Vai al contenuto

Tradizioni e dialetti regionali

    Tradizioni e dialetti regionali

    Declino delle tradizioni

    Senza dubbio (soprattutto se si fa il confronto con altre regioni dell’Italia) risponde al vero l’affermazione che le tradizioni popolari in Lombardia non abbiano avuto, neppure in passato, una spiccata caratterizzazione regionale. Ciò dipende probabilmente dalla situazione geografica della Lombardia (che, come è stato precedentemente accennato, rappresenta quasi una zona di transizione nella parte mediana della valle padana) e dalle vicende storiche in parte derivate da tale situazione. E un fatto accertabile che le antiche tradizioni popolari della Lombardia, pur non essendo affatto un bagaglio inconsistente e insignificante, più che autoctone furono allotoctone, ossia, più che germinate per un processo di formazione spontanea nel grembo del popolo stesso, furono apporto (ma certo non in senso assoluto e ovviamente con adattamenti locali) dall’esterno e per ciò stesso di adozione frequentemente non generale a tutta la regione. Forse anche per tale motivo l’attaccamento alle tradizioni si è dimostrato meno saldo che in altre parti dell’Italia e quindi risulta comprensibile il declino nei tempi nostri. L’inizio di tale declino può farsi risalire alla fine del secolo scorso, allorché si manifestò lo sviluppo dell’attività economica; poi, con l’accrescersi progressivo di questa, che ha modificato nettamente il ritmo della vita lombarda e ha determinato un forte afflusso di elementi eterogenei nazionali, il processo di affievolì mento si è accentuato; più rapido è stato nelle città e specialmente a Milano, più lento nelle campagne della pianura; maggiore resistenza ha opposto la montagna e specialmente la Valtellina e le valli bergamasche e bresciane, dove le tradizioni avevano potuto affermarsi in forma più autonoma e originale per l’isolamento che l’ambiente naturale offriva. Ma anche qui, ormai, sia per una più stretta partecipazione alla vita della pianura, sia per l’intensità del movimento emigratorio stagionale che disperde per periodi più o meno lunghi gran numero dei nativi in vaste porzioni del territorio nazionale ed europeo, il patrimonio delle tradizioni si è quasi del tutto annullato. Si può dire che il tramonto sia sopraggiunto con l’estinguersi della forma patriarcale della famiglia. Si fondava, questa, sulla supremazia familiare del vecchio genitore sui discendenti, figli, nipoti e loro consorti, che riconoscevano nel regiù (termine dialettale che ha quasi suono di regalità) il loro capo; per lo più la figliolanza era numerosa, anche di quindici e più figli, e con i generi, le nuore e i nipoti, che convivevano assieme sotto il tetto paterno, si avevano comunità familiari di alcune decine di componenti. Ma le grandi famiglie numerose, già da molto tempo eccezione nella pianura, sono ormai rare anche nella montagna e comunque i membri delle superstiti sono per lo più dispersi per esigenza di lavoro. Forse ultime in ordine di tempo ad estinguersi sono state le tradizioni legate alla parabola della vita e alle sue vicende liete e tristi, in particolare quelle legate al culto dei morti. Qualche vecchio abitante delle alte valli alpine ricorda ancora il tempo in cui era in uso tener viva la fiamma del focolare durante la gelida notte dei morti e disporvi attorno le seggiole, perchè i trapassati, tornando, potessero riscaldarsi; di solito si curava anche che la tavola fosse imbandita, che il secchio fosse colmo d’acqua e il fiasco di vino, perchè potessero altresì sfamarsi e dissetarsi. Via, raccontando le antiche credenze, anche i vecchi d’oggi sorridono come di ingenuità di un tempo lontano.

    Caratteristiche di un antico costume del Lecchese. Sono evidenti le varianti portate dall’adattamento moderno.

    Danze di un gruppo folcloristico: « I bei » di Erba,

    Insomma, di tutti i diversi modi con i quali si manifesta l’anima popolare — usanze, credenze, cerimonie, feste, spettacoli, canti, leggende e fiabe — ben poco o nulla oggi rimane. Ovviamente a Milano il processo di declino delle tradizioni è più evidente che altrove; e non è senza rimpianto che il vecchio e schietto Milanese ricorda le morte usanze della città provinciale del tempo dei navigli scoperti, della passeggiata sui bastioni, del carnevalone ambrosiano. Ancora un secolo fa, il Lombardo e specialmente il Milanese tipico era rappresentato laborioso e di cuore aperto, ciarliero e un poco ridanciano, ma poco proclive all’arguzia. Meno di un secolo fa, « quando l’Italietta provinciale incominciava a prendere coscienza di se stessa, un milanes in mar era un borghesuccio pacifico, amante della buona tavola e dei propri comodi, un tantino anche ingenuo e pusillanime ». Questo ritratto è molto cambiato e oggi si usa compendiare il mutamento in una parola, ossia dicendo che il Milanese si è americanizzato, termine che vuol significare non solo una propensione agli affari e al progresso, ma anche la perdita di quelle caratteristiche regionali che lo distinguevano. Se da un lato l’espressione può dunque sembrare un elogio, dall’altro può pesare come una condanna; e tanto più meritevole appare l’attività della Famiglia Meneghina, associazione ambrosiana che si propone di mantener vive le tradizioni e le caratteristiche locali, e in primo luogo gli aspetti più apprezzabili del Milanese, quali la generosità, la schiettezza, la serenità e l’equilibrio. Sarebbe però del tutto errato considerare Milano e il Milanese proclivi a « standardizzarsi » sullo stampo di una qualsiasi città e di un qualsiasi cittadino americano. Se, infatti, le tradizioni esteriori sono scomparse, rimangono tuttavia tendenze spirituali, formatesi attraverso millenni di storia, che difficilmente sono soggette a scomparire e delle quali è possibile cogliere la sottile essenza solo vivendo lungamente nell’ambiente. In misura diversa e in diverso modo le precedenti considerazioni per Milano valgono anche per le altre città lombarde.

    Donne in costume a Cimbergo (Valcamònica)

    Non molto diversa, come già s’è accennato, è la situazione della campagna. Il richiamo di lavoro delle industrie spinge una parte dei residenti nella campagna al viaggio quotidiano verso la città e il riflesso della vita cittadina si manifesta ovunque evidente. Un esempio manifesto può essere quello dell’abbigliamento. Le fogge locali sono da tempo in disuso e persino del tutto dimenticate. Solitamente si indicano come costumi più rappresentativi e quasi per antonomasia lombardi, benché non fossero di tutta la regione, quelli con i quali si sogliono raffigurare Renzo e Lucia; ma tanta fortuna è conseguenza del romanzo manzoniano. In realtà le varie parti della Lombardia avevano costumi diversi e in genere assai belli anche se non molto vistosi, che talvolta vengono riesumati (ma purtroppo con evidenti trasformazioni) in occasione di sporadiche manifestazioni folcloristiche, fatte soprattutto per richiamo turistico. Come vero e proprio residuo dei costumi lombardi rimangono gli scialli di lana, ampi e frangiati, stampati a fiori dai colori vivaci su sfondo scuro, che oggi vengono spesso utilizzati come tappeti, a ornamento della dimora. Più di frequente le valli alpine tuttavia, come ad esempio, Grosio in Valtellina, riservano ancora la sorpresa di qualche rara donna in costume completo anche nei giorni di lavoro.

    Carnevali e danze campestri, cortei e processioni un tempo frequenti e spesso grandiosi, se ancora sussistono sono una pallida e non raramente cattiva copia delle antiche manifestazioni. Di quel che rimane, tuttavia, qualcosa è di buon gusto: non si fa torto a nessuno portando come esempio i Jìrlinfò di Cantù, gruppo musicale con strumenti a fiato costituiti da molte cannule, opera dell’artigianato locale.

    Usanze collegate con il lavoro dei campi e con l’allevamento sono nella maggior parte in declino e alcune vanno quasi del tutto scomparendo. Per il baco da seta si usava propiziare il buon andamento in diversi modi: nel Pavese donando alla chiesa un ramo carico di bozzoli, in Brianza benedicendo i graticci nella notte di Natale, nel Comasco recando le carte forate di muta al Crocefìsso miracoloso di Como, ecc.; scomparso l’allevamento son caduti gli usi. E chi ormai celebra più al 24 aprile, giorno di San Giorgio, la festa del latte, durante la quale si concordavano i contratti annuali ? Son tutte tradizioni ormai appartenenti al passato e anche gli aspetti più infantili di esse, come le favole e le filastrocche, sono caduti in disuso. Forse unico elemento ancora vivo, per quanto anch’esso in sensibile declino, è il dialetto.

    I dialetti lombardi

    Graziadio I. Ascoli nel suo saggio famoso L’Italia dialettale collocò il lombardo fra i dialetti che si staccano dal sistema italiano vero e proprio, ma non entrano a far parte di alcun sistema neolatino estraneo all’Italia, e più particolarmente fra i dialetti gallo-italici, divisi in quattro gruppi: ligure, pedemontano, lombardo, emiliano. Se però ricerchiamo fra i tratti fonetici che l’Ascoli isola come peculiari dei singoli dialetti, quelli che caratterizzano il lombardo, ci avvediamo che la messe non è copiosa. Vediamo caratteristiche comuni al piemontese-lombardo-emiliano oppure al piemontese-emiliano o al piemontese-ligure o a tutti i gruppi insieme; vediamo delle peculiarità liguri (quali il dileguo di r intervocalico che tuttavia si riscontra anche nell’alto Milanese); ma quali peculiarità esclusive del lombardo non vediamo che la risoluzione del gruppo consonantico latino et in c (esempio: noe, fac, lec) che però varca i confini di Lombardia estendendosi a paesi in cui già son notevoli i tratti piemontesi o emiliani. Evidentemente un tratto fonetico, pur esclusivo di un dialetto, non può riassumerne in sè tutta la fisionomia che è molto più ricca e complessa. Anche in una frase del tutto priva di quell’elemento caratteristico (senza tracce di noe, fac, ecc.) si può chiaramente riconoscere in un parlante l’accento lombardo, che pur varia di paese in paese. Esistono infatti, più che un dialetto, i dialetti lombardi che si diversificano, pur conservando una fonda-mentale somiglianza. Le divergenze sono il riflesso del relativo isolamento in cui vissero, specialmente in certi tempi, i singoli paesi; le somiglianze scaturiscono sia da un’origine comune, sia da processi di livellamento, provocati da contatti e scambi tra le diverse località, e soprattutto dal prestigio culturale di cui hanno goduto e godono i centri più importanti. L’origine comune è, come tutti sanno, nel latino volgare quale fu appreso e parlato dalle popolazioni celto-liguri di questa regione dopo la conquista romana, le divergenze attestano sia l’isolamento, sia la vitalità dei singoli centri, la loro resistenza contro i processi di livellamento, la capacità di adattare al proprio sistema linguistico le innovazioni giunte da fuori. Il centro che esercitò la più forte azione livellatrice, specialmente nella Lombardia occidentale, oltrepassandone anche i confini, è Milano; nella orientale spicca per una particolare vitalità Bergamo; ma, soprattutto in questo secolo, è andato crescendo con ritmo sempre più rapido l’influsso della lingua nazionale, favorito da strumenti di diffusione straordinariamente efficaci quali la stampa, il cinema e le trasmissioni radiofoniche e televisive. La situazione odierna nei centri più popolosi e industrializzati così si presenta: i bambini imparano l’italiano; i genitori, quando non siano immigrati (e l’immigrazione contribuisce a favorire l’italiano come mezzo comune di scambi linguistici), parlano un dialetto livellato sul milanese; i vecchi conservano più o meno le caratteristiche locali. Per fare un esempio, a Legnano molte persone dicono italianamente il latte con una gamma di sfumature che interessano l’oscuramento (velarizzazione) di a e l’indebolimento di tt; molti dicono ul lati alla milanese, ma con l’articolo locale (ul invece del milanese el) e con a sempre più scuro che a Milano; solo pochissimi si ostinano ad usare l’autentico indigeno ul laci. Anche a Milano el latt ha, credo, completamente scacciato con l’aiuto dell’italiano latte, il vero milanese lacc, mentre resiste un po’ meglio face non tanto nel senso di « fatti », quanto di « faccende ». Il che mostra come nella tendenza a modificare un determinato suono in un altro, tendenza che accomuna tutti i vocaboli in cui compare il detto suono, ogni vocabolo ha una sua vicenda e lotta con inaspettati nemici e alleati. Il milanese e l’italiano sono dunque due modelli linguistici vivi nella coscienza dei parlanti e tali da esercitare un’azione corrosiva sui lineamenti più caratteristici dei singoli dialetti. Una ragazza della valle Anzasca interrogata se al suo paese « sempre » si dicesse soimpar, rispose, scoppiando a ridere, che solo i vecchissimi « usano tale pronuncia, noi giovani parliamo ormai milanese e diciamo sempar » (il milanese invero dice semper).

    Vedi Anche:  Milano e le maggiori città lombarde

    Queste esemplificazioni vogliono chiarire la situazione attuale dei dialetti lombardi, variabile da luogo a luogo. Vi sono paesi più isolati e più attaccati alle proprie tradizioni linguistiche, altri più aperti ai contatti e agli scambi culturali, più pronti a dimenticare il proprio passato per avvicinarsi a forme ritenute culturalmente e civilmente superiori. Ma entro ogni paese esistono varie stratificazioni linguistiche rappresentate ora dai conservatori delle forme più indigene, ora dagli individui più permeati di cultura extramunicipale e nazionale. Accade pure che uno stesso individuo si serva di piani linguistici diversi a seconda che conversi con la vecchia madre o col giovane amico o col forestiero. Chi fa un’indagine sui dialetti tende naturalmente a isolare gli strati più arcaici, la parlata dei vecchi conservatori, trascurando volentieri la massa dei parlanti più o meno italianizzati. Ciò, anche se altera il quadro reale della situazione linguistica attuale, è pienamente giustificabile non già perchè i romantici fondatori della linguistica scientifica la concepirono come uno strumento per ricostruire le fasi più remote della lingua e solo in tempi recenti si sono affermate tendenze più attualistiche, ma perchè l’aspetto caratteristico e individuale attira il nostro interesse più del generico e del comune; ed è estremamente necessario salvare un materiale così prezioso prima che il progressivo livellamento culturale ne cancelli la memoria.

    Caratteristiche dei dialetti lombardi

    L’Adda divide linguisticamente la Lombardia in due settori: occidentale e orientale. Quest’ultimo occupa le valli bergamasche e scende lungo il Garda e il Mincio verso il Po, che solo nel Cremonese segna il limite dei dialetti lombardi. L’occidentale varca anche largamente il Ticino, ma il territorio tra questo e la Sesia costituisce una specie di condominio lombardo-piemontese. (Consideriamo, per esempio, una desinenza verbale della prima persona plurale: -urna. Essa caratterizza il Piemonte e giunge fino al Ticino; ma per quella dell’infinito della prima coniugazione, -are, che in Piemonte è -é e in Lombardia -à, noi troviamo -à, come carità, arida, in tutta la Lomellina e persino oltre la Sesia, sotto Vercelli). Ma è naturale che nelle zone confinanti con le altre regioni si trovino le infiltrazioni di fenomeni tipici dei territori d’oltre confine. Per esempio, nella stessa città di Pavia, appena passato il Ticino, nel cosiddetto Borgo, si nota che parole, quali viri, fin, ben, suonano vei, fei, bei. Si tratta del dittongo emiliano da in, én con la caduta del suono nasale. Anche il Mantovano risente dell’Emiliano, oppure, col Bresciano, del vicino Veneto. Vi si dice infatti veda, orecia, che a Milano o Bergamo suonano vegia, oregia. (Possiamo precisare: a Crema si dice ugiada, da Soresina verso est si dice ociada). A settentrione i dialetti delle valli alpine risentono della vicinanza dei territori ladini e, specialmente nella zona di Bormio, gli elementi ladini e lombardi si intrecciano fortemente.

    Costume valtellinese.

    Consideriamo ora alcuni fenomeni che il lombardo ha in comune con gli altri dialetti dell’Italia settentrionale. Cominciamo con la tendenza a semplificare le consonanti doppie. Si confronti l’italiano « coppa », « bocca », « matta » col lombardo cupa, buca, mata. La grafia tradizionale del dialetto nasconde alquanto questo fenomeno. Il milanese infatti scrive quel gran dottor, ma pronuncia quel grà dutùr con l’ultima vocale lunga. Piuttosto le consonanti finali subiscono a Milano e in altre località un rafforzamento articolatorio per cui talune consonanti sonore diventano sorde: tiicc, vècc, gòp, donn. La Lomellina è forse la zona in cui il raddoppio delle consonanti è più vivacemente sentito.

    Un suono caratteristico della Lombardia (unita però al Piemonte, alla Liguria, a parte dell’Emilia, del Trentino e dei territori ladini) è il cosiddetto il lombardo, derivato da u latino: film, lima, brut, fumo, luna, brutto. Tuttavia nel settore occidentale questo il in molte parole si è aperto in o senza una regola precisa, per cui si dice bròt, so, ma diir, crii. In certe zone alpine iì avrebbe perso il suo carattere palatale tornando al suono latino e toscano u.

    Rari costumi ancora in uso in Valtellina (Grosio).

    Fenomeno importante e comune a gran parte dei dialetti settentrionali è la leni-zione delle consonanti intervocaliche. Mentre l’italiano dice pepe, seta, formica, il milanese dice pever, seda, furmiga. Questo raddolcimento può avere ulteriori sviluppi, arrivando fino alla scomparsa della consonante stessa. Invece del toscano « cognata », il milanese dice cixgnada, ma in Brianza abbiamo cilgnàa, e a Varese per impedire la confusione delle due vocali si inserisce una consonante nuova: ciignava.

    Tanto in Lombardia, quanto in Piemonte ed Emilia (e, si può aggiungere, in Francia) le vocali finali non accentate sono tutte scomparse all’infuori di -a. Mentre l’italiano dice « tempo », « orbo », « latte », il lombardo dice temp, orb, lat (o lac). (Certi gruppi di consonanti richiedono una vocale di appoggio, come scendra). Esiste però nell’alto Milanese una zona abbastanza estesa e gravitante su Legnano e Busto Arsizio, in cui le vocali finali non sono cadute: tempii, orbu, laci. Condizioni analoghe si ritrovano a Sant’Angelo Lodigiano e, appena passato il Ticino, a Galliate, a Borgomanero.

    La Lombardia è in buona parte circondata da regioni che conoscono in varia misura il passaggio a e della vocale a in fine di sillaba accentata (per cui « trave », «sale», «Natale» suonano tref, sei, Nadèl).

    Questa alterazione è scarsamente conosciuta in Lombardia: vale a dire in alcuni paesi della Valtellina e in una piccola area della Brianza attorno a Carate (Care).

    Tuttavia il passaggio a è di à seguita da n si trova anche nel contado di Busto Arsizio (pèn, mèri: pane, mano) e nel Vogherese (rana, gamba). Invece è assai diffusa, specialmente nel settore occidentale, la tendenza a oscurare a sotto accento tonico, spostandolo verso o; tendenza comune ben diffusa anche in Piemonte. (Anche quando parlano in italiano molti lombardi e piemontesi pronunciano ogni a sotto accento, quasi come o aperto).

    Comune a quasi tutta la Lombardia è l’alterazione di al davanti a consonante in ol ; per cui « caldo », « salta » suonano coki, solta. (A oriente si arriva fino a tacere I: oter: altro).

    Sempre nel settore orientale si verifica la tendenza ad aprire fino a e quella vocale i sotto accento che nel latino classico era lunga; per cui a Bergamo si dice ostarea, sea, leber: osteria, sia, libro.

    Consideriamo ora le due vocali chiuse, toniche, del latino volgare e, o. La prima è generalmente conservata in Lombardia, ma in un piccolo gruppo di parole si chiude in i: sira, tila, scira, candita; fenomeno assai più esteso nel settore orientale, come a Bergamo: mis, nif, bif, pir, pii, ecc. Questa tendenza a una maggiore chiusura si rivela assai più intensamente nell’altra vocale, o (ossia o lungo, u breve del latino classico), che in molti luoghi passa a u sia in Lombardia che in Piemonte e Liguria. La grafìa tradizionale del dialetto milanese vuole che si continui a scrivere o in luogo di u, per cui si scrive so, pozz ma si legge su, puss. Questo stesso fatto e la persistenza di o in molti luoghi induce a credere che si tratti di un processo abbastanza recente e non compiuto.

    Le due vocali aperte corrispondenti (ossia e, o brevi del latino classico) quelle che prime e più largamente si dittongarono in fin di sillaba (si pensi a « piede », « fuoco ») e anche, per quanto riguarda i dialetti ladini, nell’interno della sillaba, presentano una situazione complessa. Generalmente suonano aperte in sillaba chiusa {fèsta, tempèsta, avèrt; sòpp, mòli, òss), mentre in sillaba aperta e suona chiuso e o si turba in ò. Questi due risultati presuppongono però una dittongazione ie, uo che spiega l’esito i in qualche punto della Valtellina (Albosaggia) e del Bresciano: fil, mil: fiele, miele. Ma il processo non dovette seguire una linea di sviluppo così chiara, quale si ebbe in Francia, perchè riscontriamo o anche in sillaba chiusa (entrano in giuoco influsso di palatale e metafonia) in un gruppo di vocaboli che si allarga quanto più saliamo a settentrione verso le valli del Ticino, dove troviamo o anche al posto di o chiuso del latino volgare. Per esempio, in vai Veddasca « gola », « cote » suonano gora, kòt. In taluni luoghi di queste stesse valli o è mal tollerato e mutato in e. Così abbiamo in brevissimo spazio una molteplicità di esiti: kòr, ker, kor: cuore; lanzó, lanzé, lanzò: lenzuolo; fója, feja, foja: foglia; nòe, nec, noe: notte; kòl, kel, kol: collo; ecc.

    Le alternanze morfologiche dovute a metafonia (ossia airinflusso prodotto sulla vocale tonica dalle vocali finali i, u), quali vec-vic vecchio-vecchi; denciu-dinci: dente-denti; fiòl-fiola: figlio-figlia resistono ancora nelle valli e nel ceto contadino, ma spariscono rapidamente nei centri più popolosi. Un fenomeno di armonia vocalica inverso alla metafonia è quello che si verifica in alcune valli ticinesi (come Leventina e Veddasca). Lì la vocale d’uscita si intona o si assimila alla vocale tonica: oco invece di « oca », parolo invece di « parola », siri invece di « sera », ecc.

    Anche il lombardo conosce la scomparsa della vocale postonica nelle parole sdrucciole (carisna, melga, ecc.) ma non ama le violente contrazioni ddl’emiliano e piemontese, dovute alla caduta di altre vocali protoniche o controfinali (e perciò avremo telar, finestra e non tlé, fnestra come in Piemonte).

    Vari sono gli aspetti della nasalizzazione delle vocali che precedono n e m finali di sillaba o di parola. A Milano tali consonanti sono completamente assorbite dalle vocali: pà, tep, bù, vì, vù, ecc.; a Bergamo scompaiono invece per denasalizzazione: pa, tep, i, mut: pane, tempo, vino, monte (anche nel Vogherese e Pavese i ricordati vei, fei). Al contrario l’articolazione delle consonanti nasali può rafforzarsi spostandosi (bum: buono, a Legnano); pan, pón con n velare, che può persino far udire dopo di sè o trasformarsi    in un’occlusiva sorda: niink:    noi,    a Milano e pòk, kòk: pane, cane, a Càmeri appena varcato il Ticino. (Più a sud, in Piemonte, lungo la Bòrmida troviamo la fricativa invece deirocclusiva velare: veih, leih: vino, lino). A sua volta la vocale per influsso della nasalizzazione può mutar colore : a diventa è, ò (p§, pon); i può diventare e (vè: vino a Busto Arsizio), ii può diventare o (vóna, scorna, lóna: una, schiuma,luna).

    Vedi Anche:  Vicende storiche Lombardia

    Un importante fenomeno che unisce gran parte della Lombardia occidentale con la Liguria e parte del Piemonte è il passaggio di -l- tra vocali a -r-: ara, scara, candirai ala, scala, candela. La scomparsa totale di -r- intervocalico si ha, come a Genova, nelle pievi di Busto Arsizio e Dairago. Anche l davanti a consonante diviene r: curtèl, sarvadig, carcagn.

    Il fenomeno ladino dell’intacco palatale di ca e ga è presente nelle sue varie fasi in vari distretti del Canton Ticino; ma veramente sorprende riscontrare a Busto Arsizio in bocca a qualche vecchio chian, ghiambi: cane, gambe. Nell’alta Valtellina e in alcune valli bergamasche o bresciane si riscontra invece l’altro fenomeno ladino che riguarda la conservazione di l dopo le consonanti c, g, p, b, f (per es., ciaf, glanda: chiave, ghianda), mentre l di norma diviene j nel lombardo (biank, fià : bianco, fiato; e quindi ciaf, gianda: chiave, ghianda). L’esito ligure che unifica cl, gl, pi, bl in c è presente con le sue fasi intermedie in alcuni distretti settentrionali: pcof : piovere e cui, canta: pianta, ecc.

    C seguito da vocale anteriore (e, i) dà ora c ora s pura o schiacciata, ora 2. Certamente l’influsso dell’italiano tende a sostituire e dilatare c contro gli altri esiti. A Milano cimiteri ha ormai soppresso scimiteri; mentre nell’estremo settore orientale si ha anche la fricativa interdentale.

    G seguito dalle stesse vocali dà l’affricata o la fricativa palatale sonora, ma nel Bergamasco e in Valtellina (Albosaggia) si ha anche d: dilmei: gemelli; do: giù (in vai Imagna).

    Fenomeno importante nel territorio bergamasco è la trasformazione di s (originario o proveniente da c) in h (fricativo velare): hura: sopra; hul: sole; hervèl: cervello). Lo stesso fenomeno si trova anche nelle valli ticinesi (Malvaglia, Piero e Lozzo) ma limitato a s palatale: higula: cipolla; purhèl: porcello; brah: braccio (ma sass: sasso). Anche / può essere continuato da h a Gorduno (Ticino), Germasino (Como), Borno (Brescia): her: fiele; harina: farina.

    Altro fenomeno caratteristico del bresciano e bergamasco è la scomparsa di v iniziale e intervocalico: i: vino; ida: vita; caàl: cavallo, ecc.

    Del milanese va pur ricordata l’epentesi di n davanti a g: minga, leng: leggere; Unger: leggero; rungia: roggia.

    Per quanto riguarda la morfologia va segnalata la formazione del plurale mediante mutamento di suffisso: berx-berìtt, tusa-tusànn. Quest’ultimo suffisso un tempo era molto più diffuso; oggi lo è ancora solo nel Ticino: noncin: nonne; galinàn: galline; ecc. In vai Mesolcina il caratteristico plurale — però di origine diversa — la vaken: le vacche; la gamben: le gambe. Nel caso di dona-donn, mama-mamm, il rafforzamento della vocale al plurale è dovuto, non a esigenze morfologiche, ma alla scomparsa della vocale finale. Infatti il plurale di lett, orb e simili è uguale al singolare. Naturalmente nella zona dove le vocali finali sono mantenute, il plurale è -i per i due generi, mutandosi in i la desinenza -ae del latino (-e nel latino volgare): saku-saki, scarpa-scarpi. A Bergamo il plurale femminile è in -e: i orege longhe.

    Per quanto riguarda il participio passato si hanno numerose estensioni analogiche: rumpii, legiii, scrivii: rotto, letto, scritto. Le terminazioni -ato, -ito, -uto nel settore occidentale perdono la consonante e la vocale accentata assorbe l’ultima vocale allungandosi (nel Canton Ticino abbiamo invece -au, -ou, -o); nel settore orientale la consonante viene ristabilita: cantàt, estìt: cantato, vestito. Qui il plurale risente dell’effetto palatalizzante della desinenza -i, che poi è caduta: -ac, -ic (anche an: anno, al plurale risente dello stesso effetto: aiì).

    Nella coniugazione verbale è notevole il rafforzamento dei pronomi personali. A Milano: mi disi, ti te diset, lii ’l dis (parallelo al -t della seconda persona singolare è il -v oppure -/ della seconda plurale limitato però a certi tempi : fiidessuv, a Milano, e portuf, a Como). La zona che conserva le vocali finali, non tollera -t della seconda persona ; in compenso fa un grande uso di a (derivato dal pronome di prima persona) : mi a disu, ti (a) te disi, lii al dis, niim a disum, violtar a disi, lur a (oppure i) disan.

    Anche il lessico ha le sue peculiarità, fra cui si può ricordare biott: nudo; boria già: cadere; catà: cogliere; basèll: gradino; scanscia: gruccia; ciapp: cocci; purtà cun-disiùn: portare il lutto, ecc. La Lombardia si unisce, tramite l’Emilia, alla Toscana nell’uso di zio, mentre in Liguria, Piemonte, Veneto, Grigioni e parte del Ticino, prevale barba. Ma vi sono vocaboli che si dividono il dominio lombardo. Così « ragazza » si dice tusa a Milano (e a nord di Milano anche il maschile tus, tusù, sempre con 5 sonoro, oltre a bagai, pinela, ecc.) a Bergamo invece predomina s-cèt, s-cèta. Abbiamo scusa : grembiule, a occidente ; bigami a oriente ; « falegname » è legname a ovest, mentre la parte orientale preferisce, assieme al Veneto, marangon; «chioccia» è pita a ovest; closa, krosa a est. Dalla Francia jambon si è esteso a tutto il Piemonte e la Lombardia occidentale (giambùn). Dalla Sesia a oltre Milano «cresta» si dice scestra, a oriente gresta si espande fino al Veneto e Trentino. L’antico vocabolo germanico skirpa: dote, resiste ancora con una certa vitalità solo lungo le sponde del Ticino.

    La letteratura dialettale

    Il contributo degli scrittori lombardi agli albori della letteratura italiana è, almeno quantitativamente, notevole pur non brillando per singolari pregi estetici. Cremona è il primo centro che si distingue per la produzione di Girardo Patecchio, Ugo da Persico e forse dello stesso Uguccione da Lodi. Segue Milano coi Sermoni di Pietro da Barsegapè e i numerosi scritti volgari di Bonvesin da la Riva. Bergamo non ha nomi tanto illustri, ma soprattutto i suoi testi anonimi, come il De ve salve, virgena Maria, hanno un forte colorito dialettale. Diciamo colorito perchè tutta questa letteratura « volgare » non può definirsi sic et simpliciter « dialettale ». Sul carattere « illustre » o meno di questi « volgari » non esiste oggi un giudizio pienamente concorde e solo un esame linguistico rigoroso e condotto sui singoli testi potrebbe sviscerare esaurientemente il problema, ma si dovrà comunque ammettere che l’ideale linguistico a cui -mirano questi scrittori non è semplicemente il dialetto. La scelta del volgare e l’esclusione del latino era dovuta alla necessità o volontà di comunicare con la gente non « litterata », ma la cerchia dei lettori era molto più vasta di quella racchiusa tra le mura d’una città qualsiasi; gli argomenti esposti, per lo più religiosi e anche solenni, richiedevano una lingua sostenuta da una cultura non casalinga ma più largamente addottrinata. L’ampiezza del pubblico e lo stimolo culturale dovevano condurre a una lingua sovramunicipale, che tendenzialmente smussava i tratti più angustamente locali e non poteva non sentire le sollecitazioni esemplari del latino, la lingua universale per eccellenza, e di quella che dalla Francia aveva esteso il suo prestigio su gran parte d’Europa. Il dialetto, come espressione caratteristica di una ristretta comunità, è una base di partenza, un centro da cui più o meno ci si allontana per essere accetti in uno spazio geografico più vasto. L’atteggiamento di Dante è significativo. Le citazioni dialettali del De Vulgari Eloquentia, mirando a individuare gli elementi più caratteristici e disgustosi del « turpiloquio » municipale, esprimono una risoluta condanna dei dialetti, paragonati alla musica levigata, alla grazia del parlar gentile di quelle persone che, sparse in tutta Italia, la cultura ha con una certa uniformità raffinato. Gli scrittori lombardi sopraindicati vivono in ambienti e tempi diversi, hanno forze troppo più deboli, ideali più modesti, ma vorrebbero camminare in una simile direzione.

    Un rovesciamento di posizioni, cominciato nella seconda metà del secolo XV, si afferma decisamente nel secolo successivo, quando gli scrittori non muovono più dal dialetto verso la lingua, ma, forti ormai di una ricchissima esperienza artistica e linguistica, talora ripiegano sul dialetto per ragioni forse non ancora pienamente chiarite. Sarebbe difficile dimostrare, come è stato detto, che la spinta verso il dialetto venga da una coscienza regionale dopo che il consolidamento delle signorie ha formato in Italia dei distinti blocchi politici. La produzione dialettale si afferma proprio quando gli stati regionali cadono in balìa dello straniero e quando la cultura nazionale afferma con maggior convinzione l’unità della lingua italiana, richiamata ai grandi modelli toscani. Se poi osserviamo i libri contenenti opere in dialetto, notiamo che i dialetti preferiti non rappresentano delle precise entità politiche ma la grande e colorita varietà del mondo italiano. Il Trofeo della vittoria sacra ottenuta dalla Christianissima Lega contra Turchi nell*anno 1571, rizzato da più dotti spiriti de’ nostri tempi nelle più famose lingue d’Italia con diverse rime disposte da L. Groto (Venezia, 1572) contiene poesie in veneziano, in lingua « graziana », nel dialetto della vai Brembana, in padovano, e in gergo slavo; le Nozze del Zane (forse

    Venezia, 1540 circa) sono in bergamasco, napoletano, milanese, genovese, veneziano, bolognese, ferrarese, romagnolo, piacentino, modenese, mantovano, con versi in francese, spagnolo, tedesco e gergo slavo. Quasi tutti i dialetti italiani compaiono nelle Disgratie del Zane narrate in    un sonetto di diciasete linguazi (circa 1550). Si aggiungano gli scritti in lingua « pedantesca », maccheronica, nei vari gerghi degli alloglotti slavi, greci o tedeschi.

    Quest’orgia di linguaggi diversi denuncia un fine di comicità che nasce osservando chi è rimasto fuori dalla norma comune, ossia la norma linguistica della gente incivilita da una certa quantità di cultura. Perciò il contrasto dei più vari dialetti alternati dalle signorili inflessioni delle battute in italiano, si ritrova largamente nel teatro comico e caratterizza, non meno del costume e delle altre particolarità fisiche, le maschere della commedia dell’arte. Ma la comicità non esaurisce la spinta verso il dialetto. Il ceto colto e signorile si diverte della « garrulitas », della « rozza asprezza » delle plebi già condannate da Dante. Ma Dante condannava con severità perchè voleva insegnare a distinguere la parola « ispida » da quella « pettinata », ora invece si distingue con facilità e ci si compiace della facilità con cui si distingue. L’ironia è temperata da una viva simpatia, da una curiosa esplorazione di un mondo vario e vivacissimo. Ritroviamo qui ciò che si nota in altri campi. Il Quattrocento ha ricercato la forma ideale, unica, razionale, universale; i pittori la trovavano nella concezione matematica dello spazio, gli umanisti nella lingua più razionale, universale e, nella sua perfezione, immobile: il latino. Poi ci si accorse che tanto le rigide trame prospettiche dei pittori, quanto la rigorosa razionalità del latino o la rarefatta atmosfera della lirica petrarcheggiante non coglievano pienamente il vario fluire della vita; e si cominciò di questa a ricercare le manifestazioni più individuali ed empiriche, e il movimento e i vari momenti della labile passione. La scelta squisita della forma più eletta è ora sentita come rinuncia a tanti elementi di cui pur s’intesse la realtà, e le si oppone una ricerca analitica del particolare realistico, di sapori nuovi, di vivezza, di evidenza, di concretezza, che si vendica (anche con l’ironia del latino maccheronico) di quel tanto di gelido che la ricerca di idealità supreme aveva conferito all’arte.

    Vedi Anche:  insediamento urbano e rurale

    Caratteristici festoni di pannocchie di mais appesi ai ballatoi nelle dimore rurali (Borno, Valcamònica)

    Firlinfö di Cantù.

    Questo è il motivo più serio e profondo; ma, purtroppo, v’è dell’altro ancora. La tecnica letteraria così affinata attraverso l’esperienza umanistica si compiace di se stessa e vuol fare le sue prove coi materiali linguistici più diversi. La varietà dei linguaggi chiamati a celebrare la vittoria di Lépanto (nel libro surricordato) non può avere un intento comico. I lessicografi allineano elenchi di vocaboli francesi, spagnoli, ecc., travestiti all’italiana e i poeti sfoggiano la loro capacità di comporre « nelle più famose lingue d’Italia » e di fuori. I Rabisch del milanese Lomazzo si aprono con una ghirlanda di poesie di amici in lode dell’autore scritte in italiano aulico, in latino maccheronico, in greco, in lingua graziana, « gierga », francese, spagnola, in siciliano e genovese. E evidente come questa via conduca dirittamente all’artificio : puro sfoggio di capacità tecniche. Perchè un sonetto sia siciliano o romagnolo, non occorre che l’autore possegga perfettamente quel linguaggio particolare; basta ch’egli includa nel giro toscano delle sue frasi qualche vocabolo caratteristico di quella regione o che vi faccia risuonare l’eco di un caratteristico fonema di quel dialetto, con una evidente artificiosità e superficialità (« tucci lucci sotto il ticcio » oppure « le ravisce quoccie chol confeccio » è forse quanto di meglio si possa trovare nei sonetti « milanesi » del Dei). Il movente satirico che sta all’origine di questa produzione dialettale spiega sufficientemente come i precursori della letteratura milanese non siano milanesi, ma i fiorentini Luigi Pulci e Benedetto Dei coi loro sonetti « milanesi » (o pseudomilanesi) e l’astigiano G. G. Alione coi versi quasi milanesi della sua farsa Bracco e come si riscontrino anche nel celebre sonetto di Lancino Curti dei tratti bergamaschi. La satira si serve più volentieri di un dialetto rustico che di quello cittadino. L’esempio più evidente di quest’uso satirico e artificioso di dialetti non cittadini è nell’opera dell’Accademia della vai di Bregno, che sotto la direzione del compà Zavargna, ossia del pittore G. P. Lomazzo, produsse i noti Rabisch (Arabeschi) pubblicati a Milano nel 1580 (2a ediz., 1622). Col Lomazzo si divertivano diversi nobili milanesi a comporre sonetti, mattinate, stram-balugh e barcelett nel dialetto alpino di Bienio rifatto con una tecnica semplicistica e artificiosamente parodistica. Le regole sono indicate nel volume : con « questa lingua… potrai dire tutto quello che ti verrà in pensiero e per far questo piglierai li vocaboli… che finiscono… in an, en, in,… gli farai all’ultimo un g e un n » e così nascono magn (mano), vign (vino), ecc.; fra due vocali contigue si interporrà gl, ottenendo triglionf (trionfo), invencigliogn e perfino, con l’aiuto di altre leggi, Simigliagli (Giuliano), Sluregligl’ (Aurelio). Naturalmente queste e le altre leggi hanno un fondamento nella fonetica reale del dialetto ma sono applicate meccanicamente e con esagerazioni parodistiche. Molto meno artificioso sembra invece il linguaggio di un’altra accademia, La gran Badie Antighe di fechin dol Lag mejò o di Vali d’Iìi-tragna, che sfilavano nelle mascherate di Carnevale distribuendo al pubblico le loro poesie rusticane. Invece il milanese cittadino tra la fine del Cinquecento e il principio del Seicento afferma orgogliosamente la sua dignità col Varon Milanes de la lingua de Milan di G. Capis e il Prissian de Milan de la parnonzia milanesa di G. A. Biffi. Il primo è un lessico che aiutandosi con le etimologie empiriche del tempo vuol rivelare nel latino e nel greco le nobili scaturigini del dialetto ambrosiano; il secondo è una descrizione dei suoni e dell’ortografia del milanese.

    Lombardo è pure il linguaggio di alcune tra le più illustri maschere della Commedia dell’Arte. Bergamo ha un indubbio primato come patria d’Arlecchino, Brighella e Gioppino. Milano crea Meneghino che offusca la coppia assai più modesta di Baltram e Baltramina da Gaggiano (verso Abbiategrasso). Chi rifinisce e fissa la figura di Meneghino è C. Maria Maggi nelle sue quattro commedie: I consigli di Meneghino, Il Barone di Birbanza, Il manco male, Il falso filosofo. Ormai il dialetto ha finito di essere un’invenzione satirica di gente che lo conosce dall’esterno e diventa un modo d’espressione che ha radici più profonde nelle abitudini linguistiche dello scrittore, una maniera d’esprimere il proprio attaccamento all’ambiente in cui si è nati e in cui si è modellato il nostro modo di vivere. Il Maggi fa un elogio affettuoso del milanese: « Fee splend i eleganz del Meneghin !… L’è ona lengua correnta, averta e dar a / che apposta la par faa / per dì la veritaa ! j S’cetta e gajarda per pientà in di anem, / insci a la bona, i verità del semper !… Ma el so don principal / l’è la felicitaa del fa capì / coni esempi, panzanegh e proverbi / i pu sublimm conzett

    I di gran Jìlosofon fina in Brovett ». E anche le invenzioni lessicali del Maggi (per es., il verso: Nasess, nasin, nason, nasott, nasari) sono invenzioni autentiche e non storpiature o sforzature linguistiche. E nemmeno sforza la lingua la Villotta di P. C. Larghi (morto nel 1755): «Degià che sont chignova in su la strava, / e voo passand ol temp senza dormiro… », poiché dormiro, sentirò, fustono, polmono e basitti sono espressioni, come già osservava l’Ascoli, naturali nel contadino che tenta di parlare « in punta di forchetta ». Col Larghi il Settecento allinea G. Birago (con la commedia in tre atti Donna Perla), F. G. Corio, C. A. Tanzi (che tentò anche la composizione in lingua furbesca milanese) e D. Balestrieri. Sono letterati esperti che cercano di trasferire nel dialetto le scaltrezze metriche della poesia italiana. (Il Balestrieri tentò un « nuovo endecasillabo » il cui primo emistichio è un quinario sdrucciolo; lavoro arduo in una lingua ricca di parole tronche. « Cert l’è difficila olter de pocch, I e fors sta moda nissun le seguita / d’uni fras sdrucciola col parlà mocch »). Col Balestrieri fa pure la sua apparizione il sciur Marchionn di gamb avert (che sarà immortalato dal Porta). Non mancano i traduttori fra cui si può ricordare F. Bei-lati. I suoi rifacimenti dell’Orlando Furioso e soprattutto dell’Eneide travestono la solennità dell’originale con una quantità di particolari realistici, con espressioni popolaresche che producono un tono giocondo, un misto di ironia e simpatia quasi maccheronico, che è un risultato caratteristico di molte versioni dialettali (« Staven li tucc con tant de bocca averta / per sentì Eneja a comenzà l’istoria ; e la regina, anch lee, la stava a l’erta / che nissun no vegness a romp la gloria / e per fagli spiret, la ghe fa l’offerta / d’on biccerin che jutta la memoria »).

    Col Romanticismo matura la pienezza dei tempi anche per la letteratura dialettale milanese che offre al mondo il suo grande Carlo Porta (1775-1821). Con lui il bisogno romantico di schiettezza, di calore, di libertà da ogni convenzione o artificio letterario trova nel dialetto milanese una delle soluzioni più felici; e il dialetto riprendendo motivi e figure della sua lunga tradizione, rivela una ricchezza e una duttilità quasi insospettate. (Dal linguaggio italianizzante delle dame: Convengo appien nella di lei paura, oppure Avria supposi che essendo lur sacerdoti”, al francese maccheronico di Giovannin Bongeé, alle più schiette espressioni della plebe, con sfumature finissime e rivelatrici). Non c’è posto in questi rapidi cenni per ogni indugio che sarebbe sempre sproporzionato alla grandezza del capolavoro; basterà dire che questa fa impallidire gli altri non pochi e cospicui cultori del dialetto che scrissero in quel secolo, quali G. Bossi, T. Grossi e G. Ventura. Ma non si può non ricordare il più grande animatore del teatro dialettale milanese, E. Ferravilla (1846-1915), il quale con la genialità improvvisatrice dei grandi comici della Commedia dell’Arte creò figure di enorme successo, come Tecoppa, Massinelli, el sciór Panera.

    Le città che maggiormente gravitano su Milano, ebbero cultori della musa dialettale che alternarono l’uso del milanese con quello del « bosino » o di altre varietà locali; ma i centri più importanti conobbero una produzione autonoma. Bergamo vanta la tradizione più antica, più ricca e continua, che ebbe la massima diffusione nazionale nel teatro comico del Cinquecento e nella Commedia dell’Arte. Nel Settecento si distinsero G. Rota e G. B. Angelini, nell’Ottocento P. Ruggeri ed E. Triz-zini, il fondatore del foglio dialettale tuttora vivente Giopì. Due altri centri copiosi furono dal Settecento in poi Mantova, ricca anche di numerosi giornali dialettali, e Pavia (che nel Settecento vide la fondazione dell*Accademia della Basletta e nel secolo successivo diede il suo poeta più celebrato, S. Carati). Meno copiosa la produzione di Brescia (l’autore più apprezzato è A. Canossi), di Crema e Cremona.

    Oggi la produzione dialettale trova dei centri animatori e di raccolta in associazioni che promuovono il culto delle tradizioni e del linguaggio locale, come a Milano la « Famiglia Meneghina » (e non c’è bisogno di ricordare come la produzione degli scrittori milanesi viventi sia ancora ricca per quantità e qualità), a Bergamo il « Ducato di Piazza Pontida », a Varese la « Famiglia Bosina », a Busto Arsizio (la cui tradizione risale al settecentesco G. Belotti e si fonda su un vernacolo di particolare vitalità) la « Famiglia Bustocca », mentre il dialetto di Legnano ha trovato in questi ultimi anni un largo successo nelle moderne « riviste » della « Compagnia Musazzi ».