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I Monti Carseolani

    I Monti Carseolani; le più grandi cavità sotterranee dell’Appennino centrale.

    Per una buona metà appartenenti al Cicolano, nota subregione laziale, i Monti Carseolani interessano l’Abruzzo non tanto per l’asprezza delle forme o per l’altitudine che si mantiene sempre modesta, quanto per l’abbondanza e la bellezza dei fenomeni carsici, specialmente ipogei.

    Il gruppo è composto da varie dorsali di calcari secondari spesso fortemente carsi-ficati, con le quali ha origine il terzo allineamento orografico abruzzese, quello più interno e al tempo stesso marginale riguardo alla regione. Al centro la profonda incisione del valico di Colli di Monte Bove, dove sono in evidenza interessanti fenomeni di erosione su depositi molassici, mette in comunicazione il bacino dell’Imele-Salto con il vasto piano del Cavaliere, che scola le acque del Turano, formando l’estrema parte del cuneo abruzzese che si insinua ad occidente in territorio laziale.

    II piano si estende con forma pressoché triangolare a una quota media di 630 m. e, come tutti gli altri principali della regione, è stato sede di una lago pleistocenico, come si scorge dal tipico modellamento in parte carsico, in parte fluvio-lacustre; il Gortani ha notato sulla destra del Turano lembi di deposito fluvio-lacustre incisi da brevi corsi d’acqua e terrazzati a ripiani, contenenti anche materiali vulcanici stratificati, che si raccordano con i terrazzi orografici della conca sulla sinistra del fiume.

    Non pochi sono i contrasti fra una zona e l’altra: dalle nude distese a gobbe calcaree del Monte Guardia d’Orlando (m. 1353), a nord di Colli di Monte Bove, e del Monte Arunzo (m. 1455), fra l’alto Liri e i Campi Palentini, si passa alle belle pendici ricoperte di faggete del Monte Fontecellese e del Monte Midia (m. 1738).

    L’azione carsica si manifesta con particolare evidenza specialmente su una vasta zona a nord del Monte Guardia d’Orlando, composta di quattro bacini contigui a deflusso interamente sotterraneo con ampi inghiottitoi che smaltiscono le acque in grandiose grotte, le maggiori dell’Italia centrale finora conosciute, sia per la lunghezza che per la complessità. Interessa solo marginalmente l’Abruzzo la Val di Varri, lunga depressione longitudinale che appartiene in gran parte al Lazio, compresa la grande cavità del Grottone di Val di Varri che si apre a sudest di Leofreni (Rieti). Gli altri bacini chiusi sono quelli di Tufo, di Pietrasecca e di Luppa, che presentano la comune caratteristica di evidenti tracce di una paleoidrografia subaerea cessata quando i movimenti epirogenetici causarono l’autosotterramento epigenico delle acque. Le grotte principali sono quelle di Pietrasecca, la più lunga dell’Abruzzo con uno sviluppo di 1400 m., e quella di Luppa, lunga anch’essa più di un chilometro. Non è possibile darne in breve la descrizione. Ambedue le grotte sono veramente fantastiche, con ampi ingressi e con un susseguirsi tale di laghetti, marmitte, sifoni, sale con stalattiti e stalagmiti dalle forme più varie, strapiombi e canyons sotterranei tortuosi, da non avere confronti con le altre note cavità della regione.

    Ingresso della Grotta di Luppa, nei Monti Carseolani.

    Estremamente interessante è anche la zona carsica fra l’alto Imele e l’alto Liri, con il Monte Valminiera e il Monte Arunzo crivellati di doline, pozzi, inghiottitoi, caverne, fra cui la Grotta di Verrecchie (o di Beatrice Cenci), il Pozzo Callararo, le vicine grotte Cola e Nera, che si aprono sotto la vetta dell’Arunzo. A nordest di Verrecchie, a 946 m., la voragine detta l’Otre accoglie le acque dell’Imele, le quali riappaiono quasi 200 m. più in basso nei pressi di Tagliacozzo.

    Le gole del Sagittario, incise fra il Monte Genzana e la Montagna Grande.

    Le regioni dei grandi altipiani e i massicci dell’Abruzzo meridionale.

    La regione coincide con la vasta zona montuosa a sud del Fucino e della conca peligna, con la quale hanno termine i due archi abruzzesi interni in parte divisi dal solco del Sangro. Nel cuore di questi grandi rilievi si estendono a quote alquanto elevate i maggiori altipiani carsici della regione.

    Il più noto e il più vasto è senza dubbio il Piano delle Cinquemiglia, che si allunga per circa 9 km. da nordovest a sudest fra il Monte Pratello e il Monte Rotella, con una larghezza media di un chilometro. Si tratta di una grande valle chiusa il cui fondo piatto, erboso e senza alberi si trova a un’altitudine media di 1260 m. e forma un’unità morfologica con altre depressioni contigue separate da irrilevanti soglie rocciose. La soglia di Madonna della Portella, al margine meridionale, separa il piano dall’altro più piccolo, detto il Prato, che si estende fin sotto Rivisòndoli e Roccaraso ed è unito a nord agli altri tre grandi piani del Quarto del Barone, Quarto Grande e Quarto Santa Chiara. Il Piano delle Cinquemiglia ha due conche, al centro ed al sud, che si trasformano in certi periodi in veri e propri acquitrini, mentre gli altri, probabilmente per la loro più facile intercomunicabilità, hanno il fondo più regolare, costituito da una coltre di materiale miocenico impermeabile con tracce ben visibili di antiche superfici lacustri ormai prosciugate. Tutto questo insieme di bacini chiusi ha una superficie totale di ben 25 kmq., ed ha indubbiamente un’origine tettonica, pur risultando evidenti il modellamento carsico e l’azione di deposito lacustre.

    Non vi si trovano invece tracce di glacialismo, così abbondanti sui piani più alti, come i numerosi avanzi morenici del Piano dell’Aremogna (m. 1400-1500), sbarrato ad ovest dalla dorsale delle Toppe del Tesoro, sotto la cui cresta sono scavati molti piccoli circhi. Ci troviamo qui nel gruppo dominato dal Monte Greco (m. 2285), imponente montagna che presenta due versanti molto diversi, quello occidentale poco ripido e tondeggiante, quello orientale roccioso, dirupato e solcato da canaloni; sul versante nord alcuni circhi formano l’inizio del bel truogolo della Valle di Chiarano che mostra, oltre a vari cumuli morenici e a nude rocce montonate, un raro e bell’esempio di laghetto glaciale nel Lago Pantaniello, alla testata della valle. A nord, oltre il Monte Pratello (m. 2058) e la Serra Sparviera (m. 1998), il Monte Genzana (m. 2170) domina con ripido pendio (dal quale una frana originò il Lago di Scanno) sulle valli del Tasso e del Sagittario. Parallela a queste cime, al di là delle gole del Sagittario, si snoda la catena della Montagna Grande (m. 2208) con ampia cresta quasi pianeggiante che culmina all’estremità meridionale nel massiccio Monte Marsicano (m. 2245); il versante nord di questo monte ha la parete incisa da due circhi glaciali e costituisce la testata dell’alpestre Valle Orsara, mentre il versante sud s’immerge nel solco del Sangro con pendii molto ripidi e solcati da profondi valloni. Altri circhi ben evidenti coronano, più a nord, la parete della Serra Monte Cappella, formando la testata della Val di Corte, che è il più ampio truogolo glaciale del gruppo.

    Rivisòndoli (m. 1390), al centro dei grandi altipiani d’Abruzzo.

     

     

     

    La vetta della Meta da Vallefiorita.

    Non molto evidente è il carsismo, con un numero limitato di piani di modesta ampiezza e scarse doline. I fenomeni più vistosi si trovano sulla dorsale pianeggiante della Montagna di Godi, fra il Monte Greco e il Monte Marsicano, dove si aprono numerose doline imbutiformi.

    Allo spartiacque della Montagna Grande giungono i limiti dei Monti del Parco Nazionale d’Abruzzo, che si estendono al di là del Sangro, in parte anche in territorio

    La cresta della Camosciara, nei monti del Parco Nazionale d’Abruzzo.

    laziale, dominati a sud dal gruppo della Meta con la bella mole del Monte Petroso (m. 2249). Il nome di questo monte è certamente dovuto ai nudi, aridi calcari della lunga cresta che lo congiunge alla Meta (m. 2242) e alle Mainarde (Monte Mare, m. 2020), scendendo scoscesa ad ovest sulla Valle di Canneto, mentre ad est, al di sotto di una serie di circhi glaciali, si apre l’ampia conca della Val Cupella, ingombra di detriti che ne fanno un vero deserto pietroso dal quale sporgono numerosi dossi tondeggianti. Ma su tutto il fianco orientale è un susseguirsi di circhi, che corrispondono in basso a cospicui depositi morenici e a molteplici altre impronte glaciali. L’insieme della catena ha uno spiccato aspetto alpestre, con fianchi dirupati o addirittura a picco e una cresta continua priva di depressioni e di valichi.

    Il Matese molisano.

    Unico grande massiccio appartenente al Molise (e in parte alla Campania), ormai nell’ambito dell’Appennino meridionale, il Matese eleva le poderose gobbe calcaree fino ai 2050 m. del Monte Miletto; paragonabile per energia di rilievo alle alte montagne abruzzesi, si estende ali’incirca da nordovest a sudest per oltre 1000 kmq. L’area sommitale è costituita da un duplice allineamento di cime (motivo non nuovo nei massicci dell’Appennino centro-meridionale), che chiudono aride e pietrose depressioni longitudinali.

    Il Dainelli ha ravvisato nel Matese tre elementi orografici essenziali: il primo è il fianco sudoccidentale, cioè il versante campano, ripidissimo e breve; il secondo è il fianco nordorientale, cioè il versante molisano, molto meno erto a causa del manto di terreni eocenici, sui quali ben altrimenti ha influito l’azione delle acque dilavanti, e assai più esteso, raggiungendo gradualmente le vette più alte dalle piane del Biferno e dell’alto Tàmmaro; il terzo è costituito dalle ampie spianate sommitali chiuse dalle due catene, che alcuni interpretano come un vero e proprio altipiano.

    La tipica dissimmetria dei due versanti e il fatto che il confine regionale passi dalla meno elevata catena meridionale fa sì che una ben più vasta porzione del massiccio, anche se non la più interessante, appartenga al Molise. Oltre alla minore pendenza, il versante molisano ha molteplici altre caratteristiche che lo differenziano da quello campano. Il carsismo, anzitutto, è meno evidente e si riduce a pozzi e doline alquanto distanti fra di loro, dove i calcari del Cretacico hanno perso il rivestimento eocenico. Unico piano carsico di una certa ampiezza è quello di Campitello, che si estende con forma quasi circolare a un’altezza media di poco più di 1400 m. a nordest del Monte Miletto. Per il resto, dominano il paesaggio dossi cupoleggianti e valloni asciutti talora profondamente incisi, come il Vallone Grande, che nella testata ampia e impervia prende il nome di Val Fondacone.

    Gradinate dell’altipiano di Frosolone dalla montagnola di Civitanova.

    In basso la dolina del lago Corvaro.

     

     

     

    Il massiccio del Matese da Monteverde. In primo piano Vinchiaturo.

    Tipico paesaggio matesino, presso Roccamandolfì.

    Indubbie sono alcune tracce di glacialismo, delle quali si è interessato il Cola-monico, ma non abbondanti nè molto evidenti. Assai ampio è il circo inciso sulla fiancata settentrionale del Monte Miletto, con la concavità orientata verso il piano di Campitello, come pure i due circhi contigui che dominano il Fosso Folùbrico e la Val Fondacone, a nord del Colle Tamburo.

    La fascia collinare del Subappennino.

    Dal regno dei calcari della Cordigliera abruzzese si passa, con brusca variazione di pendio ed evidente differenziazione morfologica, al regno delle argille del Subappennino o, come lo chiama il Demangeot, dell’Avampaese adriatico. Siamo di fronte al tratto abruzzese-molisano della fascia continua di argille plioceniche che borda il versante settentrionale ed orientale dell’Appennino lungo quella che fu la grande fossa di subsidenza padano-bradanica, dal Piemonte fino alla Basilicata.

    La morbidezza di questo paesaggio, nel quale spesso si ravvisa un modellamento precocemente maturo, è interrotta su vaste plaghe da fenomeni talora imponenti di erosione, sia calanchiforme sia franosa. L’ampio solco della Val Pescara divide la fascia collinare in due tronchi, a nord il Subappennino Aprutino e a sud quello Frentano, che presentano in vari tratti una certa diversità geologica e morfologica.

    Il Subappennino Aprutino è formato da due fasce principali. Quella interna è costituita dall’imponente coltre molassica miocenica della cosiddetta « Formazione della Laga » nella quale dominano i materiali arenacei con marne sabbiose e sabbie argillose, fascia i cui limiti possono all’incirca essere rappresentati da una linea che passa, da nord a sud, per Canzano, Castiglione Messer Raimondo, Penne e Catignano, fino al fiume Nora. Da questa linea fino al mare hanno assoluta prevalenza le marne e le argille varicolori plioceniche (Piacenziano), che sorreggono ancora qua e là placche di conglomerati e banchi di sabbie giallastre e argille grigio azzurre fossilifere del Calabriano. Queste placche residuali, che si notano a copertura di alcune alture isolate (Colonnella, Atri, Montesilvano, ecc.) non sono che i relitti dell’ultima grande sedimentazione marina, testimoni dell’enorme azione delle acque fluviali e dilavanti che hanno smembrato e addolcito i rilievi, intercalati da ampie vallate parallele fra loro. Come scrive l’Ortolani, « il penepiano originario è stato pertanto disarticolato in tronchi di dorsali e in colline isolate, generalmente di altitudine inferiore ai 500 m., via via più basse come ci si approssima al mare, verso il quale il rilievo cessa piuttosto bruscamente ». Degna di nota è la tendenza dei fiumi a spostare il letto verso il lato destro della valle fino a eroderlo, fenomeno che può trovare la spiegazione nella diversa entità del sollevamento post-pliocenico sulle dorsali intermedie, più marcato sul fianco sinistro.

    Nel Subappennino Frentano, a sud della Pescara, le masse del Jìysch eocenico, costituite da argilloscisti e da argille scagliose con intercalazioni di arenarie, calcari marnosi e conglomerati, degradando ad est della netta linea di contatto con i calcari della Maiella, vengono acquistando a sud un sempre maggiore sviluppo: sostituiscono quindi su larghi tratti la coltre miocenica delle colline aprutine e prevalgono nella maggior parte del Chietino e del Molise. Procedendo verso sudest si restringe invece la fascia delle argille plioceniche, limitate all’interno da una linea che pressappoco unisce Rapino a Càsoli, San Buono, Atessa, Montenero di Bisaccia e Larino. Qui la coltre delle sabbie cementate calabriane testimonia un ottimo stato di conservazione, specialmente tra la Pescara e il Sangro, dove « buona parte del territorio può anzi valere come tipo di pianura costiera sollevata, incisa da profondi

    Il paesaggio a calanchi delle Bolge di Atri, nel Subappennino Aprutino.

     

     

     

    Colline squarciate da calanchi presso Guardiagrele.

    valloncelli ma non distrutta ». Possono essere citate a questo riguardo le ampie superfìci tabulari fra i fiumi Foro, Moro e Sangro. A sudest del Sangro, in quel settore che potrebbe essere chiamato Subappennino Molisano, si può ritrovare la spiccata asimmetria delle valli principali e una maggiore demolizione dei conglomerati calabriani che porta a una più netta frammentazione dei rilievi.

    I calanchi, chiamati localmente scrimoni, sono i più caratteristici fra i fenomeni di erosione accelerata che frequentemente scavano e incidono le pendici collinari. Nelle argille della fascia molassica le forme sono per lo più ramificate a ventaglio, con piccoli coni di deiezione allo sbocco di ogni incisione. Se invece il fenomeno avviene sulle argille pure piacenziane, si manifesta con serie più o meno estese di ripide incisioni verticali con creste a coltello. Le Bolge di Atri, nel Subappennino Aprutino, sono l’esempio più cospicuo e conosciuto dei calanchi abruzzesi, mentre nel Subappennino Frentano sono molto estesi quelli che incidono il fianco sinistro della valle dell’Aventino, presso la confluenza con un fiumiciattolo proveniente da Guardiagrele, il Fosso Laio. Caratteri meno spiccati hanno le frequenti formazioni calanchiformi dei bacini dei fiumi Alento e Foro.

    Scrimoni nell’alto bacino dell’Alento (Subappennino Frentano)

    Le frane sono ancora più frequenti, specialmente nel Molise fra il Sangro e il Fortore. In generale se ne può riscontrare un buon numero là dove le sabbie cementate astiane o calabriane posano sulle argille, oppure più all’interno, dove le masse plastiche eo-mioceniche ricoprono gli ultimi lembi dei calcari appenninici, ma molte altre possono essere le situazioni, connesse col reticolo idrografico, che stimolano l’insorgere del fenomeno.

    Nessuno dei bacini fluviali subappenninici è rimasto esente da frane, specie lungo il corso dei torrentelli minori che più profondamente scalzano le basi dei rilievi. Basterà percorrere plaghe anche limitate come quella fra Cellino Attanasio e Atri o quella fra Città Sant’Angelo ed Elice per rendersi conto dell’ampiezza dei fenomeni. A sud della Pescara le aree più franose sono quelle di Roccamontepiano, Castel Frentano, Orsogna e Guardiagrele, dove oltre a fenomeni di frane vere e proprie, per distacco rovinoso di masse instabili, si possono notare anche vasti fenomeni di lento slittamento verso il basso delle superfici argillose o flyscioidi (contrade a lame).

    Anzi, si può constatare che questo tipo di movimento franoso (frane di ammollimento) ha una netta prevalenza, insieme alle frane di scivolamento che interessano masse più superficiali, su quelle di scoscendimento, di smottamento e di crollo. Grandi dissesti si manifestano nelle basse valli del Sangro e dell’Aventino: tristemente note, fra tante altre, sono state le frane di Lama dei Peligni e di Tarànta Peligna, che gravemente lesionarono gli stessi abitati. Nell’alto Sinello, a poca distanza da Montàzzoli, una recentissima frana (maggio 1969) ha causato lo smottamento di un’intera collina, un tempo abitata e dal 1956 abbandonata in seguito ad analogo fenomeno; la parte più avanzata di questa frana è giunta a soli 150 metri dalla sponda del Sinello, e un ulteriore avanzamento potrebbe portare rilevanti modifiche al paesaggio, con l’ostruzione del fiume e il conseguente allagamento di un tratto della valle. Nemmeno la zona costiera frentana è esente da pericoli. Basterà ricordare l’enorme frana che nell’aprile del 1816 colpì la parte orientale della città di Vasto, inghiottendo in tre ampie voragini numerosi edifici, fra cui alcune antiche chiese. E, ultimo in ordine di tempo, il notevole scoscendimento manifestatosi nel giugno del 1969 sulla ripa di Ortona, che, pur se incruento, ha bloccato per un certo periodo le comunicazioni fra la città e il porto.

    Estese erosioni calanchiformi presso Castelli.

     

     

     

    Le ultime pendici collinari del Subappennino Aprutino e la costa da Tortoreto a Giulianova.

    In definitiva, secondo un recente studio di Alb. Mori, i movimenti franosi in Abruzzo interessano 137 comuni (45% del numero totale) di cui più della metà nel Chietino, con la triste realtà di ben 106 abitati direttamente minacciati.

    Ma dove i fenomeni delle frane e delle « lame » assumono spesso un’ampiezza eccezionale che influisce sulle repulsività di vaste plaghe, sia dal punto di vista della viabilità che del popolamento, è sui rilievi flyscioidi molisani. E non solo si deve parlare di repulsività, ma anche di costante pericolo che incombe su moltissimi centri abitati (più della metà dell’intera regione) i quali, situati per lo più sulle sommità collinari, vengono ad essere insidiati ai margini dal distacco di più o meno cospicue masse di materiale franoso. Agnone, Rocchetta a Volturno, Salcito, Lucito, non sono che alcuni esempi di abitati colpiti a varie riprese da questo che è il più preoccupante flagello delle terre molisane.

    Si deve aggiungere infine che l’Abruzzo, pur non avendo alcuna zona vulcanica, rivela in varie plaghe subappenniniche interessanti fenomeni pseudovulcanici. Si tratta di alcuni gruppi di vulcanelli di fango situati sui terreni marnoso-sabbiosi pliocenici, e precisamente, procedendo da nord verso sud, nei bacini dei fiumi Vibrata,

    Vulcanelli di fango abruzzesi, secondo F. Bonasera.

    Vomano, Piomba, Calvano, Foggetta, Fino e Moro. Queste salse, che in buona parte hanno un’attività di emissione di fango e di metano abbastanza regolare, sono chiamate con termini differenti a seconda della località: sagnasuga, salsella, dragonara, cenerone. Dal punto di vista morfologico si notano varie differenze, essendo alcune di esse con orifizi a stagno, altre a cono, in fase che può essere sia di debole, sia di media attività di emissione fangosa. Soltanto per pochi, fra cui il più conosciuto Cenerone d’Atri, è rimasto il ricordo di qualche fase di forte eruzione.

    Le coste.

    Contrariamente a varie altre regioni italiane, manca uno studio specifico sulle coste abruzzesi e molisane, condotto con finalità scientifiche. Soltanto l’Ortolani ne ha sintetizzati gli aspetti più salienti e ne ha data un’appropriata descrizione. Il suo studio è la base del presente breve paragrafo che ritengo non debba mancare nella trattazione generale delle due regioni.

    Il litorale abruzzese-molisano si sviluppa fra la foce del Tronto e quella del Saccione per 167 km. con un andamento, da nordovest a sudest, leggermente falcato. La rientranza, in connessione con il grande arco che la costa adriatica compie fra il Monte Cònero e il Gargano, non è tuttavia regolare, presentando falcature minori e sporgenze più o meno distanziate, parallelamente allo svolgersi dei rilievi appenninici i cui ultimi lembi condizionano nettamente il profilo costiero, sia dal punto di vista planimetrico che da quello altimetrico.

    La frangia delle alluvioni recenti che forma la cimosa litoranea è composta da sabbie o da ghiaie, secondo l’avvicinarsi di una foce fluviale o delle ripe formate dalle ultime propaggini collinari. In linea generale come è stato fatto per la fascia subappenninica, così anche per la costa possiamo individuare due tratti che presentano differenze alquanto marcate fra loro. Fra il Tronto e Francavilla al Mare, in corrispondenza con il settore aprutino, il litorale è più ampio, della larghezza di circa un chilometro e le spiagge sono generalmente sabbiose, con alle spalle una serie discontinua di poco pronunciate dune costiere ora in parte spianate. Oltre Francavilla i rilievi si avvicinano maggiormente al litorale, che si riduce ad una ristretta frangia ciottolosa o sabbiosa sulla quale incombono le ripe, quasi lambite dal mare. Brevi tratti di costa alta, direttamente scalzata dalle onde, si protendono con limitate sporgenze a Ortona, Punta di Cavalluccio, Punta della Penna e Tèrmoli.

    Vedi Anche:  Vie di comunicazione commercio e turismo

    Apparati deltizi alquanto espansi si trovano in corrispondenza delle foci di alcuni fiumi, come il Tronto, il Saline, il Trigno e il Biferno, alterando, come del resto anche i promontori, il regolare decorso della linea di spiaggia. Infatti, predominando il moto ondoso da sudest, i materiali che i fiumi hanno portato al mare tendono a

    Tratto litoraneo del Subappennino Aprutino fra Pineto e Silvi Marina. In primo piano la Torre del Cerrano, antico fortilizio di vedetta.

     

     

     

    Il tratto di costa alta a Punta della Penna, presso Vasto.

    spostarsi verso nordovest, ed ogni prominenza è un fattore di costruzione e di ampliamento del litorale a sud degli aggetti, ma contemporaneamente di demolizione a nord di essi. Come esempio può essere portata la spiaggia pescarese, divisa e modificata dalla sporgenza del porto-canale.

    Per quanto riguarda il contributo alla costruzione del litorale da parte dei materiali fluviali, l’Ortolani nota che « esiste una evidente sproporzione fra la superfìcie dei delta cuspidati, sporgenti dalla base rettilinea del litorale, e l’importanza dei fiumi che li alimentano. La Pescara, per esempio, che attinge dall’Appennino calcareo interno e che giunge al mare con una cospicua massa di acque (alimentata da sorgenti carsiche), ha un delta atrofico, appena abbozzato; viceversa il piccolo fiume Saline presenta un ragguardevole apparato di foce, che va a fondersi con quello del Piomba. Già in epoca romana Piomba e Saline dovevano confluire insieme, cooperando alla costruzione di un delta unico che ora tende però a divergere in due lobi distinti. In genere sull’accrescimento dei delta sembrano maggiormente influire la costituzione litologica del bacino e la pendenza del letto collettore, che non la portata liquida del fiume e la estensione del bacino imbrifero ».

    I terremoti.

    L’Abruzzo e il Molise sono fra le regioni più sismiche non solo dell’Italia ma di tutto il bacino del Mediterraneo. Più di dieci terremoti scuotono ogni anno qualche parte del loro territorio, e spesso di un grado alquanto elevato nella tradizionale scala Mercalli. Purtroppo non sono rari in molte aree i sismi dal 6° al io0 grado, che dalle parziali lesioni prodotte agli edifici possono giungere fino alla catastrofica distruzione di interi abitati. E se, considerando il fenomeno da un punto di vista fisico, debbono essere citati tali eventi anche molto distanti dai nostri tempi, ciò non toglie che alcuni di essi più vicini a noi debbano essere particolarmente ricordati sia per lo studio ben più approfondito di cui sono stati oggetto, sia per le più complesse ripercussioni d’ordine umano ed economico che hanno provocato.

    Per individuare le aree sismiche costituisce tuttora una buona base, pur avvertendosi l’esigenza di un aggiornamento, la Carta sismica d’Italia del Baratta, pubblicata postuma nel 1936, nella quale è rappresentata la distribuzione spaziale del fenomeno, graduato in base a una scala di sei intensità. Dalla sismicità leggerissima, ravvisata in aree che hanno subito parecchie scosse leggere o qualcuna molto forte, si giunge fino a quella catastrofica, che interessa le plaghe in cui si sono manifestate almeno due scosse disastrosissime ed altre di minore entità. Senz’altro le aree che interessano maggiormente sono quelle a sismicità catastrofica, tre delle quali appartengono all’Abruzzo e una al Molise.

    Procedendo da nord verso sud, appartiene all’Abruzzo il lembo meridionale della grande zona sismica del Nursino che, estendendosi al margine occidentale dei Sibillini e dei Monti della Laga, tocca l’alta conca di Montereale, alle sorgenti del-l’Aterno. La documentazione storica, peraltro lacunosa specialmente per i centri minori, ci dà notizia di sismi particolarmente violenti ad Amatrice e a Montereale nel 1672 e nel 1703, mentre non risultano gravi conseguenze per questi centri dal rovinoso terremoto del 1730 che ebbe per epicentro Norcia.

    Saldata a questa prima area da una fascia a sismicità un po’ meno intensa, si trova lungo il solco dell’Aterno la zona aquilana, da Lùcoli a Poggio Picenze, in frequente stretta interdipendenza con la precedente, per la quale sono stati registrati una trentina di terremoti, dal 1895 al 1957. Resta tristemente nota, essendo stata tramandata anche da alcune cronache dell’epoca, la tremenda scossa del 2 febbraio 1703 che distrusse gran parte dell’Aquila e causò la perdita di cinquemila persone, numero molto inferiore a quanto ci saremmo potuti aspettare da sì grave cataclisma ma giustificato dall’ora, le cinque del pomeriggio, nella quale gran parte degli abitanti si trovava fuori casa. Questo terremoto, che distrusse anche Amatrice, Montereale, Arischia, Pagànica e molti altri centri minori, era stato preceduto nel gennaio dello stesso anno da altre due violente scosse.

    Le aree sismiche, secondo M. Baratta.

    Fra il solco dell’Aterno e il Gran Sasso continua una fascia a forte sismicità fino alla vasta area comprendente la conca peligna, la Maiella e il medio Sangro, nella quale i sismi si sono manifestati con la più alta intensità. Sulmona, la città più importante della zona, fu distrutta più volte. Fra i molti terremoti possono essere ricordati quello del 1349, che si dice non lasciasse dell’abitato pietra su pietra; quello del 1456 che interessò una vasta porzione dell’Italia meridionale con tutto l’Abruzzo e il Molise, da Isernia e Campobasso all’Aquila, da Tèrmoli a Teramo; quello del 1706 che produsse gravissime distruzioni a tutti i centri attorno alla Maiella e a quelli sulla costa adriatica.

    Montereale e la sua conca, in zona ad elevatissima sismicità

    Per l’Abruzzo rimane infine da ricordare la Màrsica e l’alto Liri che, pur avendo subito il più grande terremoto di cui siamo a conoscenza per la regione, non rientrano fra le zone di massima sismicità. Ciò è spiegato dal fatto che prima del 1915 ben scarse erano state qui le manifestazioni sismiche, più che altro irraggiate dalle non distanti zone trattate precedentemente. Qualche scossa in aree più ristrette si era già manifestata precedentemente (Avezzano, 1885; Trasacco, 1887; Magliano dei Marsi e Rosciolo, febbraio 1904; Gioia dei Marsi, novembre 1904), rivelando l’esistenza di limitate zone instabili. Ma niente faceva pensare alla catastrofe che il 13 gennaio 1915 si abbattè sulla Màrsica, sul Cicolano, sulla Val Roveto (alto Liri) e sul territorio intorno a Sora, distruggendo o danneggiando gravemente città e villaggi.

    L’abitato vecchio di Pescina, sul bordo della conca fucense, con le case dirute e abbandonate in seguito al terremoto marsicano del 1915-

    L’abitato di Salle Vecchio (Fossa di Caramànico), danneggiato a più riprese da frane e dai terremoti del 1915 e del 1933, ora totalmente abbandonato.

    L’epicentro fu nella conca del Fùcino e la maggiore rovina toccò ad Avezzano, letteralmente cancellata: alla violenza devastatrice sprigionatasi durante la fase catastrofica per non più di trenta secondi quasi nessun edificio potè resistere, nemmeno il poderoso Castello. Sotto i cumuli di macerie trovarono la morte ben 10.000 dei 12.000 abitanti della città, e tale enorme perdita di vite umane può essere imputata non solo alla violenza del sisma ma anche al fatto che la scossa catastrofica avvenne alle sette del mattino, quando tutti stavano ancora nelle loro abitazioni.

    La ragione del terremoto può essere trovata nella struttura della conca fucense, vero e proprio bacino tettonico di sprofondamento, del quale abbiamo evidenti tracce nelle fratture ai margini. Zona estremamente instabile, quindi, ed è proprio ai bordi del bacino che le scosse hanno avuto la più alta e drammatica rovinosità. Gli effetti furono molto diversi da luogo a luogo, e la causa risiede più che altro nella differente costituzione litologica del sito topografico degli abitati. I centri, come Luco dei Marsi e Ortucchio, costretti al margine di alluvioni recenti, sui detriti di falda più o meno cementati e sulle terrazze, ebbero gravissimi danni ; non così è avvenuto per altri situati sui calcari, come Trasacco, che sono rimasti relativamente indenni. Tipico è l’esempio di Celano, distrutto solo a metà poiché le case poggiano in parte su detriti di falda posti su alluvioni recenti, in parte su roccia calcarea. E se i calcari si rivelarono un vero ostacolo per le scosse, agendo come « ponti sismici », intensa apparve l’attività lungo le linee di frattura come quella della Val Roveto che subì danni grandissimi, paragonabili a quelli dei centri più devastati del Fùcino.

    Oltre a queste zone a sismicità intensissima e catastrofica, altre ve ne sono, nelle quali le manifestazioni sono state meno frequenti e violente. Il versante adriatico dei Monti della Laga e del Gran Sasso con l’adiacente fascia collinare subappenninica ha subito un certo numero di terremoti per lo più irraggiati dall’area ad alta sismicità di Montereale. Il più recente è quello del 15 settembre 1950 con epicentro a Cam-potosto, durante il quale le scosse raggiunsero l’8° grado (scala Mercalli) in una vasta plaga comprendente anche i centri a nord e nordest del Gran Sasso, da Pietracamela a Teramo e Cellino Attanasio, da Isola del Gran Sasso a Farìndola ed Elice. Senza contare che sensibili scosse (7°e 6° grado) hanno interessato un’area ben maggiore, fra Ascoli Piceno e i massicci del Velino e della Maiella e fra Rieti e l’Adriatico. Si riconnette invece alla regione sismica della Maiella la fascia collinare marittima fra Ortona, Lanciano e Vasto, nella quale le scosse più rovinose si sono manifestate nel 1456 e nel 1706.

    Una piazza di Ururi, nel Molise, che conserva ancora le tracce del terremoto del 21 agosto 1962.

    Il Molise è in gran parte ad altissima sismicità, con intensità catastrofica a nordest del Matese, all’incirca entro un triangolo con vertici a Carpinone, Boiano e Campobasso. Molto numerosi sono stati quindi i terremoti violenti, dei quali i più tristemente noti sono quello del 1688 con epicentro nel Beneventano e quello del 1805 con epicentro sul Matese, che portarono gravissimi danni a Campobasso, Boiano e Isernia. Mediocre sismicità ha invece la zona collinare del basso Biferno, da Larino a Tèrmoli. L’ultimo terremoto che ha causato notevoli danni è stato quello manifestatosi nel 1962 nel basso e medio Molise, con effetti particolarmente rovinosi a Ururi.

    Pur non volendo escludere l’irraggiamento dall’esterno di certi terremoti, è indubbio che per la maggior parte essi sono d’origine locale: gli epicentri nelle tre grandi conche abruzzesi, per esempio, sono stati chiaramente localizzati. E il fatto che gli ipocentri siano sempre molto superficiali, non avendo mai superato probabilmente la profondità di una ventina di metri, porta alla deduzione che tali manifestazioni, non essendovi zone vulcaniche, sono d’origine tettonica mentre gl’impulsi, per lo più centrifughi, fanno pensare a un’attività di sollevamento; non mancano però tipici esempi di sismi di sprofondamento, come quello del Fùcino.

    La grande zona instabile dell’Appennino corrispondente al territorio interno dell’Abruzzo e del Molise ce ne dà la più completa sicurezza: ci troviamo di fronte a un sistema orografico recente, nel quale le numerose serie di fratture e le faglie danno origine a notevoli disturbi stratigrafici che portano a movimenti di assestamento più o meno intensi ed ampi. I sismi si manifestano più che altro ad oriente della grande linea di frattura del Liri, e ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che l’Abruzzo appare non compensato isostaticamente, quindi è ancora in movimento sulla base granitica del fondo inclinata dal Tirreno verso l’Adriatico. Il Demangeot parla a questo proposito di « migrazione dell’attività tettonica verso l’Est », che si esplica vivacemente sul versante adriatico mentre su quello tirrenico si è pressoché stabilizzata.

    IL CLIMA. IL MANTO VEGETALE E LA FAUNA

    Il clima: considerazioni generali.

    Il fatto che le due regioni facciano parte del settore centro-meridionale della penisola, comprese fra 42°54′ e 4i°22′ di lattiudine e confinanti per lungo tratto col mare, determina la loro indiscussa appartenenza all’ambito mediterraneo. Ed il clima ne assume talune caratteristiche generali, quali il regime delle piogge e l’andamento delle temperature che rivelano un’estate calda, asciutta e luminosa, anche se in pratica due fattori tendono a conferire alle varie parti del territorio netti contrasti e differenze climatiche sostanziali.

    Il primo è la posizione sul versante dell’Adriatico, la cui minore profondità rispetto agli altri mari che bagnano la penisola esercita un più limitato effetto equilibratore, e l’esposizione alle masse d’aria intermedia continentale, fredde e asciutte, provenienti dal tavolato russo. Il secondo fattore è dato dai massicci montuosi che occupano buona parte del territorio e che vanno considerati dal duplice punto di vista dell’altitudine e della disposizione.

    Anche senza considerare le particolari varietà che tali fattori possono dare ai tipi climatici locali si può quindi spartire le regioni, specialmente l’Abruzzo, in due fasce ben distinte, come già è stato osservato trattando della distribuzione delle masse orografiche: la fascia marittima, o subappenninica, a nordest e la fascia montana a sudovest.

    L’elemento che nettamente separa questi due ambienti così diversi è l’arco abruzzese esterno che, dai Monti della Laga alla Maiella, forma una barriera climatica di fondamentale importanza. Da una parte abbiamo quindi il tipo climatico mediterraneo, bene evidente anche se attenuato da certe punte di rigore invernale sconosciute sul versante tirrenico alla stessa latitudine, dall’altra il tipo climatico montano, chiuso quasi del tutto alle influenze marittime, con notevoli contrasti anche in breve spazio, per la diversa esposizione dei rilievi e per l’alternarsi di ripidi massicci e di conche interne in un ambiente quanto mai accidentato, che l’altitudine e la morfologia fanno assomigliare in ampi tratti a quello dell’alta montagna alpina.

    Pressione atmosferica e venti.

    Le variazioni del tempo sono anzitutto in rapporto con l’alternarsi stagionale di masse d’aria di diversa qualità, conseguente all’avanzamento o all’arretramento delle aree anticicloniche dell’Europa nordorientale ad est, delle Azzorre ad ovest. Il versante adriatico abruzzese, avendo in inverno l’area di bassa pressione ad oriente, sul mare antistante, è interessato in prevalenza da venti intorno a maestro e ponente; in estate invece, pur predominando sul Mediterraneo un regime di alte pressioni, l’Adriatico, più chiuso e meno profondo di altri mari, è occupato in tutta la sua lunghezza da una striscia di pressione relativamente bassa che si insinua a nord come una sacca fino nel cuore della pianura padana e richiama venti meridionali. All’interno, sui massicci appenninici, nella cosiddetta zona assiale sede invernale di alte pressioni, è ben più difficile individuare un regime dei venti, assai vari in relazione con i rilievi, le valli e i bacini chiusi.

    Riguardo alle calme, esse sono in rapporto direttamente proporzionale con l’altitudine, ben più frequenti nella zona montana che sui litorali dove tendono ad estinguersi. Nelle conche intermontane, favorite dalla posizione, si possono superare notevolmente i 200 giorni all’anno, come all’Aquila (231), mentre estremamente esigua è la frequenza su tutta la fascia subappenninica. Il regime delle calme manifesta un graduale aumento di frequenza a partire dalla primavera fino a un massimo invernale.

    Fra i venti che interessano il litorale e la fascia subappenninica, modificandosi poi nelle vallate e a contatto con gli alti rilievi, il più noto è indubbiamente la bora, proveniente da nordest con raffiche alquanto violente alternate a periodi di stasi. E naturale che questo vento raggiunga le coste delle due regioni molto attenuato rispetto all’alto Adriatico: di regola piomba improvvisamente e con altrettanta rapidità si placa, portando tempo asciutto e, in inverno, freddo intenso per una durata media di 3-4 giorni. La bora è più frequente e durevole da ottobre a marzo, ma soffia anche durante la stagione estiva, per lo più per una sola giornata, senza causare abbassamento di temperatura.

    Condensazione di una massa d’aria marittima sulla catena esterna del Gran Sasso, che limita a nord il Campo Imperatore.

    Il maestrale, vento eli nordovest, soffia con molta regolarità lungo il litorale durante l’inverno, normalmente per non più di tre giorni consecutivi; spesso ha inizio verso le nove del mattino, raggiunge la massima forza nel primo pomeriggio e cade al tramonto. La persistenza di questo vento, che non solleva mai mare grosso, è indizio sicuro di prossimo scirocco.

    Lo scirocco, che proviene da sudest, frequente nella regione e talora violento, è un vento caldo umido che si manifesta per lo più accompagnato da pioggia abbondante. Al contrario della bora, esso si annunzia con segni evidenti e aumenta di forza gradualmente; insorge di solito dopo persistenti periodi di maestrale e varia come forza e durata secondo le stagioni. In estate è raramente violento e dura non più di tre giorni; spesso cessa durante un temporale e gli succede vento fresco da nordovest. In inverno dura in media una diecina di giorni ed è vento di traversia che cresce gradualmente fino ad assumere carattere e forza di burrasca, accompagnato da copiose piogge. Nei primi giorni estivi ha caratteristiche molto diverse: chiamato scirocco chiaro, non provoca temporali ed ha carattere giornaliero, prendendo forza progressivamente dalla mattina al primo pomeriggio e cadendo al tramonto; al contrario, lo scirocco marcio fa seguito, in autunno, ai periodi già lunghi di scirocco, con piogge e nebbie fino a quando non si manifestano notevoli variazioni di temperatura.

    Il libeccio, proveniente da sudovest e tanto temuto come vento di traversia sul Tirreno, è qui chiamato garbino (parola araba che significa occidente), giunge da terra e soffia in generale nei periodi di interruzione dello scirocco, piombando all’improvviso con violenza ma non conservando a lungo la sua forza; in inverno non dura mai più di due giorni, in estate poche ore. Data la sua direzione rispetto alla costa non solleva mai mare grosso.

    Infine, durante le soste dei venti principali, non mancano le consuete brezze costiere che soffiano, specialmente durante la stagione estiva, di notte dalla costa, di giorno dal mare, addentrandosi anche profondamente nelle vallate subappenniniche e portando benèfici effetti mitigatori della calura. Come pure in questa stagione, oltre ai veri e propri venti da incanalamento, sensibili specialmente lungo le valli maggiori, si possono avere brezze diurne, per lo più molto tenui, spiranti verso la parte alta delle vallate e ascendenti lungo i fianchi stessi (brezze di valle), che hanno la maggiore intensità parallelamente al massimo diurno della temperatura, e durante la notte le brezze di monte, dall’andamento opposto. Tali brezze, o venti di rilievo, si associano spesso ai venti veri e propri: sul versante settentrionale del Velino-Sirente e del Gran Sasso, per esempio, la brezza di valle è rinforzata dal vento di sudovest, mentre in estate la brezza di monte del Campo Imperatore contrasta con il vento discendente da nordest.

    Riguardo alla frequenza annua dei venti, secondo i dati raccolti dall’Eredia, il predominio spetta a quelli di nordest a Teramo, di ovest all’Aquila, di nordovest sia ad Avezzano che a Chieti; i meno frequenti sono invece quelli di sud per Chieti, Teramo e L’Aquila e di nord per Avezzano.

    In alta montagna, i dati anemometrici del Campo Imperatore ci rivelano una netta predominanza dei venti ciclonici di sudovest (60%), che determinano sul Gran Sasso copiose piogge in giugno e settembre. Frequenza molto minore (13%) hanno i venti di nordest, anch’essi apportatori di precipitazioni prevalentemente sul versante settentrionale. Vengono poi il vento di nord che ha come conseguenza lunghe gelate, talora anche primaverili, e quello di sud, spesso responsabile di violente tempeste di neve.

    Considerando infine la forza, notiamo un elevato numero di giorni con vento moderato a Pescara e, nell’interno, a Campobasso (250-270 giorni all’anno); con vento forte a Capracotta (32) e a Campobasso (24); con vento fortissimo, quasi 10 giorni di media annua a Tèrmoli, sull’aperta costa molisana.

    Le temperature.

    La caratteristica più spiccata del clima nelle due regioni è indubbiamente l’ampiezza dei contrasti termici, favorita dalla debole azione equilibratrice del Mare Adriatico. Siamo di fronte quindi a evidenti caratteri di continentalità che si rivelano nelle escursioni medie annue, assai marcate ovunque (fra i 170 e i 20°), anche nella fascia subappenninica prospiciente il mare.

    Sarà sufficiente citare l’escursione media del litorale tirrenico alla latitudine di Roma (i4°,5) e quelle di Pescara (i8°,2) e di Tèrmoli (180) per renderci conto del palese contrasto fra i due bacini. E la frequente mancanza di un graduale aumento di escursione procedendo dalla fascia marittima verso le parti montuose interne può essere resa più evidente con altri paragoni: Teramo e Chieti hanno un’escursione di 190, maggiore quindi di Pietracamela (i8°,4), Campotosto (i7°,i), Castel del Monte (i7°,6), Roccaraso (180), tanto per citare alcune fra le più elevate ed interne località abruzzesi, ed anche di Capracotta (i8°,7) e Roccamandolfì (i8°,8) nella montagna molisana. In contrapposto, l’escursione annua meno accentuata si verifica a Capistrello (i6°,3), in un’area influenzata dall’effetto mitigatore del Tirreno attraverso il lungo solco della Val Roveto.

    Dove invece è manifesta una netta differenza fra i settori marittimo e montano delle due regioni è nella distribuzione delle temperature medie annue, comprese frai 12° e i 160 nell’Abruzzo adriatico e nel basso e medio Molise, fra gli 8° e i 120 all’interno. Naturalmente, seguendo la regola generale, si può osservare una progressiva diminuzione delle medie a seconda della maggiore elevazione sul livello del mare, calcolabile mediante il normale gradiente termometrico di o°,5Ó ogni 100 m. di altitudine. Così a Pescara, sul mare, la media è di 150, mentre all’Aquila (m. 735) è di 12°,2, a Scanno (m. 1030) di io0,2, a Campo Imperatore (m. 2125) di 3°,3-A Tèrmoli, sulla fascia costiera che ha le temperature medie più elevate nei tratti frentano e molisano, la media è di i6°,i, a Campobasso (m. 786) di i2°,9, a Capra-cotta (m. 1400) di 90,2.

    Ma il normale gradiente termometrico è in molte plaghe decisamente contraddetto da anomalie determinate dalla disposizione ed esposizione dei rilievi, fattore importantissimo che determina una cospicua varietà di microclimi locali. E infatti dovuta a un microclima l’esistenza del piccolo ghiacciaio perenne del Calderone (2867-2680 m.), considerando che è notevolmente al di sotto dell’isoterma o° concordemente stabilita da vari studiosi all’altitudine di circa 2900 m. nel gruppo del Gran Sasso.

    Vedi Anche:  Le altre attività primarie: allevamento e pesca

    E se nelle zone più interne già sui 700 m. di quota ci troviamo normalmente al di sotto dell’isoterma di 120 (Avezzano, m. 695, t. m. n°,4; Capistrello, m. 725, t. m. ii°), ciò nonostante si può notare una zona termica con medie superiori ai 120 che penetra all’interno della Val Pescara lungo il solco dell’Aterno e su alcuni lembi dell’altipiano aquilano (L’Aquila, m. 735, t. m. I2°,2), nella valle del Tirino fino alla conca di Capestrano e, naturalmente, nella poco elevata conca peligna (Pòpoli, m. 260, t. m. i3°,8; Sulmona, m. 420, t. m. i4°,i). Rotta con questa sacca termicamente elevata la continuità della striscia di basse temperature che copre quasi ininterrottamente la dorsale appenninica, più a sud, nel Molise, si possono trovare temperature medie alquanto alte molto all’interno e a notevoli quote (Roccamandolfi, m. 810, t. m. 12°,3; Agnone, m. 850, t. m. 120).

    Temperature medie del mese più freddo e del mese più caldo in alcune località dell’Abruzzo e del Molise.

    Le temperature invernali sono relativamente miti nell’Abruzzo adriatico e nel basso e medio Molise. Le medie del mese di gennaio, che si avvicinano agli 8° sul litorale molisano, hanno come limite di questa fascia l’isoterma di 40 che tocca i margini subappenninici con una sacca all’interno raggiungente la conca peligna e una notevole espansione nel Molise fino all’altezza di Campobasso. Al contrario, l’Abruzzo montano è il regno di temperature che vanno ritenute particolarmente basse, specialmente se messe in rapporto con la limitata distanza dal mare e con la latitudine. Si può dire che all’incirca l’isoipsa dei 1000 m. coincida nel mese più freddo con l’isoterma di o°, isolando in una cappa ghiacciata i grandi massicci e gli altipiani più elevati (temperatura media di gennaio a Campo Imperatore ~4°,3, a Campotosto -o°,g, a Pescassèroli e a Roccaraso -o°,7). Tali rigori diminuiscono notevolmente nel Molise, dove la media di o° si può trovare a Capracotta, a ben 1400 m. di altitudine.

     

    Ofena, al margine settentrionale della conca di Capestrano: detta « forno degli Abruzzi » per le sue alte temperature

     

     

     

    Diagrammi con le quantità mensili delle precipitazioni (media 1921-50), espresse in mm. di pioggia caduta, e con i valori medi mensili delle temperature (media su periodi da 10 a 30 anni), espresse in gradi centigradi, registrati in alcune località abruzzesi.

    Diagrammi delle precipitazioni e delle temperature medie in tre località molisane.

    Meno accentuati sono i contrasti fra le varie parti delle due regioni nei mesi più caldi, che sono in prevalenza il luglio per l’Abruzzo e l’agosto per il Molise. La fascia marittima è pressappoco limitata dalla isoterma dei 240, con le temperature medie elevate a Tèrmoli (25°,4), Chieti (250), e Larino (24°,8), ma anche alle maggiori altitudini le medie si mantengono discretamente alte. Basterà citare i 20°,i di Assergi Funivia (m. 1040), i 20° di Scanno (m. 1050), i i7°,2 di Pescocostanzo (m. 1395). Ciò può essere causato dal fatto che, come scrive l’Ortolani « durante l’estate il potere isolante della barriera orientale tende ad attenuarsi perchè in questa stagione interviene il surriscaldamento diurno delle conche interne, talora esaltato dalla presenza di tavolati nudi o di pareti calcaree. Il calore concentrato in alcuni punti permette di spingere ad altitudini abnormi le colture ». E con queste ragioni può essere spiegato il fatto che Ofena, situata a 531 m. sul bordo della conca di Capestrano, sia stata denominata per i suoi calori estivi « forno degli Abruzzi ».

    Resta infine da fare un breve accenno alla differenza di temperatura fra il giorno e la notte, detta comunemente escursione termica diurna e molto marcata specialmente nelle stagioni intermedie. Naturalmente essa è in particolare accentuata per

    10 più nelle plaghe interne, e soprattutto nelle conche rispetto alle zone più elevate.

    11 Demangeot cita come esempio le escursioni diurne di i3°,3 all’Aquila e di 8° al Campo Imperatore durante l’estate, facendo notare che però tale fenomeno s’inverte nella stagione invernale (5°,6 all’Aquila e 6°,3 sul Corno Grande). La spiegazione può essere trovata nel ristagno delle nebbie nei fondivalle e soprattutto nelle conche, che contribuisce a mantenere poco elevati i massimi diurni di temperatura. Tale ristagno è inoltre causa di tipici fenomeni d’inversione termica, che pare non siano infrequenti, malgrado l’instabilità che caratterizza l’Abruzzo, in special modo durante la stagione invernale che gode della maggiore frequenza delle calme atmosferiche.

    Carta a isoiete delle precipitazioni medie annue nel trentennio 1921-1950 (dalla carta del Min. LL.PP., Servizio Idrografico).

    Le precipitazioni e il manto nevoso.

    Le precipitazioni atmosferiche sono anch’esse decisamente influenzate dalla complessa disposizione orografica e dallo sbarramento esercitato dai rilievi occidentali nei riguardi dei venti umidi di ponente. Per questo i massimi assoluti delle piogge non corrispondono nell’Abruzzo all’asse delle più alte montagne, decentrate verso l’Adriatico, ma seguono l’allineamento più interno dei massicci, dai Monti Sim-bruini alla Meta.

    Su questi rilievi, corrispondenti alle aree maggiormente piovose dell’Appennino centrale, cadono nelle parti più elevate circa 2000 mm. di precipitazioni annue, mentre a sud il poderoso nodo oro-idrografico del Matese, che sbarra alle masse d’aria tirreniche l’accesso al territorio molisano, ne accoglie quasi 2500 mm. E se i versanti laziale e campano, esposti a queste masse d’aria cariche d’umidità, sono maggiormente irrorati, ciò non toglie che anche su quelli vòlti a ponente, appartenenti alle nostre due regioni, si verifichino cospicue medie annue di precipitazioni.

    Così, alle falde del Matese, Boiano (m. 488), secondo la media del trentennio 1921-1950, accoglie 1305 mm. di pioggia, Guardiaregia (m. 733) 1512 mm., Rocca-mandolfi (m. 810) 1870 mm. che corrispondono al più alto tributo meteorico calcolato nei centri abitati delle due regioni. Come pure i rilievi dei Simbruini, del Parco Nazionale e della Meta influiscono nettamente sulla quantità di precipitazioni annue di Cappadocia (m. 1157), Pescassèroli (m. 1150) e Civitella Alfedena (m. 1084), che ricevono rispettivamente 1611, 1509 e 1572 mm. di pioggia all’anno.

    Il gradiente pluviometrico, che sul versante tirrenico giunge a valori cospicui, da 200 a 300 mm. d’acqua ogni 100 m. d’altitudine, si attenua notevolmente all’interno. Per trovare, al di là dello sbarramento dei massicci occidentali che formano, come scrive l’Ortolani, un vero e proprio « muro di pioggia », altre zone di abbondanti precipitazioni, bisogna raggiungere la « cordigliera » orientale, incombente sul Subappennino adriatico, dai Monti della Laga alla Maiella. Qui le piogge, più che cicloniche, sono essenzialmente orografiche, e raggiungono sulle parti sommitali circa 1500 mm., con una zona alquanto vasta attorno nella quale si sorpassano costantemente i 1000 mm., eccettuata l’interruzione dovuta alla Val Pescara seguita dal solco dell’Aterno e dalle conche e ripiani intermontani dove si assiste, al contrario, a fenomeni di spiccata aridità.

    Roccacasale, località dalla piovosità alquanto accentuata a causa della posizione ai margini della conca peligna, addossata al rilievo del Morrone.

     

    Piogge particolarmente abbondanti si verificano alla base della Maiella, nell’ampio corridoio fra questa e la Montagna del Morrone: Roccacaramànico (m. 1050) accoglie 1402 mm. di precipitazioni annue, Salle (m. 450) 1346, malgrado la mediocre altitudine. Altra zona di copiose precipitazioni è infine quella del Gran Sasso, dove sul versante adriatico vengono superati di gran lunga i 1000 mm. anche ad altitudini alquanto limitate: Isola del Gran Sasso (m. 419, mm. 1275), Castelli (m. 600, mm. 1339), Fano a Corno (m. 700, mm. 1468). Anche su questo versante è stata notata un’attenuazione del gradiente pluviometrico dalla costa verso l’interno: di circa 120 mm. ogni 1000 m. da Pescara a Isola del Gran Sasso, esso si stabilizza sui 40 mm. circa, salendo verso le cime sulle quali le precipitazioni dovrebbero aggirarsi intorno ai 2000 millimetri.

    Fra i due bordi appenninici a precipitazioni accentuate, la regione interna abruzzese racchiude numerose aree dove le piogge diminuiscono bruscamente fino a toccare medie assai scarse, assolutamente abnormi per una zona montana peninsulare. Già si può comprendere l’eccezionalità del fenomeno considerando che sui massicci centrali, come il Velino-Sirente, al di sopra dei 2000 m. di altitudine si verificano medie annue che non raggiungono mai i 1500 mm. e che spesso restano sotto i 1250.

    Ma nella maggior parte delle conche, cinte dagli alti rilievi che sbarrano l’accesso dei venti umidi, le piogge raramente toccano, come ad Avezzano (m. 697) la media di 800 mm. Specialmente nelle parti centrali, questi bacini interni hanno una quantità di precipitazioni al di sotto dei 700 mm. : L’Aquila, m. 735, mm. 695; Bazzano, m. 594, mm. 619; Sulmona, m. 420, mm. 647. E non è infrequente notare sopra di essi il cielo terso, mentre le montagne circostanti sono incappucciate da dense nuvole scure apportatrici di pioggia. Del resto, basta raggiungere i margini che la situazione cambia improvvisamente con l’incombere dei rilievi; è estremamente indicativo a questo riguardo l’esempio di Roccacasale, aggrappata alle prime ripide pendici del Morrone a 500 m. di altitudine sul bordo settentrionale della conca peligna e distante in linea d’aria da Sulmona soltanto 9 km., che riceve ben 1032 mm. annui di pioggia.

    Lungo l’asse centrale dell’altipiano aquilano, infine, fra il solco dell’Aterno e la testata della valle del Tirino (conca di Capestrano) si raggiungono le più basse medie annue di tutto l’Abruzzo interno, addirittura al di sotto dei 600 mm. (Capestrano, m. 497, mm. 544; Barisciano, m. 810, mm. 593).

    Al di là della bastionata appenninica orientale, nell’Abruzzo marittimo e in una vasta porzione del Molise, favorito dalla mancanza di erte barriere fra l’interno e il mare, le piogge diminuiscono rapidamente procedendo verso il litorale, secondo i caratteri di un clima più propriamente mediterraneo. Nel settore aprutino si estende parallela alla costa una fascia alquanto ampia dove le precipitazioni rimangono al di sotto dei 700 mm. (Nereto 695, Roseto degli Abruzzi 693, Giulianova 615), con la più bassa piovosità media annua a Colonnella, al margine settentrionale.

    Nel Subappennino Frentano, fra la Pescara e il Sangro, a un’esile striscia litoranea di aridità più marcata, sotto i 600 mm. (San Vito Chietino 576), fa riscontro a breve distanza dalla costa un’area di più intense precipitazioni (Lanciano 806, Orsogna 903) che s’irraggia dal massiccio della Maiella. Più a sud, fra il Sangro e il Trigno, una fascia più ampia raccoglie un tributo che oscilla fra i 700 e gli 800 mm. (Gissi 740, Scerni 720) mentre a Punta della Penna, a nord di Vasto, è stata rilevata la media annua di 457 mm., la più bassa di ambedue le regioni.

    Nel Molise, infine, notiamo che profonde sacche di scarsa piovosità, sotto i 700 mm. annui, si addentrano notevolmente in corrispondenza con le ampie svasature delle valli del Trigno, del Biferno e del Fortore. Per un lungo tratto manca quindi una regolare progressione dal mare verso l’interno, e le maggiori o minori precipitazioni sono dovute all’influenza di limitati fattori locali: la media di Tèrmoli è di 656 mm., mentre quella di Montemitro è di 645 e quella di Toro, posto a 540 m. di altitudine a una cinquantina di chilometri in linea d’aria dal mare è di soli 661 mm. annui.

    Nembi e cumuli su Castel del Monte, versante meridionale del Gran Sasso.

    Riguardo alla frequenza annua, essa oscilla nelle due regioni fra i 66 giorni piovosi di Punta della Penna e i 115 di Campotosto (mm. 1127) e di Roccamandolfi. La differenza fra queste due ultime località di ben 743 mm. di precipitazioni a vantaggio della seconda fa intuire quanto più violente e continue siano queste sul versante orientale del Matese rispetto ai Monti della Laga. Più alta che altrove è però la frequenza delle precipitazioni al Campo Imperatore (132 giorni) malgrado che la quantità (mm. 1273) sia non molto superiore a quella di Campotosto, scarsa cioè rispetto all’altitudine di 2125 m. ma giustificata dall’esposizione della conca verso l’interno, mentre i venti umidi marittimi sono ostacolati dalla catena settentrionale del Gran Sasso. Insolitamente scarso è il numero dei giorni piovosi (79) a Vastogi-rardi, che con ben 1427 mm. di precipitazioni annue fa pensare a violenti rovesci. Le frequenze minori sono sempre collegate a scarsa quantità di piogge: 68 giorni a Portocannone (mm. 690), 71 a San Vito Chietino, 72 a Roseto degli Abruzzi.

    Il regime delle piogge, cioè l’andamento delle precipitazioni durante il corso dell’anno, presenta in generale una certa uniformità nei massimi principali, che oscillano di regola fra novembre e dicembre, e negli accentuati minimi che cadono in prevalenza di luglio, molto più raramente d’agosto.

    Per quanto riguarda un tentativo di differenziazione spaziale del fenomeno, si può citare solo il Molise, nel quale la fascia costiera e la zona interna a minore piovosità (Tèrmoli, Portocannone, Toro, ecc.) hanno il massimo principale in dicembre, mentre le rimanenti zone, compreso l’alto Volturno, lo hanno in novembre (Campobasso, Agnone, Capracotta, Boiano, Venafro, ecc.). La più tormentata plastica del territorio abruzzese rende invece troppo arduo il compito. Hanno il massimo in novembre, per esempio, Cappadocia, Campotosto, Penne, Lanciano e Scanno, mentre in dicembre si può trovare a Teramo, Farìndola, Chieti, Sulmona, Pescocostanzo ; al Campo Imperatore il massimo è addirittura in ottobre. Ritengo quindi impossibile cercare di fare dei raffronti, dandone una ragione plausibile e non arbitraria.

    La stessa difficoltà si può avere per i massimi secondari, che segnano un temporaneo aumento delle precipitazioni da febbraio a maggio e che in talune plaghe molisane, specialmente marittime, mancano del tutto. Per la maggior parte i massimi secondari in aprile, eccettuata Teramo che ha oscillazioni quanto mai varie, sono una caratteristica del Subappennino Aprutino, che dalla ripresa delle precipitazioni in primavera trae indubbi benefici per l’agricoltura. In febbraio si possono notare aumenti, anche sensibili, nell’alto Volturno e sulla fascia dei rilievi più interni (Scanno, Pescassèroli, Pescocostanzo), mentre in marzo il fenomeno è quasi del tutto mancante sia nell’Abruzzo (Farìndola) che nel Molise (Vastogirardi).

    Interessante sarebbe da ultimo un’esauriente trattazione sul manto nevoso, sia per le conseguenze che esso porta all’idrografia superficiale e a quella ipogea delle grandi masse calcaree, sia per l’applicazione pratica che ne deriva, ad esempio, nel campo del turismo con gli sport invernali. Purtroppo la mancanza di dati precisi costituisce un ostacolo insuperabile. Solo gli studi dell’Ortolani, ripresi recentemente dal Demangeot, danno un apporto positivo e preciso sull’innevamento del Gran Sasso. Innevamento considerevole, se si pensa che la durata del manto nevoso è di circa 55 giorni a 1000 m. di quota, di 190 a 2000 m., dell’annata completa sulla cima del Corno Grande. Più in basso, nella conca dell’Aquila, la neve resta in media 38 giorni all’anno, discontinui e distribuiti nei tre mesi invernali, come all’incirca si verifica nella conca del Fùcino.

    Capracotta, una delle località più nevose del Molise.

    D’altra parte, l’abbondante nevosità dell’Abruzzo interno è dimostrata da vari adattamenti umani all’ambiente, come per esempio le numerose gallerie paravalanghe che proteggono la strada ferrata fra Sulmona e Castel di Sangro. Assai frequenti sono le bufere di neve sull’altipiano delle Rocche e su quello delle Cinquemiglia.

    Nel Molise, la località dove si riscontrano le maggiori precipitazioni nevose è Capracotta, nota per l’eccezionale durata della coltre che raggiunge i 120-140 giorni all’anno, per lo più dalla fine di novembre ai primi d’aprile. Ma in genere per le altre zone meno elevate la media dei giorni di permanenza della neve si aggira intorno ai 20 annui (Campobasso 23, Spinete 25).

    I vari aspetti della vegetazione abruzzese e molisana.

    La varietà geologica, morfologica, altimetrica e climatica delle due regioni, e in specie dell’Abruzzo, non può non trovare una parallela corrispondenza nel paesaggio vegetale. Per questo l’Abruzzo può essere considerato come una delle regioni italiane che destano il maggiore interesse dal punto di vista fitogeografico: interesse determinato precipuamente dalla varietà e dalla originalità di certe formazioni vegetali che, favorite dalla presenza delle più elevate montagne appenniniche, mostrano in vari casi caratteristiche uniche in tutta l’Italia peninsulare e particolari specie endemiche.

    Dovendo descrivere le caratteristiche del paesaggio vegetale abruzzese e molisano si manifesta opportuna una suddivisione in quattro zone: i) la fascia costiera e le colline subappenniniche; 2) le valli interne e le conche intermontane di media e bassa altitudine; 3) la regione montuosa interna; 4) le alte vette.

    La vegetazione della fascia costiera e delle collme subappenniniche.

    Comprendente all’ingrosso un territorio parallelo alla costa che si spinge all’interno per una trentina di chilometri fino ad un’altitudine di 500-600 m. (700 nel Molise), la zona subappenninica si presenta in gran parte coltivata, e quindi ben pochi residui di vegetazione spontanea restano oggi a testimoniare quello che doveva essere il suo paesaggio vegetale originario.

    La costa, che si presenta per lungo tratto sabbiosa, specialmente a nord di Ortona, ospita una caratteristica vegetazione psammofila, cioè costituita da piante tipiche dei litorali arenosi, come l’erba medica marina (Medicago marina), la coda di topo (Lagurus ovatus), l’ammofila (Ammophila arenaria), graminacea capace di consolidare le dune costiere per mezzo del suo apparato radicale, le ombrellifere spinose e i tamerici. Veri e propri boschi costieri non esistono ormai più lungo il litorale, quantunque una volta forse il pino d’Aleppo e il pino domestico abbiano avuto una certa diffusione; oggi le poche pinete che si osservano qua e là sono completamente di origine artificiale, cioè dovute a rimboschimenti più o meno recenti.

    Verso Ortona e Vasto il litorale si presenta più mosso e roccioso: scompaiono le piante psammofile e s’insediano invece sulle rocce sporadici popolamenti di piante rupicole, caratteristiche di rocce litoranee, dove vivono periodicamente spruzzate dalle onde del mare e quindi in un ambiente ricco di salsedine. Fra queste piante sono comuni l’enula a foglie carnose (Inula crithmoides), la violacciocca (Mattinola incarta), la statice (Statice cancellata) e numerose altre. Allontanandosi dal mare, dove i ripidi pendii cominciano ad attenuarsi, qualche lembo di vegetazione mediterranea costiera residua (macchia) resiste all’incessante avanzare delle colture: così qua e là si osservano le macchie a fillirea o lillatro, a mirto, a lentisco, e, più frequenti specialmente sulle colline più interne del Molise, le basse macchie a cisti, rosmarino, eriche e ginepri, piacevoli nei loro colori e per i loro aromi, ma purtroppo tristi documentazioni di una degradazione sempre più spinta della primitiva foresta mediterranea. Dove l’azione distruttrice dell’uomo e degli agenti atmosferici si è fatta sentire in modo più marcato è scomparsa anche la macchia, sostituita talora dalla garriga, talora da una vegetazione steppica ad ampelodesma (Ampelodesmos tenax), rigogliosa graminacea dai culmi alti anche più di due metri che emergono da grossi ciuffi di foglie taglienti.

    Lembi superstiti di vegetazione spontanea al limite fra l’Appennino e il Subappennino Abruzzese, presso Pescosansonesco.

    Penetrando dalla costa verso l’interno, le colline sono intensamente coltivate e la vegetazione naturale è ridotta ormai a pochi lembi sparsi qua e là, spesso di piccole dimensioni, ma utili ad illustrarci quello che doveva essere il paesaggio di questa fascia collinare fino a qualche millennio fa. Il tipo di bosco più caratteristico di questi lembi è il querceto di roverella (Quercus pubescens), ultimo residuo di tutta quella fascia boschiva che una volta doveva spingersi dalla Romagna alla Puglia e che era costituita da querce a foglia caduca, in prevalenza roverella e cerro (Quercus cerris). Questi boschetti, molto sporadici dal Tronto alla Pescara, divengono assai più frequenti nel Molise, dove si spingono anche a discrete altitudini (i 100-1200 m.), spesso mescolati ad altre querce come il farnetto (Quercus frainetto) e la rovere (Quercus petraea). Mentre il bosco di roverella in genere è più aperto e meno rigoglioso, dove questa specie si mescola al cerro e alle altre querce dà luogo a formazioni più dense con più compatto rivestimento di arbusti e di erbe, che già preannunciano la vegetazione montana. Il cerro infatti è pianta più tipicamente montana rispetto alla roverella e oltre i 1000-1100 m. diviene prevalente.

    Nelle zone collinari infestate dai calanchi, che l’uomo spesso è incapace di rendere stabili se non a prezzo di grandi opere di bonifica, vegetano alcune piante alle quali la compattezza del suolo argilloso, le frequenti frane e il tipico microclima spiccatamente inospitale (con fortissime escursioni termiche) non provocano danni apprezzabili. Si tratta ovviamente di piccole piante legnose o erbacee resistenti — pochi alberi potrebbero vegetare in queste condizioni d’ambiente — che costituiscono la cosiddetta vegetazione « argillofila ». Fra le piante più tipiche vi sono l’artemisia cerulea (Artemisia coerulescens), numerose piccole graminacee xerofile (Monerma cylmdrica, Aegilops ovata, ecc.) e poche altre specie capaci di resistere in un ambiente così inospitale.

    Nella parte sudorientale dell’Abruzzo e in quasi tutto il Molise un altro aspetto di vegetazione collinare e submontana si presenta con una certa frequenza. Sui numerosi pendii più o meno denudati, sulle groppe, sui dossi assolati, talora ghiaiosi, si osserva una vegetazione costituita da un tappeto discontinuo di bassi arbusti e di erbe, in cui le piccole erbe annue che spuntano fra le rocce sono inframezzate da arbusti di 20-50 cm. di altezza, legnosi, talora contorti, ricchi di fiori e spesso anche molto profumati. Si tratta della garriga e della pseudogarriga, vegetazioni rispettivamente di bassa e di media altitudine, conseguenza di un lento, costante e regolare diboscamento provocato dall’uomo da qualche millennio a oggi. Molte delle antiche macchie collinari del Molise, dei boschi di roverella degradati dal taglio, dal pascolo, dagli incendi, hanno dato luogo a vari aspetti di garriga o pseudogarriga che ora coprono estese pendici. I bassi arbusti sono per lo più appartenenti alle labiate, piante aromatiche come il teucrio montano (Teucrium montanum), la lavanda (Lavandula spica), il timo striato nelle parti più alte (Thymus striatus) e ancora altre specie come gli eliantemi (Helianthemum apenninum), l’antillide (Anthyllis montana), l’euforbia spinosa (Euphorbia spinosa). Le labiate diffondono nell’aria in maggio un acuto profumo che disturba pecore e capre, le quali rifuggono dal cibarsi di queste piante, e tale caratteristica fa sì che le colline siano spesso coperte da magri e sparuti pascoli, fioriti fino all’estate di quelle piante che gii animali hanno rifiutato.

    Vedi Anche:  origine e nome molise e abruzzo

    Pochi altri aspetti possono completare questo rapido panorama sulla vegetazione della fascia submontana adriatica. Lo sviluppo delle colture porta come conseguenza l’abbondanza delle vegetazioni ruderali e segetali: ampiamente rappresentate sono quindi quelle piante che, in via diretta o indiretta, sono legate alla presenza dell’uomo. Tali sono ad esempio i papaveri, i fiordalisi, i gladioli, gli adonidi e tutte le altre specie che in primavera e all’inizio dell’estate allietano dei loro colori le colture, i prati, i bordi delle strade, le siepi.

    Tratti boschivi nella valle del fiume Velia, verso il piano di Campo di Giove.

    Lungo i maggiori fiumi alcuni lembi di vegetazione fluviale arborea ravvivano il monotono paesaggio collinare: boschetti residui di pioppi, salici, ontani, frassini, spesso rinvigoriti o alterati nella loro composizione dall’intervento dell’uomo, denunciano anche da lontano la presenza dell’acqua.

    La vegetazione delle valli interne e delle conche intermontane di bassa e media altitudine.

    Una delle caratteristiche fitogeografiche più interessanti della regione abruzzese consiste nella penetrazione della vegetazione mediterranea in plaghe che, per clima e posizione geografica, dovrebbero quasi esserne prive. E noto come lungo le coste tirreniche e nelle isole la vegetazione di tipo mediterraneo sia ampiamente rappresentata, mentre si presenta sporadica, quando addirittura non manca del tutto, nella fascia costiera adriatica. La macchia tipica, che dal Salento e dalle Murge si spinge fino al Gargano, si riduce a degli esigui popolamenti almeno nelle sue forme più caratteristiche, quando si entra nel Molise.

    Mentre quindi gli aspetti della vegetazione mediterranea sono scarsi o addirittura assenti lungo l’Adriatico, li ritroviamo più frequenti e meglio caratterizzati spostandoci verso l’interno, cioè nel Sannio, nel Molise occidentale e addirittura nella conca aquilana. Le alte valli del Volturno e del Liri, le conche di Sulmona e, in minor grado dell’Aquila ospitano una vegetazione che non di rado presenta gli aspetti tipici del bosco mediterraneo. Lo stesso olivo, pianta che è ritenuta indicatrice di vegetazione mediterranea, si spinge in coltura fino in Val Roveto e nell’alto Volturno, sotto l’influsso delle masse d’aria provenienti dal Tirreno. Al di là dello spartiacque, si ritrova solo nella bassa conca peligna, sui pendii a più favorevole esposizione (Prezza, Raiano), mentre supera eccezionalmente l’altitudine di 500 m. nell’alto Tirino (bacino di Capestrano), vera e propria isola climatica. Nelle zone interne più elevate l’olivo si trovava solo nella conca fucense, sul bordo esposto a solatio, e la sua presenza era dovuta unicamente all’influenza equilibratrice delle acque. Infatti il prosciugamento del lago ha portato gradualmente alla sua scomparsa. Per il resto, la specie legnosa che sostituisce l’olivo e si adatta in modo straordinario ai rigori del clima delle regioni interne è il mandorlo, essenza sub-mediterranea che risale in coltura dalla Puglia e raggiunge inattesi limiti alti metrici (1200-1300 m. sul versante meridionale del Gran Sasso), prosperando e fruttificando fra 700 e 1000 m. nelle alte depressioni carsiche interne (Barisciano, Navelli, San Demetrio ne’ Vestini). Si può dire che il mandorlo costituisca nell’Abruzzo un vero e proprio indice di continentalità.

    Le valli più aperte e i grandi bacini intermontani sono prevalentemente coltivati e quindi la vegetazione spontanea si limita spesso ad una fascia intorno alle conche. Queste pendici sono appunto costituite da boschi mesofili (querceti di roverella, boschi misti, cerrete) inframezzati da lembi di vegetazione mediterranea. I querceti occupano la maggior parte di queste pendici e si spingono fino a circa iooo m. ; oltre questa altitudine però la roverella diviene sporadica e il cerro prende il sopravvento, costituendo quindi il passaggio all’orizzonte della vegetazione montana.

    Da quanto è stato esposto, risulta chiara quella che è una delle caratteristiche più salienti della vegetazione abruzzese, cioè l’estrema scarsità dei boschi di castagno nella fascia del castanetum. Castagneti da frutto alquanto estesi possono essere trovati solo sui Monti Carseolani a nord di Sante Marie e presso Carsoli, Tufo e Pietrasecca, mentre aree limitatissime si trovano nella Val Roveto (Canistro, Ci vitella). Nelle valli interne si possono sviluppare anche boschi misti, nei quali la roverella e il cerro appaiono generalmente come elementi dominanti, accompagnati però da frassini, aceri, carpini, nocciòli e dalla carpinella (Ostrya carpini/olia), tipico elemento balcanico che dimostra gli stretti collegamenti che possiede la vegetazione d’Abruzzo con quella della Penisola Balcanica. Tali popolamenti, che si presentano sotto forma arborea o arborescente, sono frequenti nelle zone più interne, ben esposte, anche se non raggiungono estensioni e dimensioni di rilievo; vi è chi li ritiene addirittura i boschi tipici di queste valli interne dell’Appennino abruzzese con condizioni climatiche peculiari (alta piovosità ed elevata continentalità termica). In questi boschi misti non raro è il leccio, elemento mediterraneo che sta a dimostrare come l’interferenza della vegetazione termofila in questi boschi più mesofili sia sempre elevata.

    Boschi alla base del Monte Magnola, presso Ovìndoli.

    I lembi di vegetazione mediterranea di questi bacini interni si presentano qua e là come macchia tipica, cioè costituita da fillirea, corbezzolo, oleastro, ecc. (come ad esempio a Raiano); più spesso tali popolamenti sono riferibili ad una pseudomacchia, cioè ad una vegetazione più elevata, quasi boschiva, impoverita però di numerosi elementi mediterranei sempreverdi, sostituiti da piante più mesofile, spesso caducifoglie. Al leccio, alla ginestra, al viburno (Viburnum tinus) e alle altre specie mediterranee si accompagnano infatti il terebinto (Pistacia terebinthus), il tiglio (Tilia europea), il sorbo (Sorbus aucuparia) e numerosi altri alberi o arbusti di clima più temperato.

    Le conche di media altitudine (1200-1400 m.), a differenza di quelle più sopra illustrate, non sono sottoposte a coltura ma vengono utilizzate come pascoli, dei quali rappresentano fra i più tipici esempi dell’Appennino. Si tratta in verità di veri prati-pascoli, che potrebbero cioè essere falciati e successivamente pascolati, anche se questa pratica viene poco seguita essendo queste zone destinate quasi esclusivamente a semplice pascolo. Tali prati-pascoli montani (che non vanno confusi con i pascoli di altitudine che coprono molte delle cime abruzzesi) occupano queste conche pianeggianti più o meno umide con i loro folti tappeti erbacei costituiti prevalentemente da graminacee, come le agrostidi (Agrostis alba e altre specie), il brachipodio (Bra-chypodium pinnatum), la poa (Poa trivialis) e talora felci, come la felce aquilina, asfodeli, e piante dai fiori vivaci; nelle zone più asciutte alle agrostidi si sostituiscono altre graminacee, come la cheleria (Koeleria splendens), il bromo (Bromus erectus) ed altre specie tipiche del cosiddetto « xerobrometo ». Di questo tipo sono i pascoli che rivestono ad esempio l’altipiano delle Rocche, il Piano delle Cinquemiglia, il Quarto Grande e il Quarto di Santa Chiara, a Pescocostanzo.

    Particolare menzione merita la piana di Campotosto (altitudine media, m. 1300), che è stata recentemente trasformata in lago artificiale (1951), causando la scomparsa di una tipica vegetazione palustre che rappresentava uno dei più interessanti aspetti di tutta la vegetazione dell’Appennino centrale. Questa piana ospitava una estesa torbiera, una delle pochissime dell’intero Appennino, costituita in grande prevalenza da muschi e sfagni, che formavano un tappeto feltroso molto spesso (anche 15-20 metri!), perennemente imbevuto di acqua, sul quale vivevano numerosissime piante palustri come eriofori (Eriophorum angustifolium), càrici (Carex vulpina e numerose altre specie), giunchi, graminacee idrofile, ecc., oggi quasi completamente scomparse.

    Pineta alla Piana delle Mele, sopra Bocca di Valle (Maiella)

    La vegetazione montana.

    Con questo termine si indicano quegli aspetti di vegetazione, prevalentemente forestale, che dai 1000-1100 m. si spingono fino al limite superiore del bosco. Ovviamente ne sono interessati soltanto i gruppi montuosi più ampi ed elevati, i quali presentano spesso vaste pendici nude, ricoperte da lembi di pseudogarriga : si tratta di espressioni di altitudine di questa forma di vegetazione degradata, che trapassano insensibilmente alle vegetazioni di pascolo e di roccia dell’alta montagna.

    Ma l’aspetto più interessante e caratteristico della montagna abruzzese è rappresentato dalle foreste. Il limite inferiore di questo orizzonte montano è costituito dai boschi di cerro. E già stato detto come questa quercia si mescoli alla roverella nei boschi submontani; al di sopra dei iooo m. però la roverella è sempre più rara e il cerro viene a costituire boschi d’alto fusto quasi puri (cerrete), che specialmente nel Molise raggiungono aspetti veramente grandiosi, fra i più belli d’Italia, con piante di notevoli dimensioni. La cerreta, che in basso può scendere anche a 700-600 m., si spinge fino a 1300-1400 m., e a questa altitudine lascia decisamente il posto ad un altro tipo di foresta montana, la faggeta.

    Questa foresta compare in forma sporadica a 1000-1100 m. e prende il sopravvento intorno ai 1300-1500 m. ; il suo limite superiore, che corrisponde anche al limite della vegetazione arborea, oscilla intorno ai 1800-1900 m. a seconda della latitudine e della esposizione (Monti della Laga, 1800-1850 m. ; Monti della Màrsica e Matese, 1900-1950 m.). La faggeta, talora cedua, è prevalentemente d’alto fusto e si presenta in questo caso come un bosco denso, ombroso, quasi puro, cioè costituito in grandissima prevalenza da faggi. A questi si possono mescolare talora, specialmente ad altitudini meno elevate, altri alberi sia caducifogli, come tigli, aceri, sorbi, ornielli, che sempreverdi, come il tasso (Taxus baccata) e l’agrifoglio (Ilex aqui-folium); mentre nel tappeto erbaceo abbondano gli anemoni, le felci, gli ellebori, i ranuncoli e le tipiche piante di faggeta come l’asperula (Asperula odorata) e la dentaria (Dentaria bulbifera).

    Un aspetto particolarmente interessante, anche se meno frequente, delle faggete di minore altitudine è rappresentato dalla presenza dell’abete bianco (Abies alba). Questa pianta, un tempo certamente molto più abbondante, si è ormai notevolmente ridotta a causa dell’intervento dell’uomo, che ne ha utilizzato largamente il legno impoverendo le foreste; ma è ragionevole ritenere che fino a un’altitudine di 1500-1600 m. la foresta tipica di tutto l’Appennino abruzzese dovesse essere costituita da una mescolanza di faggio e di abete, con predominanza talora dell’uno e talora dell’altro. A testimonianza di ciò sussistono ancora oggi larghe tracce di faggete miste ad abete o di abetine quasi pure, come nel Bosco Martese in provincia di Teramo (dove il Furrer misurò piante di abete di più di 5 m. di circonferenza) e in numerosi boschi del Molise, dove all’abete si associano, anche se in misura ridotta, cerri, roveri, aceri, tigli, oltre naturalmente ai faggi; e qui questa conifera si rigenera spontaneamente con straordinario vigore, come lo annunciano le numerose plantule di abete che si possono osservare in questi boschi, a dimostrare come questo sia veramente l’ambiente ideale per il suo sviluppo.

    Oltre all’abete bianco, altri boschi di conifere sono relativamente frequenti nell’Abruzzo interno: si tratta però in generale di rimboschimenti di pino nero (Pinus nigra), diffusissimo ad esempio nella conca aquilana anche se facilmente soggetto ad attacchi parassitari, di pino silvestre (Pinus silvestris) e di altre specie di conifere per lo più proprie delle Alpi o anche di altri territori d’Europa. Un cenno a parte merita il cosiddetto « pino nero di Villetta Barrea », razza di pino nero trovata per la prima volta nell’alta valle del Sangro e presente qua e là ancora allo stato spontaneo (Camosciara, Monte Meta). Queste pinete si trovano ad altitudini comprese fra i 1000 e i 1350 m., e costituiscono quindi un tipo di bosco che sostituisce il faggio nei suoi limiti più bassi e in condizioni climatiche particolari ; questi pini sono infatti piante amanti di clima più caldo e di substrato calcareo, e vivono solo in valli interne e ben esposte, anche se allo stato coltivato si dimostrato molto frugali, sopportando climi ben più rigidi e terreni inospitali.

    Limiti del bosco ceduo al piano di Primo Campo, presso Pescocostanzo.

    Conoide e pendii a ceduo al limite nord del Piano di Castiglione.

    Al di sopra dei 1600 m. il faggio resta generalmente solo a dominare le foreste abruzzesi. La faggeta pura presenta esempi maestosi e imponenti un po’ dovunque, anche se l’intervento dell’uomo l’ha ridotta spesso da fustaia a bosco ceduo; le foreste del Parco Nazionale d’Abruzzo, di alcune zone del Molise e del Matese ne sono appunto fra i più rigogliosi e splendidi esempi.

    Non si può terminare il nostro panorama fitogeografico sull’orizzonte montano della vegetazione abruzzese senza accennare a un’orchidea, la pianella della Madonna o pantofola di Venere (Cypripedium calceolati), che vegeta in pochi esemplari nei boschi del Parco Nazionale, alla Camosciara. E questa una splendida orchidea alpina, piuttosto rara anche sulle Alpi e quindi indicata fra le piante protette di quella catena; la località abruzzese dove è stata trovata riveste uno straordinario interesse perchè è l’unica finora nota di tutto l’Appennino.

    La vegetazione delle alte vette.

    Numerose vette abruzzesi oltrepassano i 2000 m. e presentano quindi una interessante vegetazione ipsofìla (o culminale).

    Come del resto in quasi tutte le altre montagne appenniniche, anche qui manca un vero e proprio « orizzonte degli arbusti contorti » al di sopra della faggeta, presente invece sulle Alpi. I rododendri, i mirtilli, i salici nani, le conifere prostrate e le piante accompagnatrici si spingono dalle Alpi fino all’Appennino settentrionale e solo qualche specie raggiunge l’Abruzzo, quasi sempre in forma sporadica. Di particolare interesse sono il pino mugo che forma una boscaglia di altitudine abbastanza regolare sulla Maiella e si trova anche sui monti della Màrsica, il ginepro montano (Juniperus nana), che sul Gran Sasso e sulla Maiella si trova sporadico in mezzo alle praterie di altitudine, e infine il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus), unica specie di mirtillo che giunge fino in Abruzzo (Gran Sasso, Monte Meta), dove resta confinato in un livello limite tra la faggeta e la vegetazione erbacea di altitudine.

    Vegetazione di pino mugo sulla Maielletta; nello sfondo, la nuda mole della Maiella.

    Al di sopra della foresta prevale quindi di gran lunga la vegetazione erbacea, che costituisce sulle montagne più basse la cosiddetta « prateria pseudoalpina ». E questo un tipo di pascolo di altitudine caratteristico dell’Appennino centrale e meridionale, che si ritiene formato in seguito all’abbassamento del limite superiore della foresta. In queste praterie in effetti si ritrovano ancora alcune erbe della faggeta e prevalgono poi graminacee, come il brachipodio (Brachypodium pinnatum) e la poa (Poa alpina), e molte leguminose. In varie cime che raggiungono o superano di poco i 2000 m. questo tipo di vegetazione erbacea è anche l’estrema vegetazione di vetta. In altri casi tuttavia al di sopra di questo livello si formano, su substrato roccioso calcareo, associazioni erbacee discontinue che costituiscono i veri pascoli appenninici di altitudine. Sulle montagne abruzzesi questi pascoli sono costituiti dal seslerieto, associazione erbacea caratterizzata da graminacee come la sesleria (Sesleria tenui/olia) e la festuca violacea, ciperacee come la càrice liscia (Carex laevis) e molte altre specie.

    Nelle cime più alte ai pascoli subentrano le pietraie, i detriti, i ghiaioni. In questo ambiente così povero e apparentemente inospitale vivono numerose specie caratteristiche della vegetazione abruzzese di altitudine, come la tipica festuca dimorfa, curiosa graminacea cespitosa così detta per la presenza di foglie di due tipi partenti dallo stesso cespo; l’eracleo dell’Orsini (Heracleum orsinii), vistosa ombrellifera tipica dei ghiaioni più mobili; la stella alpina d’Abruzzo (Leontopodium nivale), una piccola e minuta «edelweiss» dei Monti Sibillini, del Gran Sasso e della Maiella; e ancora altre piante esclusive dell’Appennino (Drypis spinosa, Astragalus sirinicus, ecc.) o diffuse anche sulle Alpi (Silene acaulis, Papaver alpinum, ecc.). Su queste pietraie e ghiaioni la vegetazione si presenta ormai sporadica, a ciuffi, a piccole isole, che le graminacee più resistenti tendono a consolidare, ove il pendio e le dimensioni delle ghiaie lo permettono.

    Interposte fra i ghiaioni e i detriti e al di sopra di essi vi sono le pareti rocciose, i ripidissimi colatoi compatti, le vette. Questi ambienti ovviamente ospitano pochissime piante che tuttavia sono fra le più interessanti dell’Abruzzo. Sui ripidi pendii vegeta ad esempio la driade o camedrio alpino (Dryas octopetala), comune anche sulle Alpi ma rarissima nell’Appennino settentrionale, mentre frequenti sono i salici nani. Sulle rocce, oltre i 2500 m., vivono accantonati i più bei gioielli della flora ipsofila d’Abruzzo: oltre alla già nominata stella alpina d’Abruzzo, vi si osservano la sassifraga tridentata (Saxifraga tridens), l’armeria della Maiella (Armeriamajellensis), l’artemisia erianta, il cerastio di Thomas (Cerastium thomasii) e, solo sulla Maiella, il papavero di Burser (Papaver burseri), oltre a numerose altre che sarebbe troppo lungo elencare.

    Vegetazione a radi ciuffi erbosi

    sul pendio esterno del Campo Imperatore.

    In secondo piano, la stazione della funivia e l’albergo.

    Giunti alle vette il nostro panorama della vegetazione di altitudine potrebbe considerarsi terminato. Tuttavia non possiamo non accennare a due altri aspetti della vegetazione erbacea delle alte montagne abruzzesi : i nardeti e i pascoli dei pianori di altitudine. In alcune zone più esposte ed aperte e dove il suolo si è fatto profondo e acido compare una sottile graminacea a cespi compatti, il nardo o cervino (Nardus strida), che forma estese praterie monotipiche, dense, feltrose e resistentissime ; questo tipo di vegetazione sopporta facilmente l’azione degli animali pascolanti e il calpestio, e quindi una volta sostituitosi ai pascoli primitivi (seslerieti, festuceti) resta a lungo inalterato anche per ampie estensioni. L’azione del nardo è però negativa in tutti i sensi: anzitutto perchè il suo valore pascolivo è scarso, e d’altra parte perchè

    se per fenomeni di erosione o frane la copertura feltrosa del nardeto viene asportata, la ricostruzione della vegetazione avviene con estrema lentezza o può anche non avvenire affatto, originandosi così quelle macchie denudate di terreno compatto che infestano largamente gli alti pascoli di tutto l’Appennino.

    Dove invece il terreno si presenta pianeggiante, fresco, e forma ampie conche o anche piccole vallette, la vegetazione erbacea si trasforma dando luogo ad una associazione a trifoglio cespitoso (Trifolium thalii), spesso inframezzato con altre piante come la festuca violacea, le piantaggini, ecc. Di questo tipo sono ad esempio molti dei pascoli pianeggianti del Gran Sasso (come al Campo Pericoli e al più esteso Campo Imperatore), del Velino, del Sirente, dei Monti Marsicani.

    Nei pascoli dove il bestiame si sofferma a lungo e presso gli stazzi, si sviluppa invece una tipica vegetazione « nitrofila », legata appunto all’alto contenuto in nitrati nel suolo che è la conseguenza della presenza più o meno continua del bestiame. Questa vegetazione è costituita da alte erbe rigogliose fra le quali prevalgono l’ortica, il rómice, i cardi, gli alti verbaschi dai vivaci fiori gialli.

    Il fantastico paesaggio « lunare » delle nude groppe calcaree sul versante meridionale del Gran Sasso, presso il lago di Filetto.

    La flora e la vegetazione di altitudine dell’Abruzzo sono senza dubbio gli aspetti botanicamente più interessanti del paesaggio vegetale della regione. Insieme con vasti problemi pratici, come il razionale sfruttamento dei pascoli e la difesa da una intensa e disordinata utilizzazione, la vegetazione abruzzese d’alta quota presenta vari problemi fitogeografici di puro valore teorico, ma di grandissimo interesse scientifico. L’elevata quantità, ad esempio, di piante di origine balcanica ci deve convincere che i legami fra la flora abruzzese e quella delle vicine montagne illiriche sono stati e sono tuttora molto stretti; e proprio l’esistenza di questi legami ci può spiegare come, attraverso i passati millenni, il popolamento vegetale abbia raggiunto la fisionomia che noi oggi vediamo. Questa affinità con la flora e la vegetazione balcanica è dimostrata del resto anche negli aspetti del paesaggio vegetale di altitudini più modeste, come i boschi submontani e montani : il cerro ed altre querce, la carpinella, il carpino orientale sono tutte specie il cui centro di diffusione è situato nella Penisola Balcanica e che raggiungono nell’Abruzzo e talora nelle regioni tirreniche meridionali il loro limite occidentale.

    Quali siano state le vie che hanno portato a costituire gli attuali aspetti del popolamento vegetale di questa regione è oggi difficile dire: sicuramente vi sono state più vie di penetrazione che hanno tutte contribuito a ciò. Dall’Europa e dalle Alpi attraverso l’Appennino sono scese specie tipiche di climi più freddi alla ricerca di ambienti a loro propizi, mentre dalla Sicilia e Calabria devono essere risalite piante mediterranee, che spesso non hanno oltrepassato l’Abruzzo nella loro marcia verso il nord. Durante il Terziario i collegamenti fra la penisola italiana e la Balcania attraverso il ponte adriatico (una lingua di terra emerse a livello del Gargano) devono sicuramente aver favorito il passaggio di piante dall’Italia alla Penisola Balcanica e viceversa: e in questa marcia verso occidente l’Abruzzo con le sue catene montuose e le sue conche interne, occupate allora da superfici lacustri, deve aver rappresentato un importante centro di arrivo o forse anche un « nodo di smistamento ». Tuttavia, almeno fino ad oggi tutte queste considerazioni, anche se confortate da importanti dati di fatto, restano semplici ipotesi, sia pure molto attendibili e altrettanto affascinanti.