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Fiumi, ghiacciai e laghi

    Le acque

    Corsi d’acqua

    Come, parlando di montagne, non abbiamo volutamente dato gli estremi dei vari gruppi e delle singole cime, pensando che questi elementi di misura possono essere più compiutamente forniti dalle carte e dalle guide, così a proposito di torrenti e di fiumi non crediamo sia il caso di passarli in minuziosa rassegna, uno per uno. Conformemente alla disposizione semicircolare delle Alpi Occidentali, il Piemonte ha una rete idrografica a raggiera. Ma mentre nel restante della valle padana unico è il collettore dei deflussi che scendono dai suoi fianchi, in Piemonte la rete ora ricordata appare ripartita nei due sistemi del Po e del Tanaro, confluenti all’estremo limite orientale del territorio della regione. Il percorso oggi seguito dal Tanaro attraverso le colline dell’Astigiano e del Monferrato si è stabilito di recente, perchè nel Quaternario antico il Tanaro si gettava in Po, come abbiamo già ricordato, tra Carmagnola e Carignano.

    La parte di barriera montana che manda le sue acque, piùo meno direttamente, al Po in territorio piemontese è compresa tra la vai Sesia e la valle della Stura di Demonte esclusa. La montagna tra la valle della Stura di Demonte e la valle del Lemme e dell’Orba arricchisce dei suoi deflussi il Tanaro, mentre la Scrivia se ne va per conto suo al Po, a valle della confluenza Po-Tanaro. La displuviale tra bacino del Po e bacino del Tanaro segue una linea che da Cuneo passa sull’altopiano tra Centallo, Savigliano, Cavallermaggiore da una parte, Fossano e Bra dall’altra. Poi la linea spartiacque s’inerpica sulle colline di Pocapaglia, Sommariva Perno, Mon-taldo Roero e Santo Stefano Roero, donde passa sul margine del pianalto torinese e lo segue da Valfenera, Dusino, San Paolo della Valle, a Buttigliera d’Asti. Di qui sale sulle colline di Casale Monferrato e ne segue le sommità, senza tuttavia coincidere che raramente con le direttrici altimetriche. Da Casale a Valenza e a Bassi-gnana, e cioè alla confluenza del Po col Tanaro, lo spartiacque corrisponde a gran parte delle sommità più elevate della collina. Come si vede, causa principale della mancata affluenza di tutte le acque del Piemonte verso un unico grande collettore è la presenza di quella specie di vasta rocca collinosa, piantata nel cuore geometrico del Piemonte, che naturalmente ha complicato e frazionato la rete idrografica, costringendo le sue arterie principali a notevoli deviazioni.

    Idrografia del Piemonte.

    Entro i confini ora accennati il Po raccoglie fino a Casale Monferrato le precipitazioni di un bacino avente una superficie di kmq. 13.940. Noto agli antichi col nome di Bodincus (o Bodencus), Padus, Eridanus, il Po, il massimo dei fiumi italiani (lunghezza 652 km.), si fa nascere ufficialmente dal fianco nordorientale del Monviso, dove, tra una serie di polle a varia altezza, la più nota è quella che sgorga al Pian del Re. Durante il suo breve corso montano, che è di 35 km. fino a Revello, con direzione ovest-est, il Po discende di ben 1700 m., con una pendenza media del 48,6%0. A valle di Revello, il fiume piega verso nordest e poi, costrettovi dall’avanzata delle colline di Torino, addirittura a nord, da Carmagnola a Torino. Obbligato dalla preponderante massa delle alluvioni alpine dei suoi affluenti a seguire il piede della collina a Torino, dalla città a Chivasso riprende direzione di nordest, per scorrere da Chivasso in avanti verso est, la direzione che conserva in complesso fino al suo sbocco nellAdriatico. Dopo la sua uscita in piano a Revello la pendenza del Po si riduce presto a valori minimi, dell’i-i,5°/oo nel tratto medio da Revello alla confluenza col Ticino, dello 0,03-0,02%0 di qui alla foce.

    Seguendo il richiamo del Po nel suo primo corso in pianura, i suoi affluenti cuneesi, saluzzesi e pinerolesi, la Grana, la Maira, la Varaita e il Pellice, muovono essi pure, in complesso, da sudovest a nordest, convergendo nel breve tratto tra Villafranca Piemonte e Carmagnola. Di questi fiumi due, la Maira (o Macra, 108 km., bacino 1013 kmq.), che riceve la Grana, chiamato Mellea sopra Cen-tallo, e la Varaita (85 km., bacino 455 kmq.), formato dai due rami sorgentiferi di Bellino e di Chianale, sono tributari di destra. Arriva al Po dalla sinistra il Pellice (55 km., bacino 596 kmq.), ingrossato dal Chisone (57 km.), nel quale immette la Germanasca. Girando intorno alla collina di Torino come ad un perno, i raggi della grande ruota fluviale prendono via via dimensioni e direzioni diverse. Confluiscono in Po avendo una pendenza grosso modo ovest-est due modesti fiumi subalpestri, la Chisola e il Sangone, e poi la Dora Riparia (125 km., bacino 1231 kmq.). Questa, formata da tre rami scendenti, il primo dal Monginevro, il secondo, la Ripa (donde l’appellativo dato all’insieme del fiume) dal Monte Rasin, e il terzo dal Monte Tabor, accoglie il torrente Bardonecchia e la Cenischia presso Susa e sbocca a Torino. Come tutti i maggiori fiumi delle Alpi Occidentali, longitudinale nel primo tratto, fino a Susa, la Dora Riparia si fa trasversale e quasi rettilinea nel secondo, tra Susa e Torino.

    Paralleli l’uno all’altro nel loro corso montano, che va ancora da ovest ad est, le tre Sture, di Viù, di Ala e di Groscavallo si riuniscono presso Lanzo in un solo corso, lungo una settantina di chilometri e con un bacino imbrifero di circa kmq. 900. La Stura di Lanzo in pianura assume già direzione nordovest-sudest, ed è questa la direzione che d’ora in avanti caratterizza fino ai confini del Piemonte, il percorso degli affluenti alpini del Po. Tra i quali, sempre seguendo la grande ruota, incontriamo, dopo la Stura di Lanzo, il Malone, torrente subalpestre, che a due passi dal Po si confonde con l’Orco, che ha ricevuto il torrente Soana. L’Orco ha una lunghezza di km. 80 e un bacino di kmq. 1250. Viene ora il massimo affluente piemontese di sinistra del Po, la Dora Baltea, il fiume della grande valle d’Aosta. Concorrono a formarlo una mezza dozzina di « Dorè » minori, dalle sorgentifere, che sono quelle di vai Ferret e di vai Veni, alle Dorè di Valgrisanche, di Rhèmes, di Valsavaranche. Altri affluenti di sinistra sono il Buthier (Bautegius, donde l’appellativo di Baltea alla Dora maior), il torrente di Saint-Barthélemy, il Marmore, proveniente dalla conca del Breuil, l’Evangon e il Lys: di destra, la Grand’Eyvia, scendente da Cogne, e la Chiusella. La Dora Baltea ha una lunghezza di 160 km. e un bacino di kmq. 4322.

    Sotto lo sguardo del Monviso sgorgano al Pian del Re le prime acque del Po.

    Come la Dora Baltea anche la Sesia ha l’alto corso montano longitudinale e orientato da ovest ed est. Superiormente alimentata dai ghiacciai del Rosa, la Sesia ha un corso di 138 km. e un bacino imbrifero di kmq. 2920. A monte di Varallo sulla sinistra s’accresce delle acque del Sermenza e del Mastallone: sulla destra riceve la Sessera, e poco a nord di Vercelli il Cervo, in cui immettono la Roasenda e l’Elvo, i modesti corsi d’acqua che scendono dalle montagne e dalle colline del Biellese. Relativamente lunghi, ma di corso prevalentemente pianigiano, sono i torrenti novaresi: l’Agogna (140 km.), l’Artogna, il Terdoppio (87 km.). Viene infine la Toce (83 km., bacino 1613 kmq.), il fiume della vai d’Ossola, che nasce al Passo di San Giacomo e riceve a destra i torrenti Diveria, Ovesca, Anza e Strona, ingrossato da quel caratteristico emissario del lago d’Orta che è la Nigoglia, l’unico degli scaricatori dei laghi prealpini diretto da sud a nord. La Toce si getta nel Lago Maggiore, dove confonde le sue acque con quelle del Ticino. Così si chiama anche il fiume che si forma all’uscita del lago e che, mentre costituisce il più abbondante affluente del Po, segue per lungo tratto il confine tra Piemonte e Lombardia. Sono questi i veri fiumi del « Piemonte » carducciano: «pieni, rapidi, gagliardi». Dal versante opposto, e cioè della collina tra Bra, Torino, Casale Monferrato e Valenza, non raggiungono il Po che poveri e piccoli torrentelli.

    Già frenato nel suo impeto scorre il Po a Torino.

    Quasi rivale al Po, del cui percorso ripete lo schema, oltre che suo principale tributario di destra, il Tanaro ha una lunghezza di 276 km. e un bacino di circa kmq. 8000. Nasce in provincia di Imperia col Tanarello e in provincia di Cuneo col Negraro, e dopo aver descritto, nel suo corso montano, un grande arco verso oriente, esce in pianura sotto Bastia di Mondovì. Di qui fino a Che-rasco, con andamento sud-nord e con numerosi meandri, scorre ai piedi delle Langhe. A Cherasco muta di colpo direzione, e volgendosi prima a nordest e poi decisamente ad est, percorre l’ampio corridoio che s’è scavato nelle colline astigiane e monferrine, per poi sboccare nella pianura di Alessandria. Di qui ancora con andamento sudovest-nordest raggiunge il Po. Tra gli affluenti del Tanaro che gli arrivano da sinistra vanno ricordati il Mindino a Garessio, il Corsaglia a Lesegno, l’Ellero a Bastia, il Pesio sotto Carrù, la Stura di Demonte — lunga in km. con un bacino di 1500 kmq., ingrossata a Cuneo dal Gesso e dalla Vermenagna e terminante sotto Cherasco — e nell’Astigiano il Borbore e il Versa. In gran parte modestissimi torrenti sono i corsi d’acqua che scendono al Tanaro sulla destra, venendo dalle Langhe e dall’Alto Monferrato, ma alcuni di essi — la Bormida di Millesimo con la Bormida di Spigno, l’Erro e l’Orba che ne sono affluenti — assumono rispettabili dimensioni. La Bormida di Millesimo totalizza una lunghezza di 152 km., con un bacino imbrifero di kmq. 2608. La Bormida entra nel Tanaro presso Alessandria. Al di là del Tanaro e dei suoi tributari, la Scrivia (84 km., bacino 1092 kmq.) è il primo dei grossi torrenti che l’Appennino settentrionale manda al Po.

    La Dora Riparia sembra sostare nel pianoro di Ulzio. In fondo a sinistra, il Rocciamelone.

    Il fatto di avere un tratto del corso montano longitudinale, e cioè parallelo all’andamento della catena principale del sistema alpino, non toglie che gli stessi maggiori fiumi piemontesi siano veramente precipiti nella loro corsa al piano. Cause essenziali di questo rapido divallare sono la brevità e la grande acclività del versante piemontese: aspetti del rilievo sui quali abbiamo già insistito a suo tempo, ma che acquistano particolare evidenza da alcuni dati sulla pendenza dei nostri fiumi. Gesso, Vermenagna, Maira, Varaita nel loro corso inferiore in montagna scendono tutti di circa 12 m. per chilometro. Il Pellice, superando un dislivello di 2396 m. su una distanza di 68 kmq., ha una pendenza media di 35 m. per chilometro. Un po’ più tranquillamente scende la Dora Riparia, che ha una pendenza media del 19,35 %o-Ma sui 40 km. che separano il ghiacciaio di Sea da Lanzo, la Stura di Lanzo supera un dislivello di 2270 m., e quindi ha una media pendenza complessiva di ben 55 ni. ogni chilometro. Più ripida ancora è la Chiusella con 56 metri. Dal Passo di San Giacomo a Candoglia la Toce scende di 2121 m. su un percorso di 74 km., il che equivale a 28 m. per chilometro. Il Tanaro da Ponte di Nava a Clavesana supera un dislivello di 556 m. con un percorso di 75 chilometri. E nel bacino della Scrivia, le acque che cadono sulle più alte cime e si incanalano nei primi 31 km. del corso superiore, superano un dislivello di 1319 m., il che fa 43 m. per chilometro.

    Nè si può dire che, raggiunta la pianura, i corsi d’acqua piemontesi perdano la loro irruenza e s’incanalino pacificamente tra sicure sponde. Essi devono ancora tener conto della notevole altezza media della pianura e della sensibile inclinazione delle conoidi che portano giù al piano generale lungo l’asse del Po. Il percorso che fa il Pellice nei terreni dell’alta pianura fino alla confluenza col Chisone ha una pendenza media che è ancora del 22,7 °/oo- Da Avigliana allo sbocco nel Po, la Dora Riparia, su un percorso di circa 26 km., supera un dislivello di 140 metri. La Stura di Lanzo, da Lanzo al Po, incide la sua classica conoide con una pendenza di quasi 10 m. al chilometro. Da Mongrando alla confluenza col Cervo, l’Elvo ha una pendenza media dell’8%0. E si potrebbe continuare.


    Pittoresca cascata alpina nelle vicinanze di Morgex (valle d’Aosta).

    Un’altra condizione, relativa, questa, alla natura fisica dei terreni, rende più espressive, si potrebbe dire, le cifre ora riportate: ed è la scarsa permeabilità della maggior parte dei bacini dei corsi d’acqua piemontesi. Per la vai Chisone, a monte di Fenestrelle, ad es., il coefficiente di permeabilità è appena del 2%. Il bacino della Dora Riparia, nel tratto compreso fra Sant’Antonino di Susa ed Ulzio, è permeabile nella misura del 12%. Da questi minimi centrali andando verso le ali della cerchia montana qualche area di più facile permeabilità all’acqua s’incontra. Così la Stura di Demonte, a monte di Pianche, scorre fra terreni che hanno una permeabilità del 30%. Quanto al Tanaro, poi, non fanno meraviglia quozienti di permeabilità del 37,6% a monte di Clavesana, data l’estensione dei massicci calcarei nel suo alto corso. Ma il vicino bacino della Bormida è considerato impermeabile, come è dato per impermeabile quello della Scrivia. E all’estremo opposto delle Alpi piemontesi troviamo quasi impermeabili i terreni del tratto montano del bacino della Sesia.

    Le cose cambiano naturalmente in corrispondenza alle masse incoerenti delle colline moreniche. Ma anche qui, data l’abbondante proporzione delle finissime argille d’origine glaciale, i terreni non sono così pervi all’acqua come sembra a prima vista. Quanto alle colline di Torino, del Monferrato e dell’Astigiano, i terreni permeabili corrispondono generalmente alle sabbie gialle del Pliocene superiore. I terreni permeabili aumentano naturalmente in pianura. Si deve a questi terreni se il bacino del Po fino a Meirano (Moncalieri) figura avere un quoziente di permeabilità del 46% ; se il Tanaro, fino a San Martino Alfieri, ha un bacino permeabile nella misura del 43%: e se la Sesia fino a Vercelli ha un quoziente del 37%.

    Brevità e ripidità di corso, e prevalente impermeabilità dei bacini s’accompagnano ad una condizione che attenua le loro conseguenze sullo scorrimento delle acque: quella di una rete idrografica montana, non coordinata in un sistema gerarchico di corsi d’acqua sempre maggiori, ma scompartita in un numero considerevole di fiumi e di torrenti indipendenti che, come osserva il Blanchard, seguono ciascuno la propria strada e non si raggiungono che in pianura avanzata. Tanto più che parecchi di questi corsi d’acqua, come il Sangone, la Chisola, il Malone, l’Elvo, la Roasenda, l’Agogna, non vengono dall’interno della montagna, ma dalla sua periferia. Ne deriva una modesta superficie media dei bacini fluviali nelle Alpi piemontesi. Solo la Dora Riparia, di fatto, la Dora Baltea, la Sesia, la Toce, il Tanaro hanno bacino superiore ai kmq. 1000. Vedremo tra poco le conseguenze di questa frammentazione idrologica del versante alpino piemontese.

    Ancora in tema di aspetti morfologici è da ricordare la presenza, allo sbocco di alcune valli, di una conoide di deiezione così poco compatta nei suoi materiali da assorbire l’intero deflusso del fiume, e quindi determinarne la temporanea scomparsa. E ciò avviene specialmente a sud del Pellice, dove, al posto delle più antiche conoidi asportate dalla mutata direzione dei fiumi, questi ne hanno depositato delle altre più recenti e quindi più incoerenti. Così all’uscita dal Po in pianura, dopo Sanfront, il letto del fiume va rapidamente impoverendosi d’acqua, tanto da rimanere asciutto alquanto prima del ponte sulla provinciale Saluzzo-Re-vello. E vero che, a smagrire le tumultuose correnti dell’alto Po, contribuiscono i numerosi rigagnoli derivati per bagnare le vicine praterie, ma la totale sparizione delle acque per un tratto di circa 6 km. è dovuta al suolo ghiaioso e permeabile della conoide. Finalmente a Staffarda il Po si ricompone, in mezzo ad un terreno fortemente acquitrinoso, ed assume tosto l’apparenza di fiume. Non sbagliava dunque Plinio (N. H., III, 20) quando scriveva che il Po corre nascosto in un canale sotterraneo, per rifluire, più copioso, alla superficie nel territorio dei Forovibiesi. Lo stesso fenomeno di sma-grimento della corrente ai piedi della montagna si verifica, in modo meno

    accentuato, per il corso della Varaita a partire da Venasca a Costigliole, della Maira da Villafalletto a Vottignasco, della Grana da Valgrana a Caraglio, della Stura da Vignolo a Cuneo. Ciò avviene, come appare evidente, a tutto vantaggio delle campagne sulle quali, dopo il filtraggio sotterraneo, l’acqua ricompare per essere in larga misura canalizzata e destinata alle irrigazioni. Non per nulla in questa zona la linea dei fontanili s’accosta di molto al piede della montagna ed ha una continuità di sviluppo che manca ai fontanili della pianura sottostante.

    Un tratto della Dora Baltea in valle d’Aosta. Si osservi la mole dei blocchi trasportati.


    Deflussi e regimi

    Quale massa d’acqua trascinano nel loro corso i fiumi e i torrenti piemontesi ? S’è accennato poco fa alla dispersione della rete idrografica piemontese e specialmente alla divisione dell’area scolata nelle nostre Alpi in un numero considerevole di corsi d’acqua indipendenti e quindi aventi un bacino di limitata superficie. Evidentemente, da uno stato di cose come questo non si possono attendere deflussi, e cioè portate, imponenti. Chiamando portata media annua, o, più brevemente, modulo, il numero dei metri cubi d’acqua al secondo (mc/sec.) che attraversano mediamente in un anno (o in una serie di anni) una determinata sezione del fiume, cerchiamo anzitutto di stabilire una graduatoria dei nostri fiumi per portata annua. Sotto questo riguardo viene naturalmente primo il Po, ma la sua supremazia è lungi dall’essere schiacciante. Di fatto il Po totalizza un deflusso medio annuo (1931-49) di 162 mc/sec. a San Mauro Torinese, ma il Tanaro a Montecastello non ne trascina molti di meno (129 mc/sec. nel 1923-50). Seguono la Dora Baltea a Tavagnasco con 105 mc/sec. (1925-51), la Toce a Candoglia con 68,6 mc/sec. (1933-50), la Scrivia a Isola del Cantone con 82,80 mc/sec. (1931-40). E questi sono i calibri massimi. Segue a notevole distanza un gruppo di corsi d’acqua con moduli fra i 30 e i 20 mc/sec., cominciando dalla Sesia a Ponte Aranco (1937-50) con 31,50 mc/sec; per passare alla Bormida a Cassine (1947-50), con 21,90 mc/sec.; all’Orco a Pont Canavese (1928-43 e 1948-51), con 21,20 mc/sec.; alla Stura di Lanzo (1931-50) a Lanzo con 21,40 mc/sec.; alla Dora Riparia a Sant’Antonino di Susa (1930-50) con 19,30 mc/sec., ed alla Stura di Demonte a Gaiola (1935-46) con 19 mc/sec. Dove, tra l’altro, desta una certa sorpresa lo scarso modulo della Dora Riparia. Vengono infine gli altri corsi d’acqua, tra cui ricorderemo il Chisone con 13 mc/sec., la Varaita a Rore con 5,89, il Corsaglia a Centrale Molline con 3,2, il Vermenagna a Limone con 1,93.

    Vedi Anche:  Componenti razziali e psicologiche

    Ma questi deflussi provengono da bacini assai disuguali come estensione ed allora, per conoscere meglio la loro maggiore o minore abbondanza d’acqua, è opportuno fare il rapporto fra il numero dei litri che il corso d’acqua trasporta al secondo, e il numero dei chilometri quadrati del bacino: rapporto che si chiama portata unitaria o contributo. In base, dunque, alla portata unitaria — fermi restando i periodi di osservazione e le stazioni idrometriche sopra indicate — s’identifica come gruppo meglio provvisto — e la cosa non è difficile a spiegarsi data l’abbondanza delle precipitazioni — quello dei corsi d’acqua fra la Toce (44 1/sec/kmq.), la Sesia (45,30), l’Orco (35,20), e la Stura di Lanzo (35), con in mezzo un valore inferiore presentato dalla Dora Baltea con 31,70. Tiene dietro un gruppo di corsi d’acqua che fa veramente magra figura con la Dora Riparia (18,40 1/sec/kmq.), il Chisone (22,60), la Varaita (22,40). Ma procedendo verso sud s’incontrano valori più consistenti, testimoni di una più abbondante piovosità. Così la Stura di Demonte ha contributo pari a 33,70 1/sec/kmq., la Vermenagna pure 33,70 e il Corsaglia 34,10. Assai basse portate unitarie mostrano il Tanaro (16,20 1/sec/kmq.) e la Bormida (14,8), mentre un rialzo notevole si ha in corrispondenza della Scrivia (27,30). Tra la numerosa famiglia dei suoi affluenti piemontesi non brilla certamente il Po, che a San Mauro Torinese ha la mediocre portata unitaria di 21,9 1/sec/kmq., cifra che si riduce ancora a Casale Monferrato (12,50) per effetto dei larghi emungimenti effettuati attraverso i canali d’irrigazione.

    La Dora Riparia alle porte di Torino. A destra e a sinistra, canali derivati dal fiume.

    Quanto alle portate massime e minime assolute, e cioè alle massime piene e magre, i dati di cui disponiamo si riferiscono ancora agli anni e alle stazioni idrometriche ricordate in principio. Non può sorprendere il fatto che proprio il corso d’acqua avente una più larga alimentazione glaciale, e cioè la Dora Baltea, presenti come minima assoluta la rispettabile portata di 12,70 mc/sec., che è valore massimo tra gli affluenti del Po. D’altronde il Po stesso a San Mauro ha registrato magre con 32,6 mc/sec. (ma 9 a Meirano). Ad eccezione della Toce (11,1 mc/sec.), della Stura di Demonte (6,3), della Dora Riparia (6,12), del Tanaro (6,50), la maggior parte dei fiumi piemontesi ha magre piuttosto pronunciate, come mostrano i minimi di portata dell’Orco (1,15 mc/sec.), della Stura di Lanzo (2,70), del Chisone (0,93), della Varaita (0,97), della Vermenagna (0,31), del Corsaglia (0,19), della Bormida (0,70), della Scrivia (0,92).

    La Sesia ha ormai raggiunto la pianura vercellese

    Se in fatto di magra i fiumi piemontesi non si staccano molto l’uno dall’altro, in ordine alle piene presentano divari notevoli, con estremi che in alcuni casi non si aspetterebbero. Non ci si attenderebbe, per esempio, di constatare che il Po ha portate massime assolute (3750 mc/sec. a San Mauro Torinese, ma solo 2640 a Casale Monferrato) di poco superiori a quelle di suoi affluenti, della Sesia, per esempio, che ha convogliato 3073 mc/sec. d’acqua, e del Tanaro che ne ha trasportati 3000. Sono pure capaci di gonfiarsi egregiamente la Scrivia (2680 mc/sec.), la Dora Baltea (2670), la Toce (1930), la Stura di Lanzo (1600), l’Orco (1410). Ma v’è un altro buon numero di corsi d’acqua che ha abbondanze alquanto inferiori: dalla Bormida (790 mc/sec.) al Chisone (700), per scendere a portate massime inferiori ai 200 mc/sec., come hanno la Dora Riparia (190), la Stura di Demonte, il Corsaglia (133), la Vermenagna (56,30) e la Varaita (48,40). Facendo qualche confronto fra gli estremi non fa specie il notare che un corso d’acqua appenninico come la Scrivia può ingrossarsi fino a 2686 mc/sec. e smagrirsi fino a 0,92 mc/sec. Via anche fiumi alpini, come la Sesia, la Stura di Lanzo, l’Orco, sono passibili di altrettanto vaste oscillazioni.

    Il Tanaro s’adagia in un ampio letto presso Alessandria.

    Evidentemente non è qui il caso di analizzare le ragioni delle apparenti anomalie e delle differenze quantitative che corsi d’acqua, anche vicini, o di analoghe dimensioni per bacino o per lunghezza, presentano. Ma non andiamo lontano dal vero ammettendo che nella più parte dei casi, anomalie e differenze inattese vanno attribuite a una diversa permeabilità dei terreni e alla derivazione di acque irrigatorie. Così, per esempio, le non elevate portate massime del Po a San Mauro trovano una spiegazione nel fatto che, a carico dei terreni alluvionali della pianura vanno messi ben 400 mm. di perdite apparenti tra il deflusso medio annuo e l’afflusso meteorico, e cioè la quantità delle precipitazioni che mediamente nell’anno cadono entro il bacino padano a monte di San Mauro. E se Scrivia e Sesia, agli estremi dell’arco montano piemontese, non differiscono quanto ad amplitudine fra piene e magre si è quasi certamente perchè i due corsi d’acqua hanno un bacino praticamente impermeabile.

    Sebbene in Piemonte le magre forti e prolungate possano avere effetti più vasti e sconvolgenti delle piene, soprattutto per le ripercussioni che determinano nel campo delle irrigazioni e della produzione idroelettrica, tuttavia si rimane, d’ordinario, più impressionati dall’ingrossarsi fuor di misura dei corsi d’acqua. Effettivamente, di fronte alla moderazione delle magre le piene presentano valori piuttosto elevati. Le cronache locali e le richieste di aiuti e di sgravi fiscali da parte di agricoltori danneggiati dalle inondazioni fanno ricordare episodi di piene davvero travolgenti. Così, a Torino, si è conservata memoria della inondazione del 12 ottobre 1839 (6,55 m.), del 31 marzo 1892 (5,75 m.), e di quella, a cui tutti abbiamo assistito, del 4 maggio 1949 (5,89 m.). Càpita abbastanza sovente che i peggiori disastri li facciano non i maggiori corsi d’acqua, ma torrenti e piccoli fiumi che subitamente assumono allarmanti proporzioni. E il caso, tristemente famoso, del diluvio abbattutosi il 13 agosto 1935 sul bacino dell’Orba (141 kmq.) in conseguenza del quale il fiume si gonfiò sino a raggiungere una portata di 2280 mc/sec. e cioè un contributo di 16,170 1/sec/kmq.

    E tuttavia, stando al più noto studioso di idrologia alpina, il Pardè, le piene piemontesi non raggiungono la monumentale imponenza dei disastri che affliggono il versante francese o altri territori della stessa regione padana. Non sono altrettanto massicce per due ragioni. Anzitutto perchè le grandi piogge che si rovesciano sul versante piemontese appaiono meno concentrate, e perciò meno violente, che non quelle che si abbattono, per esempio, sul Ticino o sull’Appennino ligure. In secondo luogo perchè una discreta aliquota della pioggia caduta sfugge alla cattura dei fiumi e quindi li rende meno pericolosi. Ma si può anche aggiungere che molto probabilmente il frazionarsi del rilievo in bacini indipendenti di modesta estensione spezza la massa d’acqua meteorica che altrimenti, concentrandosi, si rovescerebbe in basso con ben più temibili conseguenze. D’altronde, i veri nubifragi interessano in Piemonte aree piuttosto ristrette. E quando, invece, è il caso di piogge insistenti su vasta superficie unita, i loro riflessi si fanno sentire, in modo preoccupante, fuori del territorio della regione. Ad esempio, la grande piena del novembre 1951 — quella che ha devastato il Polesine — mentre ha raggiunto gli spettacolosi vertici di 12.800 mc/sec. a Piacenza e di 11.000 mc/sec. a Casalmaggiore, a Meirano (Moncalieri) convogliava soltanto 1050 mc/sec.

    Di che cosa è stata capace la Stura di Demonte in piena (13-14 giugno 1957) ad Argenterà.


    E opinione abbastanza diffusa che, rispetto a quelli del passato, i disastri provocati dalle piene recenti siano ancora più gravi e più frequenti. Ma al riguardo è prudente mantenere un cauto riserbo. Ad un aumento numerico delle piene nel tempo potrebbero far credere la più accurata registrazione del fenomeno e la diffusione attraverso stampa, radio, ecc., delle notizie relative. E quanto all’accentuarsi dei guai provocati non c’è da meravigliarsene, data l’attuale assai maggiore fittezza degli abitanti e dato il sempre maggior spazio occupato dalle case, dalle fabbriche, dai campi, dalle strade, ecc. Del presunto infittirsi di calamitose alluvioni si suole spesso far colpa ad un inconsulto disboscamento delle pendici alpine. Ma piene paurose si verificano anche in vallate in cui non si ha alcuna prova di recenti deforestazioni.

    Come varia durante l’anno la portata dei fiumi piemontesi, e cioè quale è il loro regime? Dipendendo il regime fluviale in genere dall’estensione del bacino, dalla presenza o meno di ghiacciai o di laghi, dalla varia parte che vi hanno i terreni permeabili o impermeabili, ma soprattutto dal regime delle precipitazioni, è naturale che in montagna i corsi d’acqua debbano avere un andamento stagionale ed annuo diverso da quello che assumeranno in pianura. Anche se il tratto di pianura ch’essi percorrono è breve. Fenomeno generale nel corso montano dei fiumi piemontesi è un accentuato periodo invernale di minime portate che è dovuto, non soltanto alle basse temperature e quindi alla forma nivale delle precipitazioni, ma anche alla loro scarsezza in quei mesi. Così, per fare qualche esempio, la Toce a Candoglia in febbraio ha una media portata di 23,5 mc/sec. di fronte ai 131 di giugno; l’Orco a Pont Canavese, pure in febbraio, trascina mediamente 4,54 mc/sec., contro 59 in giugno; la Dora Riparia a Sant’Antonino di Susa, in contrasto con i 41,50 mc/sec. di giugno, schiera i 10,70 di febbraio; la Stura di Demonte a Pianche, nello stesso mese, ha una portata di 2,60 mc/sec. e di 14,40 in giugno. Ma vi sono delle differenze da notare. Nella regione alpina il minimo invernale è sempre nettamente accentuato e più profondo di qualsiasi altra flessione annua delle portate, mentre i pochi corsi d’acqua appenninici, come la Scrivia, hanno minimi estivi più pronunciati di quelli invernali. In secondo luogo, i minimi invernali dei fiumi alpini, che si verificano quasi dappertutto in febbraio, sono più incavati, diciamo così, nelle Alpi Graie e Pennine che non nelle Cozie e nelle Marittime. Dal punto di vista pratico, quello delle magre invernali dei corsi d’acqua alpini costituisce, come è noto, un periodo critico per la produzione di energia elettrica, che deve rivolgersi ad altre fonti.

    Sempre in montagna, appena giunge la primavera, comincia lo sgelo, e quindi si ha un rapido aumento dei deflussi. Ma la loro punta massima può cadere in mesi diversi. Negli affluenti della Dora Baltea e nella stessa alta Dora Baltea, in relazione allo scioglimento di imponenti masse glaciali, le portate massime cadono in luglio od in agosto. E questo delle abbondanze decisamente estive il carattere più spiccato del regime fluviale che è stato chiamato appunto regime glaciale. In Piemonte non c’è che il bacino della Dora Baltea assoggettato in modo inequivocabile a questo regime. Nel restante delle Alpi piemontesi, il mese in cui si constatano le massime portate è giugno. Evidentemente questo periodo di estrema turgidezza dei fiumi va messo in rapporto con lo scioglimento delle nevi, tanto che si parla appunto di corsi d’acqua a regime nivale quando le più abbondanti portate coincidono con la tarda primavera o con gli inizi dell’estate. Ma è anche da tenersi presente che in maggio si rovesciano, come vedremo, le più serrate precipitazioni dell’anno, e quindi le massime portate di giugno derivano spesso dalla somma di acque di fusione con acque di pioggia ritardata (regime nivo-pluviale). Nel sèguito dei mesi estivi e poi in quelli autunnali si ha una decrescenza delle portate, che è più rapida in regime nivale, più lenta in regime glaciale, perchè la fusione dei ghiacciai assicura durante tutto l’anno al corso d’acqua una certa portata. Dal punto di vista pratico i corsi d’acqua a regime nivale, ma soprattutto quelli a regime glaciale, sono i più indicati a scopo irrigatorio, sia per la maggior costanza delle portate, sia per il loro maggior volume proprio quando in pianura le piogge scarseggiano o si ha addirittura siccità. Infine, nelle medie e alte valli si raggiunge il minimo, sempre molto accentuato, in inverno.

    Sponde della Chiusella erose nel corso di una recente piena.

    Erosioni calanchi-formi nella valle del Tanaro (Langhe sopra Clavesana).

    Ma già nelle basse valli e più chiaramente in pianura si avverte un caratteristico cambiamento di regime. Permane, è vero, molto meno marcato, il minimo invernale, ma il massimo tardo-primaverile si attenua sempre più e si ha la formazione di un secondo massimo in autunno e conseguentemente di un secondo minimo in estate; massimo e minimo che diventano tanto più spiccati quanto più ci allontaniamo dall’origine. Questo cambiamento di regime dipende soprattutto dal fatto che sulle portate del fiume comincia ad agire il regime delle piogge, e perciò il regime fluviale che ne deriva prende il nome di pluviale. Il punto in cui viene a modificarsi il comportamento dei corsi d’acqua è naturalmente diverso da bacino a bacino, ma è da ritenersi, come pensava l’Anfossi, ch’esso non cada molto lontano dal piede della montagna.

    Certo si è che in pianura i fiumi piemontesi presentano tutti, salvo la Dora Baltea, ora più ora meno netto, un regime pluviale. Così, la Sesia a Vercelli alterna a due periodi di portate minime — uno invernale a febbraio (28,6 mc/sec.) e uno estivo a luglio (41,70) — due periodi di portate massime, uno primaverile a maggio (147,0) e uno autunnale a novembre (129,0). Non molto diversamente procede la Stura di Demonte a Fossano, con minime portate a gennaio (6,45 mc/sec.) e a luglio (13,10) e massime a maggio (84,70) e a novembre (34,6). Merita ancora di ricordare che il minimo estivo non raggiunge mai quote così basse come il minimo invernale, e che, via via che ci s’allontana dalle montagne per inoltrarsi nella pianura padana verso oriente, il massimo delle portate, che era primaverile, si trasferisce verso l’autunno. Per la Stura a Fossano il massimo primaverile è più che doppio di quello autunnale: per la Scrivia a Serravalle il massimo primaverile è quasi la metà di quello autunnale. Già a Meirano (Moncalieri), il Po appare aver chiaramente assunto un regime pluviale, con prevalente massimo primaverile (maggio), mentre a Casalmaggiore prenderà il sopravvento il massimo autunnale (novembre). Data la coesistenza in Piemonte di così diversi regimi fluviali è naturale che le piene possano scatenarsi, anche disastrosamente, in qualunque stagione, inverno compreso. Tuttavia, in rapporto con il fatto che le precipitazioni di aprile e di maggio risultano più irruente e compatte di quelle autunnali, è molto probabile che i fiumi piemontesi e, in ogni caso, il loro collettore, il Po, a Torino, siano più temibili, per le piene, in primavera.

    Circolazione sotterranea e sorgenti

    La scarsa permeabilità complessiva dell’impalcatura rocciosa della montagna piemontese fa sì che non si abbia, nelle viscere della montagna stessa, una circolazione condotta a manifestarsi all’esterno con abbondanza e copiosità di sorgenti. Fanno eccezione, ed è naturale, le poche zone in cui i calcari compaiono in vaste masse: come quella, ad es., del Mongioie e del Marguareis nelle Alpi Marittime, dove sono note, per la costanza e la notevole portata, le « vene » del Tanaro e le altre grosse sorgenti che alimentano, oltre al Tanaro, l’Ellero, il Pesio, il Corsaglia. Da una turgida scaturigine nasce la Maira. Ma poi bisogna arrivare sino alle sorgenti del Po per trovarne altre di qualche importanza, appunto perchè le formazioni calcaree si sono ormai ridotte. Quelle pure presenti nella media e alta valle di Susa non danno luogo ad affioramenti idrici particolarmente vistosi. Il maggior numero delle frequentissime ma modeste sorgenti delle Alpi piemontesi deriva dalla venuta a giorno di falde acquee che si formano per imbibizione dei terreni detritici (detriti di falda) e delle placche moreniche che rivestono tanta superficie degli alti ripiani e dei versanti vallivi. Tali falde si originano per fusione delle nevi, al contatto fra i terreni incoerenti e la roccia in posto, e alimentano sorgenti che spesso appaiono disposte in lunga fila, come si nota, in modo tipico, sul pianoro della Motta di Pleté (Valtournanche). In condizioni analoghe si raccolgono le acque che al Piano della Mussa, a 1750 m. in vai d’Ala, vengono captate e trasportate a Torino.

    Vedi Anche:  Il clima e la vita vegetale ed animale

    Quanto alla circolazione profonda delle acque nelle montagne piemontesi, i lavori di perforazione delle grandi gallerie, dal Fréjus al Sempione, al Colle di Tenda, al Cremolino hanno rivelato l’esistenza di vene ad alta temperatura (talora più di 55°) e ricche d’acqua fino a versarne, come massimo verificato, 40 litri al minuto secondo. Ma spesso la natura stessa ripara con raffreddamenti dovuti ad invasioni di acque fredde, di provenienza, direttamente o indirettamente, esterna. Dove grandi fratture hanno determinato profonde dislocazioni negli strati, come si ritiene sia avvenuto in vai del Gesso, si può avere le fuoruscita di acque termali. Il fenomeno è raro nelle Alpi piemontesi e limitato a tre zone sorgentifere. Vicine sono quelle di Valdieri e di Vinadio. Le prime, in vai del Gesso, danno acque solforoso-bromo-iodiche, caldissime (69-56°) e accompagnate da un ricco sviluppo di muffe, che trattengono il calore. Le seconde, in valle Stura di Demonte, hanno temperature lievemente inferiori (63-30°) e sono eminentemente sulfuree. Il terzo affioramento montano di acque termali si ha a Pré-Saint-Didier, in valle d’Aosta, e più precisamente in corrispondenza del famoso orrido, scavato dalla Dora della Thuile nel fianco della montagna. Le acque termali di Pré-Saint-Didier sgorgano ad una temperatura di 36° e sono radioattive, ferruginoso-carbonico-arsenicali a tenue mineralizzazione. Più ricche sono le Alpi piemontesi in fatto di sorgenti mineralizzate non termali: da quelle di Lurisia — le più radioattive d’Italia — e di San Bernardo nelle Alpi Marittime, a quelle di Courmayeur, Saint-Vincent e Borgofranco in vai d’Aosta, di Bognanco e di Crodo in vai d’Ossola, per non citare che quelle sfruttate industrialmente.

    Le sorgenti termali di Acqui si fanno strada fra un ribollire di fanghi.

    Nelle regioni collinari del Piemonte, per un complesso di cause evidenti, non si ha una molto attiva e cospicua circolazione di acque sotterranee, nè, talvolta, è facile determinare la provenienza delle acque stesse, come nel caso di quelle che sgorgano poco sotto la più elevata prominenza della collina di Torino. In ogni caso, questa circolazione presenta manifestazioni esterne piuttosto modeste. Tipici sono gli allineamenti di sorgenti che costeggiano la base delle grandi cerchie moreniche, specie di quelle dell’anfiteatro eporediese. Gli affioramenti corrispondono qui a falde che si formano tra il grosso dello sfasciume glaciale e la superficie argillificata delle soggiacenti alluvioni antiche. Diversamente stanno le cose nelle colline terziarie. Anche qui si riscontrano caratteristici allineamenti di piccole sorgenti, ma esse indicano il passaggio dalle sabbie gialle permeabili dell’Astiano (Pliocene superiore) alle argille e alle marne bluastre impermeabili del Piacenziano (Pliocene inferiore). La presenza nel sottosuolo di rocce della serie gessoso-solfifera del Miocene spiega la relativa frequenza di sorgenti solforose, alcune delle quali hanno assunto una qualche rinomanza curativa. Ricorderemo, tra le più note, le sorgenti di San Bartolomeo e di San Genesio nella collina torinese, di San Salvatore, di Monte Valenza e di Muri-sengo nel Basso Monferrato, di Agliano d’Asti nelle colline dell’Astigiano. Di origine più profonda sono evidentemente le acque termali clorurato-solfato-sodico-carboniche che sgorgano a temperature da 40 a 57° nel cuore stesso della cittadina di Acqui e le cui applicazioni, sotto varia forma, erano già praticate in tempi molto antichi.

    Nei terreni di pianura mancano affioramenti di acque termali, ma, in compenso, la circolazione delle acque sotterranee assume vaste proporzioni e dà luogo alla formazione di sorgenti, il cui deflusso s’incanala poi, mediante coli, bealere, cavi, rogge, gore, nella circolazione superficiale. Fenomeno generale e comune a tutta la pianura padana è quello dell’immagazzinamento nei terreni ciottolosi e ghiaiosi dell’alta pianura, di notevoli masse d’acqua derivanti, non solo dalla filtrazione di precipitazioni meteoriche, ma anche dal disperdimento di acque fluviali ed irrigatorie. Incontrando nel sottosuolo strati di terreni impermeabili, queste acque si adunano a costituire delle falde che scorrono lentamente (da 0,85 a 2,50 m. al giorno). Per dare un’idea del volume di queste acque ricorderemo avere lo Stella calcolato che esse potrebbero formare un immenso lago esteso quanto la stessa pianura padana e profondo almeno una trentina di metri. Parte di questa massa acquea effettivamente ricompare in superficie, ma in numerosissimi, singoli affioramenti, là dove il terrazzamento, che segna il passaggio fra alta e bassa pianura, viene a tagliare le falde acquifere. Ne deriva un largo allineamento, alla base del terrazzo superiore, di risorgive di acque — chiamate anche risultive o fontanili — che formano una fascia (zona delle risorgive o dei fontanili) lungo la quale, sempre secondo calcoli dello Stella, rivedrebbero la luce 400 1/sec/km. lineare di sviluppo della fascia stessa.

    Nella pianura piemontese, tanto la disposizione interna delle falde, quanto quella esterna dei fontanili non offrono la regolarità che risultano invece avere nella pianura lombarda e veneta. Ostacolate dall’antistante mole delle colline, le grandi conoidi subalpine non hanno potuto disperdersi ed allargarsi liberamente, tanto che, per es., all’altezza di Torino, manca la bassa pianura. Si aggiunga che le profonde incisioni dei corsi d’acqua alpini, intagliando le conoidi, hanno intaccato le falde acquifere dell’alta pianura e determinato, anche lungo i fiumi stessi, l’affiorare di sorgenti.

    Ecco perchè nella pianura piemontese la zona dei fontanili si riconosce più per settori che non in una vera fascia continua. A profondità variabili, ma sempre di pochi metri, non manca mai una falda freatica, quella cioè cui attingono i pozzi (in greco: frear = pozzo) delle case coloniche e delle cascine.

    Quanto ai fontanili veri e propri, essi cominciano a comparire ad oriente eli Cuneo presso Beinette e formano in destra della Stura un gruppo di risorgive che si distribuisce ai margini della campagna compresa fra Beinette, Montanera, Trinità e Morozzo. A nord di Cuneo, tra Varaita e Stura di Demonte, si ha un discreto numero di fontanili nell’area delimitata da Centallo, Vottignasco, Genola e Savi-gliano. Ma più ricche d’acque sotterranee si mostrano le alluvioni grossolane del Po, del Pellice e della Chisola, per cui, nel passaggio ai terreni più minuti sottostanti, le risorgive abbondano lungo una vasta zona compresa tra Staffarda, Villafranca Piemonte, Pancalieri, Carignano, Vinovo, Airasca, Scalenghe, e dalla quale vengono derivate numerose rogge e bealere per irrigazione.

    Avvicinandosi a quello che gli idrologi chiamano volentieri il tavoliere torinese, la fascia delle risorgive s’assottiglia notevolmente e da Beinasco e da Drosso, lungo il Sangone, s’avvicina al Po nei fontanili di Borgo Mercato (Moncalieri), Millefonti, e in quelli, ormai sepolti dall’avanzata della città, che fino a non molti anni or sono si incontravano lungo il Po, fra il Sangone e la Stura di Lanzo. Sempre nell’àmbito delle conoidi della Dora Riparia e della Stura, troviamo le risorgive che dal Regio Parco a Pianezza, a San Pancrazio, a Venaria, a Villaretto, a Caselle, a Leinì, a Volpiano formano come un anello che si richiude a Brandizzo, in vicinanza del Po. Di qui, superata la strettoia imposta dalle colline di Torino, la fascia dei fontanili, riprende respiro e si riporta a media distanza dal Po. Così, in corrispondenza della conoide della Dora Baltea, tale fascia ha un limite superiore che segue, grosso modo, il canale Cavour, da sopra Crescentino a Carpeneto, a Santhià, a Carisio, a San Germano Vercellese, a Salussola. Di qui prosegue nella conoide della Sesia, dove i fontanili più alti s’incontrano a Formigliana, Oldenico, Recetto, Vicolungo. Altre polle di fontanili occhieggiano con una certa frequenza fra le alluvioni dell’Agogna e del Terdoppio e per Barengo e Castellazzo scendono giù a Trecate, a Vespolate donde passano al di là del Ticino. E questa, della bassa pianura vercellese e novarese, la zona della pianura piemontese sulla quale i fontanili riversano la maggior copia d’acque. Intorno a Livorno Ferraris, per esempio, su di un’area di 5,30 kmq., si contano 36 fontanili (7 per kmq.) e in ugual proporzione areometrica si distribuiscono i fontanili a San Germano (9-10 kmq., 66 fontanili: 7 per kmq.) e in altre località della zona.

    Una « testa » di fontanile nella pianura vercellese.

    Come è noto, le acque dei fontanili sono abbastanza profonde per sfuggire all’influenza delle temperature esterne e si tengono costantemente poco al di sotto dei 10-12°. Ugualmente costante, si può dire, è il loro efflusso, spesso aiutato da tubi infissi nell’occhio del fontanile. Non così avviene delle falde freatiche, e cioè superficiali, il cui regime varia notevolmente da zona a zona. Nell’alta pianura, dove tali falde sono alimentate dai vicini fiumi prealpini e alpini, prevale, in genere, un regime a doppia oscillazione annuale, estiva e autunnale, in corrispondenza alle fasi di maggior portata dei fiumi alimentanti e con variazioni di livello che possono raggiungere il valore di qualche metro. Invece nelle falde della bassa pianura l’oscillazione annuale è unica, con decrescenza regolare dalla primavera all’estate.

    Al disotto della falda o delle falde freatiche, scaglionate a varia profondità, le trivelle incontrano delle falde artesiane, la cui acqua, cioè, soggetta a pressione idrostatica, sale spontaneamente alla superficie nei pozzi che si chiamano appunto artesiani. Nella pianura piemontese i pozzi artesiani sono diffusi un po’ dappertutto, ma appaiono particolarmente concentrati in tre zone: sul pianalto di Poirino e nella sottostante pianura tra Carmagnola e Cavallermaggiore ; sull’altopiano novarese tra Vaprio d’Agogna e Novara: in tutta la pianura di Alessandria, con particolare infit-timento intorno a Castellazzo Bormida. In queste tre zone le acque risalienti sono abbondanti al punto di consentirne l’uso per irrigazione. Si tratta di falde che hanno una modestissima velocità di scorrimento (da 0,10 a 1,30 m. al giorno) e che non sono evidentemente inesauribili. Dove il loro emungimento si fa troppo spinto, come avviene nella pianura alessandrina, esse s’abbassano di livello e minacciano di esaurirsi.

    Ghiacciai

    Se nelle viscere delle sue montagne, e soprattutto delle sue pianure, il Piemonte alberga ingenti riserve idriche, nei circhi e sulle spalle delle più alte montagne che lo cerchiano, dispone di altre abbondanti riserve d’acqua, rapprese in forma solida ed esse pure come immagazzinate: quelle dei ghiacciai, che donano, tra l’altro, al paesaggio dell’alta montagna, un fascino indescrivibile di contenuta potenza e di bianco-azzurra luminosità. Degli 838 ghiacciai delle Alpi italiane — quanti cioè ne elenca il recente catasto — ben 322 si trovano in Piemonte. Basta questa cifra a dare un’idea dell’importanza che ha da noi il fenomeno glaciale. Ed effettivamente il Piemonte può vantare, non soltanto i più numerosi, ma anche i più imponenti ghiacciai dell’arco alpestre interno. Non bisogna, tuttavia, lasciarsi trarre in inganno dallo spettacolo maestoso del candido ammanto che dalla pianura, o meglio, dalla collina torinese, si vede avvolgere i fianchi del baluardo alpino. Di questo ammanto non spetta agli apparati glaciali che una parte assai limitata, ed in ogni caso alquanto inferiore all’area glacializzata del versante opposto. Si può, di fatto, calcolare che i ghiacciai piemontesi raggiungano a malapena i 225 kmq. di superficie. La minor frequenza ed estensione dei ghiacciai del versante piemontese rispetto a quello francese e svizzero — ben evidente a chi dalla verde conca del Breuil salga ad ammirare la distesa del ghiacciaio di Zermatt — dipende specialmente dall’esposizione meridionale della nostra facciata alpina, e quindi da un aumento di temperatura che non permette un notevole accrescimento dei ghiacciai. Senza uscire dai confini del Piemonte è dato avere una chiara prova dell’influenza dell’esposizione sull’ampiezza dei ghiacciai confrontando quelli numerosi, ma piccoli, che da Torino stessa si vedono addossati al fianco meridionale del Gran Paradiso — come una serie di bianchi fazzoletti stesi al sole — con il ben più continuo e largo drappeggio che avvolge il lato settentrionale del colosso alpino. D’altro canto, non bisogna dimenticare l’assai maggior ripidità del versante piemontese nei confronti di quello opposto: ripidità che, riducendo l’area utile, diciamo così, alla formazione dei ghiacciai, ne spiega, o contribuisce a spiegarne, la limitata estensione.

    Quanto alla distribuzione dei ghiacciai, essa è piuttosto disuguale, dipendendo dal concorso di varie cause. Si può dire che, a parte minuscole eccezioni, non si trovano praticamente più ghiacciai a sud della Dora Riparia. Le eccezioni consistono in alcuni apparati glaciali isolati nelle Alpi Marittime e più precisamente nei gruppi dei Gelas e dell’Argenterà. Sono questi i ghiacciai più meridionali di tutto il sistema alpino, e la loro sopravvivenza va essenzialmente attribuita alla esposizione su alti pendii volti a nord e ad una particolare abbondanza di precipitazioni. Per trovare altri ghiacciai — pur non mancando nell’intervallo le montagne superiori ai 3000 m. — bisogna arrivare al Monviso. Ma si tratta, anche qui, di modestissime placche ghiacciate che, insieme alle consorelle delle Alpi Marittime, non occupano più di 250 ettari. Qualche maggior ampiezza — un insieme di 400 ettari hanno i ghiacciai del massiccio Cenisio-Ambin. Man mano che si procede verso nordest la copertura glaciale si fa meno ridotta e frammentaria. Nelle valli di Lanzo arriva ad un migliaio di ettari, investendo il 2,25% della superfìcie imbrifera. Bisogna, insomma, giungere ai gruppi del Gran Paradiso, di cui si diceva sopra, e alla valle d’Aosta, per trovare uno sviluppo dei ghiacciai veramente importante. I duecento e più ghiacciai del bacino della Dora Baltea hanno, di fatto, una superficie complessiva di 190 kmq. e ricoprono il 5,05% della superficie totale del bacino.

    Potenti ghiacciai rivestono i fianchi del massiccio del Gran Paradiso.

    Il ghiacciaio di Argentière nel gruppo del Monte Bianco. Si noti l’abbondanza dello sfasciume morenico.

    Sin qui, e cioè fino alla valle d’Aosta, non s’incontrano che ghiacciai di secondo ordine o di pendio, formatisi a ridosso dei versanti con ripido declivio ed estesi piuttosto in larghezza. In alcune delle conche vallive valdostane, vedremo, invece, incunearsi e scendere dei ghiacciai di prim’ordine o vallivi, sviluppati il più sovente in lunghezza. Tale non è ancora il maggiore dei ghiacciai del Gran Paradiso: il ghiacciaio della Tribolazione, che precipita in grandiosa cascata, o meglio, seraccata, e termina con due erte lingue. Danno, invece, origine a ghiacciai vallivi le testate delle valli di Rhémes (ghiacciai di Tzanteleina e di Goletta) e della Valgrisanche (ghiacciaio di Glairetta-Vaudet). Nel gruppo del Ruitor è caratteristica una vasta cappa ghiacciata ad ampio, dolce pendio. Nel regno del Monte Bianco è naturale che anche i ghiacciai si facciano imponenti e primeggino. Come quello del Miage, per esempio, che, con i suoi 11,30 kmq. di superficie e i suoi 10 km. di lunghezza, è tra i maggiori apparati glaciali di tutta l’Italia. La lingua del ghiacciaio del Miage, lunga 5 km., sbarra con le sue poderose morene la vai Veni. Pure al fondovalle arriva il ghiacciaio della Brenva. Esso scende, anzi, a non molta distanza dall’abitato di Entrèves, con una fronte sepolta da massi e da sfasciume, residuo di grosse frane che hanno provocato, qualche tempo addietro, forti oscillazioni della massa glaciale. Altri ghiacciai di prim’ordine nel gruppo del Bianco sono quelli di Pré de Bar, caratteristico per la fronte a coda di volpe, del Triolet, con la lingua ormai staccata dalla parte superiore, e dell’Allée Bianche.

    Tra i massicci del Bianco e del Rosa presentano numerosi ghiacciai la Valpelline — con i due maggiori di Tza-de-tsan e delle Grandes Murailles, che uniscono le loro lingue in un’unica colata — e la Valtournanche, dove l’esposizione a mezzogiorno consente solo il formarsi di ghiacciai di second’ordine, ai piedi della Dent d’Herens e del Cervino. Verso il Rosa la copertura glaciale, ridotta e assottigliata nel ghiacciaio di Valtournanche, si espande più in alto in poderose groppe (Gobbe di Rollin, ghiacciaio di Ventina) donde scendono, in vai d’Ayas il ghiacciaio di Verrà, e in vai di Gressoney il ghiacciaio del Lvs, imponenti apparati terminanti in ben pronunciate lingue. Dalla parete sudest del Rosa, e cioè sul versante valsesiano, digradano i due importanti ghiacciai delle Piode e delle Loccie, che pur tuttavia non diventano vallivi. Alquanto più in basso scende, invece, alla testata della valle Anzasca, nel bacino dell’Ossola, il ghiacciaio di Macugnaga o del Belvedere, cui sovrasta un’immensa parete di 2500 m., tutta biancheggiante di canaloni nevosi e di cascate di ghiaccio. In vai Formazza, e cioè alle origini della vai d’Ossola, si incontra un ghiacciaio interessante nell’Hosand (o ghiacciaio del Sabbione), la cui lingua è sommersa dalle acque di un lago artificialmente sbarrato.

    L’enorme distesa di sfasciume morenico recente dà idea del grande ritiro subito dal ghiacciaio del Miage.

    Il capriccioso ghiacciaio della Brenva si ricompone al di sotto dei roccioni scoperti.

    I ghiacciai piemontesi sono dunque rifugiati nel settore settentrionale del sistema alpino, dove la temperatura è meno elevata, le altitudini sono maggiori ed abbondanti rimangono le precipitazioni. Fatta eccezione per alcuni ghiacciai dei massicci valdostani, i ghiacciai piemontesi appaiono confinati piuttosto in alto. Via, ad onta della minor latitudine, i ghiacciai delle Alpi Marittime resistono a quote altimetriche inferiori a quelle dei ghiacciai settentrionali. L’altitudine media delle loro fronti si aggira sui 2585 m., rispetto ai 2800 m. delle fronti glaciali nelle valli di Lanzo e ai 2900 nel gruppo del Gran Paradiso. Per contro, come si diceva, in vai d’Aosta troviamo il ghiacciaio di Pré de Bar scendere sino a 2163 m. : quello del Triolet a 2088; quello del Miage a 1775. Più in basso di tutti, e cioè a 1379 m., arriva il ghiacciaio della Brenva, mentre a 1800 scende il ghiacciaio di Macugnaga. Ma sono misure, queste, rilevate qualche anno fa, e pertanto segnanti quote altimetriche inferiori a quelle cui si sono oggi ritirate le fronti dei ghiacciai.

    Vedi Anche:  Il Commercio in Piemonte

    Perchè, come è noto, da parecchi anni i ghiacciai alpini risultano in regresso frontale ed appaiono diminuiti in superfìcie e in spessore. Ne fanno fede, tra l’altro, i depositi morenici di formazione recente, non ancora rivestiti di vegetazione, e che corrispondono a periodi di regresso dell’ultimo mezzo secolo. E ciò senza tener conto dei piccoli ghiacciai scomparsi pure di recente, mentre altri sono in via di disfacimento. 11 ghiacciaio del Lys, dal 1929 al 1952, è arretrato con la sua fronte di ben 407 metri. Le cose, però, non sono sempre andate così. Si sa, di fatto, che nell’attività dei ghiacciai si alternano periodi di rigonfiamento e di avanzata della fronte, ad altri, come l’attuale, in cui i ghiacciai si rimpiccioliscono e si ritirano. Dacché s’è cominciato ad avere notizie sicure, vale a dire dal secolo XVI, si sono susseguite sino ai tempi nostri, quattro grandi fasi di avanzamento degli apparati glaciali: i° fine del 1500 e primi del 1600; 2° 1660-1721; 30 1760-80; 40 1814-55. Negli intervalli si sono verificati periodi di regresso e fasi intermedie di più deboli avanzate. Sembra non improbabile che l’attuale periodo di ritiro stia per esaurirsi, dando luogo ad una ripresa di avanzamento dei ghiacciai. Le oscillazioni delle fronti glaciali sono attentamente seguite e controllate da studiosi e da tecnici, perchè, tra l’altro, sono il termometro delle maggiori o minori disponibilità di acque destinate alla produzione di energia elettrica. Sulla base del-l’altimetria delle masse glaciali si è proceduto a determinare l’andamento del limite altimetrico delle nevi permanenti. Tale limite, più basso nelle Alpi Marittime, dove arriva ai 2900 m., appare già salito a 3100 nel gruppo del Viso, a 3250 nel gruppo del Gran Paradiso, e a quote analoghe, se non lievemente superiori, nei massicci del Bianco e del Rosa, per poi discendere nelle Alpi Lepontine.

    Il ghiacciaio di Pré de Bar con la caratteristica fronte a coda di volpe e la grandiosa morena laterale sinistra.

    Laghi

    Una spiccata caratteristica della geografìa del Piemonte, in contrasto con quella della vicina Lombardia, è data dalla piccola parte che vi hanno i laghi prealpini. Questa scarsezza ha la sua importanza anche pratica, sapendosi quanto l’attività regolatrice dei grandi laghi ora ricordata valga a moderare le irruenze e le bizze dei fiumi che ne escono, e quanto influisca, di conseguenza, sulla prosperità della pianura padana. Una delle ragioni, e non l’ultima, di certe pericolose piene dei fiumi piemontesi, sta appunto nel fatto che nessun grosso bacino lacustre interviene a contenerne o a limitarne l’impeto. In sostanza, il Piemonte deve star contento di affacciarsi su uno dei più bei laghi prealpini d’ambo i versanti — il lago Maggiore — e di condividerne il godimento con la Lombardia, padrona della sponda orientale.

    Il lago Maggiore, o Verbano, misura circa 65 km. di lunghezza da Magadino al ponte di Sesto Calende e si protende all’estremo nord tra le montagne del Canton Ticino, e a sud fra le terrazze e le morene di una antica cerchia glaciale. Il lago regala al Piemonte, nel golfo di Pallanza, verso occidente, una sua stupenda diramazione. Largo davanti ad Arona un paio di chilometri, raggiunge l’ampiezza massima di quattro e mezzo, con una superficie di 216 kmq., al livello medio di 169 m. (253 kmq. in massima piena), per cui è il più vasto lago italiano dopo quello di Garda. Raggiunge la profondità massima di 372 m. (179 m. al di sotto del livello marino) tra Ghiffa e Porto Valtravaglia. Riceve, insieme a parecchi altri minori corsi d’acqua, il Ticino, che poi ne esce come unico emissario presso Sesto Calende, e la Toce, che gli arriva dalla vai d’Ossola. Attraverso questi corsi d’acqua, il lago Maggiore raccoglie le precipitazioni di un bacino vastissimo, che si stende dal Monte Rosa al Passo di San Bernardino. E quindi naturale che il lago vada soggetto a notevoli variazioni di livello, che comportano di primavera e di autunno crescite normali di 1-1,5 m., col massimo di 7 m. al disopra della magra, come è avvenuto ai primi di ottobre del 1861.

    Venti e correnti, sia superficiali che profonde, alterano continuamente l’equilibrio statico della grande massa acquea, mossa da irregolare circolazione. D’estate la temperatura media delle acque in superficie è di 220. La temperatura poi diminuisce con la profondità sino a 6°, e rimane costantemente tale fino al fondo del lago. Soffiano sul lago Maggiore dei venti caratteristici: la tramontana da nord, l’« inverna» da sud, il « mergozzo » da ovest nel golfo di Pallanza, il «ciiss » dal lago d’Orta, la « maggiora », che talvolta dà origine a vere burrasche. Dono dal lago Maggiore, il Ticino, il terzo degli affluenti di sinistra del Po per lunghezza (248 km.), dopo l’Adda e l’Oglio, ma il primo per ricchezza d’acque (portata media 294 mc/sec. a Sesto Calende), scende rapido ma quasi tutto navigabile, senza più ricevere affluenti e anzi mandando parecchie diramazioni e canali in territorio lombardo.

    La sponda piemontese del lago Maggiore è dunque limitata a parte dei 166 km. che rappresentano il perimetro del lago stesso. Ne comprende, però, la sezione più pittoresca, per le frequenti graziose insenature che la movimentano, per i vasti panorami che offre, specialmente da Arona e da Stresa, e per le isole che la fronteggiano, o isole Borromee, dal nome dei conti Borromeo, che verso la metà del secolo XVII, ricorrendo al gusto di raffinati artisti, le trasformarono da sterili rocce in giardini incantati. Alla costa fra Stresa e Baveno prospettano l’isola Bella e l’isola dei Pescatori, con in mezzo l’isolotto Malghera. L’isola Bella è particolarmente celebrata e visitata per il magnifico lussureggiante giardino formato da io terrazzi sovrapposti a gradinata e per l’interessante palazzo Borromeo. Con l’estrema signorilità dell’isola Bella contrasta la rustica semplicità dell’isola che trae nome e caratteristica dall’essere occupata da un pittoresco villaggio di pescatori.

    Una incantevole visione del lago Maggiore e delle isole Borromee.

    Il lago Maggiore con veduta di Stresa in primo piano.

    Più lontana, nel centro lago, è l’isola Madre, la più grande (330 m. di lunghezza e 220 di larghezza), notissima essa pure per il gran numero di piante comuni e rare che ne fanno tutto un giardino, percorso da magnifici viali e dominato da un principesco palazzo. Tale esuberanza di flora mediterranea e tropicale, che avvicina viti, olivi, lauri, aranci a magnolie, a camelie, ad orchidee in una festosa profusione di colori, è massimamente dovuta al clima umido e al calore che la massa lacustre conserva anche nei mesi invernali. Da Stresa e da Baveno andando verso la vai d’Ossola s’incontra un altro lago, ma di gran lunga più piccolo, quello di Mergozzo o di Montorfano (1,83 kmq.), staccatosi, dopo il secolo IX, dal lago Maggiore ad opera delle alluvioni della Toce che sfocia lì vicino. E piemontese anche la sponda orientale del golfo di Pallanza su cui siedono Intra e Pallanza (Verbania).

    Appartiene al bacino del lago Maggiore, rientrando per intero in territorio piemontese, il più occidentale dei laghi prealpini: quello di Orta, lungo 13,4 km., ampio 18 kmq., profondo al massimo 143 metri. Già occupata da un ramo dell’antico ghiacciaio ossolano, la conca del lago d’Orta non scarica, come gli altri laghi prealpini, le sue acque verso sud, ma in senso opposto, per cui la Nigoglia-Strona, suo emissario, con un ramo va alla Toce e con un altro al Verbano. Il lago d’Orta si allunga in senso meridiano tra il Mottarone e le non alte montagne che lo separano dalla Valsesia. Da questa parte le sue sponde sono ripide e boscose, quasi cupe. La costa orientale, invece, è assai meno erta, più frastagliata e ridente di coltivi e di ville. Davanti ad Orta è la famosa isoletta di San Giulio, lunga 275 m. e larga 140. Tanto il lago Maggiore quanto il lago d’Orta, rientrano, come s’è già detto, in quella categoria dei laghi prealpini, sulle cui origini continuano le discussioni. Pare tuttavia indubitabile che essi si siano formati in conche vallive preesistenti alla grande invasione glaciale quaternaria. Tali conche vallive si sono create per fratture e per grandiose dislocazioni. Gigantesche colate di ghiaccio le hanno poi allargate e sovra-escavate ed al loro sbocco, lungo la fronte di quelle colate, si sono disposte cerchie di cordoni morenici.

    L’isola di San Giulio nella raccolta, romantica conca del lago d’Orta.

    Ancora legata al fenomeno glaciale è la categoria dei laghi intramorenici, annidati appunto tra i cordoni ora ricordati. Sono laghi di modeste dimensioni, ma molto pittoreschi per le colline e per i boschi che li circondano. S’appoggiano alle morene frontali dell’anfiteatro eporediese i laghi di Candia, a nordest di Caluso, e di Vive-rone o d’Azeglio. Il lago di Candia è più piccolo (1,69 kmq., profondità massima 7,90 m.) ed occupa, fra basse rive, il fondo di una aperta, ridente conca. Il lago di Viverone (5,78 kmq., profondità massima 50 m.) è più appartato, e tuttavia frequentato da turisti e da pescatori dilettanti. Si sta procedendo all’utilizzazione parziale delle sue acque a scopo irrigatorio. Anche l’anfiteatro di Rivoli ha i suoi laghi intra-morenici. Ma per essere precisi, il lago Grande di Avigliana (0,84 kmq., profondità massima 26 m.) ha fondo quasi tutto scavato in roccia in posto, e un sottile istmo di roccia in posto lo separa dal lago Piccolo (0,58 kmq., profondità massima 12 m.). Tra i cordoni morenici dei due anfiteatri e nella pianura intramorenica lembi pianeggianti di terreni nerastri, torbosi, denunciano l’esistenza di altri antichi laghi, poi prosciugatisi. A nordest di Ivrea i rilievi della diga dioritica su cui s’è installata la città portano incastonati nella scura roccia dei graziosi, solitari laghetti, che hanno i nomi di Sirio, Nero, Pistono, San Michele.

    Questi laghetti mostrano chiaramente di essere di escavazione glaciale. La stessa origine hanno le centinaia e centinaia di piccole conche lacustri di montagna che occhieggiano azzurre, o biancastre, o scure (donde le frequenti denominazioni di lago Azzurro, Bianco o Nero) sul fondo dei circhi o su lembi di alti terrazzi, comunque al di sopra di 2000 metri. Sono specchi vivi che aggiungono serenità al paesaggio quando giacciono tra piccole ed amene conche fiorite, o lo incupiscono quando riflettono rocce brulle sul fondo di paurose e solitarie fratture. Ma, oltre ad un suggestivo valore pittorico e turistico, i nostri laghi alpini ne hanno uno di carattere economico, prestandosi spesso a essere sbarrati, sollevati di livello e trasformati in invasi idroelettrici. E interessante notare come queste gemme della montagna piemontese, curiose dal punto di vista scientifico per le proprietà fisiche e biologiche delle loro acque, oltre che per i caratteri morfologici, si presentino per lo più raggruppate in famiglie, talvolta piuttosto numerose.

    Lago di Viverone.

    Mentre le montagne che formano l’alto bacino del Tanaro, per essere prevalentemente calcaree, non contano, in superficie, che pochi laghi, moltissimi ne hanno invece quelle fra il col di Tenda e il colle dell’Argenterà. Si tratta, però, di laghi assai piccoli, spesso di appena un ettaro o poco più di area, e compresi fra i 1500 e i 2770 m. d’altitudine. Talvolta, come quelli del Basto, sono disposti in ripiani a scalinata: altri si raggruppano, ravvicinati, come i nove della valle delle Meraviglie e i dodici di Fremamorta, in vai Gesso. Generalmente questi laghetti sono circondati da balze rocciose, desolate, nude, da creste frastagliate e tormentate, e s’alternano a squallide petraie.

    Al colle della Maddalena, o dell’Argenterà, troviamo il primo di quei laghi di valico su cui, giunto in cima ad un importante passo alpino, il viaggiatore riposa così volentieri il suo sguardo. Nelle Alpi Cozie sono assai noti i laghi del Monviso, che alimentano le sorgenti del Po, e cioè il lago Fiorenza, il Superiore, il Chiaretta, il lago Grande di Viso, il Costagrande, il Pra-tofiorito, ecc. Nell’alta vai Germanasca si distingue una regione dei «Tredici laghi», annidati fra potenti ammassi di sfasciume morenico a quota fra i 2000 e i 2800 metri. In vai di Susa parecchi sono i laghi alpini, sparsi. Il più importante è quello del Mon-cenisio, adagiato fra rocce gessose, ricco di trote, ma più utile per l’energia elettrica che provvede. Numerosi sono i laghi di circo nelle valli di Lanzo, e fra di essi merita di essere ricordato il lago della Rossa, sia per la sua relativa vastità, sia per costituire il più elevato invaso idroelettrico delle Alpi piemontesi (2691 m.). Una ricca famiglia di laghi, anche essi in buona parte imbrigliati a scopo idroelettrico, appare scaglionata sul versante di sinistra della valle dell’Orco (lago Eugio, Valsoera, Mutta, Ghiacciato, ecc.), ma i suoi membri la cedono per importanza alla conca lacustre che occupa il lungo e ampio bacino di Ceresole, alla testata della valle. Il lago di Ceresole, esso pure chiuso da una diga, ha una lunghezza di 4 km., ed è largo 0,7 chilometri. Lo circondano dense foreste e una maestosa cerchia di monti, tra cui le Levanne.

    Uno dei cento e cento laghetti delle Alpi piemontesi. Il lago sul valico del Gran San Bernardo.

    Una «riviera dei fiori» piemontese. (Lago Maggiore).

    Assai lungo risulterebbe un elenco dei laghi alpini che contribuiscono ad abbellire e ad arricchire la vai d’Aosta. Ne ricorderemo solo alcuni fra i più conosciuti, cominciando dal lago di Combal, in vai Veni, che, formatosi per sbarramento della valle ad opera di cordoni morenici, è ormai ridotto ad un piano erboso con rigagnoli e pozze d’acqua. Su una stupenda balconata fronteggiante il Monte Bianco è come affacciato il lago del Chécrouit, in cui il gigante si specchia, come ammansito. Nella valle del Piccolo San Bernardo è caratteristico il lago del Ruitor perchè vi si affonda la lingua del ghiacciaio omonimo, mentre ghiacciato per buona parte dell’anno è il lago di valico del Gran San Bernardo. In Valtournanche si ammira il lago Blu, presso la conca del Breuil. Lo si ammira per il colore azzurrino delle acque e del fondo costituito da serpentinoscisti, ma soprattutto perchè riflette la piramide del Cervino. Pure in Valtournanche vanno ricordati i laghi di Goillet e di Cignana, trasformati, come altri della valle, in capaci serbatoi idroelettrici. La più numerosa famiglia di laghetti valdostani è forse quella che abbraccia le alte valli di Champorcher e di Champ-de-Praz.

    Il laghetto del Chécrouit serve di specchio al Monte Bianco.

    Il lago Vanino e l’Obersee ai piedi della punta d’Arbola, in vai d’Ossola.

    Tra i laghi delle montagne biellesi meritano di essere menzionati quello del Mucrone, incastonato a 1902 m. sul fianco del monte omonimo, che rispecchia la sua selvaggia bellezza presso il Santuario d’Oropa, e il lago della Vecchia, alle sorgenti del fiume Cervo. Un bel gruppo di laghi valsesiani è quello che si concentra fra l’alta vai Vogna ed il Monte Tre Vescovi. In vai d’Ossola il lago più noto, per essere ricordato anche nei trattati di geologia, è quello di Antrona, formatosi nel 1642 in sèguito alla caduta di una frana che, precipitando dalla parete della cima di Poz-zoli, sbarrò la valle, uccidendo quasi un centinaio di persone. Ma i più grandi laghi ossolani, glaciali questi, si trovano in vai Formazza, favoriti dalla disposizione a gradinata dei potenti banchi di gneiss che formano i versanti della valle. Si tratta di conche lacustri generalmente accresciute nella loro ampiezza e capacità da chiuse che ne hanno fatto altrettanti serbatoi idroelettrici. Così è stato del lago di Devero, forse il più ameno e pittoresco lago dell’Ossola: così del lago Vanino, centro di una grandiosa imponente conca montana; dei due Busin inferiore e superiore, del lago Sruer, e, sul versante di sinistra della vai Formazza, dei laghi Fisch, Castel, Nero e di Hohsand (o del Sabbione) che vede immergersi nelle sue acque, come al Ruitor, la fronte di un ghiacciaio. Ad eccezione di qualche bacino artificiale per irrigazione, di cui si farà cenno a suo tempo, non vi sono conche lacustri degne di ricordo nè nelle colline terziarie del Monferrato e delle Langhe, nè nell’Appennino piemontese.