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Le attività terziarie: trasporti, commercio e turismo


    Le attività terziarie: trasporti, commercio e turismo


    Al nuovo fermento industriale — le cui linee ho cercato di tracciare brevemente nel capitolo decimo — si è accompagnato, come è facile comprendere, un rilevante incremento del traffico e del commercio: e poiché le zone industriali sono essenzialmente legate all’importazione di prodotti grezzi dall’estero, oltre che, in minor misura, dalle altre regioni italiane, e all’irradiamento all’esterno dei prodotti finiti o semilavorati, tale fermento industriale ha significato in modo particolare un rilevantissimo incremento del traffico portuale. Che è stato chiamato a nuova vita, e che per un momento almeno, con l’aiuto delle statistiche, ha potuto dare l’impressione di una fioritura straordinaria, e quindi di un definitivo congiungimento dell’isola entro le maglie di un più rassodato e fervido e dinamico mercato di scambi italiano e internazionale.

    Industrie e traffico portuale

    Ma non è cosi, in realtà: perché all’incremento del traffico hanno corrisposto certamente notevolissimi ed appariscenti cambiamenti nelle strutture di alcuni porti, ma non hanno fatto seguito né l’aumento dei posti di lavoro nelle attività portuali né l’effettivo inserimento in retroterra ben definiti — per tutti o per una parte almeno dei prodotti e dei servizi — delle regioni interne dell’isola. Una divisione della Sicilia in zone di gravitazione verso determinati porti o complessi portuali è in effetti ancora lontana dal realizzarsi, né si vede come potrebbe concretarsi in futuro per la concorrenza, come si vedrà, del treno e dell’autocarro. Ciò si deve in modo particolare al fatto che i porti più attivi dell’isola per la consistenza delle merci transate sono porti nuovi sorti in funzione prettamente industriale, o porti la cui attività è stata rinnovata su base industriale: porti petroliferi, cioè, attorno ai quali si sono sviluppati soprattutto la raffinazione del petrolio, l’industria chimica — dei concimi specialmente e dei prodotti di sintesi — e l’industria termoelettrica, alle quali si aggiungono talora i cementifici e qualche industria meccanica di sussidio. Si tratta di un ravvivamento delle attività portuali assai recente, dunque, che rimonta a poco più di tre lustri. Augusta — che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio di questo secolo non aveva cessato di essere un porto a raggio d’azione limitato, con un traffico medio di appena 30.000 tonnellate, e che dal 1911 era stato un poco esaltato ma per brevi periodi (con impianti di depositi di carbone prima, e poi anche di nafta per l’approvvigionamento del naviglio da guerra) dalla funzione di base navale militare: 33.000 tonn. nel 1910, ma 236.200 nel 1912; 27.600 nel 1928, ma 293.000 nel 1937 — ha visto aumentare in modo inconsueto il proprio movimento commerciale dopo il 1951: l’installazione lungo il litorale megarese di una raffineria (l’attuale Rasiom) richiamò correnti sempre più cospicue di traffico, che il successivo sviluppo delle industrie chimiche ha ulteriormente dilatato. Le merci in arrivo e in partenza erano già 605.000 tonn. nel 1952, e son salite poi a 3,5 milioni nel 1957, a 8,2 milioni nel i960, a 10,6 nel 1963, a 14,5 nel 1964. Augusta si è posta così al secondo posto nella graduatoria dei porti italiani per il volume del traffico, subito dopo Genova (30,2 milioni di tonnellate nel 1964). Lo sviluppo delle industrie a forma di fascia lungo tutto il litorale, da Augusta fino alla penisola di Magnisi e al Capo Santa Panagia, alle porte settentrionali di Siracusa, ha fatto sorgere in corrispondenza delle principali industrie numerosi pontili corsi da grandi tubazioni, ai quali il petrolio viene direttamente scaricato, e dai quali si caricano i prodotti derivati della raffinazione: sicché da qualche anno il complesso portuale della zona megarese è stato diviso per la rilevazione statistica in tre settori: Augusta, che comprende anche la raffineria Rasiom, la centrale termoelettrica Tifeo, e il cementificio Marchini-Fiat, con un movimento, come ho già detto, di 14,5 milioni di tonnellate nel 1964; Priolo, con la Petrolchimica Augusta e la Sincat, con 5,4 milioni di tonnellate; e Magnisi — dove ha installato un pontile la Gulf-Italia per l’esportazione del greggio da Ragusa — con 698.000 tonn. Praticamente, tutto il movimento commerciale di Augusta e di Magnisi interessa gli oli minerali greggi e i loro derivati (per il 98%), che incidono anche su quasi i tre quarti del movimento di Priolo (dove l’altro quarto è costituito da concimi, piriti ceneri e scorie, e prodotti chimici). E lo stesso si osserva a Gela — già scalo locale, quasi senza attrezzature, per l’imbarco dei prodotti agricoli, con un misero commercio d’esportazione di fave ceci e formaggi verso Malta, di circa 3000 tonn. annue, che la politica autarchica del periodo prebellico aveva portato a 25.000 tonn. per l’imbarco della fibra di cotone, di cui era stata forzatamente estesa la coltivazione nella piana che si allarga alle spalle della città — dove la scoperta di un giacimento petrolifero (1957), la costruzione di una raffineria (1959) e la formazione di un complesso chimico per l’elaborazione dei prodotti petroliferi, hanno fatto aumentare il traffico a 1,3 milioni nel 1963, a 4,2 milioni nel 1964: il petrolio, che forma il 99% del movimento complessivo, viene ora per la maggior parte importato. E lo stesso è accaduto anche a Milazzo, un porto legato prima essenzialmente ai prodotti agricoli della pianura milese e al piccolo ma sostanzioso nucleo industriale della città, che vanta stabilimenti per l’estrazione degli oli al solfuro e molini, sorti intorno al 1870, e uno per l’acido solforico (1901) poi convertito per la produzione di fertilizzanti chimici: il suo traffico si aggirava intorno a 100-120.000 tonn. all’anno, con notevoli scarti di tempo in tempo, stabilizzatosi dopo il 1938 sulle 75.000 tonn.: con legname e fosfati (dall’Africa atlasica) e piriti (da Follonica) agli sbarchi, e agrumi olio d’oliva vino e scorze d’agrumi agli imbarchi. Anche a Milazzo tutto è cambiato con la costruzione di una grande raffineria della società Mediterranea, posta a sud della città, a ridosso della strada e della ferrovia per Messina, costruita nel 1959: e il movimento portuale è salito in modo vertiginoso a 4,2 milioni di tonnellate nel 1963, a 5,9 nel 1964, per il 98,5% costituito da petrolio e suoi derivati. E lo stesso si verificherà tra qualche anno anche a Tèrmini Imerese.

    Veduta parziale del porto di Palermo.

    Veduta dell’ingresso e del settore militare del porto di Messina, all’estremità dell’asta falcata della penisola di San Raineri.

    Il movimento di questi porti petroliferi — Augusta, Priolo, Milazzo, Gela — riguarda dunque la maggior parte delle correnti d’importazione siciliane per mare: 1-85,8 % del movimento complessivo agli sbarchi (che fu di 18,7 milioni di tonnellate nel 1964), di cui il 94% costituito da oli minerali grezzi. Poco più dei tre quinti del grezzo proviene dai paesi del Vicino Oriente, e in particolare dal Kuwait (33,2%), dall’Arabia Saudita (17,6%) e dall’Irak attraverso i porti libanesi (10,1%). Ma una buona parte viene ora sbarcata da navi qui dirette dalla Libia (26,2%) e dall’Egitto (2,7%), e anche dai porti russi del Mar Nero (7,2%). Di riflesso sono di molto aumentate le correnti di esportazione di prodotti finiti e di sottoprodotti della raffinazione (benzine, gasolio, oli lubrificanti, residui della distillazione, ecc.), pari a 12,7 milioni di tonnellate nel 1964: per i tre quinti inviati verso altri porti italiani (specie a Venezia, Falconara-Ancona e Bari) e per i rimanenti due quinti verso paesi stranieri: specie verso quelli dell’Europa centro-occidentale, e in particolare verso il Regno Unito (25,5%), la Francia (16,6%), l’Olanda (15%), il Belgio (7%) e la Germania occidentale (5,2%).

    Le attività dei porti petroliferi quasi oscurano quelle dei vecchi porti tradizionali, anche se le loro funzioni sono in parte cambiate nel giro degli ultimi decenni. I porti petroliferi siciliani contribuiscono in effetti all’85,8% delle merci sbarcate in tutta l’isola (16 milioni di tonnellate nel 1964 rispetto ad un totale complessivo di 18,7 milioni) e all’82% di quelle imbarcate (13,6 milioni di tonnellate contro un totale di 16,6). Ciò nonostante occorre subito sottolineare che una certa ripresa del traffico marittimo ordinario, non legato al petrolio da raffinazione e ai suoi prodotti, c’è stato: ma questa ripresa non poteva interessare i numerosissimi porti e scali che ancora a metà dell’Ottocento — quando la ferrovia non era apparsa e la rete stradale formava una rilassatissima ragnatela, rotta per lunghi tratti anche a ridosso dei litorali — erano particolarmente vivaci, anche senza esser dotati di speciali at-trazzature fisse e mobili: i velieri e le piccole imbarcazioni erano infatti indispensabili per tener legate tra di loro le varie parti dell’isola, e gli stessi paesi sgranati su litorali ancora privi di comunicazioni stradali: specie lungo la costa ionica del Messinese, e gran parte della costa dei Nébrodi sul Tirreno. La ripresa dei traffici portuali si può osservare soltanto là dove l’attivazione industriale è stata più vivace, seppur limitata alla scala cittadina: lo sviluppo industriale ha infatti sollecitato la formazione di una corrente di sbarchi in parte ancora una volta legata al petrolio (come fonte di energia per le centrali termiche ivi esistenti, e per generale sostituzione del petrolio al carbone in numerosi opifici), ma in parte a nuove materie prime da rielaborare, ed ha rafforzato più vecchie correnti d’esportazione e ne ha create altre nuove. E dunque non ha interessato un gran numero di scali, ma — oltre a quelli delle grandi città, e non sempre — soltanto alcuni porti minori in rapporto più che alla loro consistenza demografica, ai legami piuttosto stretti che conservano con gli agri intorno e soprattutto con qualche sacca mineraria dell’interno dell’isola, o alla loro struttura industriale.

    Porto Empédocle (Agrigento) : veduta del porto. In primo piano l’impianto chimico Akragas (Montédison) per la produzione di fertilizzanti complessi.

    Così mostrano attività portuali piuttosto contenute i porti già da tempo specializzati, ma ora più o meno in crisi: ad esempio quelli del vino, come Marsala. Il movimento commerciale marsalese è infatti passato da 90.000 tonn. nel 1879 — prima della crisi dell’industria vinicola a seguito della rottura dei rapporti commerciali con la Francia — dopo un lungo periodo di disagio e di quasi inattività, con scarti notevoli e continui negli scambi, a 30.000 tonn. nel 1920, a 90.000 nel 1935-38, e dopo la crisi bellica a 35.000 tonn. nel 1951, a 66.000 nel 1958, a 112.000 nel 1963, a 85.200 nel 1964: costituito per più di metà da mosti e vini esportati con motocisteme o in barili verso Genova, Napoli e Savona, e per poco più di un terzo da merci varie sbarcate per la città e l’entroterra, specie farina di frumento e doghe per botti (dal porto calabrese di Vibo Valentia) oltre a cemento, pozzolana, semilavorati di ferro. Le relazioni di Marsala con l’estero sono pressoché venute meno, e il traffico è limitato al cabotaggio con le altre regioni italiane. E lo stesso è accaduto a Mazara del Vallo (47.000 tonn. nel 1958, e 60.590 tonn. nel 1964, di cui appena il 27,6% imbarcati e costituiti per il 94% da vini e mosti, con le stesse destinazioni di Marsala), che ha conservato maggior forza e personalità come porto-canale peschereccio. O ancora i porti del sale, come Trapani: che toccò la punta di 335.000 tonn. di merci transate — di cui 160.000 di sale — nel 1910, e continua a resistere nonostante la contrazione del movimento commerciale (133.000 tonn. nel 1951, di cui 60.000 di sale verso l’estero (Norvegia); 131.600 nel 1964, di cui quasi i due terzi costituiti dal sale, diretto in gran parte verso altre regioni italiane): contrazione dovuta alla perdita dei mercati inglese e svedese per le spedizioni, e per gli sbarchi alla diminuzione degli arrivi di carbone e al maggior afflusso delle merci varie per ferrovia. Più vivaci risultano invece alcuni porti per la spedizione dei minerali di zolfo e soprattutto di salgemma: così Tèrmini Imerese, sede di una raffineria di zolfo ma anche di pastifici e molini che attingono alla zona frumenticola e solfifera del retrostante altipiano, accusava un traffico di 30.000 tonn. verso la fine del secolo scorso (per un terzo zolfo proveniente dalle miniere di Lercara Friddi e persino di Casteltérmini), di 50.000 avanti il primo conflitto mondiale, e di 70.000 nel 1938-39, quando le farine, i cereali, le paste erano le voci principali dell’esportazione, e il carbone, i concimi e i materiali da costruzione lo erano agli sbarchi; di 80.000 tonn. nel 1958, per più di metà costituiti dal salgemma delle miniere di Cammarata, che fece elevare negli ultimi anni il volume del movimento portuale a 134.000 tonn. nel 1963 e a 278.400 tonn. nel 1964, pressoché tutto in traffico di cabotaggio. Un porto che aveva soprattutto una funzione complementare di quella di Palermo qualche anno fa, coma aveva sottolineato il Saibene; ma che nel suo opportuno inserimento entro il sistema dei porti delle industrie chimiche delia Sicilia occidentale potrebbe avere più larghe possibilità di sviluppo, secondo linee nuove, e che si sta ora trasformando anche in porto petrolifero a seguito della costruzione di una raffineria di petrolio. Nuovi sviluppi, in parte simili a quelli di Tèrmini Imerese, potrebbe avere anche il porto di Licata, sul Mar africano, un vecchio caricatoio settecentesco che tra la fine del secolo scorso e il nostro si è arricchito di cinque raffinerie di zolfo e ha visto crescere i suoi traffici a 174.000 tonn. nel 1910, per l’8o% costituiti dagli imbarchi di zolfo (qui proveniente dal Nisseno e dal-l’Ennese), né li dovette poi troppo contrarre grazie alla costruzione di uno stabilimento per la produzione di fertilizzanti (137.000 tonn. nel 1933, quando si importavano da 15 a 25.000 tonn. di fosforiti tunisine e 25-30.000 tonn. di carbone dalla Germania e dall’Inghilterra), e ancora oggi, dopo alterne vicende che hanno abbassato il traffico, anche in anni vicini, al di sotto di 100.000 tonn., lo vede aggirarsi sui valori del 1910: 170.000 tonn. nel 1963, 146.400 tonn. nel 1964: totale che tuttavia tende ad oscillare molto in rapporto alla produzione dello stabilimento chimico locale, dal momento che son soprattutto le fosforiti tunisine a determinare l’andamento degli sbarchi, e lo zolfo e i concimi quello degli imbarchi, mentre piuttosto costante appare la sua posizione come porto d’imbarco di prodotti agricoli : fave essiccate per Malta (7000 tonn. nel 1958, rispedite poi in Inghilterra e in Francia) e grano per altri porti italiani.

    Veduta del porto di Milazzo (Messina), testa di ponte del traffico con le isole Eòlie.

    Golfo Megarese (Siracusa): veduta del pontile per lo sbarco diretto del petrolio allo stabilimento chimico SINCAT (Montédison).

    La posizione eccentrica di Licata rispetto alle aree industriali di più fervido sviluppo; la non buona rete stradale e ferroviaria che la lega con l’altipiano interno, dove l’industria solfifera si dibatte tra infinite difficoltà ; la mancanza di dinamismo del suo complesso chimico, e infine i troppo bassi fondali della sua area portuale: sono tutti fattori che hanno determinato la cristallizzazione delle sue attività economiche e quindi dei suoi traffici portuali. I quali si sono per contro esaltati a Porto Empédocle, dove il processo di sviluppo e i temi che l’hanno determinato sono stati gli stessi di quelli di Licata, ma dove hanno operato favorevolmente non certo la migliore postura naturale della città, ma una posizione resa più pregna di possibilità dal convergervi, dalla media valle del Plàtani, di un doppio nastro stradale e ferroviario, che divergendo sul versante settentrionale appena a nord di Lercara Friddi la mette in comunicazione lungo il Torto (ferrovia) con Tèrmini Imerese, e attraverso le colline di Vicari, Villafrati e Bolognetta e la valle dell’Eleutero (strada) con Palermo: collegamenti che ieri hanno facilitato il trasporto dello zolfo dall’altipiano nisseno e agrigentino, e che oggi, dopo il reperimento di giacimenti di sali potassici nelle stesse regioni, hanno permesso a Porto Empédocle di diventare uno dei tre poli del « triangolo del potassio », con San Cataldo e Campofranco. E così Porto Empédocle è attualmente uno dei più attivi tra i porti di Sicilia non petroliferi. Porto frumentario dalla sua costruzione nel Cinquecento sin entro i primi anni del secolo XIX, è stato chiamato subito dopo dallo sfruttamento dei giacimenti di zolfo ad una nuova funzione: nel 1880 — quando da appena cinque anni erano stati completati il molo di levante, largamente falcato, e si stava conducendo a termine quello di ponente, a forma di lunga barra, che formano insieme un grande avamporto, racchiudendo nell’interno il vecchio scalo — il movimento delle merci era di 160.000 tonn., cresciute a 325.000 nel 1900. La crisi solfìfera abbassò poi tale traffico a 122.000 tonn. nel 1922, pur mantenendosi gli imbarchi di zolfo sempre intorno ai tre quarti del movimento complessivo. L’aumento delle raffinerie di zolfo dopo il 1928 — cinque in tutto — la costruzione di una centrale termica per l’elettrificazione del bacino solfifero del retroterra portuale nel 1932 e l’erezione di un complesso chimico per fertilizzanti, ravvivarono successivamente l’attività portuale, che toccò nel 1933 le 260.000 tonn. (di cui un po’ più della metà agli imbarchi). Dopo gli anni della guerra, l’incremento del traffico fu anche più spiccato: 130.000 tonn. nel 1947, 387.000 nel 1951, 437.000 nel 1959, 760.000 nel 1963, 935.000 nel 1964. L’impulso dato agli stabilimenti di concimi chimici della Montecatini, della stessa Porto Empédocle e della vicina Campofranco, ha offerto al porto empe-doclino nuove grandi possibilità di sviluppo: non tanto per le spedizioni di zolfo (or che quattro delle cinque raffinerie sono state trasferite dall’Ente Zolfi Siciliani a Catania: se ne sono imbarcate ancora 38.000 tonn. nel 1956, ma 21.000 nel 1958, e ancor meno negli anni successivi, verso la Francia e la Tunisia) quanto invece per le spedizioni di salgemma, la voce ora dominante per volume (208.000 tonn. nel 1958, 350.000 tonn. nel 1964, inviato a Porto-Marghera (Venezia) oltre che a Genova e a Monfalcone) e di fertilizzanti (fosfati, nitrati e silicati) e di altri prodotti chimici (acido solforico e urea); mentre si importano carbone dal Sulcis (67.000 tonn. nel 1958) per la centrale termoelettrica, nitrati e solfati da rielaborare nella sua area portuale e a Campofranco, e farine di frumento dall’Italia; e dall’estero fosfati naturali (82.600 tonn. nel 1964, da Marocco e Tunisia, e talora dagli Stati Uniti). Il paesaggio portuale è pertanto cambiato profondamente: sulle banchine non figurano più soltanto i grandi mucchi gialli dei pani di zolfo; ma allargate a spese di un largo tratto di mare, esse sopportano ora cinque grandi silos per i solfati di potassio ed un grande elevatore per l’imbarco del salgemma, oltre agli ampliamenti del complesso chimico. Tra i porti minerari, infine, uno solo ha dimostrato notevoli capacità espansive a dispetto della mancanza di qualsiasi nucleo industriale : il porto specializzato di Canneto, che riposa sull’esportazione della pómice. Nel 1881 lasciavano l’isola di Lipari 17.740 tonn. di pómice in pezzi polveri e detriti; nel 1900 erano quasi 19.000; 49.000 nel 1926 e 71.000 nel 1934: per i nove decimi inviati all’estero, specialmente verso la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Germania. Ma il grande sviluppo delle transazioni commerciali cominciò dopo la guerra, in seguito alle maggiori richieste delle industrie, anche italiane : da 70.000 tonn. nel 1950, il movimento commerciale (formato per la maggior parte dalla pómice, ma anche da piriti, ceneri e scorie: le merci varie partono e arrivano, per l’isola di Lipari, soprattutto dal capoluogo omonimo, che è vicino a Canneto: intorno a 29.000 tonn.) è salito a 190.000 nel 1959, e a 478.800 nel 1964, per i 3/5 verso l’estero (di cui 288.190 tonn. di pómice).

    Tra i porti non industriali o minerari, soltanto due si impongono ancora per la relativa vivacità delle loro attività commerciali: sono Catania e soprattutto Palermo, che rappresentano anche le due città più popolose dell’isola, e anche le città più complesse sotto il profilo delle strutture urbane. Quest’ultimo fatto si ripercuote indubbiamente sul loro traffico portuale, che non è certo specializzato ma obbedisce alle più varie esigenze e necessità delle città stesse e del loro retroterra. Catania — il cui porto ha cominciato ad assumere l’attuale planimetria a seguito delle ricostruzioni avvenute dopo la colata lavica etnea del 1669 (che si spinse fin entro l’antico specchio portuale) e il catastrofico terremoto del 1693: un molo foraneo nel 1785, il molo di levante tra il 1879 e il 1905, in due tempi, e il molo di mezzogiorno, iniziato nel 1923 — aveva un movimento commerciale di 300.000 tonn. nel 1880, di 520.000 nel 1900, di 880.000 nel 1913, di 666.000 nel 1925 dopo la crisi bellica, di circa 550.000 tra il 1950 e il 1955, e di 882.700 nel 1964. Più degli otto decimi del traffico sono ora assorbiti dagli sbarchi : il carbone, che ancora nel 1957 con 209.000 tonn. (per 2/5 dal Sulcis, e per quasi un terzo dagli Stati Uniti, e un quinto dal Belgio) rappresentava la voce principale, è diminuito considerevolmente dopo l’elettrificazione della linea ferroviaria della Sicilia orientale e dopo che si è passati, per l’alimentazione delle centrali termiche cittadine, dal carbone al petrolio : che è aumentato da appena 9000 tonn. nel 1957 a 201.000 nel 1964. E ora il petrolio è seguito dai concimi (31.000 tonn., soprattutto fosfati dalla Tunisia e dal Marocco, e nitrati dal Cile), dal frumento (55-500 nel 1964, ma 159.000 nel 1965, specie dall’Argentina: mentre nell’Ottocento era una merce largamente esportata), dalla pozzolana (da Bàia, nel golfo napoletano), assorbiti dalle industrie locali ; oltre che dal legname iugoslavo (67.700 tonn.), da marmi in lastre e scaglie (da Marina di Carrara, molto usati nell’edilizia urbana), e da materiale da costruzione in ferro, specie tondini (da Savona e Venezia). L’importazione mira quindi prevalentemente al soddisfacimento delle più varie attività cittadine; mentre le esportazioni hanno mostrato una spiccata tendenza alla contrazione (intorno a 300.000 tonn. tra il 1906 e il 1912, sulle 150-180.000 tra il 1925 e il 1938; 98.000 nel 1957; ma 149.600 nel 1964), e poggiano soprattutto sullo zolfo (39.000 tonn. nel 1957, 45.000 tonn. nel 1964) inviato in Russia e in Turchia, e sugli agrumi, mandorle, nocciole, pistacchi e ortaggi (38.000 tonn. nel 1957, 56.000 nel 1964) avviati ai porti che si affacciano al Mar Nero e ad alcuni paesi dell’Europa del nord. Il passaggio delle merci dalle vie marittime alle vie terrestri (ferrovie) è stato determinante in tale evoluzione del traffico in partenza.

    Lo stesso fatto si può rilevare per Palermo, che nel 1964 vedeva agli sbarchi 1.024.300 tonn. di merci, e agli imbarchi soltanto 90.900: cioè più di 9/10 contro nemmeno 1/10. Non è sempre stato così: per la maggior importanza, nel passato, del commercio con l’estero (pari nel 1964 ad appena un quinto del traffico complessivo) e per la necessità di usare i mezzi di trasporto marittimo nei rapporti con le altre regioni italiane, prima che la rete ferroviaria dell’isola fosse saldata a quella dell’Italia continentale mediante il servizio delle navi-traghetto sullo Stretto messinese (1895). Così — come informa il Saibene — prima del 1895 il traffico di cabotaggio con le altre regioni italiane si aggirava intorno a 290-320.000 tonn. l’anno, ma subito dopo si abbassava a 220-145.000, mentre il volume dei traffici con l’estero si manteneva sostanzialmente immutato. Il movimento complessivo del porto palermitano era pari a circa 400.000 tonn. tra il 1870 e il 1880, a 600.000 nel 1901 e negli anni seguenti, e a 810.000 nel 1913 — l’aumento si deve in particolare all’incremento delle importazioni di combustibili, dopo la costruzione, nel 1899, della prima centrale termoelettrica: una media di 135.000 tonn. di carbone negli ultimi decenni del secolo scorso; 400.000, pari a metà di tutto il traffico portuale, nel 1913, per il 50% dalla Gran Bretagna —; e ancora 800.000 tonn. nel 1927 — quando assumono un certo rilievo i cereali argentini e uruguaiani, oltre al grano e al legname canadese —; 650.000 tonn. nel 1954 — dopo due gravissime inflessioni, dovute ai due conflitti mondiali e alla crisi economica degli anni trenta — e infine 1.115.300 tonn. nel 1964. Ora, le merci sbarcate — che provengono per circa i 4/5 dall’Italia e per un quinto dall’estero — riguardano in particolare i prodotti petroliferi (486.450 tonn.) che servono per il buncheraggio e le centrali termiche; i fosfati minerali nordafricani per lo stabilimento di Tommaso Natale (Montecatini), situato all’estremità settentrionale della Conca d’Oro, acciai, ferri e metalli lavorati, materiali da costruzione (tutti da altri porti italiani), zucchero, e quantità di grano assai varie nel tempo (40.000 tonn. nel 1951-56, appena 2300 nel 1957, e 7900 nel 1964: da Stati Uniti e Canada), oli e grassi industriali (dalla Germania), e legname dai paesi scandinavi e nordamericani, e quantità di pesce gelato e refrigerato per l’industria conserviera locale a integrazione dell’insufficiente produzione ittica siciliana (fino al 1957 solo dai porti settentrionali d’Europa e dalla Russia, ma poi anche dagli Stati Uniti e soprattutto dal Giappone), semilavorati metallici e macchinari per l’ammodernamento degli impianti cittadini. L’esportazione, ridotta ad una magra corrente divisa quasi a metà tra l’estero e le altre regioni italiane — in tutto appena 90.900 tonn. nel 1964 — raggruppa merci svariatissime, costituite prevalentemente da prodotti agricoli (ortaggi, frutta fresca, grano duro, pesce fresco) che soltanto nei rapporti con l’estero — dove le voci sono meno numerose — attingono contingenti di qualche rilievo (11.900 tonn.): ma anche incerte e variabili sono le correnti di traffico, e gli agrumi sono scesi da 50.000 tonn. nel 1954 a 18.000 nel 1958 e a 12.000 nel 1964 (diretti in Germania, Gran Bretagna, Scandinavia), mentre le conserve, specie di pomodoro, sono in aumento. Molti di questi prodotti, e per la maggior parte se diretti verso altre regioni italiane, sono stati sottratti al traffico portuale dalla ferrovia e dagli stessi trasporti stradali. Tutto il traffico portuale palermitano, come ho notato già anche per Catania, è in funzione prevalentemente delle esigenze della città, e in assai piccola misura della regione che gravita sul porto, dalla struttura economica ancora attardata, dove modesti sono i consumi, poco varia la produzione agricola, quasi inesistente l’apparato industriale: così che la bilancia commerciale portuale è deficitaria, e nel 1958 di fronte a 10,9 miliardi di lire di merci sbarcate si trovavano appena 2,7 miliardi di merci imbarcate.

    Il sottopassaggio stradale di Capo Calava, ad ovest di Patti, intagliato nelle rocce cristalline, facili a sgretolarsi, dei Nébrodi orientali (Messina)

    La stretta cimosa costiera del versante iònico dei Peloritani, da Capo Sant’Aléssio (Messina): vi trovano posto la ferrovia, la strada, ricche colture d’agrumi, e una continua successione di centri abitati allungati — « marine » e « stradali » — che solo il largo letto delle fiumare presso le foci tiene divisi l’uno dall’altro.

    La stessa situazione distingue i porti orientali di Siracusa e di Messina. Siracusa, dotata di due bei seni portuali naturali che si slargano a nord (Porto Marmoreo) e a sud (Porto Grande, grande baia largamente aperta sullo Ionio) dell’isola di Ortigia, l’antico nucleo greco della città, è rimasta fino al secolo scorso un porto di prodotti agricoli: vi transitavano in tutto 50-60.000 tonn. di merci l’anno, cioè carrube, mandorle, agrumi, vino e olio, oltre all’asfalto ragusano agli imbarchi; e carbone, legnami e grano agli sbarchi. Il traffico si accrebbe di poi, con alterne vicende, mantenendosi intorno a 150.000 tonn. tra il 1920 e il 1938, e lo stesso volume di transazioni fu toccato, dopo le ricostruzioni del dopoguerra, nel 1956: fino a che fu esaltato — ma prevalentemente dalle statistiche — in seguito alla formazione della zona industriale a nord della città, lungo il litorale megarese: 188.000 tonn. nel 1957, 753.000 nel 1958, ma poi soltanto 122.400 nel 1964: le esportazioni di petrolio ragusano dalla penisola di Magnisi (267.000 tonn. verso altri porti italiani e 182.000 verso l’Olanda, nel 1958) oltre che di bitume (60.000 tonn. verso il Libano, la Cambogia e la Repubblica Sudafricana) e di cementi (18.000 verso Malta, la Libia e l’Etiopia) entro gli specchi siracusani, avevano contribuito a tale gonfiamento delle attività portuali. Ma la costruzione di opere portuali lungo tutto il litorale megarese, dove le grandi industrie eressero strutture particolarmente adatte al loro tipo di traffico, fece ben presto scendere — insieme ad un più esatto rilevamento statistico — le transazioni commerciali di Siracusa ai livelli consueti: e ora il movimento commerciale è appunto di 122.440 tonn., per un quarto in scambi internazionali. Sono ora i prodotti delle industrie cittadine vere e proprie, localizzate sul porto Grande, dei prodotti agricoli — tuttavia in diminuzione negli imbarchi — e soprattutto di quelli della vicina zona industriale megarese, qui portati con automezzi (concimi, prodotti chimici, cemento) a tenere un po’ vivo il porto siracusano. Ancora più precaria di quella siracusana appare però la situazione di Messina, dal meraviglioso seno portuale tondeggiante, racchiuso dalla barra falciforme nota con il nome di San Raineri: il traffico portuale messinese si aggira ora appena intorno a 218.000 tonn. (1964). Ma si erano toccate — dopo la sistemazione del bacino, iniziata nel 1867 e continuata fino al 1905, e poi ripresa, ma con estrema lentezza, dopo lo sconvolgente terremoto del 1908 — 410.000 tonn. nel 1881 e 940.000 nel 1887 — la massima punta toccata dal porto messinese: il più grande emporio, allora, della produzione agrumaria e vinaria siciliana, di gran parte cioè della fronte ionica, financo della provincia di Catania —. Ma il traffico era già soltanto di 385.000 tonn. nel 1891, 574.000 nel 1907, e 532.000 nel 1912 (con una meravigliosa ripresa dopo la catastrofe sismica, che dirottò per poco le correnti di traffico su Catania e Palermo). Dopo forti variazioni — con punte superiori a 400.000 tonn. tra il 1920 e il 1938 — il periodo postbellico ha visto salire le transazioni commerciali da 149.000 tonn. nel 1946 a 365.000 nel 1954, e poi scendere a 232.000 nel 1958, a 218.000 nel 1964, ad appena 136.000 nel 1966. Dopo il 1890, soprattutto gli imbarchi si ridussero in modo grave e preoccupante: erano pari al 39% del movimento commerciale complessivo nel 1890, al 33% nel 1913, al 25% nel 1938, al 22% nel 1958, al 14,3% nel 1964. Fu all’inizio soprattutto la preclusione di certi mercati europei, specialmente di quello francese, a comprimere le correnti di esportazione dal porto messinese, che agli agrumi e al vino dedicava gran parte delle proprie attività; ma fu anche, e certo in modo più continuativo e senza possibilità di alternative, l’inaugurazione del servizio delle navi-traghetto, che dal 1899 andò richiamando una forte aliquota delle correnti commerciali sulla ferrovia, determinando un afflosciamento delle attività portuali siciliane in generale e di Messina in particolare. Ma nonostante ciò, i traffici in entrata hanno mostrato maggiore capacità di tenuta, soprattutto per la parte che vi hanno poche materie prime povere e pesanti (fino a qualche anno fa ancora il carbone in quantità discrete: 94.000 tonn. nel 1956, ma solo 45.000 nel 1958 e ancor meno nel 1964; e ora il petroli: 114.000 tonn. nel 1958, 84.200 nel 1964), che debbono necessariamente essere inviate per mare: appunto, ieri, il carbone straniero e quello sardo, dal Sulcis; e oggi il petrolio (che però tenderà a spostarsi sulla strada, sulle autobotti, quando la rete stradale sarà migliorata). Ma anche le merci in arrivo, a dispetto di tutto, sono in diminuzione notevole: molte navi che gettano l’àncora a Messina si vedono infatti costrette a lasciare il porto senza carico di ritorno, e tendono pertanto a deviare su Catania e Palermo, dove la presenza di un gruppo già cospicuo di industrie può offrire una gamma svariata di prodotti per l’imbarco. In effetti Messina, assai più di Palermo e di Catania, appare come un tipico porto di assorbimento e di consumo — poco vi giunge da trasformare nelle industrie cittadine o della regione circostante, del resto scarse — né adempie se non in misura trascurabile alle vere funzioni di emporio commerciale, di smistamento e di ridistribuzione. Questa funzione Messina adempie soltanto, e in forme piuttosto fragili, con l’opposta sponda calabrese. Ed invero circa il 75% del suo traffico portuale prende avvio e si esaurisce entro i limiti del comune di Messina e per un quarto soltanto, ma limitatamente a certe merci importate, interessa una parte dei comuni della sua provincia: una metà al massimo del suo vasto territorio, fino a Taormina sullo Ionio, e Spadafora sul Tirreno. Un certo peso — dopo il periodo della grande emigrazione d’inizio di secolo — ha ancora il movimento dei passeggeri, che nel 1964 furono 28.600 (per circa i due quinti in navigazione interna): comunque appena un decimo di quelli di Palermo (286.000), e nemmeno metà di quelli di Trapani (69.000).

    Vedi Anche:  Il clima e la vegetazione

    Dai porti alla ferrovia

    La natura insulare della Sicilia e l’assoluta deficienza, fin entro la seconda metà del secolo scorso, delle reti stradale e ferroviaria dovevano evidentemente ripercuotersi sugli scambi e i traffici portuali in modo positivo, e con tanto maggiore intensità quanto più attivo si manifestava il processo di svecchiamento di antiche strutture economico-sociali e più ampia si faceva l’apertura ad un circuito commerciale di respiro nazionale, e via via anche europeo. Concorrenze al monopolio commerciale dei porti siciliani non si affacciavano da nessuna parte: non dalla strada, che ancora nel 1865, qualche anno dopo l’unità, contava appena un migliaio di chilometri di sviluppo, e solo per una metà facilmente praticabili; né dalla ferrovia, che arrivò soltanto tre decenni prima del volgere del secolo, e che rimase per altri tre — data la rottura di contiguità spaziale tra il corpo insulare e la penisola — priva di collegamenti diretti con la rete ferroviaria del continente, ed esercitò soltanto una funzione di ravvivamento economico e umano su scala regionale.

    Sviluppo delle ferrovie e delle strade carrozzabili principali, fino al 1925.

    Subito dopo l’unificazione, il governo italiano aveva dato mano ad una politica dei trasporti in tutto il Mezzogiorno tale da legare insieme le parti fin allora smembrate del territorio nazionale: e in Sicilia si cominciò con i lavori delle linee ferroviarie Messina-Siracusa e Messina-Palermo. Nel 1871 fu inaugurata la prima, che fu spesso di difficile realizzazione tecnica: per l’eccessivamente stretta cimosa costiera da Messina e soprattutto da Mili Marina fino a Giardini, al di là del promontorio di Taormina, e per la presenza di numerose fiumare. In corrispondenza dello sbocco al mare delle più grandi, la ferrovia fu pertanto spinta un po’ più all’interno dal litorale per evitare i loro ampi letti ghiaiosi e il pericolo delle piene: i ponti furono in tal modo attestati alle ultime salde pendici delle digitazioni peloritane, al di fuori e al di sopra delle più larghe e pericolose zone di esondazione e di accumulo dei detriti alluvionali.

    Di più facile tracciato al di là dell’Alcàntara sulle falde più basse dell’Etna, e già in difficoltà prima di Acireale per l’avanzamento fino a mare delle colate e dei materiali effusivi etnei, la ferrovia veniva spinta fino a Catania, e da lì — evitando la pantanosa e vuota fascia litoranea — tendeva attraverso la non ancora sistemata piana catanese sino alle porte di Lentini, ormai ai piedi degli Iblei, che rasentava passo passo con larghe volute per toccare Augusta — alla base della sua penisola — e infine Siracusa. La ferrovia serviva alcune delle zone già allora economicamente più attive: la regione messinese — la cui posizione eccentrica veniva acquistando nell’ambito dell’Italia unita un assai più alto valore come elemento o punto di cerniera tra l’isola e la rete di comunicazione della parte continentale dello Stato — la regione etnea con Catania, e la regione siracusana. Rimaneva ancora piuttosto isolata, per contro, la città più importante dell’isola sul piano demografico e politico, e con la sua Conca ferace e le sue industrie tutt’altro che disprezzabile anche sul piano economico: l’antica capitale isolana, Palermo, ora in un certo senso molto più lontana e periferica di Messina rispetto all’Italia continentale. I lavori della ferrovia Palermo-Messina erano iniziati subito, a dir vero, contemporaneamente a quelli della linea ionica. Ma le assai più notevoli difficoltà da superare, non tanto lungo il primo tratto costiero da Palermo a Tèrmini Imerese e al fiume Torto, quanto invece da qui entro le aree argillose dell’interno, facili agli smottamenti e alle frane e non ancora servite da una rete stradale, e per lunghi tratti prive di centri abitati e di acqua — la ferrovia sale infatti lungo il Torto, che rimonta fino alla testata, scende poi per un tratto nella valle del Bélice che lascia per penetrare con una lunga galleria (quella di Maria-nópoli, che regge il paese omonimo: di 6422 m.) nella valle del Salito (sono entrambi affluenti del Plàtani), e tra le pieghe dell’altipiano interno passa a circa 6 km. a nord di Caltanissetta (Xirbi) e poi con ampi giri lambisce Enna e di qui si spinge giù per la valle del Dittàino che segue fino alla Piana catanese per raggiungere, al di là del Simeto, Catania, dove si collega con la linea ionica — tutte queste difficoltà dovevano ritardare l’apertura della linea di circa dieci anni, nel 1881. Ma il viaggio da Palermo a Messina restava lungo (di 338 km.): e la ferrovia, che attraversava aree prettamente cerealicole ancora legate a sistemi di vita arcaici, ben poco contribuì a risvegliarle dal torpore per il suo snodarsi prevalentemente nell’aperta campagna, lontana dai centri abitati, spesso situati in aspre e difficili posizioni sommitali. La linea ferroviaria del Tirreno, da Palermo a Messina, andava avanti, d’altra parte, molto lentamente: anche qui, per l’incombere da presso delle più basse propagginazioni delle Madonie e dei Nébrodi, i lavori — che comportarono numerosissimi ponti sulle fiumare, e gallerie dove la costa è più alta, e nel suo tratto terminale, verso Messina, un’opera ardita, l’attraversamento in galleria (5445 m.) della dorsale peloritana fino alle porte meridionali della città data la fortissima pendenza del versante ionico in questo settore — continuarono a tratti isolati negli ultimi due decenni dell’Ottocento, e soltanto all’aprirsi di questo secolo — con il compimento del tronco tra Capo Raisigelli (poco dopo Cefalù) e Caronia Marina — la linea tirrenica fu aperta nella sua interezza, su 232 km.: diversi anni dopo l’inizio dei traffici sulla linea tirrenica della Calabria, che congiungeva più direttamente la Sicilia a Napoli, a Roma, al Nord. Fino al 1895, infatti, il viaggio da Messina a Napoli continuava, al di là della rottura del bosforo messinese, lungo la strada ferroviaria ionica, e comportava un lunghissimo e noioso tragitto di due giorni.

    Intensità del traffico ferroviario: numero giornaliero dei convogli per viaggiatori in ciascuna direzione.

    Prima del completamento della ferrovia litoranea tirrenica, altre linee ferroviarie erano state aperte in Sicilia. Era stata la necessità di far defluire con maggior continuità, sicurezza e facilità il minerale di zolfo dall’altipiano interno verso i più vicini scali portuali a suggerirne prima e a potenziarne poi la realizzazione: tra il 1880 e il 1881 l’altipiano nisseno fu così dotato di una linea che dalla stazione di Xirbi — dove avviene l’innesto con la Catania-Palermo — sale a Caltanissetta, verso sud, e di qui tenendosi sulle dorsali che fan da spartiacque tra il Salso (o Imera meridionale) e il Gallo d’Oro (Plàtani) si spinge fino alle porte settentrionali di Canicattì, dove si dirama in due tronchi : che tendono l’uno verso il porto di Licata, alla foce del Salso, e l’altro ad Agrigento e allo scalo di Porto Empédocle. L’andamento delle due linee è particolarmente sinuoso, ed è stato dettato più dalla dislocazione o distribuzione delle miniere principali o dei più notevoli raggruppamenti di miniere di zolfo che dalla morfologia del terreno. Ed altre linee, ma a scartamento ridotto — linee dello zolfo anche queste — venivano aperte nello stesso altipiano agrigentino, con decorso altrettanto o anche più sinuoso: quella che da Riesi sale per Sommatino e Dèlia fino a Canicattì, e da qui scende a Naro, dove si divide, e per Camastra e Palma di Montechiaro volge a Licata da una parte, e dall’altra per Favara ad Agrigento (ma il tratto più interno, da Riesi a Naro, è ora in disuso, e il servizio vi viene espletato da autocorriere dell’amministrazione ferroviaria); e quella che da Santo Stefano Quisquina, Alessandria della Rocca e Cianciana passa nei territori di Ribera (stazione di Magazzolo) e Cattolica Eraclea e lungo la costa poi giunge a Porto Empédocle; e a nord, attraverso la Portella della Mola (902 m.) nei monti Sicani scende a Lercara Friddi, e si innesta subito dopo con la ferrovia a scartamento normale che nel frattempo — poco prima del 1880 — dipartendosi da quella centrale del Torto era spinta a penetrare entro la valle del Plàtani fin poco oltre la confluenza con il Gallo d’Oro, e a salire da qui fino a Comitini e ad Aragona, a sud dei quali si operava il congiungimento con la Caltanissetta-Agrigento. In questo anno appunto (1880) i due litorali, tirrenico e africano, della Sicilia, venivano per la prima volta collegati da una ferrovia diretta, e i minerali dell’altipiano a seconda delle convenienze, ma talora anche delle richieste — in dipendenza delle navi da carico all’àncora sui due litorali, che intendevano non lasciar andare a vuoto il viaggio di ritorno — prendevano la via di Porto Empédocle e Licata — più spesso — o di Tèrmini Imerese. Poco dopo il 1893, Licata fu finalmente legata con una ferrovia a scartamento normale anche a Siracusa, con una linea oltremodo complessa nel suo percorso, disegnata per ricercare quasi e toccare i principali centri abitati delle regioni percorse: ai margini dell’altipiano ibleo da Siracusa fino a Scicli — e a Noto una diramazione fu spinta lungo il litorale fino a Pachino, centro di una florida regione viticola — lungo i suoi versanti orientale e meridionale, essa si addentrava poi con notevolissime difficoltà lungo la profonda cava di Mòdica, e di qui attraverso numerose gallerie superava le forti pendenze dell’orlo terrazzato dell’Irminio e si spingeva con volute sinuose e giri e curve e nodi fino a Ragusa, e scesa poi a Donnafugata — dove le pendenze sono meno accentuate — nel piano costiero di Cómiso e di Vittoria, lo risaliva per toccare le due cittadine e poi attraverso Gela raggiungeva Licata, non senza altri forti internamenti per tenersi lontana dalle zone pantanose della costa. E pure Trapani veniva collegata, nel 1893, con Palermo grazie ad una linea per lo più litoranea dalla Conca d’Oro sino al fiume Freddo, sul golfo di Castellammare, che poi per poco rimonta prima di inoltrarsi nella valle di Segesta e quindi scendere nel piano trapanese. Questa linea fu continuata qualche anno dopo lungo la costa, fino a Marsala e a Mazara del Vallo, e poi a Castelvetrano da dove arranca su per le alte fiancate della valle del Dèlia per ricongiungersi, dopo aver corso quasi tutta la vallata del Fiume Freddo, con la Trapani-Palermo. Altre linee, queste a scartamento ridotto, furono poi tracciate in altre parti più internate dell’isola: la linea che da Palermo sale per l’Eleutero e su per le pendici settentrionali della Rocca Busambra e cala poi nella valle del Bélice sinistro toccando Corleone, Bisacquino, e scende infine nella valle del Carbòi, da dove si inerpica a Gibellina e a Santa Ninfa, finendo da una parte nella linea ordinaria del fiume Freddo appena a nord di Santa Ninfa (da dove un tratto a scartamento normale veniva portato a Salemi, Vita e Calatafimi fino all’innesto con la Trapani-Palermo) e dall’altra calando a Castelvetrano: e di qui si spinge poi sul Mar africano a Marinella — vicino alle rovine greche di Selinunte — per rimontare con ampie volute a Menfi, scendere poi a Sciacca e risalire a Ribera (ora in disuso). E la linea (pure questa in disuso) che da Siracusa, risalendo per l’affossata valle dell’Anapo, si inerpica fin sugli alti Iblei a collegare i più elevati insediamenti, fin oltre Giarra-tana: dove si biforca in una diramazione che a ridosso delle pendici di M. Lauro si spinge nel territorio di Vizzini — e qui si attua l’innesto con la Catania-Caltagirone, a scartamento normale — e poi prosegue fino a Valguarnera Caropepe attraverso i paesi degli Erei (per toccare poi la Palermo-Catania alla stazione di Dittàino), e in una seconda diramazione che scende l’altipiano di Ragusa fino a sud della città, innestandosi poi alla linea principale. E ancora la circumetnea, che lambisce alla base tutto l’apparato vulcanico, collegando i centri che vi si sgranano intorno: risalendo da Riposto, sul mare, entro la valle dell’Alcàntara prima e da qui in quella del Simeto, fino a Catania.

    La rete ferroviaria, che non esisteva nel 1861 ed era ancora di appena 893 km. nel 1886, nel 1912 aveva uno sviluppo di 1563 chilometri, di 2182 nel 1938, e solo di 1806 km. nel 1964: ma già dal 1961 erano in esercizio soltanto 1681 km. di ferrovie, di cui 1457 a scartamento ordinario e 224 a scartamento ridotto. In effetti, pressoché tutte le ferrovie a scartamento ridotto — oltre a qualche tratto di quelle normali — hanno cessato di funzionare o perché legate esclusivamente all’industria solfifera che a poco a poco si è venuta spegnendo, o perché soppiantate dai servizi automobilistici, molto più celeri e comodi, in rapporto allo sviluppo dei trasporti pubblici su strada e al miglioramento recente — specie dopo il 1950 — della rete viabile. E pur vero, tuttavia, che il rapido sviluppo della rete ferroviaria tra il 1881 e l’inizio di questo secolo era destinato a porsi come elemento concorrenziale di prim’ordine sul piano degli scambi e dei trasporti: non soltanto all’interno dell’isola — dove a lungo rimasero, e almeno fino all’ultimo dopoguerra, il fattore principale di potenziamento e di ravvivamento commerciale — ma anche nei suoi rapporti con l’esterno, specialmente con le altre regioni italiane. E tanto più quando fu inaugurato, il primo novembre 1899, il primo servizio delle navi-traghetto sul bosforo messinese: tale servizio — pur dopo molti contrasti — risolse infatti il problema di collegare in modo celere e sicuro la rete ferroviaria della penisola con quella siciliana, ed ebbe un rapido e fortunato sviluppo, facilitando in maniera notevole i rapporti commerciali interregionali e con i paesi dell’Europa centrale. Svoltosi sino all’inizio del 1905 tra Messina e Reggio, il servizio delle navi-traghetto fu allargato dal febbraio di quello stesso anno anche a Villa San Giovanni, naturale testa di ponte per le comunicazioni con la Sicilia, posta in posizione ideale per assorbire la parte più cospicua dei flussi commerciali concorrenti sullo Stretto: quella che proviene dalla fascia tirrenica della penisola. Una invasatura per l’attracco delle navi-traghetto a Messina nel 1899, 2 nel 1905, 3 nel 1910, 4 nel 1938, 6 nel 1966 (e quattro ce ne sono ora a Villa e due a Reggio Calabria), indicano in modo chiaro lo sviluppo rivestito dai traffici sullo Stretto: e l’aumento delle navi-traghetto (ora sono sette) e soprattutto del numero delle corse doppie, cioè nelle due direzioni opposte — 9500 nel 1951, 12.800 nel 1956, 14.600 nel 1961, 21.535 nel 1966 — manifesta il febbrile via vai di queste piccole navi (da 2000 a 6000 tonnellate di stazza) e sottolinea l’importanza del bosforo messinese come ganglio o punto focale del traffico ferroviario siciliano. Perché la contrazione dei traffici portuali dell’isola — evidentissima fino a quando non sono intervenuti il petrolio e i suoi derivati — ha significato il passaggio del movimento commerciale alla strada ferrata, che a Messina tende attraverso le sue due direttrici principali, provenienti da Palermo e da Siracusa: sicché sulle navi-traghetto sono stati trasportati in media 72.000 carri da merce nel 1911-15, 171.000 nel 1938-39, 354.000 nel 1950-55, 480.000 nel 1961-64. E così le merci traghettate sono passate gradualmente da 800.000 tonn. nel 1928 a circa un milione nel decennio successivo; e nel dopoguerra (1956) — pur non disponendo di una statistica delle merci importate dall’estero attraverso lo stretto: cioè restringendo il calcolo al commercio interregionale e all’esportazione — era di 2,6 milioni di tonnellate per l’interregionale (quando quello marittimo di cabotaggio toccava 1,3 milioni, di cui il 70% costituito da oli minerali) — e di 320.000 tonn. per l’esportazione verso paesi stranieri. E evidente il forte scivolamento di vecchie tradizionali correnti di traffico, che facevano per l’innanzi capo ai porti siciliani, verso la ferrovia: e in effetti negli scambi marittimi le merci che ancora prevalgono come quantità rispetto ai traffici ferroviari, sia in entrata che in uscita, sono ridotte a poche: e cioè carbone, pietra pómice, oli minerali, zolfo, sale, salgemma. Ma prodotti come il grano e i materiali da costruzione, che seguivano fino all’inizio del secolo le vie del mare, risultano ora inoltrati prevalentemente per ferrovia. Nel commercio interregionale, secondo i dati pubblicati dall’Ar-curi Di Marco, nel 1956 prevalevano tra le merci importate il legname (162.800 tonn., pari al 97% di tutto il legname giunto nell’isola), la farina di frumento (101.000 tonn.: cioè il 61% del rispettivo traffico complessivo in entrata), il grano (94.300 tonn.: 77%), cemento e materiali da costruzione (68.000 tonn.: 63%), ghisa e ferro grezzi (75.300tonn. : 95,5%), tubi di ferro (38.450 tonn. : 99,7%), oltre alle patate (63.000 tonn. : 95,7%) e frutta fresche (45.700 tonn.: 96%); e dalla Sicilia venivano inviate nelle altre regioni italiane soprattutto i prodotti agricoli: e in particolare gli agrumi (313.200 tonn., cioè il 99,8% di tutti gli agrumi che hanno lasciato l’isola in quell’anno limitatamente al traffico interno), mosto vini e marsala (158.300 tonn.: 74,7%), pomodori (38.450 tonn.: 99%), altri legumi e ortaggi freschi (non meglio specificati: ma soprattutto carciofi, e cavolfiori: 58.430 tonn.: 97,5%) e anche carrube (46.000 tonn. : cioè tutto il quantitativo spedito dalla Sicilia).

    Tutto questo traffico, oltre a quello internazionale, è sopportato dalle due linee principali che recentemente, grazie alla loro elettrificazione (tra il 1956 e il 1958) e a miglioramenti alle sedi ferrate, riescono a smaltirlo con minori angustie. Ma assai più che dalla linea tirrenica sulla quale vengono istradati i prodotti agricoli, specie della Conca d’Oro e della Piana di Milazzo, risulta caricata la linea ionica: le produzioni di agrumi del Siracusano del Catanese e del Messinese, oltre all’abbondante produzione orticola del Ragusano e ai vini e alle uve di Pachino e di Vittoria, prendono questa via, o direttamente o immettendovisi attraverso le altre ferrovie a questa legate: specie la Licata-Siracusa e la Palermo-Catania, nel suo tratto terminale verso lo Ionio. Soprattutto in alcune stagioni — nell’inverno e fino a metà primavera per gli agrumi prima e poi per gli ortaggi e gli oli grezzi d’oliva, e nell’autunno, quando si esportano specialmente mosti ed uve — il traffico è intensissimo, e sullo stretto messinese le navi-traghetto sono tanto occupate a traghettare treni merci (vi passano ora in media circa 900 carri da merce ogni giorno, per un totale complessivo di circa 330.000 nel 1966: ma erano ancora 133.000 nel 1951, e 162.000 nel 1956, anno cui si riferiscono le statistiche del commercio dell’Arcuri Di Marco, riportate più sopra) che ne risente persino l’istradamento dei treni ordinari: le soste alle stazioni di Messina e di Villa diventano in quei mesi particolarmente lunghe e gravose. Questo flusso dei carri merci segue a Villa, verso il nord, prevalentemente la via tirrenica, la più diretta e veloce: circa l’88% dei treni passa per questa direttrice, e solo il 12% — che nei mesi di traffico più intenso può crescere in modo sensibile giusto per alleggerire il peso eccessivo dell’altra linea — per Reggio Calabria e la riviera ionica. Le altre linee ferroviarie, antiquate e dotate di sedi piuttosto dissestate e di materiale rotabile assai poco efficiente, e con andamenti contorti che rendono ancor più lenti i trasporti, non reggono nemmeno lontanamente il confronto con i due principali assi ferroviari dell’isola, che corrono molto perifericamente alla regione e non ne toccano l’interno. La concorrenza dei trasporti automobilistici è pertanto fortissima, perché i trasporti di persone e cose risultano in tal modo più rapidi e sicuri: i viaggi in treno sono ancora, infatti, piuttosto lunghi : da Licata a Siracusa si impiegano 5 ore per percorrere 215 chilometri, e da Tèrmini Imerese ad Agrigento ne occorrono tre per un tragitto di 113 chilometri soltanto. Alcune linee che scendono dall’altipiano solfifero sono tuttavia riuscite a mantenere un traffico discretamente intenso: specie la Caltanissetta-Agrigento e la trasversale del Plàtani, che a sud scende a Porto Empédocle e a nord si spinge fino al Tirreno. Ed anche per quanto concerne il servizio dei passeggeri: la Caltanissetta-Agrigento è dotata di otto corse nelle due direzioni, di sette la Catania-Caltagirone, ma di quattro appena la Palermo-Catania, che rappresenta l’asse interno fondamentale (più due corse in partenza da Catania). Anche per i passeggeri, però, le due principali direttrici siciliane, la tirrenica e la ionica, mostrano un carico di gran lunga superiore: soltanto su di esse corrono i treni rapidi e le « frecce » che portano all’Italia centrale e settentrionale, e che a Palermo e a Siracusa hanno il loro inizio e il loro termine. La linea tirrenica vanta n corse al giorno per ciascuna direzione, oltre a 13 treni locali; e la linea ionica 9 corse, oltre a 16 locali. A queste due linee tendono invero dall’interno tutti quei siciliani, per la maggior parte, che per motivi di lavoro o di svago debbono raggiungere il continente, e soprattutto — assai più numerosi dal dopoguerra in poi — coloro che a Roma nell’amministrazione prevalentemente e nelle regioni settentrionali in particolare nell’industria o nei servizi hanno trovato un nuovo lavoro — e quindi una nuova residenza — o all’estero (in Inghilterra, ma specialmente in Francia, Belgio e Germania) si sono occupati stabilmente nelle miniere e nelle industrie o temporaneamente nell’agricoltura, e tornano nell’isola al tempo delle ferie estive e delle maggiori festività religiose — e anche in occasione delle elezioni politiche — o alla fine del contratto di lavoro. Così mentre nel porto di Palermo si imbarcano ogni anno poco più di 100.000 persone per Napoli — dove riprendono il viaggio in treno (e tra la metà del Settecento e l’unificazione nazionale era proprio questa la via d’uscita e d’entrata della Sicilia, la più agevole e la più seguita dai viaggiatori, anche stranieri, che evitava la perigliosa « via della Calabria », come ha messo in rilievo recentemente L. Gambi) — il traghettamento delle persone sullo Stretto ha visto aumentare in modo considerevole il proprio volume: erano 3.768.600 nel 1950, 5.316.600 in media nel 1956-60, 7.814.600 nel 1964; per l’86% provenienti da Villa San Giovanni o a Villa diretti, sulla linea calabrese tirrenica, e per il 14% interessanti la linea calabrese dello Ionio, con perno su Reggio Calabria. La via di transito diretta verso il Nord, cioè la tirrenica, mostra quindi lo stesso peso proporzionale, rispetto a quella di Reggio Calabria, che è stato poco sopra osservato per il traffico commerciale. Dei 17 treni a lunga distanza che lasciano Messina per il continente, 14 sono infatti istradati sulla linea tirrenica (8 per Roma, 5 per Milano, 1 per Torino) e soltanto 3 sulla linea ionica (2 per Taranto e Bari, 1 per Catanzaro e Sant’Eufemia Lamezia). Sullo Stretto di Messina fanno ora servizio per persone e automezzi anche tre navi-traghetto di società private, e gli aliscafi: questi ultimi servono soprattutto agli scambi locali, tra i fulcri principali della conurbazione dello Stretto.

    Il recente impulso dei trasporti stradali

    Il rapido scivolamento, sullo scorcio del secolo scorso e avanti la prima guerra mondiale, delle direttrici di traffico interno e interregionale — e in parte persino con l’estero — dai porti alla ferrovia, fu evidentemente determinato dalla maggiore celerità oltre che dalla minore spesa, con cui sulla rete ferroviaria potevano spostarsi persone e cose. E questa sarebbe stata l’evoluzione normale — come si è potuto osservare anche nei paesi e nelle stesse regioni italiane più sviluppate — anche se la rete stradale si fosse presentata con un maggiore sviluppo, e con una pavimentazione e con opere più consistenti: i trasporti su strada, fino all’apparizione dei mezzi motorizzati, non potevano in effetti prospettarsi come un valido e temibile fattore di concorrenza. E del resto qui, in Sicilia, il carro non ha mai conosciuto — come in genere nell’Italia meridionale — la consistenza e la robustezza del carro agricolo delle pianure settentrionali, ma soltanto la leggerezza (persino leggiadra nella varietà dei suoi colori e spesso nel semplice tratto popolare dei suoi disegni o delle sue incisioni) del «carretto siciliano»: nemmeno la rete stradale campestre è stata mai fìtta, tanto che ancora oggi i contadini, anche dove esistono le strade, provvedono in gran parte al trasporto dei prodotti agricoli con asini o muli, che caricano al basto. Un carretto così leggero, poi, che era escluso da gran parte dell’isola, anche dove c’erano le strade, ma troppo accidentate e dal fondo eccessivamente ciottoloso.

    Intensità del traffico motorizzato, sulle strade statali, nel 1965 (in base ai dati raccolti dall’ANAS).

    Del resto, al momento dell’unificazione la rete stradale isolana — o per meglio dire le strade dell’isola, ché di rete vera e propria non si può affatto parlare — era gran misera cosa: e non tanto per le strade statali — che anzi, con 618 km. di sviluppo, sopravanzavano anche se di poco quelle piemontesi — quanto invece per le comunali: appena 460 km. rispetto agli 8288 del Piemonte. Da secoli infatti, e almeno dal Cinquecento in rapporto alla larghissima diffusione del brigantaggio — e proprio allora scompaiono alcune delle fiere più importanti dell’interno, come quelle di Corleone e di Piazza Armerina — le comunità siciliane si erano poco a poco rinchiuse in se stesse, sviluppando un’economia fortemente autarchica; e i grani, che si coltivavano tuttavia in grandissima misura, venivano dalle aree interne esitati ai porti dei litorali — dove si concentrava tutto il traffico isolano, con le altre parti dell’isola come con l’esterno — attraverso itinerari che erano semplici mulattiere, come poco più di mulattiere per la loro larghezza erano le direttrici seguite dalle greggi transumanti tra i monti e le marine: le trazzére. Alla fine del Settecento — quando le idee illuministiche vengono agitate anche in Sicilia: e nel 1777 nella sua Lettera sulla Pulizia delle pubbliche strade in Sicilia Vincenzo Emanuele Sergio imposta per la prima volta il problema della strada quale fattore di sviluppo economico — si prendono le prime misure di carattere pratico per la delineazione e la costruzione di nuove strade, e l’anno successivo (1778) il Parlamento isolano vota un primo piano stradale: ma ancora trent’anni dopo, nel 1808, Paolo Balsamo, durante il suo viaggio in Sicilia e in particolare nella contea di Mòdica, riesce a percorrere in calesse soltanto 82 miglia siciliane (cioè circa 122 chilometri) e il resto in lettiga, e per qualche tratto — come tra Ragusa e Mòdica — a piedi o a cavallo: un viaggio, quest’ultimo, di tre ore, su meno di quattro miglia di strada dirupata. Nel 1824 — come appare dalla memoria di G. Perez, La Sicilia e le sue strade — l’isola disponeva ancora soltanto di 251,5 miglia siciliane (pressoché tutte diramanti da Palermo: a Terrasini; ad Alcamo attraverso Monreale e Partinico; a Corleone per Piana degli Albanesi; a Vallelunga attraverso Marineo, Villafrati, e Vicari; a Tèrmini Imerese lungo la costa); e di 271 nel 1838, di 1198 nel 1852, e di 1505 nella primavera del 1860. Ma si trattava di strade di assai diverso valore, più spesso sprovvedute di ponti e di altre opere murarie; e di strade che erano ancora, in gran parte, tronchi non collegati tra di loro. Soltanto la «strada regia» — che si svolgeva su un probabile itinerario romano — si presentava come un asse di particolare importanza. Essa aveva uno sviluppo soprattutto interno, e quindi lungo, tortuoso, disagevole: da Palermo seguiva per breve tratto la costa tirrenica e si inoltrava quindi per la valle dell’ Eleutero addentrandosi nei monti calcarei e poi nelle colline argillose dell’interno, e tagliando le testate delle valli del San Leonardo e del Torto si adagiava sulle pendici sudocciden-tali delle Madonie fino al passo dell’Ogliaro, tra Vallelunga e Santa Caterina Villarmosa — questo tratto era stato portato a termine già prima del 1824 — e di qui si spingeva, tagliando in alto le valli del Bélici e del Salso, ad Enna, nel cuore degli Erei, e di lì divallava nella valle del Dittàino, ma per poco soltanto, e risaliva per le ultime, più meridionali groppe nebrodensi fino ad Agira e a Regalbuto, inoltrandosi nella valle del Salso e oltrepassandolo poco a monte della sua confluenza con il Simeto, spingendosi sulle falde occidentali dell’Etna ad Adrano, e seguendo poi la base del vulcano fino a Catania: e da qui tendeva a nord lungo la fascia litoranea, finendo a Messina, sullo Stretto. Questa strada era già ultimata nel 1838 nelle sue linee generali; e in quello stesso anno veniva portato a termine il suo proseguimento ad ovest di Palermo fino a Trapani — con alcune derivazioni — lungo il mare o a ridosso dei monti calcarei di Capaci e Carini e Terrasini appena fuori della Conca d’Oro, e poi al torrente Nocella e di qui a Partinico e ad Alcamo nella parte marginale, pedemontana, della pianura che si affaccia al golfo di Castellammare (fin qui tracciata prima del 1824), e poi a Calatafimi su per la valle del fiume Caldo, e poi giù a Trapani attraverso i suoi poco inclinati ripiani calcarei. A questa strada longitudinale, se ne aggiungevano appena due di qualche consistenza, in senso trasversale: quella che da Catania tendeva a Siracusa, a Noto e a Pachino, ultimata nel 1852, e che dotava pertanto di una linea carreggiabile tutta la fronte ionica della Sicilia, insieme al tratto Catania-Messina; e quella che da Caltanissetta per Canicattì volgeva a Cam-pobello di Licata, ma non era ancora congiunta né con il mare africano, né con l’asse stradale interno. Gran parte dell’interno, ma specialmente quasi tutto il litorale tirrenico (qui esisteva appena il tronco Palermo-Tèrmini Imerese, e qualche più breve tratto disperso, più ad est), e la maggior parte di quello africano — il dorso della Sicilia: dove si potevano osservare soltanto un collegamento stradale alle sue due estremità, ad ovest da Trapani a Castelvetrano per Marsala e Mazara del Vallo, e a sudest da Gela (Terranova) a Noto, dove si innestava alla linea ionica, attraverso Vittoria, Comiso e Mòdica — erano pressoché privi di strade carrozzabili. Non più di 600 km. di strade erano dunque, nel complesso, quelle che costituivano senza alcuna interruzione di continuità — che non fosse la mancanza di qualche ponte, come sul Simeto e su alcune fiumare peloritane — una prima ossatura viabile dell’isola, dall’estremità occidentale (Trapani) alla costa ionica (Catania: attraverso Palermo ed Enna), e lungo tutta la fronte orientale: da Catania a Messina, e da Catania a Siracusa, Noto e Pachino. Le altre strade avevano ancora carattere prettamente locale, anche se erano riuscite a legare tra loro in modo più facile e diretto e continuo un discreto numero di paesi e borgate fino allora distinti da scarsi e discontinui rapporti.

    Vedi Anche:  Posizione e struttura della Sicilia

    Una rete stradale vera e propria — anche se esistevano vie come quelle menzionate ed itinerari più o meno battuti e nella buona stagione percorribili anche con carri: e Garibaldi seguì infatti tali itinerari e vie nella sua spedizione del ’60 — non era stata ancora intelaiata al momento dell’unificazione, nonostante gli sforzi dei Borboni, specie dopo il 1830 sotto lo stimolo del direttore generale di porti e strade, C. Afan de Rivera. Dopo l’unità, il governo italiano accordò grandi cure, oltre che alla rete ferroviaria principale — che rimase tuttavia assai monca in gran parte dell’isola, nelle regioni centrali e lungo la fronte africana — anche alle strade: che da 2468 km. nel 1861 complessivamente crebbero a 7781 nel 1910. Fino al 1886 particolare attenzione fu posta a quelle provinciali (il cui sviluppo passò da 1290 a 4634 km. tra il 1861 e il 1910) e alle comunali (da appena 460 a 2418 km. nello

    stesso periodo) piuttosto che alle statali o grandi vie di comunicazione: ché soprattutto di una rete secondaria, che toccasse la maggior parte dei territori comunali, e giungesse al maggior numero di centri abitati, e li risvegliasse a nuove forme di vita legandoli con le città e con le borgate più evolute, c’era bisogno. Ma in quel periodo — mentre prima dell’unificazione le strade, per quanto poco numerose, erano state tirate con ordine e con razionalità — per la scarsa conoscenza del territorio, per la deficienza del materiale cartografico, per la mancanza di decise tendenze economiche che potessero suggerire più vantaggiosi e utili tracciati, e pure per i contrasti tra i comuni interessati ad attirare con i più vari mezzi la via al loro capoluogo, le nuove strade furono costruite con andamento molto sinuoso, che le forme del suolo obbligavano già di per sè — per deficienze di tecniche o di capitali, che facevano preferire tracciati superficiali e più aderenti alla morfologia — a più numerose contorsioni e giri e risvolti. Tuttavia furono tracciate anche alcune importantissime vie: la Palermo-Messina sul litorale tirrenico; la strada che più o meno da vicino segue tutta la fronte meridionale dell’isola, e i più importanti collegamenti in senso trasversale: la Palermo-Corleone-Sciacca e la Palermo-Lercara Friddi-Agrigento (già delineate nell’assieme prima del 1860); la Santo Stefano di Camastra-Nicosia-Enna-Piazza Armerina-Gela, e la Enna-Caltanissetta-Canicattì-Agrigento.

    I ripidi tornanti della strada che dal centro balneare di Mondello sale sulla scoscesa massa calcarea di M. Pellegrino, da cui scende poi a Palermo.

    Dopo la prima guerra mondiale la rete carrozzabile siciliana conobbe soltanto pochi rifacimenti e sviluppi, e sul piano qualitativo, pertanto — tranne qualche bitumazione dopo il 1930 su alcuni tratti delle strade principali — rimase molto al di sotto di quelle settentrionali: dove il più rapido sviluppo della motorizzazione e l’uso assai più frequente, e fuori di ogni confronto, dei carri a trazione animale, obbligavano a più costanti cure, ad allargamenti e rappezzamenti, a fortificazioni e sostituzioni di opere murarie. Ed invero, ancora nel 1951 la rete stradale era aumentata, rispetto al periodo precedente il primo conflitto mondiale, soltanto di circa il 10% (da 7781 a 8619 km.). Dopo l’ultimo conflitto — che provocò notevoli danni anche alle strade: forse soprattutto indirettamente, a causa di una deficiente manutenzione, che portò alla rovina e al disgregamento di molti e lunghi tratti di massicciata — nel nuovo clima politico, più aperto al miglioramento delle condizioni economico-sociali della popolazione, all’attivazione e potenziamento dell’apparato produttivo, all’esigenza di colmare la grave frattura tra i livelli di sviluppo del Nord e del Sud, nonché in relazione al sempre più pesante uso della strada da parte di un accresciuto e via via più numeroso contingente di automezzi, pubblici e privati, per le persone e per le cose, lo sviluppo della rete viaria riprese con maggior lena: ed oggi (1964) si contano 12.422 km. di strade, quasi un terzo più che nel 1951: e la loro densità rispetto alla superficie territoriale è aumentata da 330 a 483 per ogni mille chilometri quadrati, e rispetto agli abitanti da 193 a 258 per ogni centomila persone. Ma ancora una volta si deve notare — come è evidente in tutte le regioni meridionali — che lo sviluppo della rete comunale è assai poco diramata: appena 1241 km. di fronte ai 7870 km. di strade provinciali e ai 33n km. di strade statali: ma ciò si deve in parte anche alle più gravi spese che non solo la costruzione delle strade ma anche la loro manutenzione comportano nei terreni dissestati, e spesso franosi dell’isola, e alla povertà dei comuni, dalla cui amministrazione le strade passano a quelle delle province e dello Stato. Ma ciò significa anche, evidentemente, la difficoltà che molte borgate, dell’interno come delle regioni periferiche, hanno ancora di poter agevolmente e senza forti perdite di tempo mettersi in comunicazione con i centri più vitali dell’isola: dal punto di vista economico, come politico e culturale: un fatto che spiega tuttora la presenza di arcaismi e tradizioni che tardano a venir meno, e che sopravvivono non soltanto come fatto folcloristico ma come espressione di uno stato d’animo e di una mentalità largamente diffusi e sentiti.

    Il potenziamento e l’ispessimento della rete stradale siciliana sono in rapporto anche con il prepotente sviluppo dei traffici, relativi alle cose come alle persone, durante gli ultimi cinque lustri. Gli autocarri per il trasporto di merci sono infatti cresciuti da 3836 nel 1938 a 15.121 nel 1952, a 27.630 nel 1964, i motocarri e i motofurgoni da 5039 a 12.823, a 34.839, i rimorchi da 190 a 1011, a 1958. Ed essi scorrono prevalentemente lungo la linea ionica, specie intorno a Catania, e a nord di Siracusa sul litorale megarese (dove si è fissata la più importante coagulazione industriale dell’isola), e tra Porto Empédocle e Campofranco (sedi di industrie chimiche collegate nel ciclo di produzione). E il volume delle merci trasportate si fa via via più grande, e la strada si presenta come elemento fortemente concorrenziale rispetto ai trasporti ferroviari: che nel volgere di pochi anni — dal 1957 al 1962 — hanno visto scendere il numero dei carri caricati da 378.500 a 313.170, e il volume delle merci trasportate da 4.383.900 a 3.117.760 tonn. (con una diminuzione del 17,2% e del 34,6%, rispettivamente). E notevolissimo impulso ha avuto anche il movimento delle persone su mezzi e veicoli pubblici e.privati: gli autobus erano 644 nel 1938, 1232 nel 1952 e sono ora 23.700; e le autovetture, appena 18.238 nel 1938, erano 35.157 nel 1952, 182.387 nel 1962, 289.323 nel 1964. I servizi automobilistici sono dunque molto più fitti e diffusi di pochi decenni addietro, e legano ormai anche i più piccoli e minuscoli e internati centri abitati con i capoluoghi provinciali, oltre che con le cittadine funzionalmente più evolute, alle quali fanno capo gli abitanti per le più diverse ragioni. E tali servizi, che nel 1938 avevano una rete di 161 linee per 4963 chilometri, già nel 1951 ne vantavano 359 per uno sviluppo di 18.112 chilometri. E pure molto aumentati sono i motocicli leggeri (2797 nel 1949; 11.290 nel 1953; 90.727 nel 1959). E perciò logico che l’intensità del traffico motorizzato si sia notevolmente rafforzato.

    L’aereo, ardito viadotto di Mòdica, alto più di 100 m., che collega rapidamente, al di sopra della sua profonda « cava », i tavolati che da una parte salgono a Ragusa e dall’altra scendono ad Ispica.

    I ripidi tornanti che dallo Ionio si innalzano sugli acclivi contrafforti dei Peloritani, da Capo Sant’Alessio a Forza d’Agro (Messina).

    Considerandolo nel complesso, in base ai dati dell’ultima rilevazione dell’Arias (1965) per le strade statali, risulta evidente il gran peso che ha nell’ambito della Sicilia la litoranea ionica da Messina a Siracusa: che nell’assieme ha visto intensificarsi il traffico di ben dieci volte dal 1951 al 1965, con particolari affollamenti intorno a Catania, dove la media dei passaggi giornalieri si aggira tra i 10 e i 15.000, e supera i 20.000 tra la città etnea ed Acireale, e tra Siracusa e la zona industriale del litorale megarese, dove si toccano le stesse intensità medie. Tali densità di passaggi giornalieri non sono rilevabili altrove, tranne che per un breve tratto della Conca d’Oro, dal centro di Palermo a Ficarazzi, in area ormai urbanizzata. Sulla litoranea tirrenica come su quella che si affaccia al Mar africano, il numero medio dei passaggi giornalieri si abbassa per contro intorno a 2-4000, come sulle principali strade dell’interno: tale media può innalzarsi a valori maggiori solo localmente (come intorno a Trapani, a Marsala, tra Partinico e Castellammare del Golfo, tra Piazza Armerina e Gela: tra 6 e 10.000) o lungo particolari direttrici interne: sulla longitudinale Palermo-Agrigento-Porto Empédocle, nel tratto tra quest’ultima città e Campofranco che costituisce il lato fondamentale del « triangolo del potassio », e sulla trasversale Catania-Enna-Caltanissetta-Agrigento (settori della « catanese » e dell’« agrigentina ») : con carichi da 4 a 6000, che si rafforzano di più alle due estremità, presso Catania e presso Agrigento. Ma alcune strade statali interne hanno carichi di traffico veramente modesti: significative per la non forte frequentazione (con 500-1000 passaggi al giorno, e anche meno) sono a questo riguardo le due strade che arrancano su per le pendici dei Nébrodi occidentali fino a scendere entro le alti valli del Simeto e del Salso: da San Fratello a Cesarò, da Santo Stefano di Ca-mastra a Nicosia. Dovunque, tuttavia, il traffico motorizzato si è irrobustito in modo sensibile nel corso degli ultimi quindici anni, aumentando, a seconda delle direttrici, da dieci a più di venti volte: con rafforzamenti relativi evidentemente maggiori lungo le strade fino allora poco battute dai moderni mezzi di trasporto.

    In molte borgate e cittadine dell’interno della Sicilia, disposte su rilievi mossi, molte vie — specie quelle ortogonali al decorrere delle isoipse — sono spesso costrette a superare i forti dislivelli con grandiose scalinate, come questa di Cómiso (Ragusa).

    Isole Eòlie (Messina): filatura a mano in un cortiletto di Panarea. Si osservi, sulla parete imbiancata a calce, la parte posteriore del forno, aggettante, dell’abitazione adiacente.

    Ma il traffico scorre ancora adagio sulle strade della Sicilia: i tracciati eccessivamente contorti ereditati dal passato; il sempre cangiante profilo orizzontale che troppo spesso si inclina in corrispondenza del più lieve aggetto e che si arrampica con difficoltà su per le groppe scoscese che sostengono i numerosi centri di sommità; la carreggiata quasi sempre troppo angusta, e anche lungo le principali direttrici tormeritata da frequenti strettoie e rotta da almeno tanti colli di bottiglia quanti sono gli attraversamenti dei villaggi e delle borgate (soprattutto di quelli allungati su strada, numerosi specie lungo le riviere peloritane, ionica e tirrenica); e infine l’ancora marcata deficienza di autostrade — ne esistono pochi e brevi tronchi : da Palermo a Punta Ràisi (di 25 km.), dove è sorto l’aeroporto; e qualche altro brevissimo tratto della Palermo-Catania e della Catania-Messina (da Catania ad Acireale, e da Giampilieri a Itala Marina, alle due estremità dell’arteria): e purtroppo ancora molto bisognerà attendere per la loro realizzazione, che gli organi regionali dovrebbero invece cercare di potenziare e portare innanzi al ritmo almeno di quelle continentali —: son tutti motivi che ritardano notevolmente i tempi di trasporto, con grave disagio per il traffico. Il quale si è fatto particolarmente intenso e gravoso in corrispondenza di Messina, dove un numero vieppiù maggiore di automezzi tende per il passaggio sull’altra sponda dello Stretto. Gli automezzi transitati sul bosforo messinese sono infatti aumentati da una media di 3320 nel 1936-40 a 14.660 nel 1946-50, a 131.540 nel 1956-60, a 439.075 nel 1964; per 1*83% istradati sulla via di Villa San Giovanni, e per il 17% avviati su quella di Reggio Calabria.

    Rimagliatura delle reti da pesca a San Nicolò l’Arena, piccolo villaggio sul golfo di Tèrmini Imerese (Palermo). In secondo piano, un castello medioevale con torre di guardia, e sullo sfondo il calcareo M. Ca-talfano (374 m.), che scende a Capo Zafferano.

    L’intensità di questo traffico ha creato notevoli problemi al servizio delle navi-traghetto per il trasporto degli automezzi pesanti. I sette traghetti delle ferrovie dello Stato fanno continuamente la spola, senza interruzione, nemmeno notturna — quando vengono traghettati prevalentemente gli autocarri — tra le due sponde. E il ritmo di accrescimento è tale — sia per i veicoli che per i treni — che pare ormai inderogabile la soluzione integrale del passaggio dello Stretto: la costruzione di un ponte sospeso sul bosforo calabro-siciliano — è quella che sta raccogliendo il maggior numero di consensi, rispetto alla galleria sottomarina e all’istmo artificiale — non soltanto alleggerirebbe l’ingorgo dei mezzi, ma allaccerebbe in modo continuativo il sistema ferroviario e stradale della Sicilia a quello della penisola. L’insularità della Sicilia perderebbe allora gran parte dei suoi aspetti negativi, e l’isola si troverebbe molto più vicina — una volta portati a termine i lavori per il raddoppio della linea ferroviaria da Napoli alla Calabria, e quelli dell’autostrada del Sole — al Centro e al Nord dell’Italia. I viaggi se ne avvantaggerebbero enormemente, con guadagni di tempo notevolissimi: sul solo Stretto si possono perdere attualmente alcune ore, talvolta, per l’intenso traffico, anche se il passaggio del breve tratto di mare comporta una traversata di appena 35 minuti tra Messina e Villa, e di 55 tra Messina e Reggio Calabria. E tutto il traffico siciliano ne trarrebbe grande vantaggio, non solo lungo le strade litorali ionica e tirrenica, che sopportano ora i carichi più forti, ma anche negli altri settori dell’interno e della fronte africana, con l’aiuto di una rete stradale che si spera di vedere presto rafforzata nelle sue maglie, ma soprattutto migliorata nel suo disegno.

    Coesistenza di poveri mercati tradizionali e di attive piazze commerciali

    Le marcate disparità esistenti nell’intensità e nel volume dei traffici, soprattutto di quelli relativi al trasporto di merci, lungo le direttrici stradali dell’isola, indicano chiaramente le enormi differenze che si possono cogliere nelle varie parti della Sicilia anche sul piano del commercio. Nonostante le attività commerciali, all’ingrosso e al minuto, si siano notevolmente espanse nel giro eli un secolo — gli addetti al commercio erano appena il 2,3% della popolazione attiva nel 1871, il 6,2% nel 1901, ancora soltanto il 7% nel 1931, ma già l’i 1,8% nel 1951 e il 14,1% nel 1961 quando se ne contavano 208.110 — il loro sviluppo ha interessato prevalentemente un certo numero di città e di grosse borgate — in rapporto all’attivazione industriale, o al forte incremento delle colture di pregio dei loro agri, o alla dilatazione dei servizi e ancor più al grande e talora eccessivo espandersi delle attività amministrative, legate agli organi statali, regionali e provinciali e agli uffici comunali — piuttosto che in modo armonico tutto il corpo della regione. Da una parte si hanno di conseguenza alcuni centri distinti da una animazione commerciale particolarmente intensa: e cioè Catania, per molti aspetti la città siciliana più completa e complessa sotto il profilo funzionale — con il 16% della popolazione attiva addetta al commercio, il 2% al credito e alle assicurazioni, l’8,9% ai trasporti — e Palermo, che gli organi regionali hanno recentemente rinsanguata: 13,9% della popolazione in atto di lavoro al commercio, 2,8% al credito e assicurazioni, 9% ai trasporti, e ancora Messina: rispettivamente, per le tre categorie di attività, il 13,2%, 1,6% e 10,2%.

    Mercato in una via della vecchia Palermo.

    Una strada di Nicosia (Enna), antichissimo insediamento dell’interno, ripopolato con colonie lombardo-piemontesi durante il periodo normanno.

    E ad esse si sta avvicinando Siracusa, che il processo di industrializzazione nei pressi della città ha trasformata nel capoluogo della provincia dai più alti redditi relativi: le stesse categorie di occupazioni vi interessano ora (1961) l’i 1,5%, l’i,5% e il 7,2% della popolazione attiva. Ma le attività commerciali si abbassano molto sensibilmente negli altri capoluoghi provinciali: ed Enna ha soltanto il 9% della sua popolazione attiva addetta a tali attività, come Ragusa, e poco di più ne hanno Agrigento (9,7%) e Trapani (9,8%) — che però nei trasporti, data la presenza del porto, vede innalzarsi la percentuale a 10,3 — e appena un 10,3% vanta Caltanissetta : perché in tutte queste città hanno ancora un peso notevole, nel quadro del lavoro, gli addetti all’agricoltura — che sono il 26% a Ragusa, il 24% a Caltanissetta, il 18,5% a Trapani, il 17,7% ad Enna, il 17,2% ad Agrigento — i cui redditi sono paurosamente bassi.

    Una delle vie a gradinata di Cefalù (Palermo), disposta pittorescamente a ridosso di una massiccia alta rupe, e stretta tra questa e le acque del Tirreno.

    Una via del vecchio centro di Agrigento.

    Di fronte a questi stessi capoluoghi provinciali, appaiono assai più vivaci sul piano commerciale i grossi centri che fungono da mercati agricoli: la raccolta e la spedizione dei prodotti della terra e il loro commercio — agrumi e ortaggi, uve e vino soprattutto — animano così Lentini (con l’i 1,9% della popolazione attiva addetta al commercio nel 1961) e Acireale (11,5%) e Barcellona-Pozzo di Gotto (9%); o i centri nei quali il traffico si è fortemente sviluppato in questi ultimi decenni, come Porto Empédocle (10,3%, e con il 15,8% nei trasporti), o ancora alcuni centri turistici di fama internazionale, come Taormina, dove gran parte dell’economia locale poggia sul commercio: vi è infatti occupato il 32% della popolazione attiva, oltre ad altre cittadine e grosse borgate in via di sviluppo: come Milazzo, Tèrmini Imerese, Gela. Via se da una parte queste città sono distinte da forme di commercio piuttosto sviluppate e moderne — e qui si trova la maggior parte degli addetti al commercio all’ingrosso — dall’altra tutte le rimanenti città e borgate e centri di Sicilia sono contrassegnati da forme tradizionali, via via più semplici e primitive come le attività agricole si fanno più predominanti e addirittura esclusive, e i centri abitati si trovano più dispersi e accantonati. Di qui discende il fortissimo contingente degli addetti al commercio al minuto, che sono in complesso 115.182 (1961): e il fortissimo predominio, in questo campo, del settore alimentare (circa la metà) costituito prevalentemente da piccoli esercizi con una o al massimo due persone, e poi da botteghe con articoli di consumo corrente. E anche la forte percentuale dei commercianti ambulanti — così numerosi nell’Ottocento da destare meraviglia in molti viaggiatori stranieri, ricordati da H. Tuzet per quanto concerne i francesi, e descritti con amore, perspicacia e minuzia dal Pitrè per Palermo: ma era un elemento caratteristico in tutta Italia, allora —: che nel 1964 erano ancora 23.750, in maggior numero legati ai prodotti alimentari (14.830), e poi ai tessuti e ai generi di abbigliamento e oggetti di ferramenta. Ma mentre nelle regioni settentrionali — dove oltre ad essersi contratto quantitativamente si è molto evoluto anche nelle forme: e il commercio ambulante si pratica ora con automezzi di vario tipo e grandezza, ed è ormai sussidiario di quello fisso nei centri, e le fiere o mercati di paese si vanno smagrendo e molti sono scomparsi, e resistono soltanto nelle borgate più grandi, che fan da richiamo su un’area più o meno vasta intorno, e sul mercato aperto settimanalmente sulla piazza un banco di vendita lo allestiscono anche alcuni commercianti locali, che lì stesso han bottega — il commercio ambulante siciliano, come nelle altre regioni meridionali, ricalca in buona parte quasi pedissequamente le vie e le forme tradizionali, e si presenta come una forma di attività ancora necessaria ed indispensabile al circuito commerciale, appunto perché in molti piccoli paesi mancano negozi anche solo discretamente dotati di beni di consumo, e che con sicurezza offrono soltanto i generi di prima necessità. Il commercio ambulante, che si ferma nelle fiere dei villaggi e delle borgate, entro l’abitato e alle sue porte — e magari nel fondovalle, dove va a finire la strada che scende dai centri più rilevati sulle asperità di monti e di colli — mette in seria difficoltà, d’altra parte, le possibilità di resistenza dei negozianti di paese, molti dei quali han chiuso bottega ed hanno seguito sulla via dell’emigrazione — interna all’isola o verso altre regioni italiane o anche all’estero — gli artigiani, che la diffusione dei nuovi prodotti industriali qui portati dagli stessi ambulanti in assai maggior misura che dai rifornitori di negozi ha egualmente costretto a cambiar mestiere: è ciò che si può osservare in molti paesi, come in parte ha documentato di recente anche R. Rochefort. Il disagio che il commercio ambulante crea nei borghi più vecchi ai commercianti locali, si diffonde del resto anche in città: e qui è fenomeno più recente che nell’Italia settentrionale. La diffusione dei grandi magazzini di commercio al dettaglio — la Upim, arrivata da tempo, e ora anche la Standa — mettono in crisi molti negozi: anche se le vendite di alimentari di ogni genere, di capi di biancheria, di abiti confezionati, di stoffe, di elettrodomestici, di motori e di numerosissimi altri articoli sono aumentate in modo molto considerevole, e anche se contemporaneamente sono aumentate le vendite a credito (accompagnate in egual misura, è vero, da insolvenze di ogni tipo, dal protesto bancario all’assegno a vuoto, come risulta dalla documentazione riportata dal « Notiziario » del Banco di Sicilia). Ed è perché, in una società dove i bisogni crescono in rapporto all’evoluzione generale dell’ambiente economico-sociale — che permette ad alcuni un tenore di vita assai più alto e confortevole che nel passato, specie attraverso l’acquisto di prodotti appariscenti come i vestiti, la radio, la televisione, e soprattutto la motoretta e l’automobile, e obbliga gli altri, agendo pesantemente sul piano psicologico, che quei beni considerano come un mezzo indispensabile di promozione sociale e comunque come elementi di divisione e distinzione sul piano sociale, ad accedere in qualunque modo a tali prodotti: oltre, naturalmente, all’invadenza e all’insistenza dei venditori — piuttosto che in rapporto all’incremento reale del reddito, certe spese sono assolutamente impossibili per la maggior parte dei bilanci familiari. Il reddito medio per abitante — che è pur molto cresciuto dal 1952, quando era di circa 100.000 lire, al 1962 (229.970 lire) e al 1965 (358.465) — è ancora piuttosto basso, e per quanto al di sopra di quelli di altre regioni meridionali, e non di poco — della Calabria (267.991) della Basilicata (295.245) e del Molise (324.836) — è appena pari al 67,2% di quello medio italiano. Non solo: ma entro l’isola presenta sensibilissime variazioni, che vanno da un massimo di 526.414 lire (1965) in provincia di Ragusa ad appena 251.756 ad Agrigento e a 255.898 ad Enna, le due province più povere, che hanno meno di metà del reddito medio italiano. In effetti la Sicilia, con una popolazione pari al 9,2% di quella italiana, contribuisce alla formazione del reddito nazionale appena con il 6,2%: e ciò si riflette evidentemente su tutti gli aspetti della vita siciliana, e in particolare sulla natura e sulla intensità dei commerci e dei servizi. E quindi sul tenore di vita: soprattutto sull’alimentazione: nel 1961, ad esempio, i siciliani consumavano in media, a testa, 7,9 kg. di carne bovina, mentre la media nazionale era di 13 kg.; e anche in settori nei quali la produzione dell’isola è molto elevata, i consumi non si innalzano tuttavia in modo adeguato: appena una media di 37,9 kg. di ortaggi nel 1964 (Italia: 50,2) e di 8 kg. di agrumi (contro 16,5), mentre il consumo di olio d’oliva, che in tutto il Mezzogiorno costituisce la base dei grassi, è molto più elevato. Ma assai discreto è l’uso che si fa del latte (6,2 litri di fronte a 24,8), che nelle regioni più evolute, come negli Stati più ricchi, tocca ben altrimenti elevate quote. Un bilancio piuttosto povero, dunque: e deficitario soprattutto per i glucidi (gli zuccheri provengono specialmente dalla frutta degli orti familiari) e più soddisfacente invece per i grassi. E per quanto povero, un bilancio alimentare che riesce ad assorbire una gran parte del reddito delle famiglie siciliane: in media, si intende, perché le disparità delle famiglie, notevolissimo sul piano economico, si riflettono sull’abbondanza della mensa di una parte della popolazione (sempre più larga, specialmente in città) e sulla sobrietà e talora povertà della mensa di un suo altro notevole settore. Nelle feste principali, e in occasione di particolari ricorrenze familiari — nei matrimoni soprattutto — la mensa si fa ricolma di ogni cosa, presso tutti gli strati sociali : per molti ormai — come avviene nell’Italia settentrionale, e un po’ dovunque — soltanto per tradizione (e l’uso sta tuttavia fortemente sbiadendo, e le sagre sono appena un ricordo di quelle imponenti del passato); per altri, e sono ancora i più, specie nei paesi, anche per godere qualche volta l’anno di un’abbondanza e di un’allegria normalmente non consentite.

    Vedi Anche:  Sviluppo degli insediamenti umani

    Caratteristica struttura a « isole » di abitazione strette e compatte, separate da larghe strade in forte pendenza, a Vallelunga Pratameno, una borgata agricola degli altipiani interni (Caltanissetta), fondata nel secolo XVI.

    Una dimora plurifamiliare di lavoratori agricoli, ad Alcamo (Trapani).

    Una delle sale di esposizione dello stabilimento enologico Florio, a Marsala (Trapani).

    Ma i bassi redditi si ripercuotono anche sui servizi, come ho già accennato: pure in questo campo, nonostante i miglioramenti cospicui degli ultimi decenni, la situazione è ancora sensibilmente al di sotto della media nazionale. Significativo è appunto il consumo di energia elettrica, che sta alla base di ogni attivazione economica: che è ora (1964) di 893 kWh a persona — ma era appena di 55 kWh nel 1939, di 120 nel 1952, e di 288 nel 1959 — di fronte ad una media nazionale di 1462; e così in media per ogni 1000 persone si toccano (1962) 117 apparecchi radio contro una media nazionale di 177; e 47 telefoni contro 91; e 44 autoveicoli contro 69. E nei servizi sanitari i siciliani dispongono (1963) di circa 7 posti letto ogni 1000 abitanti contro 10, e in quelli scolastici di 4 aule contro 5. E la situazione, per quanto migliorata rispetto a tre lustri addietro, non è certo ancora soddisfacente in altri settori dei servizi pubblici: nel 1950 ancora molte borgate siciliane erano prive di fognature, e numerose non erano ancora dotate di acquedotto per l’approvvigionamento idrico: e l’acqua si doveva andare ad attingerla — e in molti casi si deve andare ancora oggi — alle fontane pubbliche, non numerose né ben dislocate, né sempre sufficienti alle esigenze della popolazione, specie nei caldi e afosi mesi estivi, quando anche molte sorgenti si esauriscono temporaneamente. E la scarsità d’acqua si fa sentire tuttora anche nelle maggiori città, in rapporto al forte incremento demografico degli ultimi decenni, con particolare gravità in estate. Attualmente la fognatura manca soltanto in pochi capoluoghi comunali, e così l’acquedotto: ma molto più numerosi sono i più piccoli villaggi sprovvisti di tali servizi, che in più di un caso non sono stati nemmeno raggiunti dalla strada, e non dispongono ancora di un ambulatorio medico, della farmacia e della scuola. Tutti servizi che dal 1950 in poi sono stati portati innanzi anche con la partecipazione della Cassa per il Mezzogiorno, ma che non dovunque hanno fatto ancora la loro apparizione.

    Non meraviglia quindi che la Sicilia veda ancora coesistere, fianco a fianco, poveri mercati tradizionali — e addirittura sacche agricole di semplice sussistenza, con soltanto una parvenza di mercato e di scambio — e regioni di intensi scambi commerciali di natura moderna. L’osmòsi tra le due aree evidentemente c’è, e si può dire con certezza che nessuna plaga ormai sia al di fuori del circolo commerciale nazionale : ma è pure vero che ancora numerosi villaggi e plaghe relativamente estese hanno sentito piuttosto passivamente il contatto con la civiltà commerciale, che cioè fino a questo momento l’hanno soltanto subita, e in tale contatto si son visti squassati nei loro antichi, tradizionali equilibri economico-sociali, e sono ancora oggi alla ricerca, un po’ affannosa né ancora chiara, di vie nuove di rinnovamento e miglioramento. Gli scambi, che sono notevolmente cresciuti in questo dopoguerra, interessano in modo molto più spiccato le città più evolute e in genere le regioni più ricche — per più forti coagulazioni industriali o per più cospicue produzioni agricole di pregio — che non l’insieme di tutta l’isola: in particolare le regioni povere, dalle strutture più antiquate, giacciono ancora in parte nelle zone d’ombra, poco toccate dalle relazioni di scambio. Specie nell’interno e sulla fronte africana, che in complesso rimangono subordinate alle regioni ricche: tale subordinazione si individua materialmente nella capacità di quelle città o contrade più sviluppate di sollecitarvi correnti migratorie, or più or meno intense, ma sempre continue. Mentre nell’assai minor contributo che esse stesse — le regioni povere — portano al reddito siciliano si coglie un ulteriore elemento — questa volta complessivo, riassuntivo di ogni altro — della loro inferiorità: appena il 16,5% (1965) per le tre province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, ed invece il 26,7% per la sola provincia di Palermo, il 17,3% per quella di Catania e il 13,6% per quella di Messina. Sono queste ultime province che contribuiscono più largamente, insieme a Siracusa, al commercio interregionale e con l’estero: che interessa (1962) complessivamente, nei rapporti con il resto dell’Italia, un volume di 9,9 milioni di tonnellate di merci (per poco più di due terzi all’esportazione: soprattutto petrolio e residui della sua distillazione, agrumi, ortaggi, salgemma, vini, concimi chimici), e di 15,2 milioni di tonnellate nei rapporti con i paesi stranieri (per poco più di due terzi all’importazione: in gran parte costituiti, quantitativamente, da petrolio greggio). Ma nell’uno e nell’altro caso, il valore dei prodotti inviati dalle altre regioni italiane e dall’estero è molto più elevato — trattandosi di prodotti elaborati dell’industria — di quelli siciliani — che son prodotti soprattutto agricoli, anche se di pregio, e minerali allo stato greggio o semilavorato —: sicché gli scambi con le altre regioni italiane si chiudono ancora con una notevole passività, al pari degli scambi con l’estero, anche se la bilancia commerciale sta tendendo da qualche anno ad un più equilibrato aggiustamento. Ancora, dunque, un elemento negativo, che trova un corrispondente nello scarto tra gli incassi e i pagamenti di bilancio dello Stato nell’isola: nell’esercizio 1961-62 gli incassi sono stati pari a 100 miliardi di lire, i pagamenti a 186,4 miliardi. Del resto, il reddito netto prodotto dal settore privato e dalla pubblica amministrazione, pari nel 1962 a 1089,2 miliardi secondo i calcoli di G. Tagliacarne — per il 49,8% dovuto all’industria, al commercio, al credito, alle assicurazioni e ai trasporti; per il 22,9% all’agricoltura e alle foreste; per il 17,4% alla pubblica amministrazione, e per valori assai minori alle professioni libere e ai servizi industriali e domestici (4,2%), ai fabbricati (5,2%) e alla pesca (appena uno 0,5%) — non rappresenta che il 5% di quello nazionale. E anche se nel 1965 è aumentato a 1741,3 miliardi, cioè al 6,2% di quello nazionale, si tratta di un reddito netto distribuito in modo così eterogeneo all’interno dell’isola, e per alcuni settori di produzione, specie per il settore industriale, così concentrato in poche aree ristrette, da non significare affatto che il suo costante incremento — che in prospettiva è altamente positivo ai fini di un miglioramento generale — significhi per ora l’inizio o anche soltanto la continuazione (dove già esistono germi o fermenti nuovi) di un processo di ravvivamento economico di tutte le contrade della Sicilia.

    Scorcio su Agira, da una strada-gradinata dello stesso abitato, addossato a 824 m. d’altitudine al forte declivio di un monte ben rilevato sull’altipiano di Enna.

    Il turismo: un settore tuttora mortificato da numerosi ostacoli

    Si potrebbe facilmente sostenere che il turismo siciliano ha radici molto remote, e persino illustri, se nel Settecento giunsero e soggiornarono nell’isola ospiti famosi, italiani e stranieri, e se già allora ebbe inizio, per non mai venir meno, la notorietà e il fascino prestigioso di Taormina. E nello stesso tempo si potrebbe affermare che da allora in poi il turismo è rimasto un fenomeno di élite, non soltanto nell’Ottocento ma persino nei primi decenni del nostro secolo quando altrove, nell’Italia del Nord specialmente, stava diventando un fenomeno di massa; e che soltanto da qualche decennio si è allargato a più vasti strati della popolazione siciliana, ed ha richiamato un maggior numero di visitatori dall’esterno, dalle altre regioni italiane e da numerosi Stati stranieri. Di ciò non par difficile ricercare i motivi: il tenore di vita particolarmente basso della popolazione siciliana, che si è innalzato in modo sensibile soltanto nel torno degli ultimi decenni, non poteva permettere spostamenti di qualche rilievo a scopo turistico; e per lungo tempo, pertanto, soltanto le peregrinazioni di natura religiosa hanno richiamato immense folle verso i santuari e i luoghi di culto più famosi e venerati: soprattutto ai santuari mariani di Gibilmanna (Palermo), Tindari (Messina) e recentemente anche di Siracusa, al santuario ancora provvisorio della Madonna delle Lacrime. Non erano nemmeno necessarie buone strade e buoni mezzi di trasporto per questo tipo di turismo, che ancora oggi vede numerosi pellegrini percorrere a piedi lunghi tragitti, almeno durante l’ultima parte del viaggio di devozione. Ma per le persone provenienti da fuori dell’isola, le difficoltà del viaggio di avvicinamento, e poi le cattive condizioni della rete stradale e dei mezzi di trasporto, e la deficienza delle attrezzature turistiche, in particolare dell’attrezzatura alberghiera, sono sempre stati fattori negativi, destinati a soffocare piuttosto che ad incrementare il flusso dei visitatori. Eppure non potevano non esercitare un richiamo particolare, su un raggio altrimenti maggiore di quello pur ampio ma conchiuso delle Alpi, la bellezza e la suggestività dei paesaggi siciliani — delle sue coste e del vasto altipiano interno, dei monti, specie dell’Etna, e delle isole — l’interesse impareggiabile degli antichi centri della cultura greca e dei resti di quella romana, delle chiese e dei monumenti arabo-normanni, del suo ricco e originale barocco secentesco e settecentesco.

    Monreale (Palermo): particolare delle ornatissime colonne del Chiostro dell’antico convento dei Benedettini, eretto nel secolo XII a ridosso del Duomo coevo.

    Veduta parziale di Monreale (Palermo), con l’imponente mole del Duomo (S. Maria la Nuova).

    Il porto peschereccio di Milazzo (Messina).

    Molto è stato fatto, negli ultimi decenni, per sanare questa situazione. Soprattutto nell’attrezzatura alberghiera: gli alberghi e le pensioni, che erano 156 con 5600 posti letto nel 1938, e ancora appena 185 con 7000 letti nel 1951, son cresciuti a 487 all’inizio del 1963, con 17.677 letti: tuttora troppo pochi, peraltro, rispetto non soltanto alle possibilità di sviluppo del turismo, ma anche all’attuale consistenza del flusso dei forestieri. E migliorati assai, come ho già detto, i servizi di trasporto interno e la rete stradale, sulla quale si svolgono; e i servizi con le isole e i gruppi insulari con le Eòlie grazie ad almeno due corse giornaliere da Milazzo e ad un servizio trisettimanale da Messina (rotta sulla quale operano anche gli aliscafi durante la buona stagione); per Pantelleria con due corse settimanali da Trapani e con piccoli idroplani con frequenza bisettimanale; per le isole Pelàgie (Lampedusa e Linosa) e Pantelleria con due corse la settimana da Porto Empédocle, con le Egadi da Trapani con otto corse settimanali fino a Favignana e Lévanzo, di cui quattro proseguono per Marét-timo, e con Ustica da Palermo, con quattro corse la settimana —; e assai più intensificati anche i legami con la penisola, sia attraverso lo Stretto messinese, sia per mare direttamente con Napoli (da Palermo: con una corsa giornaliera, che occupa l’intera nottata, nelle due direzioni, e una volta la settimana da Messina: dove dovrebbe far capo un nuovo servizio di navi-traghetto con Salerno, per gli autoveicoli, in attesa della prosecuzione fino a Reggio Calabria dell’autostrada del Sole), mentre ai trasporti veloci ha contribuito in modo appena sufficiente l’apertura degli aeroporti, peraltro non ancora molto attrezzati, di Palermo e di Catania e di quelli minori di Trapani e di Pantelleria: che nel 1962 hanno visto transitare rispettivamente 81.000, 68.000, 7100 e 6000 passeggeri, per metà circa in arrivo. Ma le attrezzature turistiche sono ancora nel complesso insufficienti, e l’isola appare a molti turisti stranieri e agli stessi italiani delle altre regioni, specialmente settentrionali, ancora troppo lontana: la costruzione dell’autostrada del Sole, il raddoppio della linea ferroviaria fino alla estremità meridionale della penisola, l’innalzamento di un ponte sul bosforo messinese potrebbero rimpolpare il flusso turistico verso la Sicilia insieme all’incremento attuale del turismo italiano, alla possibilità di vacanze più lunghe, ed anche ad una più organizzata e concreta propaganda turistica da parte degli enti responsabili dell’isola.

    Alcamo (Trapani): bassorilievo del portale della Chiesa del Soccorso, di G. Gagini (secolo XVI).

    Tindari (Messina): resti del teatro greco. Sullo sfondo, le isole Eòlie.

    Tindari (Messina): particolare del portale del santuario, meta di pellegrini provenienti da tutta la Sicilia e dalla vicina Calabria, con raffigurazioni allegoriche (secolo XVI).

    Per ora, il flusso turistico non è ancora notevole: e pare anzi da alcuni anni fermo sulle stesse posizioni. Nel 1965 gli alberghi e le pensioni hanno avuto 1.062.000 clienti italiani, con una media di appena 2,5 giornate di presenza, e le locande 222.600, con una media di presenze sensibilmente più alta: 4. Ma molti di questi clienti non sono turisti, ma commercianti o professionisti; e gli stranieri — che per lo più son turisti davvero — erano soltanto 209.000 negli alberghi e nelle pensioni e 4800 nelle locande; ma si son fermati di più: in media da tre a cinque giorni, rispettivamente. Essi non rappresentano tuttavia che una debolissima parte del fortissimo flusso di turisti stranieri che ogni anno visitano l’Italia (appena uno su cento, o poco più). Non fa pertanto meraviglia che siano le città più importanti, che sono anche le meglio attrezzate, a richiamare il maggior numero di persone: Messina, che è anche la porta per la vicina Taormina (con 181.400 visitatori nel 1965) e Catania e soprattutto Palermo (con 295.300). Ma oltre a queste città, il flusso turistico dall’esterno ha come mete preferite, e quasi prefissate, i grandi centri archeologici dell’isola: soprattutto la valle dei Templi di Agrigento (77.800 visitatori) e il ricchissimo patrimonio artistico di Siracusa (69.000 visitatori) e poi, nel Trapanese, il complesso imponente dei templi greci di Selinunte, alla foce del Modione, e ancora Segesta, su un rilievo isolato tra Castellammare del Golfo e Calatafimi; e Tindari, che domina dall’alto del suo capo il bellissimo arcuato litorale di Oliveri e di Falcone, e l’esile, lunga penisola di Milazzo; e negli Iblei l’antica città di Acre nei pressi di Palazzolo Acreide, nell’alta valle dell’Anapo, e a metà della stessa la suggestiva necropoli sicula di Pantàlica; e i resti delle fortificazioni di Gela (19.400 visitatori) sul mare africano, con un esemplare piccolo museo delle civiltà che si son succedute nel territorio interno; e i meravigliosi mosaici pavimentali della Villa romana del Casale nei pressi di Piazza Armerina, e soprattutto Taormina, che dall’alto del suo mosso sprone domina lo Ionio e le sottostanti spiagge di Giardini e di Mazzarò: qui la frequentazione è molto forte, perchè al fascino dei resti classici si accompagnano il richiamo di un mare meraviglioso e i suggestivi scorci medioevali del centro: così che i visitatori sono molto cresciuti dal periodo prebellico —• quando l’ha studiata il Toschi — ad oggi: da 19.000 nel 1931 a 74.000 nel 1965. Ma coloro che provengono dalla penisola e dall’estero assai meno dei siciliani frequentano le altre stazioni turistiche, di mare o di monte o idrotermali: anche se, giunti in Sicilia, molto volentieri si ristorano nelle sue acque e si spingono un po’ dovunque nell’interno, e assistono alle feste religiose più famose e a spettacoli anche affascinanti e conturbanti — come la cattura del tonno al largo delle coste trapanesi — che rinnovano ogni volta gesti e parole e schemi che si ripetono immutati da secoli.

    L’isola di Ustica (Palermo) è ricchissima di grotte lungo tutto il suo circuito costiero: qui l’ingresso della « grotta azzurra ».

    La spiaggia taorminese di Mazzarò (Messina), frequentata durante tutto l’anno, specialmente da stranieri, in una bella insenatura che si apre alla base del promontorio che sorregge Taormina.

    Fuga di colonne gèmine nel Chiostro dell’antico convento dei Benedettini (secolo XII), a Monreale (Palermo).

    Gli altri centri turistici, legati al mare ai monti e alle sorgenti termali, sono frequentati per gran parte dai siciliani, e con molto maggior intensità negli ultimi anni. Sui monti non si tratta tuttavia di veri e propri villaggi montani, che nel turismo abbian riposto il fondamento della loro economia: son piuttosto antichi paesi — particolarmente numerosi sui Nébrodi: Montalbano di Elicona (907 m.), Floresta, il più elevato centro abitato dell’isola (1250 m.), Cesarò (1150 m.), Petralia Sottana (1000 m.) e Petralia Soprana (i 147 m.) e sulle pendici dell’Etna: Nicolosi, Treca-stagni, Zafferana Etnea, Milo, Randazzo, Linguaglossa — ad altezze poco elevate (tra i 500 e gli 800 m.), ravvivati un poco d’estate da un numero anche non trascurabile di villeggianti, che vi restano piuttosto a lungo — da una settimana ad un mese e più — e prendono alloggio per lo più in case private, affittando qualche camera ammobigliata.

    Isole Eòlie (Messina): veduta della Marina corta di Lipari, sotto l’alto promontorio del Castello, con la penisoletta del Purgatorio.

    Siracusa: veduta del teatro greco (VI-III secolo a. C.), l’espressione più alta dell’architettura teatrale antica.

    Centri di villeggiatura di tipo familiare, dunque, e in complesso aperti e frequentati dalla classe media: professionisti, impiegati, operai. Ma qualche villaggio montano con frequentazione più limitata — quasi soltanto alla classe agiata di certe città — si dà pure: tale la Pineta del Camàro sui Peloritani, che ha visto recentemente sorgere numerose ville e villini graziosi, e un albergo, frequentato tutto l’anno ma soprattutto nelle vacanze estive dai messinesi — che da qui scendono facilmente anche al mare — e San Martino delle Scale, alle pendici di M. Cuccio, a 548 m., che più in alto — a 750 m., nei pressi di un’abbazia benedettina — ha dato origine ad una nuova coagulazione di villini per villeggiatura estiva, ed è frequentata dai palermitani; oltre ad Erice, ma di più antica tradizione turistica, e frequentata anche da stranieri, suggestiva nel suo silenzio e nei suoi tratti architettonici medioevali (con 7840 turisti). In buon numero i centri montani che fan da base alla villeggiatura estiva, successivamente si trasformano in centri di diporti invernali: ma allora i campi di neve e le piste da sci — i bellissimi campi dell’Etna sopra Nicolosi, nei pressi del Grande Albergo (1715 ni.) e quelli intorno al Rifugio Sucai (1585 m.) cui si tende da Linguaglossa, e ancora quelli di Pian degli Zucchi (1085 m.) e di Piano della Battaglia (1648 m.) sulle Madonie, ai quali si accede da Collesano — sono meta quasi soltanto delle classi un po’ più agiate, di Catania e di Messina per l’Etna — ma moltissimi messinesi sono attratti anche dai campi dell’Aspromonte, di Gambarie soprattutto — e di Palermo per le Madonie; e soltanto la domenica quei campi da neve si aprono, oltre che a coloro che vi possono risiedere per più giorni, anche a persone meno agiate che qui concorrono dalle città con grossi automezzi pubblici.

    Taormina (Messina): il teatro greco (III seolo a. C.), la cui càvea fu ricavata entro una concavità naturale dello sprone su cui si innalza la cittadina.

    Assai più diffuso del turismo montano — costretto entro le poche aree veramente elevate della Sicilia, eppur con ancora ampie possibilità di sviluppo specie sulla catena dei Nébrodi, tuttora quasi vergine di veri centri di svago e di riposo — appare il turismo marino: con maggior o minore intensità lungo tutti i litorali. Questo turismo, poi, a differenza di quello montano, presenta anche alcune zone particolarmente attrezzate lungo le coste sulle quali si innalzano i principali organismi urbani della regione: Palermo, coronata da presso, al di là della breve piana della Conca d’Oro, da un cerchio di monti calcari che le fan da meraviglioso scenario, e Messina, addossata ai Peloritani e fronteggiata dai geometrici rilievi a gradinata dell’Apromonte calabrese, e Catania, che dai litorali ancora alti e scoscesi delle ultime propagginazioni etnee che la toccano a nord si stende fino ai lidi dritti e sabbiosi che limitano a sud la piana del Simeto. In queste tre zone, gli stabilimenti sono molto numerosi: ma chiara vi risulta la divisione tra i settori più popolari — che sono i più frequentati — i quali si sviluppano a ridosso delle città e negli immediati dintorni, e i centri balneari più lussuosi, eleganti, ricchi di vita mondana, provvisti di attrezzatissimi stabilimenti, di ristoranti, di piscine, di sale e piste da ballo, di campi da gioco. Palermo ha il suo lido più famoso a Mondello, a poco più di io km. di distanza dal centro, in una bellissima baia arcuata che si sviluppa a nord della città tra il M. Gallo e il M. Pellegrino; e Messina ha visto formarsi il suo lido al di là della Punta del Faro e dei laghi di Ganzirri, a Mortelle, a 14 km. dal centro; e Catania a sud della città — Lido La Plaia — su un lunghissimo litorale sabbioso cui fa da sfondo una fitta, estesa pineta. E cinque stabilimenti rendono molto vivace anche la stagione balneare a Siracusa: tre lidi si son formati sulla spiaggia sabbiosa del Porto Grande, e due — Lidi Arenella e Fontane Bianche — a 14-20 km. a sud della città, sui litorali or sabbiosi or rocciosi che si slargano tra Capo Murro di Porco e Ognina. E grande incremento il turismo marino ha avuto anche nelle isole Eòlie — una decina di anni fa riguardate sotto questo aspetto da M. T. Di Maggio — con 10.280 frequentatori nel 1965, specie a Lipari, oltre che a Vulcano, Stromboli, Salina e Panarea. Ma anche se con diversa intensità, il fenomeno ha preso piede — se pure spesso da pochi anni soltanto: e pertanto le spiagge sono poco attrezzate — in tutti i centri costieri dell’isola: che talora sono distinti soltanto da una frequentazione locale — come Trapani, Marsala, Mazara del Vallo, che hanno alle spalle un settore che risente ancora fortemente delle antiquate strutture economico-sociali dell’interno, dove si può dire che il turismo di massa non abbia ancora preso avvio — e talvolta invece si possono considerare le « marine », anche nel senso di luoghi di bagni estivi, di città o grossi centri più o meno internati nella regione: Marinella per Castelvetrano; Porto Empédocle e soprattutto San Leone per Agrigento; Marina di Ragusa per Ragusa, e i due piccoli centri di Donnalucata e di Sampieri, oltre alla spiaggia di Cava d’Aliga, per Scicli e per Mòdica; e sullo Ionio Marzamemi per Pachino, Noto Marina per Noto, e soprattutto Giardini, tra Capo Taormina e Capo Schisò, e Mazzarò, elegante e signorile, per il grande centro turistico di Taormina: dove la frequentazione è largamente formata, come è naturale, da stranieri e da italiani di altre regioni. E ancora i piccoli e pittoreschi centri da pesca e commerciali delle isole siciliane minori: oltre a quelli delle Eòlie già ricordati, Ustica isolata nel Tirreno, e nelle Egadi Lévanzo e Favignana, e soprattutto Pantelleria e Lampedusa, in mezzo al mare africano: che ora si cerca di valorizzare con l’istituzione di servizi di aliscafi con la vicina Tunisia e con la Libia. E molte altre località sulle coste tirreniche: a Milazzo, che sulla spiaggia di ponente della sua penisola ha un meraviglioso arenile sabbioso e una suggestiva, incantevole vista delle Eòlie; e Gioiosa Marea e Capo d’Orlando, e Sant’Agata di Militello e Cefalù (con 16.800 visitatori nel 1965); e sull’assai densamente popolato litorale ionico ancora i centri etnei di Acireale, e Aci Trezza e Aci Castello, e Agnone Bagni, e più a sud, nel Siracusano, la marina di Avola.

    Selinunte (Trapani): resti del Tempio C, il più antico tra quelli dell’acropoli della più prestigiosa colonia greca della Sicilia occidentale, eretto a metà del VI secolo a. C. sul punto culminante di un piatto terrazzo incombente sul mare.

    Palermo: il «Chiostro minore» della secentesca Casa dei Filippini ora sede del Museo Nazionale Archeologico.

    Isole Eòlie (Messina): casa rurale a Leni, nell’isola di Salina.

    Nicosìa (Enna): il portale trecentesco della Cattedrale (S. Nicola), rimaneggiato nella parte inferiore verso la fine del Cinquecento.

    Sorta nel Settecento, dopo la distruzione della vecchia città, situata più all’interno nel settore siracusano degli Iblei, Noto costituisce un suggestivo esempio di architettura di quel secolo Qui un particolare del Palazzo Villadorata, dalla ricca ornamentazione barocca.

    Al pari dei luoghi del turismo marino, anche i centri di sorgenti termali sono frequentati prevalentemente da siciliani. E sono ancora, in complesso, centri assai modesti, poveri di buone attrezzature e poco frequentati: come Sclàfani Bagni, su un erto colle che domina la statale che da Palermo porta ai centri meridionali delle Madonie; e le Terme di San Calogero a Lipari, appena sopra Piano Conte; e Ali Terme, sulla riviera peloritana dello Ionio (con circa 4500 presenze). Ma alcuni di questi centri hanno preso ormai uno sviluppo apprezzabile, e la costruzione di nuovi alberghi li destina ad un avvenire di più sicura prosperità: come Acireale, ad appena 16 km. a nord di Catania, sulle ultime falde etnee — ove la sorgente di Santa Venera dà un’acqua solfuro-salsa indicata per varie cure, ma soprattutto per le malattie del ricambio e le affezioni reumatiche e artritiche: e a 7 km. di distanza la fonte di Poz-zallo, la più importante della Sicilia, viene sfruttata industrialmente e la sua acqua messa in bottiglie — che ha visto crescere i suoi ospiti a 4600 nel 1965; e Sciacca, sul litorale africano, le cui acque clorurate-sodiche — note fin dall’antichità classica e utili per le forme reumatiche (fangature) e le affezioni delle vie respiratorie e ginecologiche (aerosolterapia e irrigazioni) — richiamano migliaia di frequentatori (19.460 nel 1965); e sul litorale tirrenico, infine, Castroreale Terme, che si affaccia da un poco rilevato sperone sulla piana milese e sul golfo di Patti, frequentato per le sue acque solfuree dai reumatici e per quelle bicarbonato-alcaline dai sofferenti di fegato e delle vie biliari (con 20.400 presenze nel 1962) e Tèrmini Imerese — adagiata alle pendici di un promontorio, che lungo il San Leonardo cede ai giardini di agrumi e a sud alla mole calcarea del San Calogero (1235 m.) — con acque clorurate e sodiche calde, con 2400 clienti. E da poco è entrato in attività un altro complesso termale, a Castellammare del Golfo, nel Trapanese, che utilizza le acque di quattro sorgenti termominerali.

    In complesso, dunque, una certa animazione turistica si nota in prevalenza lungo tutta la fascia litoranea dell’isola, più o meno intensa, mentre tale animazione tende a venir meno via via verso l’interno. Ancora una volta, persino sul piano dell’industria turistica, la Sicilia interna cede alla Sicilia marittima. Eppure, anche gli altipiani interni presentano paesaggi di una suggestione particolare, or aperti, disalberati, immensi, or verdi di boschi come la Rocca Busambra e i cacumi più alti dei rilievi, e vecchi centri relativamente ricchi di arte: basti il ricordo dei numerosi castelli medioevali, come quello di Enna, e delle numerose chiese barocche, e dell’interesse storico, e civile e urbanistico di molte cittadine e borgate, e anche dei cospicui resti delle antiche civiltà indigene e classiche: come Acre negli alti Iblei, Aidone negli Erei, oltre alle ben note Segesta nel retroterra trapanese e Piazza Armerina, già ricordate, e a numerose altre che le recenti e ancor in corso ricerche archeologiche hanno messo da poco in luce. E sarebbe dunque fatto molto grave, se in un momento in cui ci si sforza di ravvivare e coordinare tutte le contrade dell’isola e di chiamarle tutte senza distinzione ad un modo di vita più moderno e civile, si dovesse tralasciare di sottolineare e di valorizzare anche quelle potenzialità turistiche della Sicilia interna, che per quanto meno ricche di quelle della Sicilia litoranea sono ciò nondimeno molto numerose e non certo di trascurabile valore e significato.

    Érice (Trapani) : scorcio del castello medioevale, eretto nei secoli XII-XIII sulla parte più elevata del centro abitato.

    Isole Eòlie (Messina): lo sbarco dei passeggeri a Stromboli. Sullo sfondo l’isolotto basaltico di Strombolicchio, su cui si innalza ora un grande faro.

    Sciacca (Agrigento): le Nuove Terme.

    Sferrocavallo (Palermo): centro peschereccio e balneare, disposto al fondo di una breve baia, serrata da presso dalle moli calcaree dei Monti Castellacelo e Gallo, a 13 km. a nord della città.

    San Martino delle Scale (Palermo): signorile centro di villeggiatura montana a 13 km. da Palermo, sui monti che le fanno corona ad ovest, sorto e sviluppatosi attorno ad un’antica abbazia benedettina, più volte ricostruita, tra grandi pinete.

    Siracusa : la grotta dei Cordari, sede di un « mestiere » ormai secolare, è una delle numerose grotte artificiali scavate entro i terreni calcarei che fan corona alla città durante l’antichità classica per trarne materiale da costruzione. Fa parte della Latomìa del Paradiso, la più estesa di tutte, che si apre tra il teatro greco e l’anfiteatro romano.

    Mondello: veduta del nuovo elegante centro balneare di Palermo, sviluppatosi su una suggestiva piccola baia, ai limiti di una breve piana già paludosa, a nord di M. Pellegrino e coronato da presso dalle estreme propaggini del calcareo M. Gallo (527 m.). Alle falde di quest’ultimo si ammassa il villaggio peschereccio di Mondello, già guardato da un antico castello.

    Agrigento: il nuovo Museo Archeologico, nella Valle dei Templi.