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Usi, costumi e dialetti

    Costumanze, dialetti e letterattura dialettale

    Usi e costumi

    In generale le usanze caratteristiche della regione tendono a scolorirsi col tempo non tanto per il desiderio dei marchigiani di raggiungere una uniformità o di allinearsi con altre regioni che sembrano più progredite, quanto per la peculiare tendenza di ricercare l’equilibrio in ogni cosa e di accordarsi pertanto alle esigenze della vita attuale; si mantiene tuttavia un tradizionalismo profondamente radicato che si manifesta in ogni attività.

    Il carattere prevalente dell’economia si manifesta in alcuni usi e consuetudini caratteristici, vigenti nelle trattazioni commerciali dei prodotti dell’agricoltura o dell’allevamento.

    La compravendita del bestiame si conclude sempre verbalmente con una poderosa e prolungata stretta di mano alla quale partecipa oltre ai contraenti anche il sensale: i due contraenti si dànno la mano, il sensale tiene strette le due mani. La consegna dei capi avviene immediatamente; i bovini sono consegnati con morsa e corda, gli equini con cavezza di corda; la prova della salute ha la durata di otto giorni a partire dalla mezzanotte del giorno della consegna.

    I cavolfiori destinati sia al commercio interno che estero sono distinti in classi ad occhio, a seconda della loro circonferenza.

    L’uva è venduta sulla vigna, a quintale, verbalmente, e in genere senza che sia definito il prezzo che spesso si riferisce a quello medio del mercato circostante; la consegna più comune è quella che si fa sul fondo, ma in alcuni luoghi gli usi sono diversi: ad esempio in Osimo si intende fatta sul vagone, nel Fabrianese nella cantina dell’acquirente, in quanto l’uva da vino si contratta in rapporto al mosto che se ne può ricavare.

    La trebbiatura è il lavoro agricolo annuale più tipico.



    L’incetta delle uova di qualunque grossezza è fatta in unità di centinaia e di migliaia con l’espressa garanzia della qualità e del peso; il peso medio per iooo unità è considerato equivalente a 56-57 chilogrammi.

    La lana di produzione locale è contrattata saltata cioè dopo tre o quattro lavature fatte all’animale prima della tosatura; le contrattazioni avvengono all’epoca della tosatura cioè a maggio-giugno e a settembre.

    Le differenti qualità del carbone vegetale ricavato dalle carbonaie degli Appennini sono indicate con le espressioni: carbone spacco che significa ricavato da legna di alto fusto; cannellato o ricavato da legna mista; cannello o ricavato da legna pedagna.

    I carri agresti, i birocci, hanno una forma quasi quadrata, sorretti da due grandi ruote e muniti di un timone, hanno sponde alte ricoperte di pitture a colori vivaci di carattere agreste e di immagini di santi protettori; sono tanto caratteristici da meritare l’appellativo carducciano di « ben dipinto plaustro ».

    Se dagli usi commerciali si passa alla considerazione di quelli relativi ad ogni atto della vita si può osservare che le caratteristiche ambientali della regione, sia fisiche che economiche e quelle dell’insediamento a carattere prevalentemente sparso, hanno favorito la conservazione di tradizioni popolari che mantengono inalterato il loro sapore di ingenua poesia. Nell’insieme il folclore non assume, si ripete, forme rilevanti e singolari ma è intessuto di una ricca serie di elementi che in effetti danno luogo ad una vita tradizionale che accompagna l’individuo dalla nascita fino alla morte, nel lavoro e nel riposo. L’individuo in genere, ricco di interiorità permeata di fede religiosa e di ignoranza, spazia con la sua fantasia in un mondo irreale magico e superstizioso, custodendo gelosamente la memoria e lo spirito degli ascendenti tramandato nel tempo.



    Il fabbro al lavoro nella sua fucina.

    Alcune cerimonie e riti risalgono ad antichi culti agrari, di altri non è possibile individuare l’origine ma se ne può soltanto intuire la composizione costituita di elementi pratici e di elementi magici; date le caratteristiche di frazionarietà degli elementi voler seguire le tradizioni popolari marchigiane costituisce sempre un compito arduo. Recentemente è stato pubblicato nella collana « Biblioteca Lares » un volume che raccoglie i risultati di una lunga e paziente inchiesta sulle tradizioni popolari della regione; in esso la materia è raccolta in rapporto al ciclo della vita umana, al ciclo dell’anno, alla magìa e alle superstizioni, in modo da illustrare tutti gli aspetti più importanti della vasta realtà folcloristica.

    La nascita è accompagnata da forme tradizionali piene di religiosa poesia, ma non da una coreografia particolarmente significativa; sono detti, pronostici, precetti tradizionali ai quali ogni donna deve sottostare, come quello di imporre al neonato il nome di uno scomparso a testimoniare la continuità della vita. In queste tradizioni il lato più gentile è rappresentato dalle nenie delle ninna-nanna costituite di espressioni fanciullesche con un motivo musicale a carattere imitativo, che rievocano in noi il ricordo di quegli angeli dall’affabile sorriso che accompagnano le immagini delle Madonne di Giovanni Boccati da Camerino:

    Fa’ la nanna, sitoletto,

    Ch’è venuto ‘1 babbo tua,

    T’à ’rportato ’n cappelletto:

    Fa’ la nanna, sitoletto!

    Le tradizioni dell’infanzia del bambino sono rappresentate soprattutto dai giuochi, dalle filastrocche, dalle nenie, nell’insieme dei quali ci si potrebbe intrattenere a lungo; mi piace ricordare come singolare il giuoco di fuori il verde che ricorre in tempo di quaresima e che consiste nel portare una foglia di edera da mostrare ad ogni richiesta.

    I canti fanciulleschi sono innumerevoli e sempre pieni di garrula serenità come si può rilevare dal Pis e pisello :

    Bése e beséllo Colore cuscì biéllo,

    Colore accuscì fino Santo Martino,

    La bella Molinara Che monta su la scala,

    La scala del paóne Le penne del piccione,

    Bella zitella

    che giuòche a piastrella Co’ ’1 fijo del Re,

    Alza la gamba

    Che tocca pre-ci-sa-men-te a te!

     

    O del Giro giro tondo:

    Giro giro tondo

    Giro tondo pe’ le mura

    C’è ’na lucciola que fa paura,

    Scappa fora Lisandrin

    Giù in genocchio piccolin.

     

    Giro giro tondo

    ‘N mazzo de viole,

    Le dàmo a chi le vòle,

    Le vòle Alesandrino

    ’N genuòcchio ’1 più piccino!

     

    o di Domani è festa :

    Domane è festa

    ’L pane se ‘ncanestra

    ‘L vino se ‘mbicchiéra

    La carne se ’ntajéra

    La mamma à fatto ’n pupo

    L’à vestito de villuto

    L’à portato a battizzà

    Su la fonte de Pisciacà;

    Molto interessanti appaiono gli usi relativi alle nozze accompagnati anche da canti nuziali: dopo le pubblicazioni ufficiali della chiesa si usa fare il parentado, cioè i parenti dello sposo vanno in casa della sposa per contrattare l’ammontare della dote e in fine consumano una lauta cena. Qualche giorno prima delle nozze, in alcune aree che per la loro posizione geografica hanno conservato più a lungo le tradizioni, si usa addobbare il biroccio condotto da un fratello dello sposo e porre su di esso la camera nuziale con il corredo della sposa e trasportare il tutto a casa dello sposo.

    Il giorno delle nozze lo sposo preleva direttamente la sposa e i genitori da casa; si forma un corteo fino in chiesa. Terminata la cerimonia religiosa tutti gli invitati si raccolgono a casa della sposa dove dapprima si beve abbondantemente e si mangiano dolci mentre si susseguono stornelli e rime improvvisate, poi ha inizio il pranzo che si protrae per diverse ore e che può terminare anche con una danza tradizionale: il saltarello, accompagnato dal suono dell’organetto. L’ottavo giorno dopo il matrimonio lo sposo offre un grande banchetto a tutti i parenti ed amici.

    Quando uno degli sposi è vedovo o molto più anziano dell’altro, il matrimonio suscita commenti poco benevoli, vi partecipa tutto il paese ed è accompagnato dalla scampanata, ossia da una serenata fatta di campanacci, cocci, latte, fischietti che può protrarsi anche per più di una sera. È questo il modo di esprimere il biasimo diffuso in tutti per il secondo matrimonio o per un amore senile.

    I pescatori si preparano a partire per il lavoro.

    Come tutti prendono parte alla festa nuziale, così tutti partecipano alla morte di una persona; i familiari assistono all’agonia, gli altri si raccolgono in chiesa mentre suona la campana a morto. Nelle località più prossime all’Appennino il cadavere prima della vestizione è lavato con vino e aceto in segno di purificazione; i morti sono sepolti o privi di scarpe o con scarpe fittizie nelle quali la suola è di cartone e la tomaia di stoffa; nelle sue tasche è posto qualche danaro, un fazzoletto, particolari che richiamano un po’ la tradizione funeraria pagana. I funerali sono accompagnati da schiere di donne o di uomini a seconda del sesso del morto, che portano una candela accesa e cantano o pregano ad alta voce; in alcune località come a Cesi di Serravalle, vige ancora l’uso pagano di gettare un pugno di terra sulla bara.

    L’Epifania, detta comunemente pasquella, comporta lo scambio degli auguri ed è caratterizzata da canti eseguiti da gruppi di canterini che la vigilia si recano di casa in casa e che ne ricavano un compenso qualunque; eccone uno:

    « Ci darete qualche cosa sia de magro che de grassu core impressu è n’altro abbracciu e ‘na stella armoniosa che te canto la Pasquella.

    Se me dai la sarciccetta oppur la costarella te la canto la Pasquella La Pasquella armoniosa ».

    Il Carnevale fa ricomparire maschere fisse che però sono ormai in via di scomparsa; il giovedì grasso è riservato alla festa dei bambini; quelli poveri per lo più mascherati da spazzacamini vanno per le case a chiedere in elemosina qualche cosa del maiale da poco ucciso.

    Non manca il ballo dei vecchi riservato a tutti gli sposati di qualunque età siano.

    Il Carnevale del resto attualmente mantiene ovunque un carattere sobrio, salvo che a Fano dove dà luogo ad una festa che investe tutta la popolazione della città e dei dintorni. Sfilano per le vie i carri preparati in precedenza in segreto da ogni quartiere e da essi sono lanciati sulla folla, a volte strabocchevole, dolci di ogni genere; allora come una piacevole follia si impadronisce di ognuno e la festa si trasforma in una gara di accaparramento.

    In prossimità della Pasqua, quando le campane tacciono, il loro richiamo è sostituito dal suono di strumenti di legno costruiti localmente e chiamati comunemente battistangole ; un uomo appositamente incaricato percorre le vie del paese suonando questa specie di strumento. Il venerdì santo si svolge quasi ovunque una processione serale con la partecipazione di tutta la popolazione inquadrata in confraternite di tipo e di costume vario.

    I canti di maggio sono molto vari e molto numerosi e si manifestano sotto forma di serenate fatte dai fidanzati:

    «Passo e ripasso la finestra è chiusa;

    veder non posso la mi’ ’nnamorata,

    domando a la vicina se l’ha veduta,

    me dice ch’è nel letto e s’è ’mmalata ».

    Nel Camerinese e a Bolognola si pianta anche il maggio, cioè un palo che resta esposto per tutto il mese e ai piedi del quale i fidanzati espongono i regali delle ragazze e i canterini si alternano ogni sera.

    Accanto alle tradizioni d’amore vi erano un tempo quelle del dispetto; il Piovene ne ricorda ad esempio una del tutto scomparsa secondo la quale il sabato notte i giovani imbrattavano la casa delle ragazze moralmente poco stimate e spargevano cose sudice lungo la strada che dalla casa stessa conduceva alla chiesa in modo che le colpevoli potessero facilmente essere individuate.

    La festa di San Giovanni Battista è caratterizzata da un miscuglio di usi superstiziosi e di usi sacri; i contadini gettano nel fiume un mazzolino di spighe per purificare il raccolto; si pratica il mattino il bagno in acqua odorosa nella quale sono immersi fiori di ginestra ed erbe medicinali a ricordo del battesimo di Gesù nel Giordano; per allontanare le streghe che escono la notte di San Giovanni si pone la scopa dietro la porta di casa, e come queste si potrebbero citare molte altre tradizioni minute.

    Il giuoco delle carte è molto diffuso tra la popolazione.

    Il giuoco delle bocce è forse il più tipico e il più diffuso attualmente.



    Tutte le feste sacre, ma specialmente il Natale, sono accompagnate da particolari preghiere popolari e canzoni religiose modulate spesso sopra un solo endecasillabo che si ripete con monotonia:

    La Madonna bella bella

    partorisce ’n celo ’n terra

    partorisce un bel Bambino

    bianco rosso e riccettino;

    Alle tradizioni comuni a tutta la regione fin qui ricordate sono da aggiungere alcune altre caratteristiche di luoghi particolari. A Ripatransone, nell’ottava di Pasqua si ripete il cavallo di fuoco : un uomo cioè ricoperto di pelli e munito di un sellino dal quale escono razzi, corre all’impazzata in mezzo alla folla.

    In occasione dell’Ascensione spesso si fa la corsa dei bacherozzi ai quali si inserisce un piccolo moccoletto acceso sul dorso.

    La domenica precedente la Pentecoste si svolge a Monterubbiano una festa molto singolare: lo scaccio della Pica, nella quale compare il picchio, animale sacro degli antichi Piceni; durante una processione un appartenente all’antica corporazione degli zappatori, con in testa un berretto rosso, porta un ramo fiorito di ciliegio al quale è legato un picchio che un altro zappatore costringe a svolazzare roteando un bastone. Questo secondo zappatore ogni tanto si riempie la bocca di vino e in segno di buon augurio lo spruzza sulla folla.

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    Per la festa di San Floriano, il 4 maggio, si distribuiscono campanelle di terracotta; per quella di San Ciriaco, che cade lo stesso giorno, sono distribuiti invece pezzetti di giunco benedetto; per la festa di Sant’Emidio, il 5 agosto, ci si scambiano ceppi benedetti di basilico.

    Fra i giuochi degli adulti sono da ricordare quello del pallorie con bracciale, di cui gli ultimi campioni però pare vadano scomparendo rapidamente, e quello della ruzzola o giuoco del formaggio che è praticato in primavera lungo le strade in pendio e che consiste nel far ruzzolare il più lontano possibile una forma di formaggio pecorino.

    Tra le feste a carattere gastronomico meritano di essere ricordate quella della polenta a San Costanzo, la sagra dei garagoi a Marotta e la festa del berlingozzo a Sahara. La prima ha luogo la prima domenica di marzo e consiste essenzialmente nella distribuzione gratuita di polenta e ragù preparata in enormi caldai. Nella sagra dei garagoi che si svolge nella prima domenica di aprile è fatto obbligo agli ospiti della cittadina mangiare sette garagoi (Murex branderis) cucinati per le strade dai pescatori e bere insieme un bicchiere di vino. Il berlingozzo è un dolce locale di Sahara, una specie di biscotto molto leggero che viene gettato sulla folla da carri allegorici; la simultaneità del lancio è realizzata con un sistema meccanico.

    La oneiromanzia è diffusa ovunque per quanto non si manifesti in forme particolari; la interpretazione dei sogni è quasi ovunque eguale e questo fa supporre che la tradizione derivi da un unico ceppo. Anche la cartomanzia è diffusa con metodi particolari: si pratica con carte italiane, carte speciali, carte da poker; la chiromanzia ha tecniche particolari a seconda del chiromante e del luogo ed è di difficile pene-trazione perchè chi la pratica è sempre avvolto, per ragioni di mestiere, da un certo velo di mistero. I chiromanti e i cartomanti sono dei maghi che si dedicano anche a far sparire il malocchio e a creare fatture; la loro arte è ereditaria e la loro persona è circondata da un rispetto derivante dalla paura.

    La letteratura popolare non ha avuto nelle Marche espressioni molto significative e di risonanza extraregionale; fiorì fino dal 1500, accompagnata da una poesia popolare rappresentata da prologhi, intermezzi, commedie, ottave, rime nel dialetto dei vari paesi. I nomi degli autori da ricordare a questo proposito sarebbero molti perchè numerosi si sono succeduti nel tempo; provengono da tutti i paesi della regione manifestando una distribuzione eguale.



    L’illuminazione della Collegiata di San Ginesio. Quella delle luminarie è attualmente una delle forme di festeggiamenti più diffuse.

    Le forme tradizionali poetiche e popolaresche si sono perpetuate nel tempo e costituiscono un’altra espressione della ricchezza interiore del popolo, tuttavia l’arguzia e l’immediatezza di cui tali forme erano permeate fino a tutto l’Ottocento, va scomparendo, per dar luogo non tanto a lepidezze quanto piuttosto ad ermetismo di difficile interpretazione, segno ormai di una decadenza e di una mancanza di ispirazione; tuttavia ancora i pastori dell’Appennino favoleggiano della Sibilla e di Guerin Meschino, gli artigiani e i contadini adoperano ancora i canti a dispetto c qualunque avvenimento, qualunque lavoro stagionale e qualunque ricorrenza è celebrato da canti di anonimi e non identificabili cantori.

    Riporto alcune poesie dialettali dei primi del Novecento che pur nella loro ingenua grazia muovono un sorriso ora amaro ora arguto:

    Federigo II

    — Federigo segondo è nado a Iesi ?

    Federigo segondo! e un accidente! quel grande imperatore strapotente…

    — Ma dimme ‘n po’, ma te per chi ci ài presi?

    ma que te credi te che ’sti paesi

    ha da da’ propio propio tutta gente, che dopo morta ‘nse ne sa più niente? e non c’è nado ancora Pergolesi ?

    senza conta… ma già che vói discòre;

    sci te li digo tutti te ce ’ffogo,

    ce n’ho ’na sflilza che dura un par d’ore.

    Non te fa’ meravija, no, fradello, che coi lesini ciài da scherza pogo… j’ha da fa’ tutti tanto de cappello!

    La tarifa dei dolori

    ’Na volta, quando un tale s’amalava (parlo dei proletari, dei poreti) stava be’ : el dolore nel pagava, e ’1 dano era de poghi baiocheti.

    Anzi dirò de più; questo: chiamava chi voleva. Era tempi benedeti quei bruti tempi: un poro ca’, campava: stava benò a sta male soto i preti!

    Ogi invece… amaléve (1). Ve sconcassa! (2)

    Pure l’artiere ha da paga’ el dotore Campa non pòi, morì costa ’na massa! (3).

    Ogi el solo rimedio che ce sia è rinuncia’ al dotore; e s’uno more, morì senza de lu’, de malatia!

    (1) Ammalatevi.

    (2) Vi rovina finanziariamente.

    (3) Costa moltissimo.

    So stufu !

    Quist’anno, per sagratu, non se magna;

    è tuttu caru comu ’n’accidente!

    mojema me tormenta e me se lagna

    che non se ’gguzza ’n chiou (1) e non c’è gniente.

    Viva la faccia de chi sta ’n campagna!

    ah! sci rigo a lassa tutta sta gente,

    e rpònneme magari su ’a montagna

    ’nfra i contadi, te dico chiaramente

     

    che fujo, e vo a sappà (2). Già, butto spas

    quattr’acini de gra’, me ne fa ‘n saccu,

    e i budelli me rmane persuasi.

    So stufu, vivaddio, me sento straccu;

    lassù fadigarò, ma ’n tutti i casi

    magno, e… acciderba (3) a chi se sente fiaccu.

     

    (1) «Non se gguzza ’n chiou », cioè non si aguzza un chiodo, non si fa nulla.

    (2) « Fujo e vo a sappà»: fuggo e vo’ a zappare.

    (3) Acciderba ha il significato di vada in malora.

    Xel complesso la caratteristica essenziale sia della letteratura che della poesia popolare marchigiana è data dalla satira fine e bonaria di cui è sempre permeata e dallo scherzo difficilmente grossolano e volgare; rispecchia in altre parole con fedeltà il carattere genuino del popolo.

    Una forma culturale che si differenzia notevolmente da tutte le altre ed esce anche dai confini della regione per assurgere a forme universali d’arte è quella della musica che è stata espressa da tre figli della regione marchigiana nel secolo XVIII e XIX: Giambattista Pergolesi, Gaspare Spontini, Gioacchino Rossini.

    L’abbigliamento non conserva forme tradizionali particolari, almeno nella maggioranza dell’area regionale; soltanto in alcune zone isolate, per lo più montane, si mantengono ancora fogge caratteristiche, soprattutto nel vestiario femminile, che però sono improntate ad una grande semplicità. L’abito da lavoro è costituito di un’ampia sottana di tessuto di cotone pesante arricciata e stretta a vita; da un corsetto con scollatura rotonda, accollato e stretto con maniche lunghe, anch’esso di tessuto di cotone di colore differente da quello della gonna.

    In testa un fazzoletto a spigolo di lana o di cotone a seconda delle stagioni. La distinzione tra le donne giovani e le anziane in questo tipo di abbigliamento è data dal colore del fazzoletto, rispettivamente chiaro e scuro e dalla sua legatura sul capo: le anziane lo legano sotto il mento, le giovani dietro la nuca. Il fazzoletto è tenuto in testa ininterrottamente tutta la giornata, dentro e fuori casa, e durante il lavoro le sue estremità sono ripiegate l’una sull’altra sopra la testa. Nei giorni di festa poi le donne anziane sogliono ricoprire il capo e quasi l’intera persona con uno scialle grande di colore scuro che scende a spigolo dalla testa.

    Le « bigonce » prodotti tipici dell’artigianato.

    Più a lungo delle fogge del vestiario si sono conservati i monili femminili costituiti specialmente da collane d’oro e di corallo rosso, da orecchini e da spille; questi ornamenti conservati e tramandati per eredità, diffìcilmente ora sono adoperati.

    Come non si è mantenuta una tradizione nella foggia del vestire così gradata-mente sono andati scomparendo i caratteristici mobili ed oggetti di artigianato che ancora una quarantina d’anni fa riempivano le case marchigiane. Più che di mobili si trattava di cassette in noce a volte finemente intarsiate che custodivano la biancheria portata in dote dalla sposa; gli altri oggetti erano rappresentati da una ceramica color avorio con la quale erano foggiati gli oggetti indispensabili per la mensa, da lucignoli ad olio da appendere nelle stalle fatti di ferro battuto, da alari per il focolare e da una grande serie di paiuoli, i calclari, e di pentole in rame.

    Componenti razziali e psicologiche

    Le varie stirpi che, come si è visto altrove, diffondendosi e sovrapponendosi nelle Marche hanno forse lasciato tracce nel dialetto, hanno certamente contribuito a formare alcuni elementi dell’odierna compagine antropologica della regione. Nell’insieme si può dire che prevalga la brachicefalia, con indice cefalico compreso tra 83,0 e 84,9, però in alcune aree ristrette, come ad esempio dal promontorio del Cònero verso sud, lungo una esigua striscia costiera e più internamente verso l’Ap-pennino, sempre nella parte meridionale della regione, i valori sono più bassi ed oscillanti tra 81,0 e 82,9. Una tale variazione della distribuzione dell’indice cefalico può avvalorare l’ipotesi che esso rifletta un movimento della popolazione anche se, come dice il Biasutti, il continuo mescolarsi di genti avvenuto negli ultimi secoli ha condotto ad uno scostamento dell’indice cefalico dominante e quindi ad una deformazione dei limiti delle rispettive aree originarie.

    Non è del tutto concordante con la distribuzione dell’indice cefalico quella dell’altezza del cranio, infatti mentre nella parte meridionale delle Marche ed anche in una ristretta area a nord del Cònero prevalgono le forme intermedie, nella parte nord della regione e verso l’Appennino sono distribuiti prevalentemente ortocefali.

    La statura media nella regione, riferita agli iscritti alle leve militari, presenta un aumento di valori dal 1874 al 1918 e precisamente da 163,8 a 165,5; ^ fenomeno quindi dell’aumento della statura media negli ultimi decenni che si è riscontrato in quasi tutti i paesi si è verificato anche nelle Marche. A questi dati che si riferiscono soltanto ad un sesso, va apportata una certa correzione nella considerazione complessiva della popolazione che va ascritta alla categoria delle stature medie comprese tra 160,5 e 162,9 diffuse nella maggior parte dell’Italia centrale.

    Il colore dei capelli come in tutta l’Italia è vario, tuttavia la distribuzione dei capelli biondi, ai quali si associa un tipo dal colorito generale chiaro, presenta una differenza tra la parte settentrionale delle Marche a nord del Cònero nonché quella meridionale più propriamente appenninica e quella meridionale a sud del Cònero specie costiera. Nella prima la percentuale dei capelli biondi va da 7,5 a 9,9%, nella seconda invece da 5,0 a 7,4%.

    L’indice nasale è medio ma a nord nella provincia di Pesaro c’è una percentuale più elevata di nasi stretti e sottili che denotano una espansione proveniente dalla Romagna; nella forma del naso si mantengono le percentuali medie italiane, la sola particolarità è che a sud, nella provincia di Ascoli Piceno e più propriamente nell’area appenninica, si riscontra un’alta percentuale di nasi aquilini (19%); il Livi aveva già osservato che spesso a questo carattere si associa il biondismo e una brachicefalia piano-occipitale che è propria della razza adriatica.

    Il Fischer sostiene che le antiche genti dell’Italia centrale appartenevano ad una così detta razza aquilina dai caratteri fisionomici molto marcati. Ma la generale armonia delle fattezze corporee e dei vari elementi somatici fa ascrivere la maggior parte della popolazione marchigiana, secondo il Biasutti, alla razza adriatica con valori medi di statura, corporatura robusta, colore dei capelli e degli occhi tendente ad una tonalità scura, faccia lunga e profilata, bocca piccola e mandibola robusta. Nell’area di confine con l’Abruzzo, benché la forma cefalica si accosti al tipo adriatico, pure i tratti fisionomici hanno un’impronta più meridionale.

    La popolazione caratterizzata da tali elementi somatici e fisionomici, formatisi nel tempo per lenta sovrapposizione di forme e di influssi, ha un animo complesso e profondo pur nell’apparente ingenua naturalezza e per poterlo comprendere è utile avvicinarsi alle espressioni più antiche della sua poesia.

    Le Marche affacciandosi sul mare e traendo dal porto principale di Ancona la possibilità di scambi frequenti anche con terre lontane dell’Oriente, si arricchirono ben presto di racconti favolosi o di carattere cavalleresco, mentre le comunicazioni appenniniche verso l’Umbria permisero la penetrazione dei canti religiosi. La poesia popolare formata da questo insieme di elementi ha trovato nell’indole degli abitanti un campo favorevole alla sua fioritura, divenendo espressione comune dei grandi e degli umili, accompagnando il lavoro e le feste, ma fin da principio manifestò la tendenza airironia bonaria e al frizzo propri delle genti marchigiane che si mescolarono solo più tardi ad un certo misticismo penetrato dall’Umbria e pervaso di luminose visioni di sincero, umano dolore. Ogni manifestazione è spontanea, umile, si direbbe quasi primitiva e tale peculiarità è responsabile forse della mancata costituzione di una letteratura specificatamente regionale; verrebbe quasi da pensare che le caratteristiche del paesaggio e la mitezza del clima abbiano rappresentato un freno verso forme complesse, favorendo invece il fiorire di forme meno impegnative.

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    I « rami », oggetti tipici dell’artigia-nato locale.

    Un poeta che del popolo fu l’espressione è Cecco d’Ascoli; il suo nome è noto forse soltanto per aver denigrato il sommo poeta che col parlare adorno «immaginando finge cose vane », ma egli ci offre esempi assai belli non solo di poesia nella quale si possono trovare immagini regionali, ma di poesia dalla quale traspare la quieta anima del popolo, mite come il colore del cielo, trasparente come i suoi magri ruscelli; «O madre mia, o mia bella terra ascolana…» egli dice, ed invita quasi con tenerezza alla concordia e all’amore «… sopra i campi sanguigni, sopra il bel paese con i dolci colli ».

    Il popolo che nel tempo ha manifestato i moti della sua anima e le espressioni della sua vita in canti sacri e profani, in novelle e in canzoni, è quieto e mite come le immagini della sua poesia, tenacemente laborioso e profondamente fantasioso; è composto di umile gente, in massima parte di contadini, che anche oggi riunendosi nelle feste sacre e nelle fiere, dopo aver parlato dei problemi materiali ed assillanti della vita quotidiana, quasi per evadere dall’ambiente consueto, non disdegna di confidarsi le speranze per il ritrovamento di tesori nascosti o sotterrati. Questa particolarità del carattere dei marchigiani che sembra in contrasto con la sobrietà complessiva, si è venuta formando nel tempo, forse perchè tutta la regione nella quale si sono susseguite tante vicende è cosparsa di ricordi e di opere d’arte e molto spesso affiorano dalla terra o vengono ritrovati oggetti antichi per lo più di origine bellica, che colpiscono profondamente la fantasia degli umili, i quali intessono intorno ad essi racconti paurosi e fantastici. In essi agli elementi profani si mescolano in abbondanza quelli sacri più comuni nell’area appenninica, dove interferisce con più vigore il misticismo umbro, perpetuando così forme ormai ovunque scomparse, fantastiche ed anacronistiche rispetto all’organizzazione della vita regionale, che pure è moderna e relativamente dinamica.

    Ma nel composto e ingenuo entusiasmo del popolo, spesso si coglie una profonda nota di malinconia che confina con il dolore già presente nei canti delle partenze e dell’addio, quando è adombrato il problema delle difficoltà della vita e la necessità di abbandonare la terra e il casolare forse per poco tempo, forse per sempre. Sono piccoli motivi, sono brevi frasi quelle che possono svelarci la sensibilità dell’anima popolare che quasi con ostinato pudore i marchigiani cercano di nascondere, trincerandosi dietro uno scanzonato frizzo ed un bonario sorriso; e la stessa impressione che si ricava dalla letteratura popolare o dall’osservazione della vita di ogni giorno si riceve nel conversare e nell’intrattenersi con i Marchigiani.

    Bambino di una famiglia di contadini.

    E lu mio amore sta lontano tanto, Me manda li saluti da lo vento:

    Io l’aricevo e lo ringrazio tanto.

    Me manda li saluti da lo sole,

    Io l’aripijo e n’aringrazio amore.

    No’ me vardate, si so’ male ardùtto So’ stato alla Maremma a laòràne,

    E l’ò magnato de lo pane asciutto,

    Te dò la vòna sera, bella, parto:

    Recòrdete de quello che t’ò detto;

    Pe’ le rive del mare vado sperso,

    Co’ ’na fronna de jia (1) l’occhi m’asciutto…

    (1) Fronda d’ulivo.

    Non è facile tratteggiare le componenti psicologiche del Marchigiano perchè, come si vede, sono multiple e complesse; il Piovene nel suo Viaggio in Italia dice che quello del Marchigiano è « un carattere italiano medio, che mette in equilibrio discordanti esperienze mediante i compromessi, le diplomazie del buon senso ». Questa forse è una definizione molto aderente alla realtà, che mette soprattutto in rilievo la caratteristica essenziale della gente, l’equilibrio, che genera un costante realismo e una tendenza a mete positive, certe, anche se in apparenza non troppo elevate e brillanti.

    In questo realismo si può dire si compendi tutto il carattere marchigiano che proprio per questo è pervaso di scetticismo che impedisce esagerazioni e di fine ironia che permette una critica sottilmente intelligente. Tale tendenza così diffusa nel popolo, spesso è scambiata, a torto, con un grave difetto, con una mancanza di fiducia nelle proprie forze, con un’assenza assoluta di spirito d’avventura e d’iniziativa.

    Il complesso delle virtù e delle tendenze del popolo ha permesso già da lungo tempo la pacifica stabilizzazione nella regione di concetti e princìpi democratici per i quali, pur nel rispetto assoluto dell’autorità costituita, vi è una profonda e sentita eguaglianza fra gli uomini che si manifesta materialmente in ogni atto della vita quotidiana e che potrebbe anche essere indicata come l’espressione di una concezione profondamente cristiana della vita stessa, permeata di bontà, ma di una bontà modesta e comune, profondamente umana.

    L’ironia e il frizzo che, come si diceva poco fa, copre e pervade ogni espressione del Marchigiano, non è risparmiata nè a se stessi nè, nell’àmbito della propria regione, ai compaesani e benché in realtà non sia possibile distinguere una graduatoria o una differenziazione di vivacità di intelligenza, in quanto più o meno ogni parte della regione si equivale, pure sono ripetute con compiacimento alcune storieatte a presentare gli abitanti ora di questo ora di quel paese come poco furbi o scarsamente intelligenti o intellettualmente squilibrati; questi fatti anche oggi sono mal sopportati e generano localmente molto risentimento, come se si trattasse di veri e propri insulti. Non risale a molti anni, ad esempio, la crisi amministrativa di un Comune, causata dall’insegna di un nuovo ristorante « al pozzo della polenta » che alludeva appunto alla storia secondo la quale gl’ingenui abitanti del paese una volta, per sfamare tanti forestieri convenuti, tentarono di fare la polenta entro un pozzo che, fino ad una cinquantina d’anni fa, era anche scrupolosamente indicato. E una storia bonaria come si vede, che può essere messa accanto a quella che si racconta per una località vicina i cui abitanti, gelosi del suono delle proprie campane e non gradendo che ne gioissero anche gli abitanti dei territori vicini, innalzarono intorno al loro abitato alte siepi! Con tali esempi si potrebbe comporre un lungo elenco che non farebbe altro che confermare la ingenua bonarietà e la serrata, continua critica cui il Marchigiano sottopone non solo gli altri ma anche le proprie azioni e le proprie ambizioni.

    I dialetti

    I dialetti parlati nelle Marche non costituiscono una unità idiomatica che si contrappone nettamente ai dialetti delle regioni confinanti, ma nel sistema dell’Italia mediana (che comprende l’Italia centrale con esclusione della Toscana), essi presentano piuttosto un’area linguistica in cui si continuano da una parte isoglosse settentrionali, di tipo romagnolo, e dall’altra caratteri dialettali che concordano con l’umbro-laziale o con l’abruzzese. Non si può parlare di un sistema dialettale regionale unitario (che si individua più facilmente, sia pure con grande elasticità, in altre regioni italiane); l’unità politica ed amministrativa delle Marche è stata raggiunta solo in epoca recente e non vi fu un centro cittadino che abbia irradiato il proprio tipo dialettale, le proprie innovazioni, in tutte le direzioni.

    Si possono tuttavia isolare sostanzialmente tre sezioni dialettali sulla scorta di alcune isoglosse importanti.

    La prima è costituita da una vasta regione settentrionale che comprende i dialetti « gallo-piceni » in cui sono evidenti i contatti con la Romagna e con i dialetti gallo-italici, particolarmente gagliardi nella provincia di Pesaro e Urbino, e via via smorzati a sud, attraverso Fano, Senigallia, Montemarciano, Falconara ed Ancona; il confine meridionale può essere fissato all’Esino ove si incontrano correnti dialettali di opposta provenienza. Al centro abbiamo la seconda sezione che possiamo definire dei «dialetti piceni arcaici», compresa tra l’Esino e l’Aso; a sud dell’Aso, la terza sezione, che si collega direttamente con i dialetti abruzzesi e laziali e non presenta una demarcazione dialettale ben definibile. Essa si oppone per vari tratti importanti alla sezione « piceno arcaica » e offre una fisionomia dialettale molto varia ed innovatrice.

    I confini tra le tre sezioni sono stati individuati soprattutto tenendo come guida il diverso comportamento del vocalismo e della metafonesi che caratterizza oltremodo le parlate dell’Italia mediana e meridionale. Il confine tra sezione gallo-picena e picena settentrionale, oltre che da motivi di sostrato (?), è stato determinato dalle vicende politiche della regione; non a caso si può far coincidere con una linea che un tempo separava, grosso modo, la pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) dal Ducato di Camerino e dalla Marca Fermana e che corrisponde ancora al confine che divideva il Patrimonium Petri dal Ducato di Spoleto. Alla pentapoli che si estendeva a sud di Ancona fino al Potenza, appartenevano Loreto, Osimo, Castelfi-dardo, Recanati, Jesi, Sassoferrato, Fabriano, ecc.; secondo una delimitazione dialettale molto particolareggiata (dovuta a E. Mengel) tutte le località surriferite non rientrano nella sezione « picena », ma spettano piuttosto al « gallo-piceno ». Il confine tra l’area «gallo-picena» e quella «picena settentrionale » è dunque segnato da una linea che partendo dal corso inferiore del Potenza, presso Recanati (che resta a nord), passa il Musone, tocca Santa Maria Nuova e segue l’Esino nel corso medio e superiore fino alle sorgenti (Esanatoglia) ; poi, attraverso Fiuminata ed il Passo Carosina, raggiunge l’Umbria ad est di Nocera Umbra ed attraverso l’Umbria meridionale si confonde nel territorio laziale che risente di correnti toscane.

    Il garzone di stalla.

    Nella sezione I, « gallo-picena » (in senso lato) e particolarmente nelle valli del Metauro e del Foglia, s’incontrano frequenti isoglosse romagnole e correnti galloitaliche che investono parte dell’Umbria e della Toscana orientale; si arrestano nelle Marche le vocali turbate il ed o, ma è assai vigoroso il passaggio di a ad a od è, in sillaba libera, che abbraccia Pesaro, Fano, Fossombrone, Urbania, Urbino, Cagli e giunge assai smorzato ad Ancona (ad esempio a Urbino: kantdt «cantato», nàs «naso», sài «sale», ma barba, larg, karne); come in Romagna lo sviluppo di a in è si nota qua e là anche in particolari casi di sillaba chiusa, ad esempio a Macerata Feltria (cfr. senta, ènzi, quèlca). Al di là dell’Appennino a > è, come si sa, è tipico di Arezzo e Cortona e dell’Umbria settentrionale (Perugia, Città di Castello, Gubbio).



    Bambini delle Marche meridionali.

    La preghiera di un pellegrinaggio a Loreto.

    Una posizione particolare presenta la regione di Arcevia «che forma una specie di cuneo, infisso nelle Marche, con la base nell’Umbria, allargantesi verso le regioni romana e toscana » (« Crocioni ») ; il territorio di Arcevia, pur non rientrando nella sezione II, non accoglie alcuni fenomeni gallo-piceni (e soprattutto a >è) i quali si arrestano dopo la Pergola ma toccano ancora Montesecco, San Vito, Castelleone e Corinaldo. Tra i fenomeni più importanti (oltre a quello ricordato), diffusi più o meno in tutta la sezione gallo-picena, basterà far menzione di : ce, ci, ge, gi che presentano, in accordo con i dialetti settentrionali, esiti con l’affricata 2 (ts), z (dz) tipica del romagnolo, ad esempio Zesù « Gesù », zorn « giorno », suzdéa « succedeva » (nel seni-galliese); mancata dittongazione di è, ò in casi in cui le altre sezioni dittongano per influsso metafonetico (la metafonesi è infatti quasi del tutto inoperante — tranne alcuni casi d’influsso di -i — specie nella fase dialettale odierna); frequente caduta delle vocali atone, specie postoniche e finali, ad esempio povr « povero », figùrte « figurati », stela «statela»; frequente dileguo della sillaba finale, ad esempio curi «correte», scuse «scusate», birbo «birbone»; metatesi nel prefisso re- passato ad ar-, da esempio arvoltà, artrovà, arcunosce «riconoscere»; frequente uscita analogica in -a negli indeclinabili, ad esempio sota « sotto », dreta « dietro », da vera « davvero »; mancata assimilazione nei nessi ND, MB, MV, LD, N’L che caratterizza oltremodo le altre sezioni in accordo con i dialetti mediani (vedi infra alcuni esempi); s intervocalica è sempre sonora, ad esempio mese, peso, ecc.; non esistono consonanti doppie; la -c- intervocalica si presenta costantemente sonorizzata, ad esempio segondo, figli, stò-migo, mentre più rada è la sonorizzazione della dentale, ad esempio scavedà « scapitare ». Si dovrà inoltre considerare il propagginarsi nella regione pesarina di un fenomeno tipicamente romagnolo, e cioè l’allargamento di I in é, al quale fa riscontro (ma con più ampia diffusione) l’analoga apertura di u in o, ad esempio zé « giorno » (dies), aksé « così ». gé « gire ». lé « lì ». loce « luce », alcona « alcuna », lomo « lume » (in antichi testi marchigiani).

    I malati raccolti nella piazza del santuario di Loreto attendono la benedizione.



    I dialetti della II sezione sono caratterizzati da un accento « debolmente centralizzato » e dall’ampio sviluppo della me-tafonesi (da -i, -u) che non dà origine a dittonghi (da e ed o brevi), ma a vocali chiuse. È questa la sezione più tipicamente marchigiana che possiamo classificare (seguendo E. Mengel) « piceno-arcaica », in stretto accordo con i dialetti umbri meridionali. Il confine meridionale con la III sezione (la quale offre invece marcati caratteri innovatori nel vocalismo) è segnato da una linea che partendo dalla foce dell’Aso (Pedaso) procede lungo la valle fino nei pressi di Montemonaco, e a nord di Monte Vettore, abbraccia il massiccio dei Monti Sibillini, passa poi per Arquata, continua per il Passo di San Pellegrino, scende nella valle del Tronto, segue la catena dei Monti della Laga fino al Ponte della Lama; penetra infine nella regione del Gran Sasso e, davanti alla stretta di Popoli, piega nuovamente in direzione ovest ove si perde nella Ciociaria (E. Mengel).

    Vedi Anche:  Le divisioni territoriali

    La fascia dei dialetti « piceno-arcaici » è larga oltre 100 km. ed è soggetta alle innovazioni che provengono dalla Toscana e dalla Romagna, che ne hanno qua e là alterato la fisionomia originaria del vocalismo di tipo centro-meridionale; ma nel complesso le caratteristiche arcaiche sono ancora ben conservate. La sezione comprende, amministrativamente, la provincia di Macerata, il territorio della provincia di Ancona a sud dell’Esino-Musone con Filottrano, Cupramontana, Albacina e Por-carella e la parte della provincia di Ascoli Piceno a nord dell’Aso; in territorio umbro vi appartiene l’Umbria meridionale con Foligno, Spoleto, Terni e Narni; inoltre essa presenta stretti legami anche con l’Abruzzo aquilano fino alla stretta di Popoli e col Lazio (Ciociaria).

    Nel vocalismo si nota: i° una fedele conservazione del vocalismo tradizionale, tonico e atono; 2° la distinzione tra le vocali finali latine -u ed -o (per cui la zona è definita anche « area di -u »), ad esempio vako « vado », òmo-òmu (senza metafonia!) « uomo », -élmo « -éndo » (gerundio), ma lu puzzu, lu mimmi, lu toni, bellu, ecc. (-u in corrispondenza di -u latino); 3° metafonesi di e stretto (= latino e lungo, 2 breve) ed 0 stretto (= latino 0 lungo, u breve) prodotta da -u ed -i ed i semivocale, con passaggio ad ì ed u; 4° metafonesi di e aperto (= latino e breve ed ae) ed 0 aperto (= latino o breve ed au) prodotta da -u ed -2, con passaggio ad e ed 0; 5° assimilazione a distanza di tutte le vocali alla tonica se questa è chiusa.

    Citiamo alcuni esempi del dialetto di Camerino che conserva bene gli arcaismi fonetici: per 3° lu piru e li piri « pero », « peri »; lu pilu «pelo », li pili; lu fiore «fiore», ma li fiuri’, nede « neve » (nive), ma milu « melo » (melu); ogna « unghia » (ungula), ma sulu «solo», (solu); per 4° li pèdi « i piedi », li dènti «i denti», lu léttu «il letto», lu péttu « il petto », lufócu « il fuoco », ma còre « cuore » (core), pòrta (porta), mèle (mele) « miele », ecc.; per 5° sintimu « sentiamo », sintìo «sentì » (con assimilazione di e protonico ad i tonico), oppure kunusutu « conosciuto », duùtu « dovuto », murìo, muritte « morì », ecc. (con assimilazione di 0 alle vocali estreme toniche). E inoltre tipica nella massima parte della regione la sostituzione di -0 ad -u in alcuni casi di « collettivo»: lo ferro (e lo pese «pesce»); la contrapposizione -u: -0 distingue spesso il concreto e reale dall’astratto ed indefinito (è da osservare l’opposizione maschile lu contro neutro lo, diffusa in molti dialetti centro-meridionali).

    Nel consonantismo, con la nostra sezione s’inizia l’area delle assimilazioni di nessi consonantici, caratteristica centro-meridionale: ad esempio ND >nn (che ha punte estreme fino ad Arcevia, Fabriano, Jesi, Loreto), quanno « quando », monno « mondo », chiamanno «chiamando», granne «grande»; parallelamente MB >mm, gamma «gamba», piommo « piombo », palomma « colomba » (palumba) ; inoltre LD >II, callu « caldo » (ma nelle Marche abbiamo anche l’assimilazione inversa, cioè: LT >LD >dd, ad esempio a Monsampolo del Tronto: addare «altare»); NV >mm, ad esempio a Sanseverino mméce (’mbéce) « invece ».

    Un fenomeno molto diffuso è la sonorizzazione della sorda dopo continua, ad esempio cendo « cento », donga « dunque », biango « bianco », mango « manco », langia « lancia », mbacienza « impazienza », ecc.

    La sezione III — che non offre un confine ben delineato a sud poiché non è ben definibile lo stacco dall’abruzzese — è caratterizzata da una grande varietà dialettale e da esiti svariatissimi nel vocalismo (esiti spesso recenti). Presenta alcuni apparenti contatti con la sezione I, ad esempio nell’indebolimento delle atone finali, ecc.; ma si tratta di fenomeni ovviamente indipendenti, e non si può presupporre una antica continuità, tra lo sviluppo ad esempio di a >è della sezione I e lo stesso processo che si riscontra in alcune aree meridionali [gatte « gatto », vrècc « braccia », rispettivamente a Montalto e Offida ; a San Benedetto : strade « strada », dnnè « anno », mare « mare », cd «cane», barbe «barba», à(i)te «alto»].

    Rispetto alla metafonesi ed alla dittongazione si possono distinguere due fasi linguistiche nei dialetti del Piceno meridionale: a) dialetti in cui è ed ò dittongano in metafonia e che per varie caratteristiche (specie consonantiche) si allacciano ai dialetti d’oltre Aso (sezione II) ; b) dialetti più evolutivi che riducono i dittonghi ie ed uo ad ìe, ùo e di qui spesso monottongano in i ed u (essi creano inoltre un nuovo sistema vocalico). Appartengono al primo gruppo i dialetti del Tronto; si osservano in essi i seguenti tratti: i° le vocali atone finali passano ad -e, tranne la vocale -a che resiste alla riduzione; 2° tutte le protoniche e postoniche, generalmente assimilate alla tonica nella sezione II, qui sono ridotte alla vocale indebolita è ad eccezione di a; 3° è, ó per influsso metafonetico passano ad i, u; è, ò (aperti) per influsso metafonetico dittongano in ie, uo (la dittongazione è forse molto recente: negli Statuti di Ascoli Piceno [del 1377] non appare alcun esempio di origine metafonetica, mentre alcuni dittonghi sono dovuti all’influsso toscano).

    Il territorio dei dialetti che presentano tali caratteri è formato da un triangolo con gli angoli ad Acquasanta, Ancarano e Ripatransone ed al centro Ascoli Piceno.

    Gli altri dialetti presentano caratteri più spiccatamente abruzzesi: i° tutte le vocali finali atone >è (resiste soltanto -a) e le protoniche e postoniche divengono pure è con pronuncia labializzata; 2° è, ò in metafonia ie, uo e di qui i, u; 3° mentre si attua la monottongazione dei dittonghi, si osserva una trasformazione generale del sistema di opposizioni vocaliche e si ha spesso il seguente schema: a >è oppure a – ò; è >( è) >a oppure é; é >(é) >a; ì> é (> 0) ; ò >ò oppure à; ó > ò (> a) oppure ó > é; ù > ó > o, oppure i. Citiamo alcuni esempi del dialetto di Cupra Marittima: a >ò, (examen) sòme « ape », (anche Grottammare: lò «là», quò «qua», mòre «mare», sòie «sale», piònte «piante»); ì > e, lu frétte (fritto), li fékore (i fichi); u ó >0, Kòpra Maròttèmè «Cupra Marittima» (ma anche u>ò>i, ad esempio fise «fuso»); é >è, le rèkkyé (orecchie), fèketè (fegato); é >i (in metafonia), nirè (nero); ó >ò, la gòrbe (volpe); è >i(y) (in meta-fonia), spitrìyè (pipistrello) ; ò >u (in metafonia), li fasù (fagiuoli), uye, uuye « oggi » (hodie). Ad Ancarano invece è> ie (metafonia) con dittongo intatto, urtielle «coltello», ed ò può passare, attraverso uo, ad uó, ad esempio ad Offida fuòke « fuoco », puòrké « porco ». In accordo con i dialetti abruzzesi ì passa ad ei ed u ad 011, ad esempio a Grottammare: ameiche «amico», deichè «dico», infeinè «infine», ceinkuè «cinque», lattouga « lattuga », louce « luce », fouma « fuma ». A Monteprandone si osserva la dittongazione discendente anche da é in ei (come in parte dell’umbro e nell’aretino), ad esempio catéinè « catena », néivé « neve », réitè « rete»; a Montaltoei (dae) si è allargato in ai, esempio mdila « mela», ed a Force il risultato è oi, ad esempio sóite « sete »; a Campofilone, Montefiore e Ripatransone si ha invece è, ad esempio mèle « mela », oppure a a San Martino: male « idem». Anche nella III sezione (come nella I) si ha, spesso, allargamento di i in e e di u in o, ad esempio a Monteprandone piomé « piuma », more « muro », a Massignano porè « pure », a Petrìtoli ova « uva » ; Petrì-toli è forse l’unica località a nord dell’Aso che ha accolto innovazioni provenienti dal sud; il dialetto di Petrìtoli, per i contadini della zona circostante, è considerato « parlata sporca e pessima » (Mengel).

    A Grottammare o si allarga in a, ad esempio sale « sole », vace « voce », name « nome » (mentre a >ò, vedi sopra) ed anche ò tende ad a nella medesima località, a Porto San Giorgio e a San Benedetto: care «cuore», marte «morte», bave «bove»; da o si ha é a Pedaso, fière « fiore », créce « croce »; è si apre in à a Porto San Giorgio, esempio ba « bene » (tutti esempi fuori di metafonia) ; a Grottammare da è si ha il dittongo ei, ad esempio in téipede « tiepido », mentre è >é a Pedaso e Cupra Marittima, esempio pé « piede », té « tiene », ecc.

    Tra le particolarità morfologiche dei dialetti marchigiani si potrà ricordare: le conservazioni di nominativi latini, esempio peco (pecus), i plurali in -a, esempio prata, molina e gli antichi in -ora ( pràtora), molto comuni nei dialetti centro-meridionali, ed in accordo con questi, il possessivo posposto, esempio patremo « mio padre », sòrema « mia sorella », frateto « tuo fratello »; il dimostrativo antico altrei femminile di « altrui », gl’indefiniti quelle « qualche cosa » (italiano antico covellé) e anniquèlle « ogni cosa »; le prime persone plurali -a, ad esempio potema, vulima, gl’infiniti della III coniugazione in -a, cora « correre », veda « vedere » nelle sezioni picene; ad Arcevia si notano forme quali valla cchidma « va a chiamarlo », viena vvede « vieni a vedere », viena ddòrme « vieni a dormire ». La terza persona singolare funge anche da terza plurale in buona parte della regione, ad esempio essi (issi) se lava « si lavano » (come in dialetti italiani settentrionali).

    Altre espressioni degne di nota sono: l’uso di sa «con» da un *essa >ipsa (cfr. latino ipsa manu) diffuso a San Marino e nelle Marche settentrionali, ad esempio a Pesaro sa su cognada « con sua cognata », sa lori « con loro », in provincia di Ancona sai sai « col sale », a San Marino s’ul curtel « col cortello », sa me « con me », sa li tetrdi « con le tende »; la preposizione int, nti, nte, ntu da ìntus, e me da medium, ad esempio me lu pel tu « nel petto » (a Camerino), me lo suppiirgru « al sepolcro », me la cassa (ad Esanatoglia) « nella cassa ».

    Il lessico più tipico dei dialetti marchigiani trova generalmente conferma nei dialetti abruzzesi ed umbri. Si può menzionare l’arcaismo néngue « nevicare » da nìnguére, cfr. abruzzese néngue e nénghe (inoltre rum. ninge); loch (loco) usato in tutta la provincia di Ascoli Piceno per indicare un punto lontano da chi parla e da chi ascolta, ad esempio Montefalcone loch in piazza, ad Offida loch in biazz, Massignano loch a piazze, ecc. ; vi si contrappone l’uso di ecco per indicare un luogo vicino, ad esempio jecchè a case « qui a casa » (Fermo), ecc.

    Bisognerà notare, infine, che alcune caratteristiche di rilievo, oggi limitate ai dialetti piceni, si osservano qua e là in documenti antichi dell’area gallo-picena; abbiamo, ad esempio, tracce della metafonia prodotta non soltanto da -i, ma anche da -u, in documenti dei secoli XIV, XV e XVI di Recanati e di Ancona: Recanati (1361) (errino, sirico, (1421) quillo, quisto; Ancona (secolo XVI) quitti, furbitti, piumbo, subto, ecc.

    Molti tratti tipici della regione sono già testimoniati nei documenti linguistici antichissimi dei secoli XII e XIII; tra questi si ricorderanno: i° la carta fabrianese del 1186 (Archivio comunale di Fabriano) mista di latino e volgare, ma con ampie frasi ormai nettamente dialettali (-u è costante, ad es. tuttu, complitu, impedimentu, agustu, tempu, co istu pingnu); 2° la carta picena del 1193 (Archivio di Stato di Roma) in cui figura, tra l’altro, quistu, issu, ecc. ; 3° il Ritmo su Sant’Alessio (Biblioteca comunale di Ascoli Piceno) dei primi del secolo XIII (di 257 versi) che s’inizia: «Dolce, nova consonanza / facta l’aio per mastranza; / et ore odite certanza / de qual mo mostre sembianza / per memoria reteanza…»; 4° la Canzone del Castra fiorentino (attribuita al Castra da Dante [De Vulg. Eloq., I, XI, 2-3]) scritta probabilmente intorno al 1260-80 da un Osmani (secondo il Crocioni); essa riflette una parlata sicuramente marchigiana.