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Il clima e la vita vegetale ed animale

    Il clima e la vita vegetale ed animale

    I fattori del clima

    Posto a metà strada fra Polo Nord ed Equatore e, come tale, in piena zona temperata settentrionale, il Piemonte si trova pure sull’area di passaggio fra climi marittimi, come quelli del Mediterraneo, e climi continentali. Effettivamente la regione piemontese, se si avvicina con la sua parte meridionale al mar Ligure, sino a distarne in alcuni punti pochi chilometri, dall’altra s’addentra abbastanza profondamente nella massa continentale, così da non potersi sottrarre all’influenza del cospicuo blocco di terre che l’avvolge per buona parte del suo perimetro. A queste influenze, però, il Piemonte non spalanca le sue porte. Il baluardo alpino costituisce come una specie di difesa contro le asprezze del clima tipicamente continentale. Verso levante, invece, il territorio della regione piemontese si apre sull’ampio golfo della pianura padana, a sua volta aperto sull’Adriatico. E una finestra, più che una porta, perchè le terminazioni settentrionali dell’Appennino si spingono a limitare il libero diffondersi delle influenze padano-adriatiche su tutta l’area piemontese. Quanto al fronte, diciamo così, ligure, esiste anche qui indubbiamente uno sbarramento montano, la cui funzione separatrice si fa per più segni evidente. Ma non mancano nella rigidità della barriera le incrinature, rappresentate da valichi che s’abbassano a 472 m. nel Passo dei Giovi, a 532 nel Passo del Turchino, a 476 nella Sella di Altare.

    Un fattore importantissimo della varia configurazione climatica del Piemonte è dato dal coesistere sul suo territorio di alte montagne, di sistemi collinari, e di tratti di pianura: in sostanza, dal rilievo. Questo si spinge ad altitudini tali e con tale estensione da determinare, come vedremo, delle peculiari condizioni climatiche sulle aree che occupa, non solo, ma anche su quelle collinari e pianigiane sottostanti. Dovremo in realtà riconoscere l’esistenza in Piemonte di un clima alpino, di un clima padano, di un clima marginale pedemontano. Anche su quest’ultimo l’influenza del rilievo appare fondamentale. Un suo peso tra i fattori del clima ha pure la distanza dal mare, e certe caratteristiche termiche e pluviometriche proprie del Piemonte meridionale sembrano appunto attribuibili alla relativa vicinanza del mare.

    L’erta barriera alpina costituisce un efficace riparo climatico (da Borgo San Dalmazzo).

    Scarsa e limitata importanza climatica hanno le conche lacustri esistenti in Piemonte, ad eccezione del lago Maggiore, per quel che riguarda la sua sponda occidentale, e del lago d’Orta con la breve corona di terre che lo circonda.

    Posizione geografica, forme del rilievo ed altre caratteristiche fisiche non agiscono sul clima in modo stabile, ma entro il gioco variabile delle masse d’aria, di qualità diversa e di differente provenienza, che provoca l’alternarsi di periodi di tempo perturbato e di tempo buono. Per rapporto alle principali masse d’aria che interessano l’Italia, il Piemonte viene a trovarsi in una posizione piuttosto marginale. E ancora esposto alla fredda e asciutta aria intermedia continentale, tipica degli anticicloni aventi origine d’inverno sulle gelide pianure russo-siberiane: ed è parimenti esposto alla fresca e umida aria intermedia marittima proveniente dall’Atlantico di nordest. Ma non sfugge neppure alla calda ed asciutta aria tropicale continentale, che è di origine sahariana, nè all’aria tropicale marittima che ha per centro di provenienza le Azzorre.

    Il tempo asciutto e freddo che generalmente domina in Piemonte durante i mesi invernali è in stretta relazione con l’allargarsi sulla regione delle influenze dell’anticiclone russo-siberiano, e quindi con l’afflusso di masse d’aria appunto fredda ed asciutta. Il periodo di relativa siccità, di tempo caldo e sereno, che d’ordinario caratterizza i mesi estivi, rientra nella situazione atmosferica propria in quei mesi del Mediterraneo, integrata dalla persistenza di aree anticicloniche nell’Europa centrale. Le stagioni intermedie devono l’instabilità del tempo e l’abbondanza delle precipitazioni, prevalentemente, all’attiva, agitata circolazione delle masse d’aria umida che si accompagnano alle depressioni atlantiche. Ma piogge copiose possono pure essere determinate da venti di nordest e di est, che si ingolfano nella pianura padana, formando una sacca di alte pressioni che, incontrando la cerchia alpina, è costretta ad innalzarsi, e quindi a raffreddarsi, dando così origine alle precipitazioni ora ricordate. Entro queste, che sono le grandi linee dell’andamento del tempo in Piemonte, si creano delle più limitate ed irregolari perturbazioni come conseguenza di situazioni bariche, e cioè di pressione, a carattere locale. E qui, soprattutto, entra in gioco il rilievo, non rispettato invece, dato il loro spessore verticale, dalle grandi masse d’aria a raggio d’azione continentale.

    Vette e dorsali « fumano » sferzate dalla tormenta.

    Di primavera e d’autunno il Piemonte può essere coinvolto in una di quelle che i meteorologi chiamano depressioni di sottovento o di Genova, perchè si formano al riparo dell’arco alpino nell’alto Tirreno, a séguito dell’urtare contro le catene delle Alpi e dei Pirenei, di un fronte freddo proveniente da nord o da nordest. Arrestata dalle due barriere montane, alle cui spalle si determina un’area di alta pressione, l’aria fredda irrompe attraverso il varco della Provenza, mentre comincia ad aggirare anche l’estremità orientale delle Alpi. Le famose tempeste del golfo del Leone, il mistral, la bora, sono i fenomeni più vistosi, conseguenti a questi divari di pressione. Il Piemonte non vi è direttamente interessato. Ma non di rado, come ampliamento della depressione alto-tirrenica, una lieve saccatura di basse pressioni si forma anche sottovento alle Alpi, nella pianura piemontese, dove tendono a svilupparsi nuvole fitte e piogge. Un’altra perturbazione più strettamente locale riguarda pure il Piemonte, in quanto legata al sistema alpino: è il fohn, o per essere più precisi, il fòhn settentrionale, di derivazione svizzera. Si tratta di un vento caldo, asciutto, che scende lungo le vallate alpine acquistando spesso velocità travolgenti. Il fòhn porta seco cielo sereno e sorprendenti aumenti di temperatura che, se accelerano la maturazione dei frutti della terra, possono tuttavia provocare disgelo e inondazioni. Quando soffia il fòhn, dalla pianura si vedono le vette alpine « fumare » sotto le staffilate della tormenta, e si può essere sicuri che sull’altro versante imperversa il cattivo tempo.

    Gli elementi del clima. Pressione. Venti. Temperature.

    Proprio in tema di pressioni e di venti cominciano a profilarsi ben diverse le condizioni climatiche della pianura e della montagna. Sulla pianura, chiusa da tre lati da montagne elevate, regnano d’inverno frequenti le calme, ma l’area di alta pressione che la copre d’inverno dà origine, in tale stagione, a venti prevalenti di ovest, specie di nordovest, mentre l’area di bassa pressione che ivi si forma d’estate provoca la formazione di venti di est, sudest e sud. I Torinesi sanno per esperienza, che quando il cielo si copre di nubi nere sopra Superga, s’approssima quasi sempre la pioggia, mentre se il vento spira da nord, e specialmente da nordovest, è da attendersi il bel tempo.

    Queste regole non valgono più per la montagna, che ha un regime di pressione e di venti tutto particolare, specialmente in relazione alla configurazione del suolo. In vai d’Aosta, soprattutto, e in vai di Susa, molto netto è l’invertirsi quotidiano delle brezze di monte e di valle. Le prime spirano nelle ore mattutine, discendendo lungo le vallate, quando sulle vette più fredde l’aria nella notte si è fatta più densa, e vi si è quindi stabilita un’area di alta pressione. Le brezze di valle spirano, invece, dal tardo mattino in poi, risalendo i solchi vallivi verso le cime che, esposte durante il giorno a più intenso riscaldamento, sono diventate aree di bassa pressione. Chi percorra, ad esempio, la vai d’Aosta, può visibilmente farsi un’idea della maggior forza e della maggior durata delle brezze di valle, osservando la generale, permanente inclinazione verso monte degli alberi più alti che svettano sul fondo valle.

    Venti di incanalamento, come quelli ora ricordati, ma non altrettanto regolari, si notano pure nelle vallette della collina di Torino, massime nei mesi estivi. I venti di quota, sempre nella collina di Torino, spirano in prevalenza o da nord o da nordest. Un sistema di brezze, analogo a quelle di monte, alterna sul lago Maggiore l’« inverna » che spira di giorno da sud rimontando le valli, alla « tramontana », che soffia invece dalla montagna nelle prime ore del mattino. Circa il regime dei venti nel Monferrato e nelle Langhe difettano i dati. Per l’alta Langa in generale, direzione predominante dei venti sembra quella di sud, il che comporta in ogni caso una penetrazione di aria calda di origine mediterranea. Quanto alla bassa Langa negli strati inferiori prevalgono venti di nordest, in alto venti di sud.

    Dalla distribuzione della pressione e dei venti, in rapporto anche alla direzione e alle forme dei rilievi, derivano differenze di temperatura, di umidità, di quantità e di regime delle piogge. Cominciando dalla temperatura è opportuno far presente che la conoscenza delle condizioni termiche del Piemonte non può essere così particolareggiata come quella delle precipitazioni perchè le rilevazioni termometriche, avendo valore pratico inferiore ai dati delle piogge, sono meno fitte e meno estesamente rese note. E anche più irregolarmente distribuite, risultando più numerose in montagna che non in pianura e in collina. Prenderemo come base i dati termometrici più accessibili, e cioè quelli relativi al periodo 1931-56 e a 43 stazioni sparse su un territorio che ha per confine verso est la Sesia e la Scrivia. Rifacendoci anzitutto alle medie annue, una prima osservazione balza evidente ed è che il Piemonte compreso nei limiti ora accennati va soggetto, nel giro di brevi distanze, a dislivelli termici assai notevoli. E ciò in obbedienza alla sua configurazione orografica, sapendosi che la somma media annua di calore diminuisce con l’aumentare dell’altitudine.

    Alto-cumuli a forma di lente in val di Susa.

    La pianura è veramente caratteristica per la uniformità delle sue medie annuali, che vanno da un massimo di 12°,6 (Bra e Alessandria) a un minimo di n°,2 (Cuneo). Sulle colline torinesi e nel basso Monferrato, come nelle Langhe, le medie annue accennano a valori lievemente inferiori. Poi, attaccando l’erta montana, la diminuzione della temperatura si fa veramente sensibile. Per esempio, nello spazio di 20 km. in linea d’aria, su di un dislivello di 2072 m., si passa dalla media annua di 12,5 di Ivrea a quella di 1°,2 per il lago Gabiet. Ma mentre è difficile che le medie di Bra e di Alessandria siano superate in qualche altra località, le zone sommitali dei massicci dal Rosa all’Argenterà hanno medie annue sicuramente inferiori a o° (Gran San Bernardo —1°,8). Non è da credere tuttavia che l’abbassarsi della temperatura verso l’alto sia uniformemente regolare. Così, all’interno dello stesso arco alpino, non è difficile trovare stazioni che, pur avendo latitudine e altitudine sensibilmente diverse, sono apparentate da medie termiche annuali alquanto vicine. Possiamo prendere come esempi Fenestrelle e Viù. Pur avendo il primo paese l’altitudine di 1150 m. e il secondo trovandosi a soli 774 m., le medie annue sono rispettivamente 7°,3 e 7°,6. Così pure si rileva dai valori assai prossimi delle medie annuali di Torino (12°,4), Moncalieri (12°,o), Luserna San Giovanni (10°,8), Lanzo (10°,9), Castella-monte (12°,4), Aosta (10°,2), Casale Monferrato (10°,2) che, ad onta di differenze non trascurabili di altitudine, vi sono delle zone che godono su per giù della stessa quantità di calore. Tali zone sono:

    • a) tratti di pianura prossimi ai fiumi;
    • b) pendii soleggiati degli avamposti alpini;
    • c) conche vallive asciutte nel cuore della montagna.

    La minima elevazione altimetrica è assai probabilmente alle origini dei valori di punta che presentano le medie annuali delle stazioni di pianura nelle depressioni lungo i fiumi. Quanto alle medie egualmente preminenti dell’area collinare alla base del muraglione alpino, va indubbiamente chiamata in causa la posizione defilata ai venti di nord. Questa fascia pedemontana di medie elevate temperature, che comprende addirittura il valore più accentuato di tutto il Piemonte (Romagnano Sesia con 13°,4, poi Ivrea con i2°,5, Castellamonte con i2°,4, Saluzzo con n°,7) penetra all’interno delle maggiori vallate, il cui fondo figura pertanto come un golfo riparato e soleggiato tra alte, fredde catene. Si tratta di un carattere climatologico proprio anche di altre grandi valli dell’arco alpino, e che spiega, tra l’altro, la fortuna di stazioni di soggiorno invernale come Saint-Moritz e Merano. In Piemonte esso si riproduce più spiccatamente in vai d’Aosta, e poi in vai di Susa, dove una cittadina, come è appunto Susa, al fondo di una conca tutta chiusa fra ripide montagne, e con un’altitudine di 503 ni., ha una media temperatura annua (12°,6), che è appena inferiore a quella di Alessandria a 95 ni. sul livello del mare.

    II vento delle vette piega gli ultimi alberi.

    Dopo un’abbondante nevicata in val d’Ayas (Antagnod)

    Dando ora uno sguardo alle medie mensili, vien subito fatto di prendere in particolare considerazione quelle del mese più freddo e del mese più caldo. Il mese più freddo è con inimutevole costanza gennaio: quello più caldo con una costanza non minore risulta luglio. Va probabilmente attribuito a cause del tutto locali lo spostarsi ad agosto del massimo di Romagnano (26°,3). In montagna, invece, le eccezioni sono più frequenti. In alta montagna, poi, deve diventare norma che la media mensile più bassa cada di febbraio e quella più alta in agosto. Il Monterin, anzi, ha rilevato che tale ritardo nell’aumento della temperatura andando verso l’alto è normale, e va accentuandosi quanto più si sale. Un’altra constatazione interessante è che le alte conche delle maggiori vallate alpine hanno gennai (Bardonecchia 1°,2; Aosta 0°,1 ; Varallo 0°,8) che non solo non sono gran che più rigidi, ma talvolta persino meno rigidi di quelli delle pendici sul margine alpino (Mondovì 0°,5; Cuneo 1°,0; Saluzzo 1°,5; Funghera 0°,8; Ivrea 1°,5) e della stessa pianura (Alessandria 0°,4; Asti 0°,5; Fossano 0°,9; Moncalieri 0°,4; Casale Monferrato 0°,3). È stata avanzata l’ipotesi che la parte meridionale del Piemonte sia più calda di quella settentrionale. Certo non è di quella meno fredda, se si tengono presenti le medie di gennaio di Nizza Monferrato (-0°,1) e di Novi Ligure (-0°,4). Se montagna, collina e pianura sono quasi allo stesso livello per quel che riguarda la media temperatura del mese più freddo, si distaccano, invece, quanto al mese più caldo, la cui media temperatura in montagna è sempre più notevolmente più bassa di quella delle aree sottostanti. Pianura e collina hanno valori vicini, ma le condizioni più eccessive sono quelle della pianura, che ha mesi di agosto più caldi.

    Le differenze di temperatura tra il giorno e la notte, pur variando alquanto con le diverse stagioni, non sono in Piemonte molto marcate. D’inverno, anzi, sono assai modeste in pianura: un po’ meno in montagna. Di primavera tali differenze aumentano e crescono ancora d’estate, per poi tornare a diminuire. Ma più interessante è l’escursione termica annua, e cioè la differenza tra la temperatura media del mese più caldo e quella, pure media, del mese più freddo. I valori ricavabili per il Piemonte mostrano una decisa diversità di comportamento dell’escursione in montagna e in pianura, nel senso, cioè, di essere notevolmente più elevati in pianura che non in montagna, dove raramente superano i 20°. Invece nelle regioni pianeggianti si oltrepassano anche i 24°, come ad Asti (24°,6) ed a Alessandria (24°,2). L’escursione annua è particolarmente forte anche a Vercelli (23°,8) e lungo il Po da Moncalieri (23°) a Torino (23°) e a Casale Monferrato (22°,7). L’andamento annuo delle temperature in Piemonte presenta, dunque, il regime che si chiama continentale, e che è caratterizzato appunto da forti sbalzi tra le temperature estive e quelle invernali.

    Andamento della temperatura in alcune località del Piemonte (medie mensili 1931-56).

    Più significativi di quelli delle medie annuali e mensili sono i valori delle medie fatte tra le temperature massime e minime degli anni compresi nel periodo 1931-56. Questi valori confermano e mettono in maggiore evidenza la continentalità termica del clima della pianura, dove si hanno massimi di 35°,6 a Bra; di 34°,9 a Torino; di 34°,7 ad Alessandria; di 34°,4 ad Asti; di 32°,2 a Moncalieri: e minimi di —11°,2 a Nizza Monferrato; di —10°,5 a Moncalieri e a Cuneo; di —10°,4 a Casale Monferrato; di —10°,2 ad Asti; di —10°,1ad Alessandria. Andando verso il piede della montagna, massimi e minimi si attenuano abbastanza sensibilmente. Così Biella ha rispettivamente 31°,8 e —8°,9; Ivrea 32°,3 e —9°,3; Castellamonte 32°,0 e —9°,9; Saluzzo 31°,4 e —7°,5; Mondovì 32°,o e —9°,5. Eccessivo, più di quel che non si pensasse, si presenta anche qui il comportamento della montagna, dove massimi e minimi assoluti danno medie che non sono per alcune, anzi per parecchie località, lontane da quelle della pianura. Ecco, per es., Aosta salire a ben 31°,9 e scendere a —11°,o; Bardonecchia arrivare rispettivamente a 30°,9 e a —15°,2; Casteldelfino venirsi a trovare fra estremi di 29°,2 e —14°,4. Solo le località di alta montagna mostrano una veramente decisa diminuzione dei valori massimi e un aumento, seppur meno forte, dei valori minimi. E il caso del lago Gabiet con 18°,6 e —21°,1, ma già a Gressonev-Saint-Jean si registrano 26°,3 e —13°,8.

    I massimi e i minimi assoluti del periodo qui considerato trovano agli estremi uno spettacoloso 45° per Ivrea e un meno sorprendente —29°per il lago Goillet. Uno sbalzo come si vede di ben 74 gradi. In pianura i freddi più intensi si sono avuti a Torino con —19°,o; a Moncalieri con —17°,2; a Casale Monferrato con —20°,3; ad Asti con —19°,7; con una punta siberiana collinare a Nizza Monferrato, dove si è toccato il fondo dei —24°,8. Pure nell’alto Monferrato, a Spigno, il termometro è sceso a —21°, segnando minimi che non si staccano di molto dal minimo assoluto del Piemonte, registrato, come si è detto, al lago Goillet, a 2420 m. di altitudine. E per converso, in paesi di montagna si sono raggiunti vertici termici che dell’altitudine sembrano ridersi: come i 35°,8 di Varallo; i 31° di Brusson; i 32° di Gressoney-Saint-Jean; i 37°,2 di Bardonecchia; i 33° del Moncenisio; i 35° di Casteldelfino. Da questi massimi rifugge il bordo inferiore della montagna, e, a quanto sembra, anche la collina di Torino, dove osservazioni sessennali condotte a Pino Torinese hanno registrato una minima assoluta di —9°,8 e una massima pure assoluta di 35°. Differenze si manifestano tra montagna e pianura per quel che riguarda il periodo in cui cadono i calori e i freddi più intensi. In montagna, e specialmente nell’alta valle d’Aosta, le più elevate temperature assolute si sono verificate prevalentemente in giugno: in pianura hanno corrisposto quasi sempre con luglio. Il margine della montagna, sia a nord, sia a sud, è stato invece spesso investito dalla maggior calura verso i primi di agosto. Il freddo più rigido in montagna cade decisamente in febbraio e così pure nell’area piano-collinare più vicina alla montagna. Verso il centro della pianura e nelle colline del Piemonte meridionale le minime temperature si sono verificate quasi sempre in gennaio.

    Effetti decorativi della « galaverna ».

    Più dei minimi assoluti di temperatura interessa, però, agli effetti economici, il numero dei giorni di gelo, e cioè quelli in cui la temperatura scende a zero o più in basso. Ben s’intende che la distribuzione dei giorni di gelo in gran parte ricalca quella delle temperature minime invernali. La zona alpina rientra nella fascia in cui si hanno da 100 a 200 e più giorni di gelo all’anno. Collina e pianura contano un un numero di giorni di gelo che va da 50 a 100; Torino, per es., ne novera mediamente 51; Cuneo 50; Novi Ligure 56. In relazione diretta con il diverso numero dei giorni di gelo sta la frequenza delle brinate, che, come è noto, quando sono tardive o precoci rispetto all’inverno, riescono quasi sempre assai dannose alle colture. La frequenza della brina in pianura va crescendo dalla alta alla bassa pianura ed ha le sue zone preferite in vicinanza dei corsi d’acqua. Alle più dannose ed estese brinate si sottraggono, non di rado, le aree sommitali delle colline.

    Gli elementi del clima. Le precipitazioni.

    Come per quel che riguarda le temperature così, e forse più ancora per quel che ha tratto con l’umidità atmosferica, e specialmente con le precipitazioni, il territorio piemontese è soggetto a condizioni assai diverse. Quante volte partendo dalla pianura sepolta sotto una fitta coltre di nebbia, si ritrova in montagna un sole sfolgorante e un cielo di purissimo azzurro! Già si sa che nei mesi di novembre, dicembre e gennaio sono frequenti nella pianura piemontese i giorni di nebbia. Ma le nubi a fior di terra ora si dissolvono a mattina avanzata (« nehia bassa, bel temp a lassa », secondo il detto popolare), ora invece persistono per uno o più giorni di sèguito, e talvolta diventano una vera calamità, massime per gli intralci che provocano alle comunicazioni e ai trasporti.

    Non dimentichiamo, tuttavia, che la pianura piemontese è la parte più elevata della pianura padana, sicché nella « bassa » stessa, accanto a zone più frequentemente nebbiose — e sono quelle lungo i fiumi — ve ne sono altre, a pochi chilometri di distanza, che un dislivello di appena 30-40 m. salva dall’essere coperte dalla nebbia. Così la pianura torinese è più nebbiosa di quella cuneese, più alta: ma basta allontanarsi di pochi chilometri dal Po, e già a Caselle, per es., i giorni di nebbia stagnante non sono più di 6 o 7 all’anno. A Torino la nebbia assume le caratteristiche di un vero « smog », carico di particelle solide e liquide in sospensione (carbone, nafta, altri fumi industriali), che durante l’inverno si rovesciano sulla città dalle ciminiere delle fabbriche e più ancora dai camini delle case. Cosicché, anche in giorni relativamente sereni, dalla montagna e dalla collina si scorge ben delineata nel cielo una cappa grigiastra che oscilla tra i 250 e i 450 m. di altitudine, e che la scarsezza di forti venti aiuta a mantenersi. Durante periodi di maltempo prolungato càpita, invece, di osservare libero il cielo cittadino e le cime delle colline avvolte in un continuo fumare ed accavallarsi di nebbie.

    Spesso si pensa alla pianura ed alle montagne del Piemonte come ad un lembo d’Italia veramente non italiano per il cielo brumoso e piovoso, paragonato a quello dei paesi del nord. In realtà le giornate di cielo coperto non sono in Piemonte più numerose di quelle che non siano, non solo in altre parti della pianura padana, ma anche dell’asse appenninico della penisola. Può forse contribuire a creare l’impressione ora accennata il fatto che, mentre d’inverno la nebulosità è relativamente forte in pianura, d’estate lo è in montagna, e specialmente nell’alta valle d’Aosta. D’inverno, anzi, le giornate limpide, sia in pianura, sia in montagna, sono più frequenti in Piemonte che nel restante della valle padana. Grosso modo si può dire che la nebulosità aumenta andando da ovest verso est. D’estate, invece, si nota il contrario, e cioè la nebulosità diminuisce andando in quella direzione. Maggiore uniformità nella distribuzione del cielo coperto si ha d’autunno, con qualche attenuazione nel tratto tra la Dora Baltea ed i laghi. La serenità invernale propria dell’alta valle d’Aosta si prolunga anche nella primavera, mentre così non è in pianura.

    Anche le precipitazioni oscillano tra valori piuttosto elevati e cifre di modesta entità. Uno sguardo alla carta delle isoiete ottenute congiungendo i punti che presentano la stessa media annua di precipitazioni per il periodo 1921-50 (v. cartina a pag. seguente) conferma sostanzialmente quanto aveva veduto assai bene al principio del secolo l’ing. G. Anfossi. La carta attuale mette in chiara evidenza un’area di minima piovosità (meno di 600 mm. annui) intorno ad Alessandria ed un’altra con meno di 700 mm., che abbraccia la zona compresa grosso modo tra Moncalieri, Chieri, Canale, Bra, Savigliano. Da queste due aree andando verso la montagna la quantità delle precipitazioni cresce gradualmente. Nel Piemonte meridionale comincia a crescere già nelle Langhe, dove, attorno a Belvedere Langhe, si chiude un piccolo anello con più di 1000 mm. di pioggia all’anno in media. Nell’Appennino piemontese l’aumento delle precipitazioni da nord verso sud si fa rapidissimo e culmina a più di 1900 mm. in corrispondenza al Passo del Turchino. Meno serrate appaiono le isoiete nelle Alpi Liguri, dove tuttavia non si raggiungono i 1500 mm. annui. Questo, per altro, è un massimo che si ritrova nella restante parte delle Alpi Marittime, ma solo nelle alte valli. Nella media valle della Stura di Demonte, per es., non supera i 1000 millimetri.

    Nebbia «bassa» pronta a dissolversi, fra le case di Torino.

    Carta delle precipitazioni.

    (L’andamento delle linee isoiete rispecchia quello della carta annessa al volume Le precipitazioni medie mensili e annue e numero dei giorni piovosi per il trentennio 1921-1950, edito dal Servizio Idrografico).

    Comincia qui a profilarsi quel fenomeno generale per cui le valli piemontesi, come d’altronde anche quelle del versante opposto, costituiscono quasi tutte delle zone di bassa piovosità. Si nota, anzi, che la parte mediana delle alte valli alpine è occupata da un’oasi più o meno estesa, ma ben delimitata, di minima piovosità relativa. Di qui, sia scendendo la valle verso la pianura, sia risalendola verso lo spartiacque principale e nelle valli laterali, le precipitazioni vanno aumentando. Nel determinare l’esistenza di queste oasi così caratteristiche di piccola piovosità nelle valli alpine l’orientazione delle valli stesse ha una grande influenza. Si nota, di fatto, che quasi tutti i solchi vallivi dove le precipitazioni scarseggiano hanno direzione generale ovest-est: quelli invece dove le precipitazioni abbondano sono diretti da sud a nord. In vari casi l’area di piccola piovosità comincia soltanto dove la valle fa un brusco cambiamento di direzione. Un esempio tipico se ne ha nella valle d’Aosta, la cui parte inferiore, diretta da sud a nord, ha press’a poco le stesse precipitazioni del suo piovoso sbocco in pianura, mentre, appena oltrepassata la stretta di Montjovet, dove la valle fa un gomito brusco verso ovest, le precipitazioni si riducono d’un tratto a metà della quantità di prima.

    Ma riprendiamo e continuiamo il nostro giro alla ricerca delle variazioni della piovosità. Allo sbocco della valle del Po e di quella del Pellice vediamo corrispondere due aree che ricevono una relativamente elevata massa di piogge. La prima è intorno ai 1200 mm. ; la seconda giunge anche a sorpassare i 1500. Anche qui ci troviamo alle prime manifestazioni di un fenomeno generale, e cioè all’abbondanza di piogge che caratterizza i primi contrafforti alpini, come quelli che, costringendo i venti di est, gonfi di umidità, a sollevarsi e quindi a raffreddarsi, e a condensare l’umidità stessa in pioggia, sono naturalmente destinati a beneficiare delle più copiose precipitazioni. E così si spiega come gli stessi venti, lasciandosi dietro le spalle gran parte dell’acqua di cui erano carichi, giungano nelle medie valli poveri di umidità. Nulla di più interessante al riguardo dell’andamento delle isoiete all’uscita e all’interno della vai di Susa. L’alta valle del Sangone, proprio sul margine della pianura, riceve più di 1500 mm. annui di pioggia. A pochi chilometri di distanza, sul fondo della vai di Susa, non cadono che 800 mm., e tra Cesana, Bardonecchia e Salbertrand appare ben raffigurata un’area in cui cadono meno di 700 millimetri. Intanto, girando da sud ed a ovest verso nord e verso est, si osserverà che le precipitazioni al margine della pianura e allo sbocco delle varie valli alpine aumentano gradatamente. In corrispondenza alla vai Chiusella, la frangia pedemontana riceve più di 1500 mm. di pioggia all’anno, e oltre la Serra, sulla montagne biellesi, tradizionalmente note per la loro umidità, si scaricano anche più di 2000 mm. annui. Si capisce che, stendendosi verso ovest al di là di questa cortina assorbitrice di piogge, la vai d’Aosta veda diminuire rapidamente le sue, tanto che in uno spazio tra Aosta e Chàtillon cadono meno di 500 mm. annui di pioggia! L’asciutta striscia fondo-valliva penetra anche nella Valdigna e si spinge oltre Derby. Ma verso Courmayeur le precipitazioni tornano ad aumentare, sicché sulle cime del Bianco viene a passare l’isoieta dei 1500 millimetri.

    E questo un altro fatto di portata generale che si constata assai bene in Valsesia, dove si nota pure la prosecuzione degli alti valori biellesi. Attraverso la Valsesia, la fascia dei 2000 mm. si allarga sui rilievi contornanti il lago d’Orta e il lago Maggiore, al di là del quale, sui monti tra la vai d’Ossola e il ramo settentrionale del lago, si chiude un’area con più di 2500 mm. di pioggia all’anno. La valle della Toce viene a trovarsi in una zona che non oltrepassa i 1500 mm. ma, come di norma, verso le catene laterali e verso la testata della vai Formazza, le precipitazioni riprendono quota. Chiamando meno piovose le valli le cui stazioni segnalano quantità nell’insieme inferiori ai 1000 mm. di precipitazioni annue, e piovose le altre, possiamo elencare tra le prime la vai Maira, la vai Varaita, la valle della Dora Riparia e la valle d’Aosta: tra le seconde l’alta vai del Tanaro, le valli cuneesi (meno la vai Maira), le saluzzesi e le pinerolesi, le valli di Lanzo, dell’Orco e Chiusella e, con un risoluto crescendo, le valli biellesi e la Valsesia.

    Ed ora qualche valore estremo. Salvo errori od omissioni, nei limiti della regione piemontese seguiti dall’Ufficio Idrografico del Po, la stazione che nel trentennio 1921-50 ha registrato una più elevata piovosità media annua è Carnasco, una frazione di Varallo Sesia a 752 m. sul mare con 2409 millimetri. La stazione, diciamo così, più asciutta risulta essere Saint-Marcel in vai d’Aosta, a 550 m., che riceve appena una media di 494 mm. annui. Come si vede, le zone più umide e quelle più asciutte cadono nello stesso ambiente geografico, quello di montagna. Più equilibrate appaiono le medie massime e minime in pianura. Il valore più alto è dato da Cavour con 1017 mm. annui: quello più basso da Alessandria con 506 millimetri. Altri totali bassissimi, come quelli di Asti (624) e di Bra (613), stanno ad indicare nella media e bassa valle del Tanaro una delle zone più asciutte del Piemonte.

    Anche lungo l’asse del Po si riscontrano quantità di precipitazioni assai ridotte (Carmagnola 672 mm. ; Casanova 690; Moncalieri 693; Torino 779; Casale Monferrato 703). Quanto alle colline, quelle submontane moreniche partecipano delle abbondanti piogge della fascia marginale alpina. Sulla collina di Torino, il versante chierese sembra più piovoso della zona pianeggiante sottostante, e meno umido del versante opposto. Le colline del Monferrato stanno tra gli 850 e i 630 millimetri. Sulle Langhe i valori estremi sono rappresentati dai 1114 mm. di Belvedere Langhe, a 639 m. di altitudine, e dai 679 mm. di Cortemilia, a 305 m. di altitudine, ma a soli 20 km. di distanza.

    Come sono distribuite lungo l’anno le precipitazioni che cadono sul territorio della regione piemontese? In termini più scientifici, quale è il regime delle precipitazioni stesse? Cominciando dalla Valsesia e seguendo le quantità medie annuali per gli anni 1921-50 risulta che nei 12 mesi si distinguono due periodi di massima piovosità: uno primaverile ed uno autunnale. Quello primaverile culmina senza eccezioni di sorta in maggio ed è il più abbondante di piogge; quello autunnale, meno pronunciato, ha il massimo in ottobre. Non poche stazioni, tuttavia, denunciano come più piovoso settembre o novembre. E in generale fra questi tre mesi la media delle precipitazioni non si differenzia di molto. Il mese più asciutto è in molte stazioni gennaio; nelle altre febbraio. In vai d’Aosta, e più precisamente nell’alta montagna valdostana, i mesi di più copiose precipitazioni diventano luglio ed agosto, ma non mancano stazioni in cui il massimo si verifica di maggio. Nella media montagna il massimo cade più spesso in novembre, e il secondo periodo di precipitazioni culmina in maggio. Ma dalla media valle in giù, e specialmente sul fondovalle, il massimo primaverile con maggio torna a prevalere su quello autunnale. Dovunque febbraio si afferma come il mese meno umido.

    Regolarmente maggio figura come il mese più piovoso dell’anno nella vai Chiusella, nella valle dell’Orco e nelle valli di Lanzo. Il periodo autunnale di piogge meno accentuato oscilla fra settembre ed ottobre. Il minimo di precipitazioni coincide sempre con febbraio. Nell’alta valle della Dora Riparia il massimo autunnale, che può cadere ad ottobre e novembre, ha una lieve tendenza a prevalere su quello primaverile: ma da Susa in giù, maggio riprende il suo primato e il massimo secondario cade di ottobre. Il massimo primario di maggio e quello secondario di ottobre si ritrovano pure in vai Pellice, nell’alta valle del Po, in vai Varaita. Ma in vai Maira e nella valle Stura di Demonte il massimo autunnale in diverse stazioni coincide con novembre. Analogo comportamento hanno le precipitazioni nella zona di pianura percorsa dai Po dove più numerose si fanno le stazioni col massimo in novembre. Nella zona montana a valle del Tanaro il massimo primario passa addirittura a novembre e il secondario a maggio. Nel Monferrato e nell’Astigiano predomina ancora quantitativamente il mese di maggio, ma in diverse stazioni il massimo primario appare spostato verso novembre. Spesso tra i due massimi la differenza è minima. Nell’Appennino piemontese, infine, non solo il massimo autunnale cade a novembre, ma è anche decisamente superiore a quello primaverile. Nella regione di montagna, al comando dei mesi meno umidi si alternano gennaio e febbraio, mentre nella pianura e nelle zone collinose febbraio totalizza una quantità di precipitazioni inferiori, seppur di poco, a quella di gennaio.


    Cielo a pecorelle (alto-cumuli) sopra il centro di Torino.

    Riassumendo, in fatto di regime delle precipitazioni, si possono distinguere nella regione piemontese: a) una ristretta zona alpina (alta valle d’Aosta e valle Formazza) in cui piove maggiormente d’estate; b) una zona sudorientale o appenninica e subappenninica in cui l’autunno è più piovoso della primavera, con massime precipitazioni in novembre; c) tutto il restante del Piemonte, e cioè il più del territorio regionale, in cui la primavera è più piovosa dell’autunno, con un massimo principale in maggio e uno secondario in ottobre. Quest’ultimo regime è stato riconosciuto fin dal 1913 dall’Anfossi come tipo piemontese del regime sublitoraneo ed ha ricevuto piena conferma dagli studi dell’Eredia ed a quelli più recenti del Pardé e del Blanchard. L’Anfossi ha, cioè, identificato un regime pluviometrico di transizione tra il continentale — un solo minimo nella stagione invernale e un solo massimo in quella estiva — e il mediterraneo — un solo massimo nella stagione invernale e un solo minimo in quella estiva — chiamandolo sublitoraneo e definendolo come caratterizzato da due massimi di piovosità, in primavera ed in autunno, e due minimi, in inverno ed in estate. Entro questo regime egli ha ulteriormente distinto un tipo piemontese, in cui prevale il massimo primaverile, ed un tipo appenninico in cui predomina il massimo autunnale. Delle tre zone sopra ricordate, la valle d’Aosta e l’alta Valsesia e quella della Toce rientrano dunque in un regime pluviometrico continentale: la zona sudorientale, nel regime sublitoraneo appenninico, e la massima parte della regione piemontese nel regime sublitoraneo piemontese. Come si vede, questo è un campo nel quale la posizione marginale del Piemonte — e cioè di passaggio tra continente e Mediterraneo — esercita in pieno la sua influenza. Si vede anche di qui come sia errato dire che il Piemonte ha clima continentale, se non ci si riferisce solamente ed espressamente alle condizioni termiche.

    Regimi pluviometrici del Piemonte (medie trentennali 1921-1950: precipitazioni in centimetri).

     

    Passando ora alla frequenza, e cioè al numero dei giorni in cui si verifica qualche precipitazione apprezzabile, si rileva, anzitutto, come il numero medio dei giorni piovosi superi i 100 solo in stazioni della Valsesia, in alcune stazioni d’alta montagna della valle d’Aosta, della montagna biellese e delle valli dell’Orco e di Lanzo. Appare dunque che, sia come quantità, sia come durata delle precipitazioni il settore settentrionale delle Alpi piemontesi è più piovoso di quello centro-meridionale. La località che ha il maggior numero di giorni con caduta di pioggia o di neve è il Gran San Bernardo, con il massimo di 155. La fama del Biellese in fatto di umidità dal cielo trova riscontro nei 115 giorni piovosi di Campiglia Cervo e nei valori circostanti poco meno elevati. Per contro, ecco località come Mombello, nella collina torinese, e Saint-Oyen in valle d’Aosta, con meno di 60 giorni piovosi in media all’anno. Nella massima parte del Piemonte, però, il numero medio annuo dei giorni piovosi non varia di molto da un luogo all’altro ed è dovunque non alto, oscillando fra i 70 ed i 90. Altra smentita questa alla diffusa credenza che venendo in Piemonte si debba essere accolti, oltreché da fitta nebbia e da venti gelidi, anche da molte giornate piovose.

    Naturalmente per rendersi conto della maggiore o minore intensità o concentrazione delle precipitazioni bisogna mettere il numero dei giorni piovosi in rapporto con la quantità d’acqua caduta in quei giorni. La vai d’Aosta, per es., presenta parecchie zone in cui una non grande abbondanza di piogge è distribuita in un numero notevole di giorni. Per smaltire 852 mm. di acqua ci vogliono 101 giorni a Promeron e 101 pure ce ne vogliono per diluire i 777 mm. di Hussin. Per contro nell’Appennino piemontese certe stazioni ricevono ingenti masse d’acqua in un periodo di tempo relativamente breve. Così, per es., nel giro di 60 giorni a Sassello cadono mediamente 1322 mm. di pioggia; alla Sella d’Altare in 60 giorni 1334 mm. ; a Montenotte Inferiore in 62 giorni 1335 mm. Considerando la frequenza nella sua ripartizione stagionale ci si imbatte in risultati un po’ inattesi. In molte parti del Piemonte la frequenza estiva è sensibilmente superiore a quella invernale, il che significa un succedersi di brevi piogge durante l’estate assai più diluito di quanto ci si aspetterebbe.

    Si tratta dei tipici temporali estivi di calore, che si scatenano comunemente nel pomeriggio, per l’esistenza di forti correnti ascensionali che originano le ben note grandi nubi a forma di balle di cotone, candide e lucenti. Nelle zone montane settentrionali e centrali queste perturbazioni atmosferiche sono poco frequenti. Aumentano di numero nelle Alpi Marittime, crescono ancora di più in pianura e in collina, concentrandosi particolarmente in due zone che contano più di trenta temporali all’anno: la prima prende di traverso la zona submontana tra Dora Riparia e Ticino; la seconda viene a coprire una larga parte delle Langhe e del Monferrato. Come è noto questi temporali estivi sono, non di rado, grandiniferi e spesso provocano gravi danni anche se hanno distribuzione a strisce o comunque su aree strette ed allungate. Le aree più esposte ai temporali grandiniferi risultano quelle della media valle del Tanaro, delle Langhe, del Monferrato e delle bassure lungo il corso del Po (da 2,5 a 5 giorni in media con grandine all’anno).

    Se è vero che in gran parte del Piemonte la primavera passa per essere la stagione che ha il maggior numero di giorni piovosi, è anche vero che l’autunno raccoglie le sue precipitazioni, di poco inferiori a quelle della primavera, in un numero di giorni notevolmente minore; il che significa che non la primavera ma l’autunno è la stagione delle piogge più compatte, date dalla maggior quantità nel minor periodo di tempo.

    Sarebbe però errato fidarsi di queste ed altre conclusioni statistiche per trarne motivo di previsioni a breve o a lunga scadenza che si voglia. Chi dubitasse della italianità fisica del Piemonte non avrebbe che da tener dietro alle variazioni del totale annuo delle precipitazioni per un determinato, anche non grande, periodo di anni. Vedrebbe allora che l’incostanza caratteristica del clima italiano ben si ritrova nell’irregolare alternarsi di annate piovose con altre asciutte ed anche assai asciutte, che moltissime stazioni pluviometriche del Piemonte denunciano. Calcolando gli scarti annui rispetto ai valori medi del solito trentennio 1921-50 si ricava che la variazione delle precipitazioni annue è compresa fra il 37 e il 165% delle medie del trentennio. Ma a Fenestrelle si è raggiunto addirittura il 167% del valore medio e precisamente il valore assoluto di 1531 mm., con uno scarto di 693 mm. rispetto alla media. Per quanto riguarda le precipitazioni minime il massimo scarto percentuale negativo si ha per la stazione di Alba, dove si raggiunge il 37%, cui corrisponde uno scarto di 512 millimetri. In valore assoluto la massima escursione tra i valori massimi e minimi si ha per la stazione di Varallo con 1622 mm., ma forse l’entità dei divari annuali nelle precipitazioni spicca più energicamente da qualche confronto diretto. Prendiamo, per es., le precipitazioni medie annuali di Torino dal 1896 al 1955. Ebbene, mentre nel 1901 si ebbero 1300 mm. di pioggia, tre anni dopo, nel 1904, non se ne ricevettero che 494, e cioè quasi un terzo. Sbalzi del genere, sebbene meno forti, si notano anche negli anni successivi. Prendiamo ora a caso qualche altra stazione con riferimento al trentennio 1921-50. A Cavallotti Origlia (bacino del Tanaro) nel 1921 sono caduti 605 mm. di acqua e nel 1928 ben 2096 e cioè più di tre volte tanti. A Casale Monferrato si è passati dai 422 mm. del 1921 ai 1157 del 1926; a Grandubbione (vai Chisone), con i 521 mm. del 1923 hanno fatto drastico contrasto i 1646 del 1929; a Superga, di fronte ai 288 mm. del 1928 si sono avuti i 1275 del 1936 che rappresentano il quadruplo del valore minimo. E si potrebbe continuare. Evidentemente non tutte le stazioni ostentano delle variazioni così ampie, ma l’irregolarità delle precipitazioni rimane.

    Questa irregolarità si riflette anche per quel che concerne stagioni e mesi. La stessa località, per es., vede seguire a una primavera piovosissima la quasi asciutta primavera di un altro anno. Ma, come era da aspettarsi, più che le stagioni maggiormente abbondanti di precipitazioni sono affette da capricciosa volubilità le altre stagioni, e cioè l’estate e l’inverno. Difficilmente si riscontra in Piemonte qualche località in cui, di quando in quando, non faccia capolino un mese rimasto completamente asciutto e questo anche in zone di elevata piovosità.

    Candore di cumuli pomeridiani nel cielo di Saint-Pierre (val d’Aosta).

    Questo disordine trova una espressione ancora più manifesta nelle cifre che testimoniano di piogge torrenziali, rovesciantisi sul territorio piemontese in ogni stagione, anche nella meno piovosa, e cioè nell’inverno. Uno spoglio — condotto sugli Annali Idrologici — dei dati relativi alla sola provincia di Torino per il decennio 1941-50 in merito a queste grandi piogge, ci ha consentito di notare che persino d’inverno non mancano violenti rovesci con più di 100 mm. in 24 ore. Più facile, naturalmente, è l’imbattersi in acquazzoni altrettanto risoluti d’estate. Nell’agosto 1940 a Moncalieri in mezz’ora le cataratte del cielo hanno rovesciato più di 48 mm. di acqua. Ma, ed è anche naturale, le più massicce e dirotte cadute d’acqua si verificano in primavera e più ancora d’autunno. I rovesci più spettacolosi, per non citare che quelli, si riferiscono al 1947 e riguardano soprattutto la valli di Lanzo. Qui in 24 ore tra il 25 e il 26 novembre si sono avuti 263 mm. a Pessinetto, 264 ad Usseglio, 410 a Balme, 469 a Viù! Nel settembre 1948 si superarono i 200 mm. in un giorno a Pont-Saint-Martin (229), a Pianprato (277), a Meugliano (207). Tristi esperienze fanno ritenere che concentrazioni di piogge del genere, e persino superiori, siano specialmente possibili nelle regioni più elevate dell’Appennino piemontese (valli dell’Orba, della Scrivia, del Curone, del Borbera).

    Le ultime disastrose alluvioni in vai Padana (1951) hanno dimostrato che, più delle piogge violentissime ed abbondanti, sono pericolose quelle che insistono a lungo, senza interruzione, sopra una assai vasta superficie. Non è facile poter stabilire quando e dove codeste piogge torrenziali abbiano probabilità di scaricarsi in territorio piemontese. Piuttosto merita ricordare che una non piacevole alternativa alle piogge di lunga durata consiste in periodi di più o meno pronunciata siccità. I quali non sembrano essi pure rispettare nè epoca dell’anno (pur essendo prevalenti in inverno e in estate), nè tipo di rilievo. Caso mai si direbbe che prediligano le alture più che le bassure. Vi sono località nelle quali durante il trentennio 1921-50 non si è avuta una goccia d’acqua per quattro mesi consecutivi, come è accaduto a Castagnole Monferrato. Località in cui non è assolutamente piovuto per almeno tre mesi consecutivi le troviamo tanto in montagna (Lillaz: gennaio-marzo 1929; Locana: ottobre-dicembre 1921; Ceva: settembre-novembre 1921) quanto in collina (Santa Libera: giugno-agosto 1928; Sezzadio: giugno-agosto 1927). Che se poi si dovessero considerare i periodi di più mesi con meno di 15 mm. complessivi d’acqua, allora l’elenco si allungherebbe di molto e comincerebbe con l’includere Asti (7 mm. settembre-dicembre 1921); Alessandria (11 mm. settembre-novembre 1921); Mango d’Alba (6 mm. giugno-agosto 1928); Case di Nava (1 mm. settembre-novembre 1921); La Thuile (12 millimetri ottobre-novembre 1921) e così via. In relazione al periodo dell’anno in cui cadono, queste siccità sono più o meno dannose all’agricoltura.

    Il fatto di carattere quasi generale per cui i mesi più freddi dell’anno sono anche quelli in cui le precipitazioni sono più scarse, e, in diverse zone del Piemonte, specie la marginale pedemontana, la relativa mitezza delle temperature invernali fanno sì che l’ammanto nevoso in Piemonte abbia un’importanza secondaria rispetto al volume e al regime delle piogge. Come è naturale, gli spessori minimi si hanno in pianura; i massimi in montagna, specie là dove si hanno assai basse temperature, in concomitanza ad abbondanti precipitazioni primaverili ed autunnali. Quanto allo spessore della neve al suolo si osserva, in linea di massima, che il periodo in cui esso è misurabile in alta montagna va da novembre a giugno. Da dicembre a maggio vi sono poche stazioni che non siano per qualche tempo sotto la neve: nessuna nei mesi di gennaio e febbraio. Il mese durante il quale la nevosità appare massima è febbraio. Lo spessore della coltre nevosa varia naturalmente con il periodo dell’anno, con la temperatura, con l’altitudine, con l’esposizione.

    Facendo lo spoglio dei dati dello spessore dello strato nevoso per una ventina di stazioni e per il periodo 1933-52, l’ing. Abbadessa ha calcolato tale spessore per il primo giorno dei mesi da dicembre a maggio. Dall’esame di una cartina relativa al i° aprile di un anno medio, la coltre nevosa risulta superare i 125 cm. nell’alta vai Formazza, nel massiccio del Rosa, in quelli del Bianco e del Gran Paradiso, e nelle alte valli di Lanzo. A mezzogiorno della vai di Susa va via via riducendosi l’area dei 125 cm. ed aumenta quella da 75 a 25 centimetri. Come in altre sezioni delle Alpi, anche nelle Alpi piemontesi si è osservata una fascia oscillante tra gli 800 ed i 1300 m. di altitudine lungo la quale le precipitazioni nevose segnano un minimo. In ordine alla durata del manto nevoso, sempre per il periodo 1933-52, si passa da un minimo di 18 giorni a Castellamonte (343 m. d’altitudine) ad un massimo di 250 giorni al lago Goillet nell’alta Valtournanche (2565 m.) durante un’annata media. Intorno ai 2200 m. la copertura nevosa permane per 200 giorni e per 150 intorno a quota 1200. La durata di 100 giorni abbraccia una fascia che va dai 950 m. nella valle della Stura di Demonte e i 1200 m. nella valle della Dora Riparia e della Stura di Lanzo. Nelle valli della Dora Baltea si aggira fra i 950 ed i 1300 m. ; per la valle della Toce oscilla tra i 1000 e i 1200 metri. Queste differenze da valle a valle sono in armonia con quelle che caratterizzano la distribuzione delle piogge. Nella stessa valle, poi, sensibile è l’influenza della esposizione dei versanti. La durata di 50 giorni va dai 300 m. di qualche zona più fredda e nebbiosa della pianura ai 700 nelle vallate esposte al sole. Le zone collinari rientrano quasi tutte nella fascia dei 25 giorni di durata. La pianura appartiene in larga proporzione all’area in cui tale durata è inferiore ai 25 giorni.

    Tirando le somme, e cioè osservando come gli elementi climatici sin qui visti separatamente si combinino in realtà tra di loro, nel quadro del territorio piemontese si fa così manifesta e determinante l’influenza del rilievo su quella combinazione da richiedere la divisione del Piemonte in tre regioni climatiche: montana, marginale pedemontana e di pianura. La regione montana è caratterizzata da forti escursioni termiche diurne, da escursioni annue non ugualmente rilevanti, da medie temperature annue più basse che in pianura: tutti i fenomeni, insieme ai venti locali di incanalamento (brezze di monte e di valle e fòhn e alla maggiore serenità invernale), che sono propri della montagna alpina in genere. Ma in Piemonte essa presenta divari termici non meno pronunciati di quelli che si notano in pianura, e nelle località più elevate dell’arco settentrionale un ritardo nell’aumento stagionale della temperatura, per cui il mese più freddo è febbraio e quello più caldo è agosto. Più forti ancora dei contrasti termici appaiono in montagna quelli pluviometrici, dovuti, come i primi, alla diversa orientazione e disposizione dei rilievi. La nebulosità in montagna è prevalentemente estiva. La piovosità, che aumenta in complesso andando dalle Alpi Marittime alle Pennine, risulta assai modesta all’interno delle maggiori valli e cresce verso le alte cime. Il regime delle precipitazioni è veramente alpino, e cioè ha un solo massimo estivo, lungo una ristretta fascia che va dalla valle d’Aosta ai laghi. Nel restante dell’arco montano si distinguono due massimi di piovosità: uno primaverile ed uno autunnale, con prevalenza più o meno decisa di quello primaverile fino all’Appennino: con prevalenza del massimo autunnale nell’Appennino. Occorre appena aggiungere che in montagna il manto nevoso è più spesso e permane più lungo che non in pianura.

    La distinzione di una regione climatica che abbraccia i più bassi contrafforti montani e le appendici collinari che fanno transizione alla pianura è imposta soprattutto dai valori particolarmente elevati, delle medie temperature annue, dei massimi termici assoluti, della quantità delle precipitazioni. Un insieme di condizioni che fa della regione ora accennata un ambiente sensibilmente meno rigido, non solo della montagna, ma anche della pianura. A questa, come regione climatica, si può associare l’area collinare del Monferrato e delle Langhe, specialmente per la diffusa ed accentuata continentalità delle condizioni termiche, con inverni piuttosto freddi ed estati calde. Con questi forti divari stagionali contrasta una distribuzione abbastanza uniforme delle precipitazioni e una loro moderata quantità. Il regime delle precipitazioni stesse è sublitoraneo con due massimi: uno primaverile e l’altro autunnale. Il Piemonte sudorientale vede già la prevalenza del massimo autunnale (tipo appenninico); il restante della pianura e delle colline terziarie rimane aderente alle caratteristiche del tipo piemontese, che assicura la preminenza alle piogge primaverili, con massimi che cadono costantemente in maggio. Le folte nebbie invernali e i frequenti temporali estivi contribuiscono non poco a meglio determinare la fisionomia del clima di pianura.

    I ricordi di antiche carestie, di siccità, e di inondazioni descritte come tragedie gravissime, insieme all’abitudine dei vecchi contadini e montanari di trovar cambiato il tempo (anche meteorologico…) rispetto a quello della loro giovinezza, inducono talvolta a chiedersi se non siano intervenute variazioni nel clima del Piemonte, anche entro non lunghi periodi di anni. Siccome la spia più sensibile di tali variazioni è la vegetazione, così accenneremo brevemente al problema trattando della vegetazione.

    La vegetazione e le sue variazioni nel tempo

    L’annuario di statistica forestale per il 1957 assegna al Piemonte una superficie a bosco di 524.329 ettari, cifra che mette il Piemonte al terzo posto (dopo la Toscana e il Trentino-Alto Adige) quanto a superficie assoluta. Se facciamo il rapporto tra area boschiva ed area agrario-forestale, la graduatoria cambia, e il Piemonte passa al quarto posto dopo la Liguria, il Trentino-Alto Adige, la Toscana. Ma rimane egualmente acquisito che il Piemonte è una delle regioni d’Italia in cui le formazioni forestali hanno una maggior diffusione ed importanza. Ciò dipende evidentemente dall’elevata proporzione di territorio montano. Le statistiche per provincia dànno sùbito un’idea dell’influenza che il rilievo ha sulla boscosità. In effetti i boschi, che occupano il 36,9% in provincia di Novara, il 30,6% in vai d’Aosta, il 25,7% in provincia di Cuneo, il 23,4% in provincia di Torino, il 23,1% in provincia di Vercelli, scendono al 13,6% in provincia di Alessandria e al 10,7% in provincia di Asti: e ciò comprendendo, come si farà di qui innanzi, i castagneti da frutto. Ma non è detto che dovunque la massima proporzione di superficie boscata tocchi alla montagna. In provincia di Torino, per es., il coefficiente di boscosità segna il 30% in collina, il 28% in montagna e il 9% in pianura.

    La massima densità forestale del Piemonte corrisponde a parecchie valli ossolane, ai dintorni del lago d’Orta e alla riviera del lago Maggiore. Questo distretto non è isolato, ma con valori lievemente inferiori continua nella media Valsesia, e attraverso il Biellese, caro ai pittori per la riposante visione del suo rigoglio arboreo, si spinge a comprendere il Canavese, che spesso si saluta poeticamente con l’attributo di « verde ». Insieme al Canavese, altre parti della fascia montana marginale appaiono estesamente rivestite di vegetazione forestale. Questa copre circa il 40% del suolo produttivo nelle estreme propaggini alpine della vai di Susa e del Pinerolese, come in quelle delle valli cuneesi dalla Stura al Pesio, per infittirsi specialmente nelle conche vallive del Monregalese. Nella striscia dal Biellese al Verbano, come nelle aree marginali ora ricordate, l’abbondanza della vegetazione si spiega ricordando l’abbondanza delle piogge che si scaricano sulle prime pendici montane, e le miti temperature che vi dominano. Ma l’impressione che fa la folta vegetazione di alcune basse valli va in larga misura attribuita al gran numero di alberi fruttiferi.

    All’interno delle maggiori valli è più facile vedere come l’altitudine, la natura del suolo, e specialmente l’esposizione dei versanti facciano variare la proporzione di suolo a bosco. In linea generale l’alta montagna risulta avere un rivestimento arboreo sensibilmente meno esteso di quello della media e della bassa montagna. L’esempio più significativo si riscontra in vai di Susa, la cui alta montagna non ha a bosco che il 16,5% della superficie produttiva (come in vai d’Aosta), mentre nella media valle la percentuale cresce rapidamente al 39,7%. Fortemente boscose, ma perchè meno elevate, sono le montagne che rinserrano il bacino della Toce. Hanno un coefficiente di boscosità dal 20 al 30% le alte valli delle Alpi Cozie e Marittime, ad eccezione dell’alta vai Tanaro, dove si arriva all’elevata proporzione del 42%. La scarsa percentuale di area boscata nelle valli di Lanzo e in quelle che incidono il massiccio del Viso è, in parte, una conseguenza della povertà del suolo (pietre verdi). Le ripercussioni della diversa esposizione trovano un chiaro esempio nella media valle d’Aosta, la cui alta montagna aperta a nord presenta un coefficiente di boscosità del 18,1%, mentre quella esposta a sud arriva appena al 12,1%.

    La distribuzione dei boschi in Piemonte (secondo dati dell’Ispettorato regionale forestale).

    Forti differenze nella proporzione boscata del suolo produttivo si notano pure in territorio collinoso. La posizione di punta al riguardo spetta all’alta Langa del-l’Albese, dove la percentuale del 39,1% si stacca notevolmente da quella della bassa Langa, nella quale non si raggiunge il 20%. Altre zone collinari di maggiore boscosità tra il 38 e il 30% — sono quelle addossate alla montagna, specialmente nel Novarese, nel Biellese, nel Canavese, nel Pinerolese, nel Saluzzese, nel Monregalese, e in quelle del Curone, del Borbera, del Lemme. Mediocri proporzioni di suolo a bosco presentano la collina di Torino (25,3%). la collina morenica di Rivoli e di Ivrea (19,0%), la collina tortonese (18%). Poveri di boschi si possono definire l’Astigiano e il Monferrato. Nell’alta collina astigiana il coefficiente di boscosità si aggira ancora intorno al 14,6%, ma nel basso Monferrato precipita all’1,5%. In linea generale sono lasciate a bosco le aree collinari in cui il terreno è troppo grossolano (morena o conglomerato), e con pendii troppo ripidi, o esposti decisamente a mezzanotte. La boscosità è assai modesta anche in pianura, dove si passa da valori del 16 ,4% sul pianalto tra Sesia e Ticino, a valori del 4,8% sul pianalto cuneese. Le aree di pianura ancora rivestite di formazioni vegetali classificabili come boschi si trovano in corrispondenza a terreni baraggivi — quali appunto quegli del pianalto novarese ora ricordato — o a riserve di caccia (boschi di Stupinigi, della Mandria, di Ternavasso, di Racconigi, ecc.). Strisce di bosco d’alluvione seguono fedelmente i terreni di recente formazione lungo i corsi d’acqua, anche più umili. Chiazze di bosco si sono pure formate nelle depressioni di suolo umido o compatto.

    Boscaglia residua nelle alte « vaude » torinesi.

    Tirando le somme, si può giustificatamente ritenere che, rispetto alla superficie produttiva, quella forestale costituisca in montagna il 50%, in collina il 17%, in pianura il 7%. Come si presentano dal punto di vista della forma di governo (metodo adottato per la rinnovazione del bosco) e per tipo o qualità delle piante i boschi del Piemonte ? Anzitutto bisogna evitare di immaginarsi che il mantello forestale si stenda in grandi superfici unite e compatte. Anche in montagna tale mantello è assai frastagliato e frangiato, in relazione specialmente con le brusche movenze del rilievo, con i profondi canaloni, con le pareti strapiombanti e le vaste colate di detrito di falda. E poi bisogna distinguere tra fustaie (piante destinate a crescere ad alto fusto) e cedui semplici (boschi destinati a taglio periodico con breve turno) e composti (boschi costituiti da fustaia e ceduo semplice mescolati): tra boschi di resinose (pini, abeti, larici, ecc.) e boschi di latifoglie (faggi, querce, castagni, ecc.).

    Boschi di sponda lungo la Dora Riparia presso Collegno.

    Più di tre quinti del patrimonio forestale piemontese constano non già di selve secolari, ma di cedui semplici e composti, e cioè sono lungi dal mostrare quel maestoso sviluppo di grossi alberi, che dà alla vera foresta il suo fascino sottilmente misterioso. E ancora, non tutti questi cedui sono sani e vegeti. Sulle pietre verdi, come sulle vaude e nelle baragge, hanno ben più l’aspetto di una rada, stenta boscaglia. In pianura la superficie maggiore è appunto occupata dai cedui semplici di ontani, di acacie, di castagni. Contribuiscono a formare le fustaie, pioppi, acacie, olmi, frassini. I cedui composti sono formati prevalentemente da roveri e da robinia. Più ancora che in pianura prevalgono in collina, sulle fustaie, i cedui, alla cui composizione partecipano specialmente castagni, querce, robinie, frassini, ontani, roveri, salici e rari pini silvestri. Questa diffusione del bosco ceduo, soprattutto castanile, risponde anche al fatto ch’esso fornisce all’azienda agraria collinare, largamente imperniata sulla viticoltura, i pali usati come sostegno morto per la vite, oltre che legno da ardere e da opera. Una discreta estensione hanno nella collina piemontese anche i castagneti da frutto (un 15.000 ettari), i cui prodotti tuttavia non sono molto pregiati. Il ceduo composto, poco rappresentato, è formato per lo più da castagno, rovere, robinia, pioppi.

    Le resinose, che sono del tutto assenti in pianura e che compaiono timidamente in collina, si espandono invece ampiamente in montagna, dove diventano pure predominanti le fustaie. Ma qui in tema di montagna e di vegetazione forestale è da farsi un più lungo discorso, richiesto soprattutto dal modificarsi della vegetazione stessa con l’altitudine, e in ultima analisi, con le condizioni climatiche. In nessun’altra parte del sistema alpino, la zona di base della vegetazione montana è così tipicamente caratterizzata dalla prevalenza del castagno come nelle Alpi piemontesi. Qui le basse valli hanno effettivamente nel castagno il loro albero trionfatore, che non di rado ne riveste, per chilometri e chilometri, in fustaia o in ceduo, le pendici, infittendosi ancora nella zona di sbocco. E quanto può facilmente constatare chi percorra, per es., la vai Chisone. Ma come è noto, sono i bassi versanti delle valli cuneesi quelli su cui il castagno si è più vigorosamente impiantato e diffuso, tanto che le sue fustaie colà esistenti rappresentano i quattro quinti del totale piemontese. Il limite medio altimetrico del castagno s’aggira nelle Alpi piemontesi sugli 800-700 m., salvo che nella valle d’Aosta, dove sale a 1100. Nella stessa fascia submontana la quercia, antica dominatrice spodestata, è ormai ridotta, in popolamento puro, a poche isole frammentarie, di cui si hanno discreti esemplari nelle già ricordate valli cuneesi.

    Al di sopra del castagno e della quercia, si entra nel dominio della vegetazione veramente montana, incontrando prima una fascia di latifoglie, tra cui ha posizione preminente il faggio. L’habitat preferenziale del faggio corrisponde grosso modo alle medie valli e ai medi versanti delle stesse. Ma poche sono le superfici a faggeta in popolamento puro, e ben lontane, comunque, dal poter competere con quelle delle Alpi orientali. Isole di faggeta a fustaia adornano specialmente la vai Chisone e la vai di Susa da Villarfocchiardo in giù. La caratteristica frammentazione delle aree a faggio rende piuttosto difficile l’individuare il limite superiore di questa bella pianta che sale fino ai 1400-1600 metri. Esemplari o gruppi isolati di faggi scendono a quote minime (360-400 m.) nella pianura piemontese.

    Mentre il faggio è pianta piuttosto delicata ed esigente in fatto di umidità e di condizioni termiche non eccessive, il pino silvestre, col quale già si passa alla fascia di resinose della zona montana superiore, è più tollerante della aridità e delle escursioni termiche assai pronunciate e s’accontenta di terreni poveri, scabri, dirupati. Si capisce di qui perchè questa rustica pianta si sia bene accomodata con l’ambiente siccitoso e climaticamente continentale che caratterizza l’interno delle valli di Susa e di Aosta. Boschi di pino silvestre in alta e densa fustaia si trovano pure sul versante cuneese delle Alpi Marittime. Nelle valli delle Alpi Cozie e Graie la pineta entra tavolta in associazione con l’uva ursina: in vai d’Aosta con astragali. Il limite massimo superiore è sui 1800 metri.

    Nella regione dei più fiorenti castagni (valli cuneesi).

    Ma le conifere, che in più fitto mantello rivestono gli alti versanti della montagna piemontese fino al limite della vegetazione forestale sono l’abete rosso, o peccio, e il larice. Vero dominatore, anzi, è il larice, cui spettano i quattro sesti dell’area occupata dalle fustaie di resinose. Le dense, altissime fustaie di peccio costituiscono uno dei più suggestivi ambienti e paesaggi vegetali delle Alpi piemontesi. La loro estensione, però, è ristretta, e non comparabile con la vastità e la grandiosità delle pinete delle Dolomiti cadorine. Mescolandosi facilmente verso il basso con il faggio, e superiormente con il larice e il pino montano, l’abete rosso non presenta limiti altitudinali abbastanza netti per poterli definire con cifre attendibili.

    Albero alpino per eccellenza, apparentemente gracile, ma capace di sfidare fulmini e travolgenti tempeste, il larice, col diradarsi della pecceta, tende ad assumere il predominio, e solo, in effetti, rimane in prossimità del limite della foresta, talvolta ridotto a qualche moncone ischeletrito, su cui verdeggia lietamente un tenero germoglio. Nelle Alpi Marittime il limite superiore del lariceto s’aggira sui 2000 m. : nelle Alpi Graie sui 2200. I più vasti lariceti si trovano nella montagna torinese, che da sola drizza al cielo due quinti delle fustaie di larice del Piemonte. Particolarmente ricche ne sono le valli pinerolesi, l’alta valle di Susa, la valle dell’Orco. Pure nella montagna cuneese e in vai d’Aosta notevole estensione hanno i lariceti. Accanto agli ultimi parchi di larice, ma dal larice facilmente sorpassato in altitudine, si trova, non di rado isolato, il pino cembro, dal tronco massiccio, dai rami corti e robusti, dalla ispida chioma verde scura.

    La densità della vegetazione allo sbocco delle valli sembra quasi soffocare gli abitati (bassa valle di Lanzo).

    Al di sopra di queste ardimentose avanguardie della vegetazione forestale si entra nel vero mondo alpino attraverso una fascia di vegetazione, che si suole chiamare delle piante legnose contorte, perchè caratterizzata da arbusti in colonie di varia compattezza, fra gli ultimi alberi isolati, stenti ed imbozzacchiti. Rientrano in questa boscaglia alpina specialmente il pino montano, o pino mugo, talvolta a tronco strisciante, tortuoso, relativamente scarso nelle Alpi piemontesi ; quelle bellissime piante che sono i rododendri, i cui cespugli sempre verdi, con fiori di splendido color rosa-rosso, s’estendono talvolta ad invadere interi valloni salendo fino a 3000-3300 m., il ginepro nano, prostrato al suolo a formare densi cuscini appiattiti; l’erica, più tipica delle brughiere pedemontane; il mirtillo dalle deliziose bacche nere; l’uva ursina; l’azalea nana.

    Tra le foreste e la tormentata vegetazione degli arbusti alpini i fianchi della montagna s’aprono luminosamente in amene radure di prati e di pascoli. I prati naturali hanno composizione quanto mai eterogenea, ma salendo dal basso verso l’alto vedono succedersi piante caratteristiche, come l’avena altissima, propria dei prati della zona basale; il trireto, o avena d’oro, frequentissimo nei prati permanenti dai 900 ai 1800 m. e accompagnato da crochi, soldanelle, margherite, campanule, ecc.; la poa alpina, una delle più preziose foraggere delle Alpi oltre i 1500 m. e fino a 2500 metri. Prati magri di bassa e media montagna si distinguono per la grande diffusione che vi ha il bromo eretto. Accanto a questi prati, nelle zone centroalpine, più aride e più calde, si hanno delle associazioni addirittura steppiche, in cui predominano la festuca vallesiana, le stipe, gli astragali, le achillee, le potentille, i carici. Associazioni di questo genere, che ingialliscono rapidamente d’estate, s’incontrano specialmente in vai d’Aosta. Oltre i 2000 m., entrando nel vero dominio dei pascoli alpini, li troviamo differire per la prevalenza di questa o di quella pianta. Si distinguono così ricchi pascoli a leontodi: altri assai magri a nardo, altri, molto in alto, a festuca varia con erbe fini, capillari, come l’agrostide delle rupi, il didemma emisferico, le potentille. Infine, sino ai 3000 m., si spinge il tappeto erboso giallastro in cui l’associazione si crea intorno a carice curva, che ama suoli abbondantemente umosi. Sui terreni calcarei i pascoli hanno una loro flora, tra i cui componenti va ricordata la stella alpina o edelweiss, che non è soltanto, come spesso si crede, pianta di roccia.

    Al margine dei prati e dei pascoli, in luoghi ricchi di humus e umidi, si sviluppano spesso alte, lussureggianti erbe, tra le quali meritano menzione, come piante ammoniacali presso stalle e recinti del bestiame, romici dalle larghe foglie, senecii alpini, alchemille, ortiche: a ridosso dei muri di pietra gli aconiti e specialmente il bello ma velenosissimo aconito napello; sui pascoli più alti, il cizio spinosissimo; nelle tasche umide, tra i grossi blocchi dei « ciapè », rigogliose felci, abbondanti anche lungo i corsi d’acqua. Ma la più nobile, la più antica e la più interessante vegetazione alpina è quella, così smagliante di forme e di fiori, delle rupi e dei detriti che si inframmezzano fra gli alti pascoli e li superano nell’ascesa che ha per solo limite supremo le vette. Qui ci limitiamo a ricordare alcune specie esclusive delle montagne piemontesi, come il garofano alpestre, il semprevivo di Allioni, la sassifraga pedemontana, la claspide di Thomas (vai di Cogne), la primula di Allioni, la campanula del Cenisio, la berardia.

    Boschi di recente piantagione nella valle della Dora Riparia.

    Condizioni orografiche possono permettere alla vegetazione di salire localmente e stentatamente ben oltre il limite climatico delle nevi. Si tratta di pianticelle molto simili a quelle delle terre polari artiche, che vivono, o in vallette nivali o in isole rupestri o detritiche, emergenti oltre i 2700-3000 m. dai più vasti ghiacciai alpini, o sulle altissime vette. Ricordiamo tra queste coraggiose piante il ranuncolo dei ghiacciai, la genziana bavarica, la soldanella minima, il politrico esagonale. Naturalmente i muschi e i licheni tendono a prevalere, come numero di specie, alle massime altitudini. Ed è altrettanto naturale che tanto le fanerogame quante le crittogame più elevate appaiano rifugiarsi sugli eccelsi massicci del Monte Bianco e del Monte Rosa. Di qui deriva al Piemonte un’altra originale, delicata supremazia. Vi sono di fatto delle fanerogame che sono state trovate sul Cervino a 4200 m. di altitudine!

    Come si è formato il quadro attuale delle vegetazione nelle Alpi piemontesi? Ed è vero che in antico l’estensione dei loro boschi doveva essere assai maggiore dell’attuale? Al primo quesito risponderemo sintetizzando al massimo i risultati delle ricerche dei botanici, al cui dire la flora alpina ha subito notevoli trasformazioni soprattutto per effetto delle grandi glaciazioni quaternarie. Dopo l’èra glaciale, appaiono ambientate le stesse grandi specie arboree che troviamo tuttora dominanti. Ma la superficie relativa e i limiti altimetrici subirono delle sensibili oscillazioni — in corrispondenza ad analoghe oscillazioni climatiche — che importarono pure l’ingresso nel mondo alpino, e l’accomodamento, di specie ad esso nuove. Così, sul fondo di piante comuni all’Europa centrale (che sono le essenze prevalenti), arricchito di relitti dell’epoca glaciale, in periodi più asciutti si fecero strada piante xerotermiche, e cioè prosperanti in clima secco, di provenienza mediterranea ed orientale o steppica. Tali piante sopravvivono, come si è accennato, nelle zone interne subaride delle maggiori vallate. In periodi più freddi e più umidi, al ritirarsi delle piante ora ricordate, facevano riscontro delle irradiazioni atlantiche, e cioè il penetrare e l’espandersi di associazioni originarie dell’Europa occidentale.

    I Piemontesi della preistoria hanno dovuto subire questo genere di variazioni e vi sono rimasti del tutto estranei. Ancora recentemente si è voluto insistere sul tardo ingresso del castagno nella cerchia alpina e su una pretesa riduzione dell’area del faggio ad opera dell’uomo. Sta di fatto che il castagno è indigeno dell’Europa meridionale e che vi si è diffuso obbedendo a mutamenti di clima in senso temperato umido, mentre il faggio, pianta piuttosto delicata, non poteva svilupparsi che in rifugi particolarmente adatti. Spesso si legge o si sente dire che ancora agli albori della storia le nostre Alpi erano interamente rivestite di splendide selve, in seguito barbaramente distrutte da generazioni di montanari ingordi ed imprevidenti. La realtà sta in termini diversi. Anzitutto, perchè vaste superfici di terreni montani, per ragioni orografiche, fisiche o chimiche, rifiutano il bosco, come comprovano non avveduti tentativi moderni di afforestazione. In secondo luogo perchè, abbastanza densamente abitate nell’epoca del bronzo, le Alpi piemontesi avevano già subito tagli di boschi e conquiste di aree coltivabili in proporzioni non molto diverse da quelle dell’epoca romana. E d’altra parte, il quadro dell’alta vegetazione montana quale risulta dalle notizie, spesso frammentarie, degli antichi autori, corrisponde perfettamente alle condizioni naturali odierne.

    Nulla, in sostanza, prova che in epoca storica il diboscamento abbia inferto larghi tagli definitivi ed irriversibili al verde ammanto del nostro patrimonio forestale. Neppure nel Medio Evo, tempo in cui semmai guerre, calamità, epidemie, riducendo la popolazione, avrebbero determinato un estendersi e non un contrarsi della superficie boschiva. E neppure in tempi moderni questa ha subito il disastroso depauperamento di cui s’incolpano i nostri avi e i nostri padri, se confronti fatti tra l’area forestale di parecchi comuni alpini sulla fine del secolo XVIII e l’area del 1929 hanno rivelato non diminuzioni ma aumenti. Ma i danni provocati dall’ultima guerra? Nel 1949 un’eminente autorità forestale scriveva che «in quasi tutti i complessi boscosi utilizzati per l’approvvigionamento dei combustibili vegetali durante il quinquennio 1941-45 la ripresa vegetativa si è verificata normalmente ed in modo soddisfacente, tanto da non lasciare quasi più alcuna traccia delle cosiddette ‘ devastazioni ‘ boschive del periodo di emergenza ».

    Prati alpini in fiore presso Macugnaga.

    I boschi si diradano all’assalto della cime (Champoluc, valle d’Aosta).

    Le statistiche di questi ultimi anni confermano, anzi, il già ricordato fenomeno di un crescente rimboschimento spontaneo per abbandono di colture. Nel 1957, per es., il patrimonio boschivo piemontese si è arricchito di 1121 ettari, dei quali 99 per trasformazioni di terreni coltivati. E d’altra parte, bisogna riconoscere, come si ammette anche dagli stessi forestali, che la montagna piemontese ha un grado abbastanza elevato di boscosità, tanto che non si potrebbe aumentarlo oltre un certo limite (60%), senza creare gravi perturbazioni nel locale ordinamento produttivo. Ma non è possibile che se non l’uomo, variazioni climatiche abbiano determinato il contrarsi della superficie boschiva alpina? A questo riguardo si cita volentieri, come prova, il ritrovamento di tronchi, di ceppi morti ad altitudini che superano, spesso solo apparentemente, il limite superiore del bosco. In epoca storica variazioni climatiche suscettibili di provocare innalzamenti o abbassamenti notevoli, su vasta scala, di tale limite sono senz’altro da escludersi. Quelle che hanno influito sulle avanzate e sui ritiri delle masse glaciali sono oscillazioni leggere, a periodi irregolari, soventi volte strettamente localizzate, alle quali non potrebbero corrispondere sensibili mutamenti in ordine ai limiti altimetrici della vegetazione alpina.

    Diversamente sono andate le cose in pianura, dove ancora in epoca romana grande spazio occupavano le selve inframezzate dai coltivi. La posizione geografica della pianura stessa spiega l’aspetto composito della sua antica vegetazione forestale e di quella oggi residua. Di fatto, in corrispondenza alle vaude e alle baragge dei pianalti diluviali, caratterizzati dalla massiccia presenza della calluna o brugo, si ha una vegetazione arborea che, come quella erbacea ed arbustiva, ha tratti schiettamente montani e di clima freddo. Nelle incisioni dei torrenti si insinua più comunemente il querceto di farnia: sui terreni scoperti ed asciutti si sviluppa di preferenza un querceto a roveri, talvolta commisto o sostituito localmente dal castagno. Sporadicamente si incontrano faggi e betulle.

    Nella bassa pianura invece tra querce, ontani, carpini, olmi, frassini, cornioli, aceri, si sono fatta strada specie meridionali. Ma le maggiori trasformazioni avvennero ad opera dell’uomo, non solo con la progressiva distruzione di vasti boschi, ma con la creazione di boschi artificiali come le pioppete, oggi in via di rapidissimo incremento, e con l’introduzione di piante avventizie esotiche, come la robinia, che si è diffusa enormemente a partire dalla fine del secolo XVIII, mostrandosi pronta ad occupare specialmente suoli sterili ed asciutti, ad incorniciare argini, strade e canali.

    Anche nelle colline e, assai più che nelle moreniche, nelle terziarie del Monferrato e delle Langhe, l’intervento dell’uomo ha profondamente modificato l’antico paesaggio vegetale. Nella collina di Torino, per esempio, faggio ed ontano, assai comuni in tempi a noi relativamente vicini, sono stati largamente sostituiti da altre piante, massime della robinia. Così, frequentissimi sul versante meridionale delle colline torinesi e nell’Astigiano sono i residui di antichi boschi di pino silvestre. Una profonda trasformazione si è operata con la riduzione di boschi di querce da fustaie in cedui, e col diffondersi del castagno frammisto quasi sempre al rovere, ed esso pure mantenuto quasi dovunque a ceduo. Il diradamento del faggio è pure avvenuto in larga misura nei boschi dell’alta Langa, ma il pino è ancora assai diffuso insieme al castagno e alle querce (specialmente rovere e cerro), che rappresentano le essenze dominanti. Caratteristica, però, della vegetazione delle Langhe è la presenza di specie di clima più caldo, che fanno ricordare alcuni aspetti della vegetazione spontanea della vicina Liguria. Si tratta di penetrazioni avvenute attraverso i bassi valichi dell’Appennino ligure in periodi di clima più caldo: penetrazioni che hanno portato piante mediterranee sulle colline del Piemonte centro-meridionale, dove hanno trovato possibilità di persistenza. In base alle differenze via via accennate in tema di vegetazione i botanici hanno riconosciuto l’esistenza di un settore alpino occidentale del distretto alpino: un distretto padano e un distretto monferrino-langhiano. Divisioni territoriali che confermano l’unità e l’originalità del Piemonte anche dal punto di vista floristico.

    Lembi di bosco scendono ad occupare il fondovalle a Cogne (Valnontey).

    Rimboschimento di abete rosso, di abete bianco e larice in provincia di Novara (Arola)

    Vegetazione mediterranea lungo la sponda occidentale del lago Maggiore e sull’Isola Bella (in secondo piano).

    La fauna

    Le stesse divisioni valgono agli effetti faunistici, per gli stretti rapporti che legano gli animali, nella loro distribuzione, tanto alle forme del rilievo e alla natura dei terreni, quanto, e più ancora, ai tipi di vegetazione. Si distinguono così in Piemonte almeno tre zone faunistiche: l’alpina, la padana e l’appenninica, con le propaggini delle colline del basso Monferrato e di Torino.

    Nella zona alpina oltre i 2000 m. si trovano parecchie specie di insetti che vengono considerati come esclusive della regione: talune anzi sono localizzate in determinati territori. Alcuni carabidi, per esempio, sono esclusivi del Monte Bianco, altri del Monte Rosa. Tra gli emitteri ve n’ha uno, ritenuto forma di alta montagna, e rinvenuto in Italia solo nella valle d’Aosta (Valtournanche). Sulle montagne piemontesi insieme ai parnassi, così cari a Guido Gozzano, allieta nella buona stagione i pascoli delle maggiori altitudini, tutta una serie di farfalle comprese le vanesse, spesso trascinate lassù dalle correnti ascendenti. Uno stafilinide è stato rinvenuto vivente sulla vetta del Cervino. Abbondano naturalmente i cerambici, le cui larve si nutrono di legno. Api e bombi frequentano invece le praterie alpine. Piccoli e di color chiaro sono i molluschi delle maggiori altitudini. E tra gli anfibi molto tipica è la salamandra nera, che partorisce generalmente due piccoli già provvisti di polmoni. Veramente alpina è solo la lucertola vivipara, come non tutte le vipere di montagna sono propriamente alpine, giacché non tutte si spingono oltre i 2000 metri.

    Uccelli prevalentemente alpini sono l’aquila reale, dominatrice delle elevate solitudini, il gracchio corallino, il picchio nero, il fringuello delle nevi. Prede ambite dai cacciatori sono i tetraonidi, fra cui l’urogallo, il fagiano e il francolino di monte. Fino a pochi anni or sono, nel gruppo del Gran Paradiso, si notava qualche gipaeto, o avvoltoio degli agnelli, e sembra che la specie non sia del tutto scomparsa. La fauna alpina piemontese ha, come è noto, il suo mammifero selvatico più notevole e ornamentale nello stambecco, che vive protetto, difeso e talvolta nutrito, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. È pure noto che, derivando dall’eredità delle riserve reali di caccia nel gruppo del Gran Paradiso, questo Parco Nazionale, che con una area di 450 kmq. abbraccia le testate delle valli di Cogne, di Valsavaranche, di Rhème, dell’alta valle dell’Orco e della vai Soana, è stato istituito principalmente allo scopo di evitare la completa distruzione del nobile animale. Gli esemplari di stambecco, ridotti a poche centinaia durante l’ultima guerra, sono attualmente alcune migliaia. Lo stambecco, cui si riconoscono incredibili prodezze acrobatiche e lotte feroci per il dominio del branco, vive ora in piena libertà nel suo ambiente, nel suo regno, donde alcuni capi sono stati reintrodotti, di quando in quando, in Svizzera e in altre località alpine.

    Meno gelosamente tutelato e rispettato è il camoscio, di dimensioni un poco inferiori a quelle dello stambecco e di forme più snelle, variamente distribuito nell’arco alpino ad altitudini superiori ai 1500 metri. Altri mammiferi alpini abbastanza comuni nella montagna piemontese sono la marmotta, celebre per le sue abitudini sociali e per la facoltà che possiede di superare in letargo l’inverno — si trova normalmente nelle praterie tra i 1500 e i 3000 m. e annunzia la sua presenza ai disturbatori con grida di allarme e fischi caratteristici —: la lepre bianca e l’ermellino, noti entrambi, con la pernice di monte, per il loro dimorfismo stagionale, che li rende bianchi d’inverno e bruni d’estate; l’arvicola delle nevi; il toporagno alpino. Nella fascia di boschi di conifere si trovano caprioli, scoiattoli, lepri, martore, volpi.

    Le ultime linci italiane sono state abbattute in principio del secolo nei boschi delle valli di Cuneo, e più specialmente nella zona di Valdieri, Vinadio, ecc. Orsi e cinghiali dovevano essere in antico relativamente frequenti se è vero, come riferisce il Cibrario, che a Coassolo e a Monastero di Lanzo nello spazio di tre anni, dal 1367 al 1370, si uccisero e catturarono 42 orsi e 49 cinghiali. Ma gli orsi sono da tempo scomparsi del tutto, e quanto ai cinghiali non si sa se abbiano continuato a permanere nelle valli delle Alpi Cozie e Marittime i branchi ivi penetrati dalla Francia alla fine della prima guerra mondiale. Estinti completamente sono i lupi, che ancora al principio del secolo scorso, durante inverni particolarmente rigidi, osavano fare qualche scorreria in pianura. La fauna acquatica alpina ha tra i suoi più noti rappresentanti il tritone alpestre, che generalmente non perde le branchie anche allo stato adulto, e la trota comune, che essendo amante delle acque fredde e molto ossigenate, trova nei torrenti alpini l’ambiente prediletto, e il salmerino, dalle carni assai pregiate e più raro della trota.

    Nella zona faunistica di pianura un distretto interessante è rappresentato dalla risaia, dove numerosi sono gli uccelli d’acqua che si fermano durante l’inverno, mentre in tutto il resto del Piemonte come è noto, non esiste passo abbondante di piccoli uccelli migratori. Ecco perchè non vi si pratica l’uccellagione con roccoli e congegni affini, come invece si fa in Lombardia e nel Veneto. Merita di essere citato il fatto che nel Vercellese, sugli alberi sparsi nelle risaie, nidificano piccoli aironi bianchi e ibis verdi o falcinetti. Tipica delle risaie di Vercelli e di Novara è la carpicoltura. Sempre nelle risaie è frequente l’apo, un interessantissimo crostaceo.

    La zona faunistica appenninica, oltreché dalla particolare diffusione di specie mediterranee, è caratterizzata soprattutto dal costituire area di rifugio della pernice rossa che, scomparsa in ogni parte d’Italia, sopravvive in tutto l’Appennino ligure e nell’alto Monferrato. Qui la pernice rossa s’incrocia non raramente con la coturnice, dando origine a degli ibridi.

    Prudenti passi di un giovane volpacchiotto.

    Curiosità e fierezza nello sguardo degli stambecchi.

     

    Vedi Anche:  Lo sviluppo industriale del Piemonte