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Il mare, i laghi e i fiumi

    Le acque

    Fenomeni carsici. Circolazione sotterranea.

    Se si osserva nell’insieme la composizione delle formazioni rocciose della regione, si rileva che esse, costituite o di potenti banchi di dolomia o di calcare ora bianco, ora grigio, hanno un alto grado di permeabilità, cioè sono capaci di assorbire e trattenere la pioggia per lungo tempo. Superficialmente si presentano spesso denudate e molto fessurate, cosparse di crepacci, dai quali le acque sono inghiottite rapidamente, o sono ricoperte da formazioni mobili, come terriccio e detrito che accrescono notevolmente la capacità della roccia permeabile di trattenere e di assorbire l’acqua. Le rocce con simili caratteristiche sono attraversate con facilità dalle acque che acquistano una libera canalizzazione e che riaffiorano spesso in numerose sorgenti di esigua portata ad altezze differenti, ma soprattutto tra le curve di livello dai 1500 agli 800 m., oppure in stillicidi entro caverne o grotte. La circolazione sotterranea delle acque però non è sufficientemente conosciuta e così anche il fenomeno carsico, tanto frequente specie nella parte più elevata della regione, non è stato oggetto di uno studio metodico. Esso si presenta soprattutto sotto forma di grotte e di caratteristiche forme di corrosione, mentre sono quasi assenti esempi tipici di doline, probabilmente in conseguenza del grande spessore dei banchi rocciosi.

    Data la frazionarietà del fenomeno carsico di necessità si possono ricordare soltanto gli esempi più cospicui, come quelli del Monte Nerone, nella catena del Càtria. Gli affioramenti più estesi sono quelli in vai di Canale o vai dell’Abisso, dove si apre uno scosceso burrone con le pareti quasi a picco che, per l’asperità del luogo, è detto Infernaccio. Si suppone che questo baratro si sia formato in sèguito ad una frana determinata dal terremoto del 1456; successivamente le acque avrebbero approfondito e ampliato le fratture, penetrando in sempre maggiore copia nel sottosuolo, cosi che ora, anche durante un periodo di piogge abbondanti e prolungate, è pochissima l’acqua che scorre superficialmente in vai di Canale. Lungo i fianchi della valle si aprono varie grotte e cavità tra le quali due meritano di essere ricordate: la Grotta dei Prosciutti a un km. circa dalla Casciara di Piobbico e la Grotta della Moneta o del Nerone, sulla costa di Col Filatoio. La prima ad un solo ingresso a quota 1120, ha la volta ornata di stalattiti che, ingrossandosi rapidamente verso il basso, assumono l’aspetto di prosciutti; da questo deriva il nome. Maggiore importanza ha la Grotta del Nerone che si apre a quota 967 e che consta di antri, di corridoi e di sale nelle quali si susseguono fantastiche formazioni stalattitiche e stalagmitiche. Sia nella Grotta dei Prosciutti che in quella della Moneta attualmente è quasi cessata l’azione corrosiva delle acque e prevalgono invece i fenomeni di riempimento.

    Marmitte dei giganti lungo il torrente Sentino, presso la gola di Frasassi.

    Nella medesima zona si rinvengono anche fenomeni di minori proporzioni; immediatamente sotto il Passo dei Vitelli, si eleva una rupe, forata da parte a parte da una finestra detta Passo della Madonna; rappresenta il residuo di una caverna in gran parte distrutta ad opera degli agenti atmosferici. A breve distanza da questa finestra orografica si può notare un masso di calcare di grandi proporzioni che si presume sia un frammento di uno dei tanti blocchi calcarei dislocati e irregolarmente sovrapposti, rimasto isolato per la degradazione esercitata dagli agenti atmosferici.

    Lungo il versante meridionale del Monte Nerone, ad est di Pieia, una serie di fratture determinate da fenomeni tettonici avvenuti durante il Quaternario, permise l’assorbimento delle acque ed una intensa circolazione sotterranea attraverso ampi canali e numerose grotte. Coll’andare del tempo l’azione esterna delle acque superficiali accompagnata alla corrosione delle acque sotterranee determinò vasti franamenti che misero a giorno la struttura interna del rilievo. Sulle pareti di queste rocce si notano, a diversi livelli, solchi e incavi che nel passato dovettero essere in relazione con correnti sotterranee di rilevante portata, ed anche numerose grotte, quantunque ora inattive. Le più importanti sono quella del Tropello, costituita da un’unica camera rappresentante il residuo di una marmitta scavata da un corso d’acqua sotterraneo; la Grotta delle Nottole; la Grotta di Fondarca che nell’alto Medio Evo fu trasformata in eremo: le cavità della roccia infatti, chiuse da mura di cui restano ancora gli avanzi, servivano da celle per gli eremiti.

    Anche due voragini a nord dell’abitato di Serravalle sono da attribuirsi a fenomeno carsico; la più importante è la Buca Grande posta a 1250 m. di altitudine: ha la forma di una dolina a ciottola ed è il prodotto dell’azione erosiva e corrosiva delle acque, esercitata dall’alto in basso, lungo una fessura del calcare, che mette in comunicazione la superficie del rilievo con una cavità interna. Alquanto più in basso si apre un’altra cavità, detta Buca Piccola.

    La complessità del fenomeno carsico del Monte Nerone del quale si è dato solo qualche cenno, spiega la ricchezza numerica delle sue sorgenti che si possono dividere, a seconda dell’origine, in tre gruppi: sorgenti diaclasiche che derivano dalle acque che, assorbite dalle rocce fratturate, sono successivamente incanalate entro fessure più o meno estese; ne sono esempio quelle del Ciordano che alimentano il torrente omonimo. Le sorgenti di versamento si verificano quando una roccia poco permeabile serve di base ad una formazione dotata di accentuata penetrabilità o permeabilità e l’inclinazione degli strati non supera quella del versante; ad esse si ascrivono la fonte del Ranco e quella dei Brusceti. Più numerose sono le sorgenti di trabocco, dovute al fatto che strati, alternativamente poco e molto permeabili, hanno una inclinazione assai più accentuata di quella del versante lungo il quale affiorano. Tali sorgenti si trovano in serie sia quasi alla sommità del Monte Nerone tra 1100 e 1400 metri di altitudine, sia quasi alla base del rilievo stesso tra le quote 320 e 360.

    Nei Sibillini il fenomeno carsico si presenta sotto le forme più comuni di campi carreggiati, di inghiottitoi; le grotte che si conoscono sono poche e prive di interesse speleologico. Alcune tuttavia sono famose per le leggende che hanno fatto fiorire, come la Grotta della Sibilla presso la cima del monte omonimo.

    Sulle due opposte pareti della valle di Domora, affluente del fiume Potenza, si aprono le grotte di Sant’Eustachio di origine carsica; sono formate da tre cavità intercomunicanti; la più piccola, laterale rispetto alle altre, ospita un santuario in passato molto frequentato; già prima della costruzione di questo si doveva svolgere qui qualche culto perchè ancora sulle pareti esistono nicchie artificiali e avanzi di mattoni, facenti forse parte di un muro che chiudeva l’apertura della grotta stessa. Il grande stillicidio che vi si verifica ha permesso la formazione di stalattiti e di stalagmiti che spesso si congiungono a formare colonne dando all’ambiente un aspetto fantastico ed affascinante. Oltre queste più conosciute ne esistono tante altre che sono state di recente descritte dal Baldacci; fra tutte appare più interessante quella della Fornace, alta sul torrente circa 15 m., che in passato ospitò un forno di calce di cui si possono osservare gli avanzi, e quella del Torrente che aveva un manufatto simile ora in disuso.

    La gola di Frasassi.

    All’estremità meridionale della regione nel bacino del Tronto si aprono le grotte di Acquasanta che si differenziano geologicamente e litologicamente da quelle considerate finora; sulle rocce dell’Eocene e del Miocene che le ospitano ha agito oltre all’azione solvente dell’acqua, anche il geotermismo. Le acque sgorgano nel fondo di una caverna da una massa di travertino formando laghetti o piccole piscine ed hanno una temperatura elevata ed una composizione solforosa; erano già note fin dall’epoca dei Romani per le qualità curative. Le grotte sono numerose, quasi in serie, e si aprono tutte sulla destra del fiume ad una ventina di metri sul livello del pelo d’acqua; le più note sono tre: una grande sudatoria, con acque sulfuree; una piccola, o delle Stalattiti; la terza molto nota e meta di visite turistiche è la caverna ricordata poco fa nella quale sgorga la copiosa sorgente di acqua sulfurea; la sua maestosa grandezza è resa suggestiva dall’abbondante acqua, che proviene da una spaccatura della roccia, e dalla volta irregolare nella quale si alternano sporgenze mam-mellonari e cavità, ricoperte da uno strato di gesso cristallizzato e da zolfo stalattitico.

    Recentemente, sulla destra del Ganopo, affluente di destra del Tronto, sono state scoperte nuove grotte, la cui temperatura interna, a differenza di quelle di Acquasanta, è normale: dalle fenditure delle volte non cola stillicidio.

    La più nota grotta del bacino dell’Esino è quella di Frasassi presso Genga, tra i monti di Ginguno e di valle Montagnana, alla quale si accede per una breve strada più elevata di quella che percorre la gola omonima e che permette la vista su quella specie di cañón in fondo al quale scorre il Sentino ad una profondità di 102 metri. L’ingresso è costituito da una maestosa volta naturale; da questo vano principale si dipartono due diramazioni indipendenti, che hanno una direzione media ovest-est, simile a quella della valle. Quella di destra è larga m. 6,50 e profonda circa 41; l’altra diramazione sulla sinistra è a 13 m. d’altezza rispetto al piano d’ingresso; è larga 12 m. e alta 41, prosegue in una lunga fessura rivestita di stalattiti, lunga circa 405 m., comprese le deviazioni laterali. Da tutto il resto si distingue la Sala delle Nottole, vano altissimo occupato da una grande quantità di pipistrelli. L’esplorazione sistematica iniziata nel 1872 ha condotto al rinvenimento di resti fittili e di resti umani ed animali che fecero avanzare l’ipotesi di una occupazione umana preistorica della grotta stessa. Nel vano d’ingresso s’eleva ora una chiesetta ottagonale con una cupola, opera di G. Valadier, che racchiude nell’interno una Vergine dei Monti scolpita da Canova.

    Sorgenti

    La regione è ricca di acque minerali e termali le cui sorgenti hanno una distribuzione molto vasta; sulla destra del Tronto sono da ricordare le sorgenti termo-minerali di Pozzetto di Paggese e della frazione di Santamaria, nonché la sulfurea-ferruginosa un po’ a valle di Castel Trosino, sulla riva destra del Castellano, il maggiore affluente del Tronto; la salino-iodurata di Mozzaro, lungo il Tronto, a monte di Ascoli; la ferruginoso-salina di Offida, la sulfurea-ferruginosa di Amàndola e, più vicino al litorale, la carbonata di Sant’Elpidio a Mare.

    Oltre a queste ricordate, le acque minerali e termali si trovano un po’ dovunque nelle quattro province marchigiane e costituiscono una grande ricchezza per la regione. Se si considerano le caratteristiche chimiche prevalgono, in quanto a numero, le sulfuree, alle quali seguono le saline, le salso-iodiche e le ferruginose. Tutte le sorgenti sono in terreni terziari, pliocenici e miocenici, molto spesso a contatto di strati anche litologicamente diversi, di due periodi della medesima èra,

    0 al contatto del Pliocene, con i sedimenti quaternari. Data questa peculiarità, le acque sono distribuite unicamente nella zona collinosa o subappenninica o in quella litoranea; e qualora eccezionalmente si trovino nell’interno, affiorano o nel fondovalle dei corsi maggiori (Acquasanta-Tronto) o nella sinclinale di Camerino (Fabriano).

    Le acque salso-iodiche sono in prevalenza negli strati terziari marnosi non profondi, posti al disopra di marne bituminose e al disotto di gessi solfiferi; la loro temperatura va dai 12° ai 16°. Quando gli strati sono erosi o interrotti, per esempio, lungo il corso medio di qualche fiume, allora affiorano sorgenti minerali. Merita di essere ricordata la sorgente solforosa presso Senigallia, in provincia di Ancona; quelle di Poggio San Marcello e di San Paolo in Jesi nel bacino dell’Esino. Questa ultima località presenta particolari fenomeni, i « vulcanelli di fango » o « salse » denominati localmente bollitori. Sono sorgenti di gas che trovano la loro libera uscita ostacolata in varia misura da strati argillosi imbevuti di acqua. L’emissione avviene attraverso fango più o meno molle, ora con l’apparenza di una semplice ebollizione, ora violentemente tanto da produrre, in minori proporzioni, parossismi vulcanici. Il nome di vulcanelli fu suggerito appunto dall’aspetto che assume la materia fangosa, la quale uscendo dal suolo mista ad acqua e sospinta dai gas, si dispone in modo tale da riprodurre un piccolo apparato vulcanico, con la tipica forma a cono e con il cratere; esso è adoperato di preferenza dal Bonasera per la descrizione dei fenomeni compresi nel bacino dell’Esino e localizzati nella vallecola laterale del Fossato in gruppi quasi allineati con direzione nord-nordovest sud-sudest. Possono distinguersi in una serie di raggruppamenti il primo dei quali è tra gli abitati di Majolati Spontini, Monte Roberto e Castelbellino ; esso è stato modificato dall’uomo e attualmente gli orifizi si presentano pertanto come dei pozzi allargati e incamiciati fino alla profondità di 4-5 m. dal livello del suolo; sono allo stato così detto crenoide

    o di debole attività. Il secondo gruppo, a breve distanza dal precedente, è in fase di colata fangosa e perchè il materiale emesso non abbia la possibilità di danneggiare le colture circostanti, è stato creato un piccolo rivo di fango ai piedi del pendio sul quale si aprono gli spiragli. Il terzo gruppo di tre spiragli con orifizio a stagno presenta una superficie di acqua grigiastra spesso ribollente; il quarto gruppo, sempre laterale alla valle dell’Esino, si trova sulla destra del Fosso di San Giovanni.

    La piccola valle del torrente Cesoia, anch’esso affluente dell’Esino, ospita gli stessi fenomeni ai quali già O. Marinelli, descrivendoli, diede il nome di bollitori, perchè localmente sono indicati come bojitori; si trovano in due località dette Bagno e Battinebbia poste rispettivamente a sud e a sud-ovest dell’abitato di San Paolo di Jesi. Il bollitore della prima località è in area pianeggiante e presenta tre piccoli conetti che sono ora in fase crenoide ma che spesso hanno qualche differenza di attività forse in relazione con il regime delle piogge e con le variazioni del tempo; prima della visita del Marinelli, al principio del secolo, si era avuta una fase di eruzione, cioè di forte attività. Nel bollitore di Battinebbia le manifestazioni sono in fase di colata fangosa; il conetto di emissione ha una cavità circoide con un orlo rialzato dalla parte opposta al punto di emissione; attualmente non si notano più le pozze fangose già viste aH’intorno dal Marinelli. Dalle notizie raccolte dal Bonasera sembra che negli ultimi quarantanni il bollitore si sia spostato all’indietro forse in rapporto con piccole frane locali. Lo stesso tipo di fenomeni si trova anche nel bacino dell’Aso e in quello del Tesino ma la maggior parte di essi è scomparsa, lasciando o no traccia, sia naturalmente sia per l’intervento dell’uomo che ha cercato di mettere a coltura le aree fangose e di sostituire la vegetazione palustre. Localmente i fenomeni sono denominati secondo l’indagine del Bonasera, sagnasuga (sanguisuga) o ammoje (terreno bagnato). I vulcanelli del bacino del Tesino sono compresi nel territorio comunale di Rotella; confrontando le osservazioni compiute alla fine del secolo passato con quelle attuali si deve dedurre che i fenomeni sono in via di scomparsa in massima parte anche qui per opera dell’uomo che ha messo a coltura i terreni da una diecina d’anni a questa parte.

    In provincia di Ancona si trovano sorgenti minerali la cui importanza supera quellaregionale: sono le sorgenti di Cameranonel bacinodel Musone, dette Acque dell’Aspio o Fontanelle. Vengono elencate tra le salso-iodiche-ferruginose, ma contengono una grande varietà di altre sostanze minerali la cui ricchezza è in rapporto alla varietà litologica del bacino: a poca distanza infatti vi sono terreni recentissimi e quaternari, sabbie gialle plioceniche, argille e marne azzurre e, non molto distante, i gessi del Cameranese; questo insieme è tutto eroso profondamente o solcato dalle acque torrentizie dell’Aspio, verso il quale devia il Musone nell’ultimo tratto. La località, posta sulla linea ferroviaria litoranea nel punto in cui essa si allontana dalla costa per superare l’ostacolo del Cònero, ha acquistato grande rinomanza ed importanza come località terapeutica, tanto da richiedere una fermata sulla grande arteria ferroviaria internazionale.

    Inprovincia di Macerata sono da ricordare le sorgenti salino-solforose di Petriolo equelle salso-iodiche di Penna San Giovanni. Le primenascono presso il torrente Cremone, affluente del Chienti, dove vengono a contatto le formazioni plioceniche con quelle mioceniche, nel passaggio, cioè, dai terreni più recenti a quelli più antichi. Le acque sgorgano ad una temperatura di 13° e contengono oltre ad acido solforico ed anidride carbonica, anche cloruri, solfati, bicarbonati. Anche l’acqua del Cremone è lievemente salata per la presenza di cloruro sodico; infatti nell’alveo torrentizio, tra le colline di Petriolo a nord e quelle di Loro Piceno e Mogliano a sud, sgorgano molte sorgenti assai ricche di quel sale. L’altra importante sorgente minerale, quella salso-iodica di Penna San Giovanni, si trova nel bacino del Tenna; più che di una sola sorgente, si tratta di molte centinaia di polle che hanno importanza dal punto di vista terapeutico ed anche industriale.

    Vedi Anche:  Crescita demografica ed emigrazione

    Idrografia

    Le Marche, col lato maggiore del loro perimetro rettangolare, s’appoggiano ai pendìi appenninici dai quali ha origine il Tevere. Le acque orientali di quello stesso lato montano, si dividono nel grande fascio dei tredici maggiori fiumi marchigiani, dalla Marecchia al Tronto.

    Le pieghe appenniniche centrali, all’altezza del Cònero, come si è visto, subiscono un cambiamento di direzione che permette di suddividere questi corsi d’acqua in due gruppi : quello settentrionale che comprende la Marecchia, il Conca, il Foglia, il Metauro, il Cesano, il Misa e l’Esino aventi, nel loro parallelismo, netta direzione nord-est; e quello meridionale o del Piceno che comprende il Musone, il Potenza, il Chienti, il Tenna, l’Aso e il Tronto, tutti con direzione sudovest-nordest.

    Al complesso dei corsi d’acqua marchigiani si possono riconoscere alcune caratteristiche comuni come il parallelismo, turbato solamente un po’ dal fascio di rughe appenniniche, la dissimmetria in quanto il fianco destro è ripido con scarse tracce di terrazzi, mentre sul sinistro la serie dei medesimi è ben sviluppata, ed infine il particolare regime che è nettamente torrentizio. Questa caratteristica messa in evidenza dall’osservazione dei valori delle portate di media e di piena che sono lontanissime tra di loro, si può notare anche diretta-mente percorrendo una delle strade longitudinali interne; infatti gli alvei appaiono di un’ampiezza straordinaria, ricchi di ghiaie, attraverso le quali scorrono esilissimi rigagnoli sia durante i periodi di media, sia durante quelli di magra

    I corsi d’acqua marchigiani.

    Il fiume Esino a monte di Serra San Quirico.




    In linea generale il paesaggio montuoso marchigiano può essere suddiviso in tre grandi zone: la parte più interna formata da terreni più antichi detta del Monte Càtria (1702 m.), la fascia eocenica e miocenica posta più ad oriente detta del San Vicino (1485 m.) e la cimosa pliocenica che include l’ellissoide cretaceo del Monte Cònero. La morfologia della prima zona o della più interna è molto movimentata e risulta caratterizzata sia da forti ripiegamenti e dislocazioni tettoniche avvenute alla fine dell’Eocene, sia dall’erosione fluviale. I fiumi qui generalmente sono disposti in senso longitudinale all’asse stesso della Penisola, perchè fin dairorigine si sono adattati alla tettonica, caratterizzata dalla presenza di pieghe disposte anch’esse longitudinalmente, tuttavia non mantengono un comportamento costante in tutto il percorso: le anticlinali sono sempre tagliate trasversalmente; nelTinterno delle sinclinali, in cui spesso compare una stretta fascia di Eocene, i fiumi sono longitudinali o tendono ad esserlo. L’Esino, per esempio, è trasversale nella parte iniziale impostata sulle anticlinali del Monte Càtria, ma diventa longitudinale nell’interno della sinclinale Camertina che, dominata a sud da Camerinohaal centroFabriano;tornapoi adessere trasversale quandopassa per il nucleo dell’anticlinaledel San Vicino. In corrispondenza a questo passaggio, l’Esino, dopo aver ricevuto le acque del piano e quelle abbondanti del Sentino, ha scavato una profonda incisione simile ad un canon che viene detta Gola della Rossa. La denominazione deriva dalla natura litologica delle ultime propaggini settentrionali del San Vicino, costituite unicamente da calcare ammonitico rosso; la natura del luogo è molto selvaggia, la stretta incisione presenta pareti denudate ed un aspetto che si addirebbe maggiormente alle più grandi altitudini alpine.

    Il Potenza, dapprima longitudinale lungo le piccole pieghe in cui si distingue l’anticlinale del Monte Càtria, taglia successivamente l’anticlinale stessa trasversalmente ed assume l’aspetto di una vera e propria valle d’erosione. Infatti le acque dei due rami sorgivi del fiume, quello nord o di Fiuminata (Laverino) e quello sud o di Sefro (Scurosa), hanno solcata la ruga del Monte Gemmo e Monte Primo incidendo la Gola del Piòraco. Questa, diretta pressappoco da ovest ad est, presenta la maggiore ristrettezza all’imboccatura occidentale, presso l’antico ponte romano, sul quale la Flaminia attraversa il Potenza. Poco dopo il ponte, le acque precipitano, con un salto di parecchi metri, nel sottostante alveo, formando una bellissima rapida che, successivamente, per la irregolarità del fondo, si trasforma in una serie di cascatelle. La rapida del Potenza si estende per oltre un chilometro, fin dove il fiume, oltrepassata l’estrema soglia orientale della gola, formata dai due ultimi speroni del Monte Gemmo e del Monte Primo, addossati l’uno all’altro, non torna a scorrere in una valle più ampia ed in un alveo più largo e meno profondo. Alcune forme di erosione ben visibili sulle pareti calcaree della Gola di Piòraco, hanno permesso di formulare delle ipotesi circa le variazioni di livello che il fiume Potenza ha subito nel tempo.

    La Gola della Rossa.

    Le forme di erosione presenti in tutti e due i fianchi della valle hanno assunto l’aspetto di cavità, piuttosto allungate nel senso dell’asse della valle stessa e mostrano la superficie interna tutta solcata e corrosa dall’azione di una massa di acqua animata evidentemente da un forte movimento vorticoso prolungatosi nel tempo. Tali forme, studiate in particolare dall’Ugolini, sono da alcuni indicate anche con il termine di evorsione; esse sono in numero piuttosto elevato e la loro distribuzione ad altezze differenti, risponde ad un certo ordine di successione.

    La serie delle cavità e la loro distribuzione in altitudine conduce a pensare che probabilmente il Potenza in altri tempi aveva un livello più elevato di quello attuale; tuttora il fondo e il fianco destro della gola sono occupati da considerevoli ammassi di travertino che si ergono sino ad altezze molto superiori al livello attualmente raggiunto dalle acque. Quest’ultimo particolare testimonierebbe anche che le acque un tempo avevano un maggiore contenuto calcareo di quello odierno che derivava da sorgenti ora ridotte o addirittura scomparse nel bacino imbrifero del fiume; le incrostazioni travertinose si conservano non solo lungo il decorso appenninico del fiume ma si ritrovano anche in quello del suo più importante affluente di destra, lo Scarzito.

    Una gola stretta ma di dimensioni più modeste si può osservare anche nella valle dei Grilli, scavata dal torrente Domora, piccolo affluente del Potenza. La lunghezza della forra è di circa iooo m. e la larghezza minima; è percorsa da una strada carrabile, che ora ha limitata importanza locale, ma in altri tempi era molto frequentata sia perchè costituiva il tratto di unione più breve tra gli abitati di San Severino e di Camerino, sia perchè conduceva al celebre santuario di Sant’Eustachio de Domora, costituito da una chiesetta eremitica dell’XI secolo retta dai benedettini; essa, in parte scavata nella roccia, è contenuta in una delle pittoresche grotte di Sant’Eustachio di origine carsica, che incidono talvolta ampiamente e profondamente le due opposte pareti della gola e che poco fa sono state ricordate. Il Baldacci, che si è occupato della genesi della gola, è giunto a singolari conclusioni: mentre in generale il principale agente modellatore delle gole marchigiane e in genere dell’Appennino orientale, è l’erosione, i caratteri morfologici della gola di Domora dimostrano che qui ha agito invece principalmente l’azione di corrosione e l’azione solvente delle acque. Infatti durante l’orogenesi terziaria, probabilmente sotto la sollecitazione di spinte, si crearono fratture che costituirono poi le vie di penetrazione delle acque selvagge e di quelle di infiltrazione; la pendenza maggiore era diretta verso nord, direzione nella quale scorreva già il Potenza, dopo la esca-vazione della Gola del Piòraco, quando intervenne l’azione di corrosione delle acque lungo le linee di frattura, cosa che portò alla formazione di un gran numero di cavità. L’azione meccanica e chimica delle acque, compiuta in un terreno fisicamente predisposto e litologicamente adatto, è stata quindi la causa della formazione della Gola di Domora; le altre cause che normalmente concorrono a formare i fenomeni carsici, come l’erosione e la pressione idrostatica, hanno favorito le frane e i crolli e mentre il carsismo creava nella roccia vuoti enormi, le acque correnti, superficiali od ipogee, asportando i detriti, preparavano il terreno con una incessante opera di demolizione che portò in ultimo alla formazione della gola.

    Il fiume Potenza a Piòraco.

     

    Il Potenza, prima di giungere al mare, ha dovuto vincere altri ostacoli ed ha inciso la Gola di San Severino, tra il Serripola e il Crispiero, e quella breve del Passo di Treia (146 metri). Il fiume Chienti, dopo aver lasciato l’altopiano di Colfiorito, ha inciso la stretta di Serravalle e quindi la Gola di Bistocco tra il Letegge e il Fiungo.

    Molto più imponente, sia per la sua altitudine (617 m.) sia per la sua lunghezza, è la Gola d’Arquata approfondita dal Tronto tra le più basse pendici meridionali della grande faglia vettorica e quelle settentrionali degli acrocori aprutini, indicati con il nome di Monti della Laga.

    Dalla considerazione della serie di gole e di strette delle quali si sono citate solo le principali, si può dedurre che quando si dice genericamente che i fiumi nell’interno delle Marche sono disposti in senso longitudinale, si intende limitare l’espressione all’interno delle sinclinali perchè presso i margini le rughe invece sono incise trasversalmente.

    Un’altra singolarità dei fiumi marchigiani è costituita dallo spartiacque adriatico-tirrenico che si presenta spostato verso occidente mentre la linea delle massime altitudini rimane al di fuori di esso, spostata verso l’Adriatico. O. Marinelli che si occupò del fenomeno spiega l’anomalia considerando che lo spartiacque originario doveva essere dove è attualmente, la sua linea però all’inizio coincideva con le maggiori altezze tra un versante e l’altro; successivamente movimenti epirogenetici avrebbero sollevato maggiormente la « quinta » orientale che sarebbe divenuta in tal modo quella delle maggiori altezze.

    I caratteri morfologici della seconda zona idrografica o zona del San Vicino risultano per la maggior parte determinati dall’azione escavatrice delle acque correnti che generalmente hanno agito in senso trasversale ed i corsi d’acqua infatti hanno una direzione prevalente da ovest-sudovest ad est-nordest, che è mantenuta anche nei terreni pliocenici più esterni. Anche qui i corsi d’acqua prima di giungere al mare debbono incidere una catena appenninica, quella del San Vicino, formando alcune forre tra le quali la più orrida e la più conosciuta è la Gola del Furio; le pareti del cañón sono così ravvicinate e così acclivi da non permettere il passaggio di una strada; al tempo dei Romani e probabilmente anche prima fu aperta su di un fianco una galleria in modo da permettere alla Flaminia di raggiungere l’Adriatico e Fano.

    In conclusione, come si vede, la geomorfologia delle valli marchigiane è complessa e la loro considerazione offre alcuni spunti caratteristici di carattere generale che non possono essere trascurati. Le valli si presentano, ad esempio, con forme molto mature nella parte scavata nei terreni pliocenici, dove l’azione è stata favorita dalla consistenza del terreno costituito di depositi teneri ; la parte che corre invece sopra terreni terziari meno recenti è caratterizzata da forme più giovanili che sono in rapporto alle rocce più dure. Nei terreni mesozoici poi, i fiumi hanno carattere ancor più giovanile, e spesso occupano il fondo di profonde gole di erosione o superano rapide e cascate. In definitiva quindi le varie sezioni in cui si possono dividere i fiumi marchigiani, presentano caratteri contrastanti tra loro, in ragione inversa della loro età, in rapporto diretto all’indice di erodibilità delle varie serie di terreni attraversati: dai caratteri giovanili delle parti più antiche si passa a quelli maturi delle sezioni più recenti.

    Il lento scorrere del Tenna nella sezione valliva.

    Il Castiglioni considerando in generale il problema fluviale distingue nelle Marche vari tipi di fiumi: i subappenninici interamente scavati nella fascia neogenica con caratteri di avanzata maturità in contrasto con la giovinezza geologica (l’Ete Vivo, il Menocchia, il Tesino); i preappenninici che si originano alle falde dell’Appennino e continuano poi il loro corso nella zona neogenica; essi presentano un netto contrasto tra i caratteri maturi della parte terminale e quelli giovanili della parte più antica (Musone, Tenna, Aso); gli appenninici nei quali bisogna distinguere la parte più interna e più giovanile, che è la entroappenninica, dalle due successive, la preappenninica e la subappenninica. Le due ultime distinzioni però non si riscontrano quando il fiume si è creato un letto sia sopra le rocce resistenti, sia sopra gli apporti detritici ed alluvionali che riceve nel tratto mediano. Gli ostacoli maggiori per i fiumi appenninici sono costituiti dalle alluvioni degli affluenti preappenninici, particolarmente attivi in quanto ad erosione; il Chienti è stato più di ogni altro ostacolato dalle fortissime deiezioni di un suo affluente, il Fiastrone, tanto che tutta la valle inferiore si è andata sopralluvionando.

    L’innalzamento del fondovalle fa raggiungere agli affluenti uno stato di senilità che si manifesta col riempimento progressivo delle piccole valli tributarie, con la formazione di meandri e con l’allungamento del corso parallelamente al corso principale; a tale proposito sono caratteristici il Trodica, il Cremone e l’Ete Morto affluenti del Chienti. L’Ete Vivo è in una posizione particolare perchè svolgendo il suo corso tra colline plioceniche, cioè in un’area litologicamente omogenea, e sboccando direttamente in mare non ha subito perturbazioni di alcun genere. Il Tenna e l’Aso che provengono dai Monti Sibillini hanno un alveo in forte pendenza che, favorendo il trasporto di una notevole quantità di materiale ciottoloso, crea l’alluvionamento delle valli; gli scarsi loro affluenti però con la notevole ripidità si mantengono in equilibrio rispetto al sopralluvionamento della valle principale. Il Tenna attualmente nei pressi di Grottazzolina ha un alveo largo e più basso di circa 5 m. dell’area circostante coltivata e sembra che abbia la tendenza a sollevarsi, quindi è probabile che in un momento di piena le sue acque possano tracimare verso l’Ete che in questo tratto dista appena un paio di chilometri, creando profonde modificazioni come se si trattasse di una cattura. Del resto nei fiumi a carattere giovanile gli esempi di tracimazione o di cattura, che hanno modificato il corso di alcuni affluenti, non sono rari e tale fenomeno è anzi frequente nel tratto più vicino alla prima catena appenninica, alle falde dei Sibillini.

    La valle del Fiastra, affluente del Chienti, è sproporzionatamente ricca di alluvioni, rispetto all’esiguità del torrente che nasce a 500 m. di altitudine nel Piano di Pieca, ai piedi dei monti da cui scendono alcuni rigagnoli. Il vasto piano alluvionale è limitato a nord da una profonda incisione in cui scorre il grosso torrente Fiastrone che volge bruscamente a nord; tale direzione indica che in passato, il torrente dopo aver solcato il Piano di Pieca scorreva nella attuale valle del Fiastrella (ora Fiastra); il colmamento di questa ultima valle quindi si può spiegare con l’attività passata del Fiastrone; infatti depositi alluvionali antichi si trovano in vari lembi appoggiai alle colline, specialmente lungo il fianco sinistro della valle del Fiastra. Il lembo più caratteristico è quello sul quale sorge il centro abitato di Ripe San Ginesio, che si può idealmente congiungere con i resti di terrazzi situati ancor più a sinistra. Tra questi e l’abitato suddetto corre attualmente un piccolo torrente, il Valenzuolo; tutta la zona occupata da queste vallette era evidentemente invasa da materiale diluviale, ed il Valenzuolo scavando il letto sulle alluvioni ha approfondito l’intero bacino fino a raggiungere gli strati delle marne messiniane. Il Fiastrone per sovralluvionamento del suo letto deviò verso una valle più profonda, scavata al suo fianco da un piccolo affluente del Chienti, ed ora si getta nel fiume principale presso Beiforte.

    Il dislivello tra le due valli poteva essere di 150 ni., e questo spiega la forte incisione prodotta dal torrente a monte della rottura; non si tratta di una cattura vera e propria ma di una tracimazione per sovralluvionamento del letto fluviale, favorita da una depressione longitudinale tra le colline, in corrispondenza di strati di rocce più tenere. La nuova valle invasa dal Fiastrone si riempì di enormi cumuli di deiezione, dando così luogo al sistema di terrazzi attuali che declinano dolcemente raccordandosi con quelli che accompagnano il Chienti.

    Vedi Anche:  Agricoltura, allevamento, bonifica, irrigazione, boschi e pesca

    Lungo questo fiume si incontrano serie di terrazzi ben conservati; quelli di sinistra sporgono tanto sul fiume da determinare una stretta della valle e su di essi è posta l’antica città di Tolentino. Il sistema di ripiani dunque è un prolungamento di quelli del Fiastrone, essi hanno però una pendenza attenuata, perchè dopo la confluenza, concorrevano alla tracimazione le acque più copiose del Chienti; il materiale alluvionale deriva dal Fiastrone che, in sèguito alla deviazione, ha invaso la valle del Chienti tanto da ostruirla. Una volta sistemato il corso montano del torrente, il corso principale iniziò la incisione del nuovo fondovalle a spese del vecchio, fino a giungere alla confluenza del Fiastra; intorno a questo raccordo, il piede delle colline è nuovamente occupato da alti terrazzi di formazione più antica di quelli di Tolentino; la loro presenza ha fatto supporre che alla confluenza del Fiastra vi fosse una convessità. Alcuni lembi di deposito conservati permetterebbero infatti di ricostruire un ampio cono di deiezione esteso verso la sponda settentrionale ed il cui vertice era rivolto a sud, proprio verso la valle del Fiastra. La conoide sarebbe stata costruita dall’attività del Fiastrone, prima che avvenisse la tracimazione, che tra Pausula e Macerata bloccava il normale corso del Chienti ; dopo la diversione, lo sbarramento si sarebbe spostato circa all’altezza di Le Case; il secondo sbarramento fu di breve durata, mentre il primo, quello al livello del Fiastra, fu più lungo.

    Il fiume Chienti a Tolentino.

    In seguito a questo fenomeno le acque del Chienti divennero abbondanti così da aprirsi una strada attraverso le alluvioni del Fiastra; anche questo sia a causa dell’abbassamento del livello di sbocco, sia per il ristabilirsi di un proprio equilibrio, più proporzionato alla sua esigua corrente, incise a ritroso, nelle vecchie alluvioni grossolane.

    Nel bacino del Fiastra sono ancora evidenti fenomeni dovuti a cattura o a tracimazione; il torrente Letegge, affluente defl’antico Fiastrone, ora profondamente incassato, sembra aver subito una deviazione fluviale; infatti se si osserva dal Colle di San Ginesio la valle del torrente, si vede come essa si prolunghi direttamente in un’altra valle morta e sospesa, posta a sud di Colmurano e come, dopo questa ideale confluenza, si inizi un potente cono di deiezione che testimonierebbe la presenza di una foce del Fiastrone ormai scomparsa.

    A sud del Piano di Pieca si notano altre probabili deviazioni: la parte iniziale del Fiastrella sembra aver deviato verso il Rio Terrò presso quota 541, alla Gabella Nuova, e lo stesso Rio Terrò sembra aver deviato dal Salino verso il Tennacola attraverso un’insenatura di 551 m. di altitudine.

    In complesso nella zona pedemontana tra il Chienti e il Tenna, ci sarebbe un progressivo sviluppo di tronchi torrentizi subsequenti allineati in valli longitudinali che sembra essere avvenuto a spese di fiumi conseguenti meno attivi e meno approfonditi; vi sarebbero pertanto i presupposti per l’applicazione del sistema davisiano dell’evoluzione della rete idrografica in una regione a creste parallele, dovuta a fenomeni di sovralluvionamento ; questi infatti determinano condizioni favorevoli alle catture e provocano le più importanti diversioni dei fiumi per tracimazione, da un bacino all’altro. A queste conclusioni giunge nel complesso il Castiglioni nello studio sul sovralluvionamento e le deviazioni fluviali nel Piceno. Continuando a seguire il Chienti nel tratto terminale, tra la confluenza del torrente Fiastra, a sud di Macerata, e il mare, si vede come questo fiume allarghi notevolmente la sua valle, costruendovi una pianura alluvionale che è tra le maggiori della regione marchigiana; essa raggiunge 22 km. di lunghezza e 4 km. di massima larghezza. I maggiori affluenti in quest’ultimo tratto derivano dal versante destro; oltre al Fiastra essi sono il Cremone e l’Ete Morto. Dal fianco sinistro scendono il fosso di Trodica che, ricevuti i fossi Botonda e delle Cervare, sbocca nel fondovalle a Campolungo.

    La valle del Chienti presenta la caratteristica asimmetria delle valli marchigiane; il fianco destro è relativamente ripido e con scarse tracce di terrazzi, quello sinistro è più dolce e con terrazzi relativamente sviluppati. Secondo il Castiglioni l’asimmetria deriva dalla diversità del sollevamento post-pliocenico fra un bacino e l’altro, maggiore a nord cioè sul versante di sinistra, minore a sud, cioè su quello di destra. Nei solchi dei fiumi Chienti, Tenna, Tronto, questa asimmetria si mantiene con una certa regolarità fin quasi alla foce; il Potenza e il Musone invece, giunti a 6-7 km. dallo sbocco in mare, sono spinti sulla sinistra, verso l’opposto versante; in particolare il Musone, fiume preappenninico, viene ad innestarsi nell’ultimo tronco del piccolo torrente Aspio.

    Il problema di questa deviazione è stato largamente trattato e discusso con argomentazioni geologiche, fisiografiche ed anche storico-archeologiche dairOrtolani e dalTAlfieri. Le basse valli del Musone e del Potenza sono scavate fra argille plioceniche del Piacenziano assai tenere ed hanno fondo largo un paio di chilometri, ricoperto di alluvioni recenti. Le due valli, separate fra loro da una dorsale a pendii dolci su cui sorgono le città di Loreto e di Recanati, a pochi chilometri dal mare si allargano e dànno luogo a due piani costieri; quello alla foce del Musone prende il nome di Scossicci. Il delta del Musone ed ancor più quello del Potenza si trovano in una fase arretrata di sviluppo rispetto ai delta degli altri fiumi marchigiani che scendono dalla catena interna dell’Appennino; in particolare il Potenza pur avendo una discreta portata ed un decorso relativamente lungo, sbocca in mare tra due ali deltizie molto poco pronunciate. Il Chienti ha un delta cinque volte più esteso di quello del Potenza, mentre la portata ha un valore aH’incirca doppio.

    Da questi particolari gli autori poco fa citati sono indotti a pensare che l’apparato deltizio del Potenza si sia iniziato solo recentemente oppure che siano intervenute particolari cause che ne abbiano arrestato o rallentato lo sviluppo; infatti anche se si osservano dei fattori umani si deve riconoscere che in tutti e due i piani costieri, del Musone e del Potenza, l’insediamento è di data piuttosto recente. Secondo la tradizione locale la foce del « Muscionaccio » sarebbe stata in corrispondenza della «sbocca del Sasso», cioè di quel calcestruzzo che emerge dalla sponda sinistra; esso sembra di epoca romana imperiale e costituirebbe l’avanzo di un ponte che sorgeva sull’antica strada litoranea. La « sbocca del Sasso » è un punto molto depresso e quando il Musone è in piena le acque, ostacolate dal vento a versarsi in mare, si espandono abbondantemente all’intorno tanto che i campi ne possono restare coperti per l’altezza di un metro.

    Il fiume Musone quindi un tempo non attraversava la pianura di Scossicci al centro, ma verso l’estremo lembo meridionale, cioè verso destra. Le acque giunte

    Il lago artificiale di Fiastra ottenuto per sbarramento della vallata del Fiastrone; sullo sfondo le brulle montagne dei Sibillini.

    in piano, diminuivano di forza viva e ostacolate nel deflusso al mare dal cordone di ghiaie, generavano numerose anse, mentre le alluvioni più grossolane ne innalzavano il letto, rendendo instabile l’equilibrio e frequenti le tracimazioni verso sinistra. La deviazione a nordest dell’ultimo tratto del Musone sarebbe invece artificiale ed anche abbastanza recente per quanto non facilmente databile.

    Nel lavoro dell’Ortolani e Alfieri a proposito del Potenza e del Musone è riportato un breve brano dello storico Diego Calcagni che dice: «… avendoli mossi i Recanatesi con grandissima spesa e fatica da loro antichi letti e condotto il fiume Potenza quasi due miglia lontano dalla sua foce vecchia, et allontanato Moscione altrettanto fin là dalla torre dell’Aspi, perciocché ingorgando in certe valli vicino a Loreto, vi rendeva l’aria molto cattiva ».

    Come conferma indiretta all’ipotesi che il Musone sboccasse originariamente proprio in corrispondenza alla « sbocca del Sasso » può essere presa in considerazione la distanza che intercorre tra l’antica e l’attuale foce del fiume, pari a circa due chilometri e mezzo e che corrisponde pressappoco alla distanza indicata dal Calcagni. Le notizie storiche ricavate dagli archivi della Santa Casa di Loreto, permetterebbero di datare la deviazione a poco dopo il 1570: certamente nel 1573 era a buon punto perchè l’area di Scossicci fu suddivisa in poderi. A questo atto seguì il taglio delle piante e lo scassamento o scuotimento della terra; da cui la zona desunse il nome « Scossicci ». In conclusione la deviazione del Musone verso sinistra cioè a nord e la sua immissione entro il letto dell’Aspio deve essere avvenuta nella seconda metà del secolo XVI.

    Anche il fiume Potenza, giunto a 7 km. dalla foce, devia verso il fianco sinistro della valle e sbocca in mare dopo essersi attardato ai piedi delle colline. Prendendo in esame l’andamento delle isoipse tracciate di metro in metro, i nostri autori pongono qui in rilievo l’esistenza di due antichi apparati deltizi cuspidati, posti a sud del corso attuale del fiume ed ora fossilizzati. Il fiume doveva incidere proprio la sommità del conoide più meridionale come attesterebbero le due poderose arcate del ponte romano tuttora visibili alla base della casa dell’Arco dove il ponte è stato incorporato; ha un arco maggiore ed uno minore, era cioè di tipo a gobba, adatto soltanto per superare corsi d’acqua di una certa stabilità.

    Presso la riva del mare sulla sinistra della foce del fiume era sorta in epoca romana Potentia che durante il Medio Evo fu progressivamente abbandonata perchè l’alluvionamento del fiume provocando un ristagno di acqua favoriva la malaria; in quell’epoca infatti il fiume si stava spostando verso il fianco sinistro della bassa valle e dopo un percorso parallelo alla spiaggia sboccava a nord della foce attuale lungo il fosso Fiumarella. L’Ortolani infatti presso la stazione ferroviaria di Porto Recanati ha trovato gli avanzi di un ponte che starebbero a testimoniare la deviazione della bocca verso nord. Il materiale alluvionale trasportato dal fiume sollecitato di preferenza dalle forze del settore di traversia si dispone in modo da formare un accrescimento del lobo destro del delta costringendo il fiume a formare un’ansa; in condizioni eccezionali può avvenire che la bocca si trovi ad essere ostruita e che le acque cerchino un passaggio verso il mare piegando a sinistra. Un evento simile si verificò nel 1932 quando una violenta mareggiata ostruì lo sbocco del Potenza e il fiume fu costretto a deviare verso Porto Recanati, cioè verso nordovest. Si pensa che nello stesso modo anche in passato, sotto l’azione dei venti dominanti lungo il litorale piceno, si sia avuta una trasmigrazione di ghiaia e sabbia lungo la spiaggia, da sudest a nordovest, che avrebbe costituito una caratteristica freccia di materiale alluvionale sul lato sinistro del delta, responsabile dell’ansa a gomito costruita dalla corrente del fiume. In condizioni eccezionali come si è visto il fiume può anche non essere in grado di trovare un angusto passaggio tra la freccia e l’opposto lobo sinistro tanto che le acque, trattenute dalla barra, vengono costrette a piegare verso sinistra.

    Il fiume Tronto presso Ascoli Piceno.

    L’abbandono progressivo dell’antica città può essere stato determinato da questi spostamenti dell’alveo fluviale che non potevano essere controllati dalla tecnica idraulica del Medio Evo.

    In quel tempo la foce del Potenza distava poco più di un chilometro e mezzo da quella del Musone e per questo Recanati concepì dapprima il progetto di far confluire i due fiumi, poi di sistemare un porto alla foce del fiume Potenza; l’attuazione del disegno si protrasse per una lunga serie di anni a partire dalla metà del 1400. Dapprima si deviò la foce verso sud in prossimità del castello ma le opere furono interrotte a varie riprese per cause diverse sia finanziarie che tecniche; forse intorno al 1575 il fallimento di alcuni lavori di deviazione portò il Potenza ad aprirsi naturalmente una via verso il mare, quella stessa che mantiene anche oggi. Considerati nel loro complesso tutti gli avanzi di età romana e di età posteriore venuti in luce fino ad oggi lungo quel tratto di marina, l’Ortolani e l’Alfieri concludono che in circa duemila anni si sarebbe avuto un avanzamento medio annuo della spiaggia di circa 15 centimetri.

    La valle del Tronto, a monte di Ascoli Piceno, è angusta e profonda, tagliata attraverso le formazioni eoceniche e mioceniche di calcari e arenarie, piegate in un’ampia anticlinale, che si abbassa rapidamente verso nordovest. Il fiume lungo 115 km. e con un bacino imbrifero di circa 1192 kmq. nasce dai Monti Laghetta e Cardito nell’Appennino aquilano e sùbito dopo taglia la profonda e lunga gola di Arquata fra le pendici del Vettore e gli acrocori aprutini, attraverso la quale i Romani fecero passare la via destinata a porre in comunicazione i due mari, la Salaria. Oltrepassata Ascoli, la valle muta sùbito di aspetto, si fa ampia e rettilinea,

    In prossimità dei centri abitati più importanti i corsi d’acqua sono attraversati da ponti monumentali che a volte, come nel caso di Porta Cartara ad Ascoli Piceno, servono anche per il passaggio dell’acquedotto. mentre i rilievi laterali rapidamente si abbassano. In questo tratto lungo 25 km., fino alla foce, il Tronto non riceve quasi affluenti da destra, accompagnato com’è, verso la sponda meridionale, da una dorsale collinosa diritta; invece da sinistra si dipartono valli normali od oblique rispetto al fiume principale, lunghe da 10 a 12 km., che suddividono il paesaggio collinoso in tante dorsali secondarie fra loro parallele. In generale anche qui si può notare la caratteristica asimmetria con il fianco destro diritto e ripido, ed il sinistro spianato in dolci declivi terrazzati, in gran parte ricoperti da depositi quaternari.

    Tale asimmetria però qui non ha alcun rapporto colla disposizione dei terreni: anzi si potrebbe dire che è contraria alle condizioni strutturali, almeno nel primo tratto, dove la direzione della valle da ovest ad est diverge dalla direzione verso la quale si immergono i terreni (nordest), ed in cui è anche maggiore la pendenza degli strati. L’origine deirasimmetria pertanto si può supporre dovuta ad un movimento regionale di inclinazione, ossia ad un sollevamento di proporzioni maggiori a nord più che a sud, avvenuto in un momento qualunque deirincisione della valle: si tratterebbe di un’asimmetria conseguente. Questo fenomeno strutturale non interessa solo la valle propriamente detta, ma anche tutto il bacino subappenninico, e si rispecchia nel diverso sviluppo degli affluenti : quelli di sinistra si sarebbero gradualmente allungati, mentre la scarsezza di quelli di destra sarebbe, almeno in parte, dovuta al progressivo restringimento del versante, consumato dall’erosione laterale del fiume principale.

    Nell’ultima parte della valle del Tronto sono numerosi i fenomeni di erosione accelerata dovuti in parte al disfacimento meteorico, in parte all’erosione delle acque correnti ; essi dànno luogo, come già si è visto, a forme particolari come « ripe » e calanchi. Le prime spezzano le dolci ed uniformi linee dei colli che lentamente degradano verso il fondo fluviale dando luogo a forti declivi e a pareti quasi verticali; si formano in terreni poco resistenti alle azioni esterne, quali marne scagliose ed argille. Nella maggior parte della regione affiorano le argille turchine, in seno alle quali i numerosi corsi d’acqua hanno inciso vallette che vanno sempre più approfondendosi per la rapidità con cui si esplica, in una roccia così poco resistente, il processo dell’erosione verticale e laterale. Si formano in tal modo i caratteristici fasci di burroni, separati tra loro da piccole creste, denominati calanchi.

    Finora si è trattato dei maggiori corsi fluviali marchigiani, che hanno le loro sorgive in corrispondenza alle catene interne, rilevandone i vari contrasti; anche in quelli preappenninici però come il Musone, il Tenna, l’Aso, si colgono elementi di contrasto tra il carattere giovanile del tratto iniziale e la fase di maturità del restante fino al mare. Nel gruppo invece dei subappenninici, sia i fiumi che i ruscelli ed i minori affluenti, hanno spesso raggiunto un profilo di equilibrio perfetto.

    L’Ete Vivo, il più importante dei corsi d’acqua interamente subappenninico, è il miglior esempio come si è visto di bacino idrografico in perfetto equilibrio. In netto contrasto con questo sono le valli del Tenna e dell’Aso, che, asportando dalle pendici dei Monti Sibillini ingenti quantità di materiale ciottoloso, scorrono fino al mare in valli alluvionate, con profilo a forte pendenza. Il loro bacino è stretto e pertanto mancano affluenti di qualche importanza; i piccoli torrenti che scendono lateralmente sono molto ripidi e per questa loro caratteristica riescono ad impedire l’ostruzione dello sbocco verso la valle principale.

    Vedi Anche:  Colline, centri costieri e valli

    I torrenti subappenninici non trasportano una grande quantità di alluvioni ciottolose come i fiumi maggiori; l’erosione delle argille plioceniche, che costituiscono le colline più esterne, produce invece un limo che può essere asportato anche da deboli correnti; di conseguenza il profilo longitudinale delle valli della zona esterna è concavo, e relativamente poco inclinato. Ad una uguale distanza dalla foce le valli subappenniniche sono più profonde delle valli sovralluvionate, come è l’esempio del Tenna e dell’Aso.

    L’unico corso tirrenico è quello della Nera che nei confronti delle Marche interessa solo per i rami sorgivi sibillini. Questi si trovano ad altezze superiori ai 2000 m. e dalla valle di Ussita e da Vallinfante confluiscono presso Visso, dove formano un unico corso, ricco di acque; giunti agli estremi pendìi meridionali del Monte Fema incidono la Gola Vissana profonda e grandiosa, percorsa anche dalla bella strada Valnerina che attraverso il Colle d’Appennino unisce le Marche a Roma.

    Come si può dedurre dalle considerazioni sommarie fatte nei confronti dei principali fiumi, la rete idrografica marchigiana ha subito delle modificazioni a volte anche notevoli dal principio del Quaternario e riassumendo si può dire che le maggiori differenze sono rappresentate oltre che dalle deviazioni dei corsi, dall’abbassamento del livello di base che ha provocato una maggiore incisione delle valli ed un terrazzamento. Le maggiori differenze esistevano specie nella rete dei più piccoli affluenti; l’Esino, ad esempio, mancava dei fossi susseguenti; nel bacino del Musone il corso dell’Aspio non aveva la parte di testata, e il Rudielle ed il Pavanella confluivano nel Fiumicello rendendolo assai abbondante di acque; il Potenza non aveva quasi tutti gli affluenti del corso inferiore ed alcuni affluenti minori avevano un andamento differente: il rio Torbido immetteva nel rio Chiaro, il tronco iniziale del Catignano formava un unico corso con il fosso Bagno, il fosso Grande aveva un andamento rettilineo anche oltre Granali; successivamente per una ostruzione verificatasi lungo il corso esso si diresse a sinistra in una valletta secondaria. In un tempo successivo anche la decapitazione del Pavanella condusse alla formazione di un torrente lungo il solco del Menocchia che poi deviò verso il Menochietta e verso il rio Chiaro, e il Catignano catturò il Pitino.

    Le variazioni come si vede nel loro complesso sono numerose e sono in relazione alla struttura della regione; i corsi d’acqua che prima del Quaternario scendevano dall’area monoclinale eocenico-pliocenica, si trovarono a dover prolungare il corso e a formare un’incisione sui terreni pliocenici sollevati di recente (inizio del Quaternario) e generarono una rete idrografica conseguente con direzione ovest-sud-ovest est-nordest. La rete susseguente dei terreni pliocenici non ha avuto invece grande sviluppo sia perchè la distanza che separava i fondovalle dagli spartiacque era esigua, sia anche perchè i versanti avevano una notevole ripidità.

    Deflussi e regimi

    Una volta considerate le caratteristiche salienti dei corsi d’acqua marchigiani rappresentate dal parallelismo, dalla brevità, dalla ripidità e dalla ristrettezza del bacino imbrifero, sarà bene esaminarne gli elementi propri: portata e regime. La prima è in connessione oltre che con le condizioni litologiche del bacino, anche con quelle climatiche, e specie con la piovosità; quest’ultimo è un elemento che si rivela particolarmente importante specie nei confronti dei fiumi dell’Appennino che attraversano aree nelle quali le precipitazioni non sono abbondanti.

    A prescindere da qualunque altra condizione la portata dei nostri corsi d’acqua non può essere regolare perchè il bacino di ognuno è ristretto, e il variare delle precipitazioni genera periodi alternati di abbondanza e di scarsezza di acque tanto che i corsi stessi partecipano di un vero e proprio regime torrentizio.

    Gli elementi caratteristici che si possono dedurre dalle osservazioni idrometriche ci fanno rilevare innanzitutto la povertà di acqua dei fiumi: le altezze medie meridiane annue hanno valori come io cm. per il Metauro, 27 cm. per il Chienti, 36 cm. per il Potenza, 82 cm. per il Foglia, 83 cm. per l’Esino, 104 cm. per il Tronto. I coefficienti di deflusso, cioè il rapporto tra l’altezza del deflusso e l’altezza dell’afflusso meteorico, sono compresi tra i valori estremi di 0,25 e 0,53 che appartengono rispettivamente al Foglia e all’Esino.

    Non è possibile esaminare e mettere a confronto i valori di portata dei vari corsi d’acqua perchè non in tutti esistono delle stazioni di misura, però i dati a disposizione indicano chiaramente che esistono magre molto forti durante i mesi estivi e due periodi di massima che cadono prevalentemente in febbraio-marzo ed in ottobre-novembre. Il Foglia che ha un bacino di circa 650 kmq. registra le massime portate in febbraio quando raggiunge anche gli 83 mc/sec. ed in settembre e novembre quando ha valori anche di 153 mc/sec.; le minime sono quelle di giugno, luglio, agosto con portate di 0,04 mc/sec.; la portata media annua è di 5,34 mc/sec. Nel Metauro il primo massimo si ha in febbraio-marzo ma quello maggiore è prevalentemente in novembre quando la portata raggiunge anche i 200 mc/sec.; l’ampiezza del bacino di circa 1400 kmq. influisce anche sulla portata media che è di 18,3 mc/sec. e su quella minima (0,91 mc/sec.). La ricchezza maggiore di portata si registra nel-l’Esino e nel Tronto; il primo ha una media di 17 mc/sec., l’altro di 18 mc/sec., mentre le minime sono rispettivamente di 3 e di 1 mc/sec.; i massimi di questi due corsi d’acqua sono incerti ed in alcuni casi estrapolati però sono sempre registrati nei medesimi mesi. I valori di portata del Potenza seguono quelli dei fiumi precedenti (media 9 mc/sec.; minima 2 mc/sec.) mentre quelli del Chienti risultano ancora più bassi perchè la media è di circa 2 mc/sec. e la minima di 0,50 mc/sec.; anche qui i valori massimi non sono certi.

    Elementi caratteristici dei fiumi








    Fiume Portata massima mc/sec Portata media mc/sec Portata minima mc/sec Coefficiente di deflusso
    Foglia 153,00 5,34 0,04 0,25
    Metauro 218,00 18,30 0,91 0,45
    Esino 135,00 17,30 2,98 0,53
    Potenza 68,50 9,03 2,57 0,45
    Chienti 10,43 1,93 0,50 0,34
    Tronto 188,00 18,50 1,11 0,51

    La povertà dei valori complessivi può rendere conto della scarsezza della disponibilità idrica per uso economico-industriale come, ad esempio, per l’irrigazione, mentre incide in minore misura sulle possibilità di sfruttamento idroelettrico che si avvalgono piuttosto delle forti pendenze dei tronchi più a monte dei corsi d’acqua.

    Le forti differenze esistenti tra le minime e le massime non generano inconvenienti come, ad esempio, uscita delle acque dal letto nei periodi di massima portata, però a volte il verificarsi di eventi meteorici eccezionali come, ad esempio, abbondanti precipitazioni nei mesi estivi, possono provocare un rapido smaltimento dei deflussi con conseguenze assai dannose specie nelle basse valli di alcuni fiumi che scorrono a breve distanza tra loro come il Foglia, il Metauro, il Cesano e il Misa. Negli ultimi vent’anni si possono registrare due o tre parossismi al massimo, verificatisi nel 1940, nel 1955 e nel 1959 sempre nel periodo ottobre-novembre, i quali, portando allo straripamento dei corsi d’acqua con l’abbandono di ingenti quantità di alluvioni su estese aree coltivate, hanno provocato notevoli danni. Questi fenomeni forse si registrano con minore frequenza nella parte meridionale delle Marche, seppure con intensità eccezionale specie per quanto si riferisce al materiale trascinato per rotolamento che può danneggiare in modo veramente grave l’agricoltura e la viabilità delle aree circumvicine.

    I laghi

    Le Marche costituiscono una delle regioni d’Italia più povere di laghi; ne possiedono soltanto uno, quello di Pilato, situato a quota 1940 nell’alta valle dell’Aso, chiamata anche valle del lago di Pilato. Il bacino è racchiuso fra le alte vette del

    Monte Vettore; aperto verso nord è circondato ovunque da calcari marnosi grigi selciferi del Lias, ad eccezione del versante ovest, costituito da banchi di rocce più o meno dolomitiche, che incombono quasi perpendicolarmente sullo specchio delle acque. Il lago manca di immissari e di conseguenza il suo livello è soggetto a forti oscillazioni nei mesi estivi, nonostante vi sia un continuo apporto sotterraneo di acque, da parte di un piccolo nevaio situato a sud. Non ha neppure emissari superficiali permanenti ; emissario ipogeo è un piccolo rivo che si origina oltre un promontorio roccioso, sul versante settentrionale del lago, e che successivamente si perde sotto cumuli di detriti di falda e di frana nell’alta valle dell’Aso.

    La temperatura superficiale del lago, durante l’estate, è di 8°, quella interna di 5°; d’inverno la superficie gela.

    Alcuni considerano il lago di Pilato dovuto ad esarazione glaciale, altri ad una somma di azioni glaciali e carsiche che non possono distinguersi. Nell’area circostante infatti sono evidenti le tracce glaciali quaternarie, come morene frontali, che si distinguono nettamente dalla roccia in posto della parete della valle; ai depositi per l’alta quota non può essere attribuita altra origine come quella di sfasciume alluvionale; d’altra parte anche l’atrio sventrato del Monte Vettore non è altro che un circo di alta montagna, formatosi per azione glaciale.

    Il lago di Pilato (1940 m.)

    Il lago di Pilato visto dalla cresta del Vettore nel periodo di massima siccità estiva.

    Accanto a tali vestigia glaciali si notano nella zona del lago alcune conche e fosse allineate di evidente origine carsica, che permettono appunto di concludere che nella valle del lago di Pilato il fenomeno glaciale si confonde con quello carsico; è probabile che all’inizio dell’epoca glaciale, l’azione erosiva abbia generato nel calcare conche carsiche che si possono dire preglaciali, e che poi altre conche si siano formate dopo la glaciazione; il circo del Monte Vettore potrebbe essere, ad esempio, una conca preglaciale elaborata successivamente a circo dal ghiacciaio.

    Ai Monti Sibillini vengono attribuite quattro o cinque stadi glaciali, in rapporto ai quattro o cinque sbarramenti morenici che vi si possono riconoscere; nonostante però il succedersi delle fasi, la glaciazione nei Sibillini fu indubbiamente limitata e non si può comparare con la grandiosità del fenomeno che si svolse nelle Alpi.

    Tracce del fenomeno glaciale possono essere considerati anche quei depositi di neve persistente che si trovano ancor oggi nelle fosse, nei crepacci, in fondo a circhi, come pure quella lente di ghiaccio che occupa il fondo del circo del Vettore.

    La scarsezza dei bacini lacustri nelle Marche probabilmente è soltanto attuale perchè in epoca storica, ma soprattutto nel Quaternario, i laghi dovettero essere più numerosi, come si può arguire da alcune particolari morfologie. Nel Quaternario infatti le condizioni climatiche favorirono ovunque la formazione di abbondanti acque di scorrimento, il deflusso delle quali verso al mare era ostacolato nelle Marche dalle quinte montuose, parallele al litorale; si formarono così numerosi bacini lacustri. Successivamente però le torbide ne favorirono la colmata e l’approfondimento delle gole facilitò il deflusso delle acque; i laghi sparirono ed oggi al loro posto si stendono freschi e verdi prati.

    Un antico lago probabilmente esisteva a monte della gola di Pioraco. L’Ugolini in base ad osservazioni geologiche e stratigrafiche accenna al probabile ordine di successione dei corrugamenti dai quali è derivata l’attuale configurazione orografica. Inizialmente sarebbe comparsa l’anticlinale Monte Rogedano-Pioraco-Monte Igno; poi quella Case Lentino-Vallibbia-Castello di Olienti; ed infine quella Cima di Mutali-Monte Penna-Monte il Castellaro. Mentre in un primo tempo, una parte delle acque della zona decorreva verso occidente, in un tempo successivo per il sopraggiungere della seconda piega più elevata della precedente si determinò una inversione nella direzione delle acque superficiali, verso oriente, a ridosso della prima anticlinale. In queste condizioni le acque del Potenza, non avendo possibilità di sbocco, iniziarono la incisione del nucleo dell’anticlinale di Pioraco, dando origine all’attuale gola. Poiché l’afflusso delle acque era più abbondante, rispetto a quelle che si scaricavano, si formò un lago come quelli che anche attualmente esistono nel-l’Appennino e che vengono designati con il nome di laghi di valle.

    Piccolo nevaio alla testata della valle del lago di Pilato (luglio 1954).

    Il nome stesso del centro abitato, Pioraco, potrebbe servire ad avvalorare l’ipotesi dell’esistenza del lago, in quanto deriverebbe dal latino prò lacu attraverso una frequente corruzione fonetica. Il lago probabilmente aveva una forma piuttosto stretta ed allungata da ovest ad est ed era compreso tra la stretta di Costa Eletta e la Gola di Pioraco.

    Prima che il Potenza fosse sottoposto a sistemazioni idrauliche, ancora una quarantina d’anni fa, tutta la piana, a monte della gola, era soggetta ad impaludamento durante il non breve periodo delle piogge.

    Un altro bacino chiuso esisteva a monte della testata del torrente Scarzito, aifluente del Potenza. La località è chiamata Piana di Monte Lago ed è limitata all’intorno dal Monte Torroncello, Monte di Campalto, Monte Igno, Monte Sardi-gliano e Monte Cimara, che lo chiudono ad est, a sud ed a ovest. Ha forma allungata a nord in corrispondenza di una specie di valle morta oltre la quale le acque precipitano in una ripida cascata. Attualmente il bacino ogni tanto si riempie di acqua o diventa lievemente paludoso.

    Alle falde del Monte Cimara, esiste un inghiottitoio che assorbe solamente le acque delle zone vicine, mentre le zone più lontane rimangono acquitrinose e si prosciugano solo durante la stagione estiva. I terreni nei quali si trova il Piano di Monte Lago, sono in sinclinale e geologicamente costituiti da scaglie rosse del Cretaceo superiore, mentre aH’intorno affiorano calcari del Cretaceo inferiore, Neocomiano.

    Un altro relitto di lago si ha nell’altopiano di Colfiorito (m. 763) in prossimità delle sorgenti del fiume Chienti. E un bacino di circa 14 kmq. di superficie, di forma pressoché quadrangolare. Un breve dosso situato nel punto più depresso del piano lo delimita dalla valle del Chienti; verso sud si spinge per qualche chilometro lungo un valloncello che raccoglie le acque dilavanti dei monti sovrastanti. L’antico lago aveva il nome di Plestia e sulle sue rive sorgeva la città romana omonima il cui nome nel XIII secolo cambiò in quello di Pistia. Il lago coll’andar del tempo si restrinse progressivamente verso nordest, finché fu prosciugato intorno al 1470 da Giulio Cesare Varano, granduca di Camerino, il quale fece scavare numerosi emissari. Attualmente al suo posto esiste una formazione torbosa. Fino al secolo scorso, durante l’inverno, il Piano di Colfiorito si ricopriva di acqua tanto da formare quasi un lago. In esso si notano numerosi inghiottitoi che devono essere considerati come un fenomeno effettuatosi successivamente alla scomparsa delle acque.

    Alle volte si sono formati anche laghi per sbarramento di frana; lungo la valle del Tronto i fenomeni franosi sono infatti frequenti e grandiosi specie in corrispondenza delle formazioni eoceniche e mioceniche. Vicino all’abitato di Balzo, verso la metà di febbraio del 1902 si ebbe un distacco della coltre superficiale a nordest del Monte Frattagolo e il materiale di caduta invase il fosso di valle Orsara dando origine a due laghetti di sbarramento; il più piccolo è scomparso in tempo relativamente breve, l’altro esiste tuttora ed ha un perimetro di circa 220 m. ; nonostante la scarsa profondità e l’abbondante invasione di piante palustri, forse potrà persistere ancora a lungo.

    Se i laghi naturali hanno una così scarsa diffusione nella regione non si può dire altrettanto, come si vedrà più avanti, di quelli artificiali costituiti sia da bacini idroelettrici, sia da bacini destinati aH’irrigazione; i primi, specie i più estesi e quelli situati in posizione particolarmente favorevole dal punto di vista paesaggistico, rappresentano anche un richiamo turistico che forse col tempo potrà aumentare.