il flusso emigratorio, numericamente esiguo, si distinse tuttavia qualitativamente, poiché costituito da tecnici e da operai specializzati (setaioli da Como, cotonieri da Busto, Legnano, Gallarate, meccanici da Milano, ecc.) destinati a divenire l’elemento di avvio e di sostegno dell’organizzazione industriale dell’Argentina, del Brasile, del Venezuela, ecc., e destinati quindi, a insediarsi definitivamente nei Paesi di immigrazione (5).

    Ricovero notturno di pastori sui pascoli alti delle Alpi lombarde.

    Condizioni sociali

    La profonda evoluzione economica, che, soprattutto a causa dello sviluppo industriale e commerciale, ha caratterizzato la vita della Lombardia da un secolo a questa parte, ha dato indubbiamente uno straordinario impulso al progresso nel campo sociale della regione. Tale progresso non può essere compendiato facilmente in forme o dati concreti, ma traluce per mille aspetti. Nel complesso non sembra esagerato riconoscere alla Lombardia un primato tra le regioni italiane, che si riflette beneficamente su queste anche come stimolo. Un indice significativo è dato dal tenore di vita che è difficilmente misurabile, ma che può essere indicato in parte dal reddito che è considerato come risultato ultimo dell’attività svolta dalle categorie produttive e costituisce pertanto un indice del grado con cui una comunità può soddisfare le sue aspirazioni. Esaminando la produzione della ricchezza che si manifesta in Lombardia « ci s: avvede che, tanto nel settore agricolo come in quello industriale, la nostra regione occupa un posto preminente per la molteplicità e il valore dei beni materiali e dei servizi dai quali il reddito è costituito, non soltanto nella destinazione finale al consumo ma anche nel ruolo complesso dei beni aventi carattere strumentale. Sorgono così legami innumerevoli con i processi produttivi che si svolgono nelle altre regioni d’Italia, legami evidenti nella tendenza all’incremento del reddito nazionale. Lo sviluppo economico e con esso le alterne vicende di prosperità e di depressione si manifestano chiaramente nel valor totale del reddito prodotto in Lombardia, del quale i singoli individui si attribuiscono quote sotto forma di salari, stipendi, rendite, interessi, profitti, ecc. In particolar modo si riconosce che la posizione dominante della Lombardia — dal punto di vista geografico e da quello produttivo — consente, fra l’altro, la formazione di ingenti redditi commerciali, i quali riflettono gli scambi, sia diretti che indiretti con altre regioni d’Italia » e ciò contribuisce notevolmente all’alto livello di reddito della nostra regione (C. R. PP. LL.). Per dare una valutazione compendiata in qualche cifra si può notare che il reddito globale della Lombardia nel 1952, come già nel 1938, rappresentava circa un quarto del reddito nazionale e, tra le province, Milano tiene da gran tempo un netto primato. Quanto al reddito prò capite è interessante rilevare che, fatto uguale a 100 il reddito medio per abitante dello Stato nel 1952, per la Lombardia si aveva nel medesimo anno un indice medio di 168, contro 139 per l’Italia settentrionale, 102 per l’Italia centrale e 53 per l’Italia meridionale e insulare. Milano deteneva ancora il primato tra le province lombarde con 230.

    Pavia. L’Università degli Studi.

    Ovviamente al livello del reddito si adegua il livello del consumo, il flusso dei risparmi e degli investimenti, aspetti che non consentono, per la loro complessità e per la loro dinamica, una facile misurazione riassuntiva che agevoli una visione sintetica. A titolo di curiosità riguardo ai consumi, si può ricordare che le statistiche relative alla spesa di acquisto di pane e pasta trovano la Lombardia in posizione di coda nella graduatoria per regioni, mentre per la spesa di carni la trovano in testa alla graduatoria. Così su 100 lire spese in complesso per alimentazione e tabacco, ne vanno al pane e alla pasta circa n in Lombardia, circa 13 nell’insieme delle regioni settentrionali e centrali e circa 20 nelle regioni meridionali e insulari; per contro sulle medesime 100 lire ne vanno alle carni 28 in Lombardia, 18 nelle regioni settentrionali e centrali e 15 nelle meridionali. Se si tien conto che la spesa media per

    pane e pasta è sempre più alta nella popolazione povera che in quella relativamente prospera (che ha possibilità di consumare idrati di carbonio più costosi come zuccheri, dolci, ecc.) e che l’inverso avviene per le carni, si può aver un indice significativo della situazione lombarda. Del resto le stesse deduzioni si possono trarre dai confronti dei consumi per spese voluttuarie, spettacoli, attrezzatura delle abitazioni, trasporti, ecc. Più significativo appare il fatto che in media nel flusso dei depositi a risparmio la Lombardia contribuisce per circa un quarto del totale nazionale. Questi pochi cenni non possono certo prospettare la situazione sociale che caratterizza la regione lombarda nel suo complesso, ma servono tuttavia a far intuire la condizione di prosperità economica che della situazione sociale è un aspetto di notevole peso. Essa non manca di far sentire il suo influsso anche nelle istituzioni culturali ; non solo infatti il benessere sollecita ad un affinamento culturale, ma indirizza verso le specializzazioni che lo stesso sviluppo economico richiede. In ogni grado di scuola « è infatti manifesto — si osserva giustamente in un’indagine regionale della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde — quel particolare carattere della cultura lombarda diretta più a scopi pratici che a scopi teorici, carattere espresso da un costume e da una mentalità tipicamente mercantili e industriali ».

    Istituti culturali

    A conferma delle precedenti osservazioni può valere l’alta percentuale di individui fomiti di titolo di studio: al censimento del 1951, si aveva l’89% (esclusi i bambini sotto i 6 anni), indice di poco inferiore al Trentino-Alto Adige, che tiene il primato tra le regioni italiane. Nello stesso anno gli analfabeti costituivano in media poco meno del 3%; tra le province si segnalavano quelle agricole della pianura per percentuali superiori alla media (Mantova 5%), mentre inferiori erano quelle di montagna (Sondrio 2%). Oltre a una preminenza per numero di scuole e di alunni, giustificata dall’entità della sua popolazione assoluta, la Lombardia vanta un’affluenza agli istituti d’istruzione tecnica e professionale nettamente superiore a qualsiasi altra regione e ciò in relazione precisamente alla sua caratteristica economica. La fondazione di questi istituti è antica: sin dal secolo XVIII sorsero i primi con carattere ben definito, quali le Scuole di lavoro propugnate da spiriti illuminati. Nel 1838, pure per iniziativa di commercianti e industriali, fu fondata a Milano la Società di incoraggiamento d’arti e mestieri (che ebbe come primo segretario Carlo Cattaneo) attualmente frequentata da più di 5000 allievi. Nel 1844 sorse a Bergamo la Società d’incoraggiamento per l’industria manifatturiera, da cui derivò l’Istituto tecnicoindustriale. Nel 1851 venne istituita dal Municipio di Milano una Scuola reale superiore a indirizzo commerciale, trasformata poi nell’Istituto tecnico per geometri «Carlo Cattaneo»; nello stesso anno ebbe vita la Scuola d’arti e mestieri di Brescia, divenuto poi l’Istituto industriale «Moretti». Al 1862 risale l’istituzione a Varese dell’Istituto tecnico-commerciale «Francesco Daverio », divenuto statale nel 1919. Nel 1866 fu fondata, auspice la Camera di commercio, la Scuola di setifìcio di Como, primo Istituto nel mondo per lo studio della tessitura della seta. In provincia di Como merita una segnalazione la Scuola d’arte del mobile e del merletto istituita a Cantù nel 1883. Ma, delle numerose iniziative di enti e privati, sono qui segnalate solo alcune tra le più antiche e significative; di molte altre, ugualmente benemerite, sorte nello stesso periodo e in seguito, è giocoforza tralasciare l’elenco. Insieme esse formano oggi un mezzo insostituibile di preparazione dei tecnici e delle maestranze cui è affidato in buona misura la prosperità della regione.

    Pavia. Il cortile dell’Università con il monumento ad Alessandro Volta.

    Nel quadro della cultura superiore la Lombardia vanta cinque grandi complessi universitari, di cui quattro a Milano e uno a Pavia. Quest’ultimo è in ordine cronologico il più antico; la sua istituzione avvenne con diploma di Carlo IV nel 1361 e la sua fama progredì nel tempo, nel campo delle scienze mediche, matematiche, fisiche e naturali. Vi tennero cattedra Alessandro Volta, Lazzaro Spallanzani, Antonio Scopoli nelle discipline fisico-naturali, Lorenzo Mascheroni e Antonio Bordoni nelle discipline matematiche, Antonio Scarpa nella chirurgia e Carlo Forlanini nella medicina, Vincenzo Monti e Ugo Foscolo nelle lettere, per non dire che dei più noti. Ad agevolare gli studenti più meritevoli sono stati istituiti sin dal secolo XVI due collegi: il « Ghisleri » e il « Borromeo », che godono di grande fama per gl’ingegni che ne furono ospiti. Complessivamente gli studenti iscritti nelle diverse Facoltà e nei diversi Istituti sono più di 5000.

    Il palazzo dell’Università degli Studi a Milano (antica sede dell’Ospedale Maggiore).

    A Milano il più antico complesso universitario è il Politecnico istituito nel 1859 e organizzato nel 1863. Agli inizi il Regio Istituto tecnico superiore, come allora si chiamava, ebbe la sezione di ingegneria civile cui si aggiunse ben presto la sezione di ingegneria meccanica, chiamata poi più propriamente di ingegneria industriale, con le specializzazioni di meccanica, elettrotecnica e chimica; nel 1933 si aggiunse anche la facoltà di architettura. Per la serietà di studio, l’estensione delle ricerche, il contributo di scienza, il Politecnico milanese gode di fama internazionale e lo dimostra il crescente afflusso di studenti che negli ultimi anni, nonostante la severa selezione, sono saliti a circa 3000.

    Accanto al Politecnico figura degnamente l’Università Bocconi, fondata nel 1902 per il mecenatismo di Ferdinando Bocconi, che volle onorare con l’istituzione la memoria del figlio Luigi, disperso nella battaglia di Adua. La Bocconi ebbe fin dall’inizio come obiettivo principale la preparazione e la ricerca nel campo degli studi economici e commerciali e solo nel 1947 si è aggiunta una sezione speciale per le lingue straniere, frequentata da più di 2000 allievi. Per i soli studi economici la Bocconi è frequentata da altri 2000 studenti e, con la accurata preparazione che fornisce in questo campo, essa dà un sostanziale contributo alla vita e al progresso economico della regione.

    Un complesso universitario imponente è costituito dall’Università cattolica del Sacro Cuore, con sede in un antico convento cistercense (restituito al primitivo splendore bramantesco) prossimo alla Basilica di Sant’Ambrogio. Fu fondata nel 1920 quale emanazione dell’Istituto di studi superiori « Giuseppe Tomolo » voluto da un gruppo di cattolici milanesi capeggiati da padre Agostino Gemelli, medico e psicologo votatosi a vita religiosa. In breve tempo l’istituzione, sostenuta dal contributo di offerte dei cattolici italiani, divenne meta di studenti di ogni parte d’Italia; il loro numero attualmente è di oltre 9000, distribuiti tra le Facoltà di giurisprudenza, scienze politiche e sociali, economia e commercio, lettere e filosofìa, magistero e agraria; quest’ultima, istituita nel 1953, con sede a Piacenza.

    I moderni palazzi dell’Università Bocconi a Milano.

    Uno dei chiostri bramanteschi della sede dell’Università cattolica di Milano.

    Ultima in ordine di tempo, ma già ricca di nobile e severa tradizione, è l’Università degli Studi, istituita, per sollecitudine di Luigi Mangiagalli e per aspirazione di eletti spiriti milanesi, con decreto del 1923. Essa si compone di quattro Facoltà: giurisprudenza, lettere e filosofia, scienze naturali e medicina, ed è frequentata complessivamente da oltre 8000 studenti. Tra il complesso di edifici dotati di moderna attrezzatura, si distingue la sede principale sistemata degnamente nell’antico palazzo dell’Ospedale Maggiore milanese, restituito al suo primitivo splendore architettonico.

    Tutti gli istituti universitari milanesi dispongono di ricche biblioteche specializzate; complessivamente le Università milanesi custodiscono quasi un milione e mezzo di pubblicazioni, cui vanno aggiunte oltre 600.000 opere della Biblioteca nazionale Braidense, ricca altresì di 2344 incunaboli e di 1636 manoscritti. L’Università di Pavia ha pure una ricca dotazione di circa 350.000 opere, di incunaboli e manoscritti. Notevoli sono altresì la Biblioteca governativa di Cremona, e le Civiche di Milano, Bergamo, Brescia, Como e Mantova.

    Ad affiancare e ad integrare l’attività della scuola vi sono in Lombardia numerose istituzioni culturali di alto livello, tra le quali va innanzitutto ricordato l’Istituto lombardo di scienze e lettere. Esso deriva dalla Società patriottica fondata nel 1776 per volere di Maria Teresa d’Austria e aperta ufficialmente con una prolusione di Pietro Verri nel 1778. Tale istituzione venne soppressa durante il periodo della Repubblica Cisalpina per risorgere poi nel 1797, per volere di Napoleone Bonaparte, con il nome di Istituto nazionale. Con il variare delle condizioni politiche, l’istituzione mutò varie volte denominazione e sede e nel 1863 assunse la sua definitiva struttura. L’attività scientifica si compendia in due pubblicazioni continuative, le Memorie e i Rendiconti che raccolgono studi e contributi regionali, e in pubblicazioni straordinarie quali quella riguardante le Opere di Alessandro Volta.

    Altro ente culturale di notevole livello è l’Istituto di alta cultura, ente privato con il fine di promuovere iniziative scientifiche di importanza regionale, nazionale e internazionale; si deve, ad esempio, all’Istituto di alta cultura la creazione dell’Università degli Studi di Milano e l’impulso alla pubblicazione della monumentale Storia di Milano della Treccani.

    Infine tra le istituzioni notevoli devono essere ricordate: l’Istituto per gli Studi di politica internazionale, fondato nel 1933, e l’Istituto per gli Studi di economia, sorto nel 1946.