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Marchesati e Langhe

    Attraverso le subregioni del Piemonte

    Le terre del vecchio Piemonte

    Più e più volte, nel corso delle precedenti pagine, s’è parlato di Monferrato, di Canavese, di Langhe come di subregioni storico-geografiche che la natura e l’uomo, attraverso un lungo intreccio di azioni e di reazioni, hanno foggiato entro la maggiore unità della regione piemontese. Dovendosi ora sintetizzare in cenni descrittivi della regione stessa i vari aspetti sin qui analiticamente esaminati, è opportuno che tali cenni siano fatti rispettando le subregioni ora accennate, ed anzi, inquadrandosi in esse, tanto più che non si tratta di antiche reminiscenze, ma di figure territoriali sempre vive nella coscienza popolare. Cominceremo da quelle terre che hanno formato il vecchio nucleo storico della regione.

    Liberatasi nel 1377 dalla antica sudditanza verso Vercelli ed i suoi vescovi, Biella seguì l’esempio di San Germano, di Santhià, di Candelo, di Buronzo e nel 1379 si offrì in Signoria ai Savoia con un patto di volontaria dedizione che diventava perpetuo nel 1408. Entrava così a far parte dei domini sabaudi una regione sui generis, la cui coesione non è tanto affidata alla comunanza di caratteri naturali, o al soprastare di un lungo regime politico, o all’influenza assorbitrice di un grosso centro urbano, quanto invece al diffuso prevalere di una particolare attività economica. Esiste senza dubbio un Biellese fisico, con una cerchia di confini abbastanza ben definita dalla Valsesia e poi dalla Sesia ad est, dalla valle d’Aosta e più precisamente della vai del Lys, dalla dorsale della Comba di Mombarone e dalla Serra ad ovest, dal corso dell’Elvo, fino alla confluenza con la Sesia, a sud.

    Montagne, colline, pianura, si serrano da vicino in questo grossolano quadrilatero. Montagne di breve sviluppo e di poca profondità, non molto alte — culminano a 2600 m. nel Monte Mars — ma bastevoli a frenare l’impeto della tramontana, incise da valli strette e non di rado incassate, rivestite in alto di pascoli discretamente ricchi e povere invece di piante in quella che dovrebbe essere la zona dei boschi. Dove però comincia, per chi scende dall’alto, il dominio del castagno, la vegetazione arborea s’infittisce e a tratti si fa anche vigorosa ed imponente. Il castagno scende pure a rivestire l’alta collina biellese. Più in basso, la collina stessa si allunga in armonia con i filari delle viti che danno i celebrati vini di Lessona, di Mottalciata, di Brusnengo, di Vigliano, di Valdengo, di Masserano, di Quaregna. La pianura, nel tratto vicino alla collina, conserva ancora fittezza ed ordine di coltivi, ma digradando lentamente tra l’Elvo e la Sesia si scompagina in lembi terrazzati, sui quali persiste tenace la baraggia, con i suoi sterpeti e le sue sodaglie.

    Visioni serene come questa sono frequenti nelle colline biellesi (Graglia)

    Ma ciò che forse costituisce il più caratteristico e determinante aspetto fisico del Biellese è la ricchezza delle acque, dovuta alla notevole quantità di pioggia e di neve che cade sulle sue cime e nelle sue convalli dalle nubi gonfie di umidità, che i venti sospingono dalla pianura bassa e calda, avvolta nella caligine estiva, verso la muraglia montana. E si sa quale notorietà e quali irriverenti paragoni procuri in tutto il Piemonte al Biellese questa abbondanza di precipitazioni atmosferiche. Partendo dalle alte sorgenti e da numerosi laghetti alpini è un fitto sistema di ruscelli, di torrenti, di piccoli fiumi, di canali che penetrano dappertutto e che sono tanta parte del paesaggio biellese. Come lo è, più ancora della fittezza e del rigoglio della vegetazione arborea che vi regna, il verde di tale vegetazione. « Quando io dico Biellese — sono parole di Angiolo Silvio Novaro — vedo un allegro correre ed accavallarsi di colline in fresco e rapido fluir d’acque, un lussuoso straripar di verde… con scure macchie d’ombra qua e là…»: quel verde biellese, un po’ cupo, che si ritrova in tutti i pittori di quell’ambiente, ma che ebbe in Lorenzo Delleani il più fedele e sicuro interprete.

    Panoramica di Biella Piano da Biella Piazzo.

    Come si diceva, ad unificare in senso regionale questa parte del Piemonte sono valsi, soprattutto, il lavoro e il carattere di uomini accomunati nello sforzo di crearsi un’esistenza migliore di quella acconsentita dalle risorse locali. Perchè, scarso e poco fertile è nel Biellese il terreno coltivabile, pochissimi i minerali utilizzabili, quasi nulle le possibilità di immediati lucri commerciali per la posizione isolata del Biellese rispetto alle grandi vie di traffico transalpine e padane. Rimanevano i pascoli e l’abbondanza delle acque. E si partì di qui, dalla lavorazione domestica e artigiane locale della lana, per arrivare a quella formidabile accolta di opifici che lavorano lane di tutto il mondo, che in tutto il mondo esportano i propri manufatti e che quindi, giustamente, formano il maggior orgoglio del biellese e dal punto di vista geografico danno il tono e lo stile alla regione. Perchè l’industria laniera, mentre non travalica, nell’insieme, i confini della regione stessa, non è, d’altra parte, concentrata in grandissimi stabilimenti e in poche località. Anche se l’attività manifatturiera della lana si sviluppa massimamente nel Biellese orientale, tutto il Biellese è, diciamo così, terra di lanaiuoli. E stato scritto che, entrata nel sangue dei Biellesi, la febbre della lana non li lascia quasi pensare ad altro e li inchioda ai loro velli e alle loro macchine. E questa febbre, infine, che ha fatto fiorire, accanto alla industria principale, altre potenti industrie.

    Certo, girando per il Biellese i lanifici s’incontrano si può dire dappertutto. In piena Biella va bene, ma persino al Piazzo, in mezzo alla austerità degli antichi palazzi. Fabbriche s’incontrano nella valle dominata dall’alta religiosità che s’incentra nel Santuario d’Oropa; fabbriche fra i declivi e le convalli che fanno corona a Biella, a Sordevolo, ad Occhieppo, a Pralungo, a Tollegno, ad Andorno; lanifici nella pianura, a Gaglianico, a Chiavazza, a Vigliano. La strada che da Cossato sale serpeggiando a lato dello Strona fino a Valle Mosso, culla dell’industria laniera biellese, attraversa una lunga e ininterrotta teoria di stabilimenti, che si sparpaglia poi a Pettinengo, a Mosso Santa Maria, tra le rossicce colline del Ponzone, giù a Portula, a Flecchia, lungo il Sessera, a Coggiola, a Pray, a Pianceri, e su a Trivero, ai piedi della montagna trasformata in parco residenziale con alberghi e strade panoramiche. E nella scelta dei luoghi e nella struttura verticale, a quattro-cinque piani, delle manifatture si riflettono insieme il bisogno d’aver l’acqua vicino, e la ristrettezza dello spazio. Molte di tali manifatture sono costruzioni ardite al limite dei boschi, ai piedi delle colline, a cavallo dei torrenti, su precipizi, aggrappate alle rocce, addossate al fianco della montagna.

    Quando si pensa al paesaggio industriale, ci si figura comunemente di vedere lunghe file di capannoni avvolti nel fumo, squallide ed uniformi scacchiere di case operaie sullo sfondo di una terra priva di vegetazione e di un cielo perpetuamente caliginoso. Nessuna di queste tristezze nel paesaggio industriale del Biellese, dove non solo gli stabilimenti sono sparsi, e tutt’al più allineati su qualche tratto di strada, ma avvolti ben sovente nella fitta vegetazione delle molte umide vallette. Salendo un po’ in alto, stabilimenti e capannoni occhieggiano appena tra il verde, ne lasciano sbucare soltanto i camini e quasi non si vedono. Tra campagna e fabbrica non è intervenuta frattura anche nello spirito delle maestranze operaie, che continuano a rimanere attaccate alla terra e ad abitare le case vecchie e nuove dei piccoli centri in cui è frazionata la densa popolazione. Il Biellese è, di fatto, un pullulare di graziosi piccoli paesi, non un falansterio o una caserma. Nella stessa Biella le case non sono irreggimentate: sembrano disseminate quasi a capriccio. Gli è che, dopo aver lavorato sodo, tutti i Biellesi, dal grande industriale all’ultimo fattorino, aspirano a ritirarsi in un proprio angoletto, da cui è indissociabile l’orticello o il giardino ed il parco. Ed ecco che il gran verde fra cui sono semisepolti, insieme alle fabbriche, anche i centri abitati, è un verde non soltanto di boschi e di coltivi, ma soprattutto di giardini, di orti, di ville.

    Anche i paesi del Biellese hanno di che distinguersi da quelli delle regioni vicine. Sono più « nuovi », più puliti, ben dotati di scuole, di istituti sanitari, di organizzazioni benefiche: sono frequenti di abitazioni signorili. Persino le case più modeste sono tenute con molta proprietà, e dovunque ed in ogni cosa, ad esempio, nel vestito della gente, si nota un confort, un livello di agiatezza che non si riscontra in altre parti del Piemonte. Una parte notevole di questa agiatezza deriva dai frutti di un’emigrazione, alla quale la povertà del suolo agrario e la mancanza di altre possibilità di vita hanno costretto tanti Biellesi. Montanari delle alti valli, scalpellini della Balma, muratori e costruttori di Campiglia, di Piedicavallo, di Roasio, di Rosazza e di cento altre località della regione, hanno lavorato e continuato a lavorare intelligentemente, coscienziosamente ed a farsi stimare in tutto il mondo. E specialmente nei paesi più difficili, più inospitali ed isolati. Cosi impresari e costruttori biellesi stanno attrezzando di strade, di aeroporti, di centrali elettriche, di ponti — dal Cairo a Pretoria, da Assuan alla Nigeria e al Ghana — l’Africa ridesta a nuova, più libera vita. E quando tornano, la loro maggiore ambizione è quella di arrotondare il podere paterno, di ingrossare ed abbellire la casa avita, o di costruirsene una nuova. Ecco perchè nelle alte valli biellesi sono frequenti le ville, i castelli, i palazzotti, le costruzioni ciclopiche o civettuole di quelli che una volta si chiamavano gli « americani ».

    La tensione sul lavoro, lo spirito pratico ed avventuroso, l’amore dei traffici e del guadagno, non hanno mai soffocato nel cuore dei Biellesi l’antico sentimento religioso donde è derivato, al paesaggio biellese, un’altra nota caratteristica: quella dei suoi santuari, dal tempio votivo della Madonna di Sala, al Santuario di Graglia, e a quello grandiosissimo di Oropa, che riflette bene la praticità, non priva di una solida imponenza, della gente che l’ha voluto ed ampliato. Nello stesso modo, l’aspirazione al più audace progresso ed alla novità coesiste nello spirito dei Biellesi con un solido blocco di convinzioni tradizionali, che impongono soprattutto il rispetto del nucleo familiare, e che mantengono sempre vive antiche usanze come la Passione di Sordevolo.

    Sicché in sostanza, tanto nei costumi dei suoi abitanti, quanto nelle fattezze dei suoi luoghi, dove la pace georgica non è turbata dal fervore di una attivissima industria, il Biellese sembra trarre un più intimo carattere dalla coesistenza di aspetti contrastanti, più che armonizzati, osserva il Bonfantini, tenuti insieme da una specie di rude vigore vitale: quello stesso che in Biella porta ad avvicinarsi, senza screzio, i monumenti medioevali, il vecchio mercato alpino e i palazzoni stile novecento. Così come accanto ad un Biellese industrializzato ne esiste uno — quello che da Biella verso occidente si spinge contro la Serra — senza ciminiere, raccolto nella quiete delle sue boscaglie, in un tenore di vita tuttora patriarcale, dove neppure gli stabilimenti idroterapici riescono a portare un po’ di mondanità. Pure anche qui l’operosità biellese non ha soste, lavora come in sordina, e a Mongrando alimenta, insieme alle antichissime fabbriche di falci, alcune tessiture, e a Netro mantiene degli stabilimenti metallurgici.

    Veduta parziale del Santuario d’Oropa. Lo scenografico sfondo del primo cortile.

    L’essiccazione della meliga sull’aia di una cascina nel Vercellese.

    Poi, se vogliamo, c’è un Biellese episodico, in monumenti e curiosità sparsi per le campagne. Come la desolata pietraia della Bessa, che si estende per chilometri e chilometri tra la Serra d’Ivrea e l’Elvo, fin presso Cerrione e che fu antico campo di lavatura delle sabbie aurifere. Come i caratteristici « ricetti » — tipico quello di Candelo — borghi medioevali fortificati, in cui s’asserragliava la popolazione dei paesi in tempo d’assedio, e ora ridotti a cantine, ma sempre egualmente suggestivi, al pari dei castelli, fra cui notissimo quello di Gaglianico. Come gli stupendi parchi quali la celeberrima Burcina (Villa Piacenza), ora proprietà del comune di Biella, dove, su spiazzi aperti tra annosi alberi, divallano rapide cascate di rododendri e di azalee dai mille colori, la cui fioritura richiama un buon numero di stranieri.

    Al contrario del Biellese, il Vercellese è tenuto insieme dal prestigio e dall’influenza di un cospicuo centro urbano, e dalla predominanza di una particolare forma di attività agricola. Per di più, si stende quasi completamente in pianura: una pianura che per breve tratto verso il confine col Biellese partecipa ancora della selvatica natura della baraggia, ma che nel basso, fino al Po a sud, alla Dora Baltea verso ovest ed alla Sesia verso est, si fa piatta e pettinata e curata come poche altre parti, non solo del Piemonte, ma della Penisola. Sono quelli ora ricordati, suppergiù, i confini dell’antico jìrmissimum Municipium di Vercellae romana. Confini che a settentrione probabilmente includevano le montagne biellesi, e che delimitarono pure le successive formazioni politiche createsi intorno alla città: un Ducato longobardo, una contea carolingia, e poi, dalla metà del secolo XI al 1335, un libero Comune sempre più potente, in lotta con il vescovo e con aggressive signorie feudali. Rimasta per un secolo sotto i Visconti, Vercelli fu ceduta nel 1477 da Filippo Maria Visconti ad Amedeo VIII di Savoia.

    Attraversata diagonalmente dal canale Cavour e irrigata da una fitta rete di rogge e di canali, la bassa pianura vercellese sembra portare una nota asiatica nella vasta sinfonia del paesaggio piemontese, specialmente quando in primavera s’immette l’acqua nei « piani » preparati a risaia. E qui la risaia si estende fino ad occupare il 70-80% della superficie aziendale. Sporca, fangosa dopo il raccolto, quando le stoppie rimangono a lungo sul terreno molliccio; mutevole col colore del cielo, quando nel reticolato dei riquadri allagati l’acqua stagna in lieve strato, attendendo la crescita delle pianticelle; ammantata d’un verde tenero come una fresca prateria allorché le pianticelle escono dall’ispessito strato d’acqua, la risaia vive la sua più lieta e faticosa stagione nelle ultime settimane di giugno, all’epoca cioè della monda. Allora migliaia e migliaia di donne e ragazze arrivano dal Veneto, dall’Emilia ed ora anche dall’Italia meridionale, per passare giornate e giornate curve sull’acqua e intente al trapianto. Grembiuli, camicette, fazzoletti e grandi cappelli di paglia gettano chiazze di vivaci colori nel verde acqueo della risaia assolata. Ma quando si tratta di sistemare i terreni il sempre più diffuso intervento della macchina fa mutare continente alla risaia e le imprime qualche aspetto delle campagne statunitensi.

    Ed allora vien da chiedersi se quella sia veramente un’agricoltura o non piuttosto una grande industria all’aperto. Dubbio che si fa più radicato ancora allorché si visita una delle grandi aziende risiere della « bassa » vercellese, col suo apparato di officine e di impianti, di rimesse e di enormi magazzini, tra un vai e vieni di personale in tuta blu, e un grande frastuono di macchinari in funzione. Si rientra in un mondo assai più tradizionalmente campagnuolo e tranquillo là dove la terra, non ancora presa nell’ingranaggio della grande azienda, produce più faticosamente il suo riso sui campi dei piccoli coltivatori. Vivono questi, che sono, numericamente, la più gran massa della popolazione, in grossi paesi anziché in borgatelle sparse o in case isolate. Ne deriva quel senso di solitudine, di silenzio greve, di lontananza, che differenzia così nettamente la campagna vercellese dalla biellese. Non è però da credersi che piattezza di orizzonti fisici — tuttavia attenuata dal non remoto sfondo delle montagne — significhi volgarità, o assenza di interessi che non siano legati alle vicende della campagna. Memorie di uomini illustri e di attività culturali aleggiano tuttora su San Germano Vercellese, sulla cittadina di Santhià — in passato importante piazzaforte ed ora più nota come centro ferroviario e stradale — su Livorno Ferraris, su Trino Vercellese, patria antica e recente di stampatori e di librai.

    Anticamera della valle d’Aosta, ma anche per altre, più vaste funzioni, subregione importante è il Canavese, cui gli storici danno generalmente per confine lo spartiacque Dora Baltea-Elvo e la Serra e la Dora Baltea fino al Po ad est: il Po fino alla confluenza della Stura di Lanzo a sud; la sponda sinistra della stessa Stura ad ovest; le vette culminanti delle Alpi Graie-Levanne e massiccio del Gran Paradiso a nord. Riconosciamo agli storici il diritto d’indicare questi confini, perchè effettivamente l’unità del Canavese, come territorio distinto dalle subregioni limitrofe, deriva da una successione di eventi che hanno portato, prima alla formazione di una contea de Canavise — dal nome di una curtis Canava sotto Cuorgnè — menzionata per la prima volta nel 901 e poi frazionatasi in più famiglie, i comites de Canavise, e quindi alla creazione di un consortile o lega di nobili — i Valperga, i Masino, i San Martino, i Castellamonte, ed altri — diretta a contenere le mire espansionistiche di Novara e di Vercelli, e più tardi dei marchesi di Monferrato.

    Mondine al lavoro.

    I confederati ripresero il nome di comites de Canavise. Gli appellativi di Canavisio, Canavasio e la forma dotta di Canapicium (donde l’erronea credenza di una larga diffusione della canapa come origine del nome) designarono l’insieme delle terre venute in Signoria al consortile, confermato e rinsaldato con un solenne patto nel 1229. Successivamente, altre terre vennero ad includersi tra i domini della lega canavesana, o passarono ai Signori che le avevano appartenuto, e il nome di Canavese travalicò il Malone e, spingendosi verso la Stura di Lanzo, venne ad estendersi a Comuni come Noie, Mati, Ciriè, San Maurizio Canavese, che sono a breve distanza da Torino. E probabile che alla formazione dell’unità regionale canavesana — già viva nelle coscienze ai tempi di Dante — abbia contribuito la presenza di un centro importante come Eporedia (Ivrea), col territorio del suo ampio municipium e, in epoca più vicina a noi, il riconoscimento dei limiti canavesani (ad esempio, verso la valle d’Aosta), ad opera di ordinamenti amministrativi.

    Sta di fatto che questi limiti hanno trovato, diciamo cosi, il consenso della geografia, e, non di rado, si sono plasmati su di essa, sicché da tale gioco di azioni e di reazioni il Canavese è uscito, non solo con una sua fisionomia di personaggio storico, ma anche con una sua personalità di individuo geografico. Visto dal Biel-lese, per esempio, che è raccolto, quasi raggricciato nel poco spazio permessogli dalla montagna sovraincombente, il Canavese appare come un paese cordialmente aperto, disteso in una coltre di quella buona terra che non ha il Biellese. Un paese dove le acque non gareggiano con gli abitanti a produrre forza motrice, ma scorrono lente, ramificandosi in placidi canali e in rigagnoli irrigatori. Meno fitto di alberi, come lo è di uomini, il Canavese ha un suo verde, meno cupo, meno umido di quello biellese. Anche nel Canavese alla montagna soggiace la collina, e a questa la pianura, ma non c’è come nel Biellese uno stacco di rapidi passaggi. La piana d’Ivrea s’interna all’imbocco della valle d’Aosta e vi si continua, mentre le colline di Cavaglià, di Caluso e di San Giusto, s’avanzano sulla pianura, avendone un’altra alle spalle, e vi si dissolvono lentamente.

    Casa turrita in Santhià

    Il Canavese ha poi un suo cuore, chiamiamolo così, geografico, nell’anfiteatro morenico d’Ivrea, ampia coppa svasata in un cerchio di montagne e di colline, che ricorda all’osservatore i tempi in cui, dove ora si estendono floride campagne che pascolano mandrie di mucche, giungeva una spessa cappa di ghiaccio e s’aggiravano branchi di mammuth. Verso il Biellese, e cioè verso l’est, questa cerchia di colline s’innalza nella Serra d’Ivrea, la gigantesca morena, che, vista di lontano, sembra una lama tagliente sospesa fra terra e cielo, ma che da vicino si risolve in una erta scalea, con i ripiani coltivati e le alzate coperte di ombrosi castagneti. Dall’alto della Serra lo sguardo abbraccia gran parte della conca d’Ivrea e delle colline che le fanno corona. Sulla piana, percorsa dal nastro argenteo della Dora, il granoturco, largamente coltivato, getta ad estate avanzata larghe macchie di giallo. E quando, ad anno più inoltrato, si lavorano i campi, ai piedi della Serra la terra nerastra rivela l’antica esistenza di depressioni lacustri o paludose.

    I dossi collinosi isolati che interrompono la regolarità della piana, e che sembrano, nel loro allineamento da Pavone ad Ivrea fin sotto ad Andrate, cupi roccioni seminati da un gigante in fuga, sono di compatta diorite. Sono quindi di natura e di origine ben diverse dalle altre colline circostanti e da quelle stesse che, staccandosi dalle cerchie più interne dell’anfiteatro, si spingono, come promontori, fra la bassa campagna della piana intramorenica. E lungo le strade, per lo più al riparo delle alture ora ricordate, le placche rossastre dei paesi e delle borgate: al di qua della Dora Burolo, Bollengo, Palazzo, Piverone, Azeglio; al di là Banchette, Samone, Lessolo, Fiorano, Pavone, Perosa, Romano Canavese e l’industriosa Strambino. In mezzo, appoggiate anch’esse a scuri dossi dioritici, le case d’Ivrea.

    Andando da Castellamonte ad Ivrea si attraversa su questo ponte una profonda gola incisa dalla Chiusella.

    Di lontano, le alture che, collegandosi alla Serra, completano verso sud e verso ovest la cerchia dell’anfiteatro morenico, si mostrano, è vero, variamente ondulate nel loro profilo sommitale. Ma nascondono, nelle innumerevoli pieghe delle vallette intermoreniche, i risultati di un minuzioso lavoro di sbalzo e di cesello, che ha moltiplicato le piccole conche smeraldine, gii anfratti solitari, gli spiazzi coltivati, la sporgenza di grossi massi, tra i boschi e i cedui di castagno e di acacia, in un intrico di forme del suolo e di vegetazione in cui è facile perdersi e credersi ripiombati indietro nei secoli. Vigneti e frutteti annunziano la vicinanza di paesi che preferiscono situarsi lungo il piede delle colline moreniche, al contatto con la pianura, ma che, talvolta, hanno scelto di stabilirsi tra le movenze delle colline stesse, quasi a ripararsi nel fitto degli alberi. Così, per esempio, i centri e le frazioni che s’incontrano scendendo su Ivrea per la strada di Castellamonte. Non lungi dalle colline dioritiche e moreniche s’alzano quelle granitiche, affacciate come balconi sulla pianura e su una delle quali s’aderge il panoramico santuario di Belmonte. L’occhieggiare di laghi è spettacolo abbastanza frequente tra le colline canavesane. Dalla Serra, che stiamo per abbandonare, si vedono luccicare al sole i due maggiori, quello di Viverone o di Azeglio, proprio sotto la Serra, e più lontano, all’estremo opposto delle morene frontali, quello di Candia: l’uno e l’altro mete frequenti di gite domenicali. Più piccoli, più cupi, schivi di troppi sguardi sono i laghetti scavati nello sbarramento dioritico fra Ivrea e l’alta Serra e romanticamente raccolti nei loro contorni selvosi.

    Per le vie di Muriaglio, uno dei centri delle colline moreniche canavesane.

    Il lago di Ceresole Reale, uno dei primi serbatoi idroelettrici del Piemonte.

    Il Canavese ha le sue montagne un po’ appartate, rispetto al centro di gravità rappresentato dall’anfiteatro morenico. All’interno di questo manda ancora le sue acque la vai Chiusella, col suo aereo « Ponte dei Preti », col laghetto di Alice, con le tracce della sua antichissima attività mineraria a Brosso e Traversella. Al di là della silenziosa, appartata vai Chiusella, andando verso occidente, si scende in vai Soana e di qui in vai di Locana o valle dell’Orco, la maggiore delle con valli canavesane, lunga una cinquantina di chilometri e incisa tra le falde del Gran Paradiso e le gemelle piramidi delle Levanne. Per Locana e per Noasca, tra lo scrosciar di cascate e le pareti di una scura gola, si arriva, seguendo il rimbalzare dell’Orco, all’amplissimo bacino di Ceresole e al lago omonimo — uno dei più grandi delle Alpi piemontesi — imbrigliato, come parecchi altri della valle, per cavarne energia elettrica. Meno severa e meno dissimmetrica della valle di Locana, quella di Soana sbocca a Pont Canavese, donde l’Orco, arricchito, scende per uscire in piano sotto Cuorgnè. La corona montuosa del Canavese termina verso le valli di Lanzo, con il contrafforte in cui si apre la breve valle del Malone. Siamo ormai alle soglie di Torino.

    Alle soglie di Torino arriva più in basso la pianura canavesana. Ma in tema di pianura non si può mettere tutto allo stesso livello. C’è la pianura — il fondo della coppa — chiusa tutta intorno dall’orlo rilevato delle colline moreniche e che dall’alto della Serra abbiamo veduto frazionarsi sotto l’inclusione di altre propaggini collinose. Assai più ampia e continua è, invece, la pianura che dalla base esterna dell’anfiteatro morenico scende lentamente verso il Po. Il buon impasto dei terreni e l’abbondante irrigazione diffondono nelle campagne, da Caluso a Montanaro e a Chivasso, un senso di agiatezza, e la decisa prevalenza del granoturco mostra il moderno orientamento zootecnico dell’agricoltura. Non per nulla Chivasso è diventata un rinomatissimo mercato del bestiame.

    Altro è lo spettacolo che dà di sè la pianura del Canavese occidentale fino alla Stura di Lanzo. Fatta di suoli grossolani, nella parte superiore è un minuto frastaglio di piccole proprietà, in cui la vite tiene ancora un discreto posto. Lungo le alte ripe dell’Orco, del Malone e dei minori torrenti che incidono il pianalto in lembi isolati, è un fitto verdeggiar di boscaglie. Ma via via che ci s’avvicina al Po e alla Stura, filari d’alberi e siepi si diradano, le strisce di bosco scompaiono e la campagna s’apre in vaste superfici unite, sullo sfondo della collina di Torino. Più comunemente, e sempre in maggior misura via via che ci si accosta alla città, il prato permanente si estende al suo servizio, pascolando grosse mandrie di mucche pezzate. In aree residue, il tempo ristagna sul vecchio paesaggio e cioè su quel tipo di landa che è la « vauda », e che porta un che di selvatico e di primitivo in vista della grande città moderna. Seguendo la stessa direzione, dai centri che, come Valperga, Castellamonte, Rivara, sono accovacciati ai piedi della montagna, s’attraversano paesi ricchi di memorie del passato come San Benigno, Rivarolo, Volpiano e altri come Barbania, Feletto, Lombardore, Rivarossa, Foglizzo, più modestamente raccolti nella loro funzione nettamente agricola.

    E in sostanza tutto il Canavese, a differenza del vicino Biellese, è terra di tenaci agricoltori, ugualmente pratici di bosco e di prato, di vigneto, di frutteto e di seminativo. Nei sistemi di allevamento della vite una nota tipicamente locale, canave-sana, è data dalla diffusa presenza di pergolati sostenuti da pilastrini in muratura intonacati, così bianchi che si vedono di lontano, e ornano — dice Salvator Gotta — le pendici dei colli e le montagne come colonnati di templi senza tetto, rimasti a segnalare la via crucis del lavoro agricolo. Non che manchino nel Canavese attività artigiane e fabbriche. Nelle valli di Locana e di Soana, continua a vivacchiare la caratteristica industria locale dei ramai o magnani (in dialetto i magnili), che ad Alpette ed a Cuorgnè assume anche forme artistiche. Ancor oggi, ramai e vetrai delle valli ora ricordate offrono la loro opera per le vie delle grandi città, in Italia e in Francia, specialmente a Parigi. A Foglizzo l’ampia raccolta di saggina ha fatto sorgere un artigianato delle scope, che ora si è trasformato in un vero commercio, con l’accentramento a Foglizzo di scope prodotte in altre parti d’Italia. E qualche altro esempio potrebbe ancora trovarsi. Quanto alle fabbriche, abbiamo a suo tempo individuato un distretto industriale canavesano, e ne abbiamo delineato la caratteristiche. Pont Canavese, Cuorgnè, Rivarolo, Chivasso sono i nuclei di quel distretto. E abbiamo ricordato le industrie di Ivrea e l’attività e l’organizzazione di un grande complesso industriale quale è quello della « Olivetti ».

    Fiori delle convalli canavesane (costume di Frassinetto).

    L’imbocco della valle dell’Orco a Pont Canavese.

    Qui non si tratta soltanto di una serie di stabilimenti, che la ristrettezza dello spazio del primo impianto ha costretto a spargersi per i dintorni di Ivrea, insieme ad un imponente corredo di case e di casette per impiegati e per operai, e di uffici di assistenza sociale. Si tratta di un interessante movimento economico-sociale, che, pur essendosi prefìsso una propria area d’azione ed incentrandosi in una sola industria, coinvolge praticamente tutto il Canavese: un movimento che ambisce di raccogliere intorno alla fabbrica e ad un’insegna comunitaria tutta la « piccola patria » canavesana. Ed effettivamente, oltre alle abitazioni ed ai quartieri unitari, i cinematografi, le biblioteche, i campi sportivi, gli ambulatori, fondati in tutti i centri per largo raggio attorno ad Ivrea, e ad essa collegati con appositi servizi automobilistici per il trasporto delle maestranze, finiscono per aggiungere un elemento di più alle caratteristiche ambientali proprie del Canavese. E d’altra parte, la fabbrica, l’industria, nè qui all’Olivetti, nè più in là nella pianura verso Torino, riesce a svincolarsi dall’ambiente agreste in cui è sorta, spesso per rispondere a modeste esigenze domestiche (valga per tutti l’esempio delle stufe di Castellamonte). Sicché nello stesso intenso via vai di persone e di macchine che si svolge intorno agli stabilimenti Olivetti in certe ore della giornata, la visione dei campi e dei vigneti vicini, lo sfondo delle colline, della colma di Mombarone e della Serra, l’aria pura della montagna, mettono un po’ di quella « serenità canavesana » che Guido Gozzano cantava, e che deriva da un largo dispiegarsi di armoniose forme e linee del suolo.

    Forse, su questa dolce vastità di orizzonti si è plasmata quella che alcuni chiamano l’anima poetica del Canavese. Certo, di tutte le minori regioni del Piemonte il Canavese è quella che ha dato il maggior numero di poeti e mantiene viva una tradizione letteraria. « Le regioni ad esso finitime — scrive Salvator Gotta — hanno uno spiccato carattere di praticità: il Biellese industre, la valle d’Aosta rude, il Vercellese commerciale, il Torinese burocratico. Tra queste regioni il Canavese sa pure sognare e cantare ». La prima metà dell’Ottocento crea raccontatori e poeti come Massimo d’Azeglio e Costantino Nigra; la seconda metà dell’Ottocento ispira Giuseppe Giacosa, Giuseppe Cena e Guido Gozzano. Diversi tra loro, essi mostrano tuttavia evidente l’origine comune. E ciò che hanno in comune, l’apprendono vivendo a lungo in contatto con la loro terra, guardando con amore le curve delle stesse montagne, frequentando la stessa gente, che pur avendo fama tutt’intorno di violenta, mostra di sapere apprezzare i doni poetici dei suoi grandi conterranei, ci tiene alle possibilità espressive del suo dialetto, ed è sensibile ai richiami del passato, specialmente quando si evoca l’ombra di Re Arduino. Anche pittori di diversa origine come Avondo, Pittara, D’Andrade, Pastoris, Bertea — per non ricordare che i maggiori — trovano nel paesaggio canavesano elementi di comune ispirazione. Nascerà così la scuola di Rivara.

    Vedi Anche:  Attività industriale e commerciale

    Macchine, poesia e pittura fanno dunque conoscere il Canavese agli italiani più di quel che non faccia la propaganda turistica, la quale, forse perchè non ha una famosa località su cui appuntarsi, tace o è molto fioca. Eppure, anche a prescindere dalle stazioni montane della vai di Locana — celebre un tempo, ora un po’ decaduta, Ceresole Reale — della valle Soana, come Ronco Canavese, Piamprato, Canapiglia Soana, dell’alta Serra, come Andrate, il Canavese abbonda di scorci panoramici, di splendide passeggiate, di quiete oasi di riposo, e ciò che non guasta affatto, di località, come Belmonte e Castellamonte, note ai buongustai per l’eccellente cucina. La costruzione dell’autostrada Torino-Ivrea e l’incremento dei traffici in valle d’Aosta dovrebbero giovare a una più vasta conoscenza delle tante bellezze del paesaggio canavesano. Ma non è da nascondersi il pericolo che queste comodità dei trasporti, portando una parte sempre crescente della regione a gravitare su Torino e sulle industrie, concorrano a snaturarne uomini e luoghi.

    Il ridente paesaggio che circonda la fabbrica delle telescriventi Olivetti.

    Il fascio delle tre valli di Viù, di Ala e di vai Grande — e cioè le valli di Lanzo — che fra le valli del Malone e dell’Orco a nord, la catena principale delle Alpi Graie, dalle Levanne al Rocciamelone, ad ovest, e il contrafforte che le divide dalla valle di Susa a sud, termina ad est, confluendo tra Ceres e Lanzo, trae da questo finale convegno di acque e da una particolarmente larga estensione di pietre verdi una sua unità fisica. Dal punto di vista storico ed antropico, la mancanza di facili passaggi in Francia per la confinante valle dell’Are ha fatto sì che il destino delle valli di Lanzo sia assai presto dipeso dalle signorie della pianura sottostante: prima dai Conti di Torino, quindi dai vescovi di Torino, poi dai visconti di Baratonia, che le cedettero ai Savoia. Entrate nella sfera di lotta tra Savoia e Monferrato, a questi ultimi passarono per via di nozze, ma nel 1386 ritornarono, e questa volta definitivamente, ai Savoia. L’unità fisica, o meglio oroidrografica, diventa, in un certo senso, unità storica, perchè nelle vicende ora ricordate, e in quelle successive, le valli di Lanzo rimasero indivise e fecero sempre gruppo.

    Sono valli relativamente brevi — la più lunga, di Viù, si estende per 32 km. — ma non prive nel loro sviluppo di varietà di aspetti. La valle di Viù, per esempio, per gran tratto stretta ed angusta, eccola dilatarsi nelle due belle conche di Viù e di Usseglio, ed opporre alla severa asperità di montagne, come l’Uia di Calcante, il Civrari, la Ciamarella, l’ampia panoramica svasatura del colle del Lis, donde si scende in vai di Susa, e spaziose oasi di quiete, come i Tornetti. La valle d’Ala, la centrale, è la più stretta, la più ripida, la più selvaggia. Ala, Mondrone, con la sua impressionante « gorgia » (gola) e, più in su, Balme, sono località rese celebri dai pionieri della montagna, attirati particolarmente da due belle cime, l’Uia di Ciama-rella e la Bessanese.

    Per andare in vai Grande bisogna scendere fino a Ceres, che è alla confluenza delle due Sture minori. Di qui si entra nella valle, che è la più ampia e la più ricca delle sorelle, perchè meno impastata di pietre verdi. Numerose grosse borgate, come Cantoira, Chialamberto, Bonzo, Groscavallo, e in fondo Forno Alpi Graie, confermano la più facile morfologia e la maggior fertilità di questa valle, che è anche più ricca delle altre in fatto di ville e di giardini. Segni di ospitalità e di gentilezza questi, cui fa contrasto il dentellato baluardo di aspri dirupi che sembra chiudere la valle, prolungata dai selvaggi valloni della Gura e di Seia. Piccola capitale di questo mite, quasi casalingo regno della montagna è Lanzo, antica fortezza, chiave d’accesso alle tre valli, nota ai naturalisti per le sue « marmitte dei giganti » e ai folcloristi per il suo Ponte del Diavolo gettato sulla Stura, dice la leggenda, per infernale magia, in una sola notte!

    Ma vi sono dei caratteri, umani questi, che le valli di Lanzo derivano in comune dalla loro vicinanza a Torino. Così, già in antico la lavorazione degli schioppi, e poi quella dei chiodi, che trovavano in città un buon mercato. La stessa vicinanza rendeva conveniente l’estrazione di minerali, come il cobalto e i granati del Piano della Mussa, in seguito abbandonata. Per contro, la città ha ripreso la sua influenza spingendo all’utilizzazione idroelettrica delle acque delle valli di Lanzo ed anche al loro impiego per l’alimentazione. Le pure acque del Piano della Mussa assicurano a Torino un primato in tema di freschezza e di bontà di una così fondamentale fonte di vita. Prima ancora delle acque, scendeva a Torino dalle valli di Lanzo un robusto fiotto di energie, rappresentato da formose balie per i rampolli dell’aristocrazia, e da uomini di fatica, commissionieri e ceratori di pavimenti. Soprattutto dai centri della vai Grande sono venuti in città ad esercitare la loro arte abili salumai che, guadagnatisi e riputazione e parecchi soldi, hanno impiegato parte delle loro sostanze a migliorare il fondo avito e ad ingentilire le loro case di nascita.

    Trionfo di vegetazione boschiva nelle basse valli di Lanzo.

    Il paesaggio umano delle valli di Lanzo parla, anzi, di un altro afflusso di interessamento e di denaro, portato dalla comodità che offrono le valli stesse per la villeggiatura dei torinesi. Alberghi, pensioni, case d’affitto sono sorti numerosi ad Ala, a Ceres, a Balme, a Forno Alpi Graie e in parecchie altre località, quando ancora dominava il concetto arcadico della villeggiatura in pianura e in collina.

    Soprattutto nell’amena conca di Viù, per alquanto tempo, si radunò durante l’estate la migliore eleganza della vecchia capitale del Piemonte. Poi, l’avviarsi delle classi ricche al mare e all’alta montagna e l’estendersi delle possibilità di soggiorno ad altri ceti della popolazione, hanno, diciamo così, imborghesito e più recentemente quasi proletarizzato la villeggiatura nelle valli di Lanzo, congiunte rapidamente a Torino da un’ora di ferrovia elettrica e da una quarantina di chilometri di strada.

    In val Grande di Lanzo. Chialamberto e l’erta testata della valle.

    E tuttavia non si potrebbe senz’altro affermare che le valli di Lanzo rientrano nel Torinese, come sarebbe una sforzatura l’attribuire al Torinese la valle di Susa. In realtà può sembrar strano, ma non illogico, che proprio la città destinata a diventare il centro dell’intero Piemonte non abbia potuto costituirsi una propria unità territoriale storicamente e geograficamente definita, e dominarla. Esiste indubbiamente una subregione torinese, ma assai più piccola di quello che si potrebbe supporre. Forse non sarebbe errato dire che il Torinese riproduce in sostanza l’area del primo nucleo sabaudo del Piemonte. Certo non corrisponde nè all’ambito del comitato franco nè, meno ancora, a quello del vastissimo marchesato degli Arduinidi. Facendo coincidere il Torinese con l’area dei toponimi accompagnati dalla qualificazione di « torinese », vediamo rientrare in essa sui confini del Canavese i Comuni di Settimo, di Borgaro e di Caselle: poi vale da limite la sponda sinistra della Stura di Lanzo fino a Cafasse. Di qui andando verso occidente appartengono al Torinese le due piccole valli della Ceronda e del Casternone (vai della Torre), aperte in un contrafforte che dal Monte Arpone mette al Musine, la caratteristica rossiccia montagna che custodisce, sul versante di sinistra, l’ingresso della valle di Susa. Dal Musiné, attraversando il largo fondovalle della Dora Riparia, il confine lo risale fino alla Chiusa di San Michele e all’altro pilastro d’ingresso, il Monte Pirchiriano, donde per la Valgioie si passa in vai Sangone. Tutta la vai Sangone è effettivamente torinese, ma il limite con la vai Chisone e quindi col Pinerolese scende verso la pianura seguendo il torrente Chisola e toccando None e Castagnole Piemonte, torna alla Chisola presso Piobesi, e di qui raggiunge il Po presso Osasio. Segue poi il Po fino a Lombriasco, ma lo abbandona per dirigersi verso est fino a raggiungere il pianalto di Poirino tra Carmagnola e Pralormo e poi per Poirino, lungo lo Stellone e la Loggia, arriva a Moncalieri. A Moncalieri il confine col Chierese sale in cresta alla collina di Torino e la segue fino alla valle del Rio Maggiore, scende a Gassino e, attraversato il Po, riprende il contatto col Canavesano a Settimo.

    Le vette che sbarrano la val Grande di Lanzo da Forno Alpi Graie.

    Come si vede, gli appoggi naturali a questo confine non mancano, ma non bastano d’altra parte a caratterizzare il Torinese. Questo c’è perchè c’è Torino, e Torino c’è, non ci stancheremo di ripeterlo, in quanto vi sbocca in pianura la valle di Susa. Questo sbocco, sottolineato in avanti dalle costruzioni moreniche dell’anfiteatro di Rivoli, è, diciamo così, il cuore fisico di una subregione che, per il concorso di altri fattori, ha il suo cuore storico-geografico in Torino. Ove si eccettui l’ombrosa e fresca vai Sangone, che per lo sviluppo industriale e la frequenza delle ville potrebbe avvicinarsi a qualche angolo del Biellese, il restante della montagna torinese deve alla sua prevalente impalcatura di pietre verdi un aspetto d’insieme brullo, quasi nudo, che unitamente a quello della « vauda », pare voluto, per contrasto, a circondare il formicaio cittadino.

    Quanto alla pianura torinese, già da tempo essa appare assoggettata ad un processo di trasformazione che reca le impronte di successivi periodi storici e di diverse funzioni urbane. Venaria con il suo aulico castello, Stupinigi con l’incantevole palazzina di caccia, Mirafiori con le sue rovine, riconducono il visitatore a tempi in cui i principi sabaudi colà si rifugiavano per evitare le indiscrezioni della Corte e per organizzare festini e incontri diplomatici. La pianura era allora disseminata di cascine signorili. Ora, di questo mondo, tra sfarzoso e georgico, la città, per il suo fabbisogno di latte, ha salvato ancora una parte, con le parecchie aziende agricole cui l’abbondante irrigazione dona buoni raccolti di foraggi e ampio pascolo su prati permanenti, che d’inverno ospitano greggi di pecore discesi dalle montagne. Ma in vicinanza dei centri abitati, nei vecchi parchi, come nei boschi residui, si nota un crescente abbandono, parzialmente velato dal sussistere ed anche dal moltiplicarsi di orti. Così alla Madonna di Campagna, ad Altessano, a Venaria, al Nichelino, a Moncalieri. Soprattutto lungo le grandi direttrici di traffico le fabbriche allungano i loro capannoni, e la vecchia campagna si spezzetta fra orti, giardini e casette operaie. Così verso Settimo, verso Rivoli, verso Orbassano, verso Moncalieri. E tuttavia, poco oltre, la vita contadina conserva, almeno esteriormente, pieno vigore. In destra della Stura di Lanzo la piccola coltura continua a dominare seguendo forme e ritmi di un tempo, mentre lungo la Chisola e il Sangone e verso Po, grossi e pingui fondi — tra None, Castagnole Piemonte, Carignano, Vinovo, Carmagnola, Panca-lieri — con tendenza a specializzarsi in colture ortive a pieno campo, compongono un paesaggio agrariamente vario e progredito.

    L’ampio fondo alluvionato della bassa valle di Susa.

    Il versante torinese della collina ha arrestato lo sviluppo della massa urbana nella sua compattezza e l’ha frazionata in tanti golfi, che rientrano nelle sinuosità della collina stessa. Ma prima ancora essa si è rivestita, fino al limite dei boschi, di vigne e di ville settecentesche, tra le quali figurano, e non sempre bene, sciami di costruzioni moderne. Una fitta rete di strade e di stradicciole, spesso incassate fra i muretti delle ville, permette di assaporare le molte, riposte bellezze di questo scenario verde che sembra creato per far da sfondo alla città. Passando per graziose borgate, come Cavoretto, Santa Margherita, Reaglie, Mongreno, Sassi, Rivodora, ammirando palazzine di bella linea barocca e ricchi giardini, si sosta volentieri, a costo di ritardare il superbo giro d’orizzonte che ci attende sulle sommità, tra le quali la storica collina di Superga con l’imponente basilica juvarriana. Ma le numerose memorie del passato e il movimento dei frequentatori moderni — meno intenso di quel che si crederebbe — non tolgono che la collina di Torino mantenga una sua elegante rusticità e buon numero di angoletti primitivi e romiti, specialmente tra i cedui di castagno che ne rivestono le aree culminanti. Meno cittadinizzate, più boscose e solitarie sono le colline dell’anfiteatro morenico di Rivoli, che non mancano esse pure di vigneti, di ville, di ameni paesini. L’incompiuto e pur suggestivo castello di Rivoli, la più lontana Sacra di San Michele e in mezzo la medioevale abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, le molte case, pure medioevali, di Avigliana, e l’aperta conca dei due laghi, sono altrettante degne occasioni di gite da parte dei Torinesi e non soltanto dei Torinesi. Si direbbe che natura e storia si siano accordate nel fornire alla città dei dintorni veramente e per più aspetti seducenti. Anche questo può essere considerato come un carattere distintivo del Torinese.

    Un tratto della pianura torinese visto dall’aereo.

    Pur traendo risalto soprattutto dalle passate fortune della città capoluogo come importante Comune medioevale e centro di attive industrie tessili, il Chierese è, fisicamente, meglio definito del Torinese. Corrisponde, di fatto, ad una rientranza della pianura padana, limitata per tre lati da colline. Quella di Torino ha il suo versante meno ripido, più ridente, che digrada per ampi costoloni verso Chieri. Un tempo, quando il castello di Montosolo, sopra il Pino, era stazione di confine e luogo di pedaggio, i centri di quel versante erano tributari del sottostante battagliero Comune. Le dorsali su cui sorgono Moncucco e Mombello e poi il margine del pianalto di Poirino-Villanova, donde si scende tra le colline dell’Astigiano, delimitano il Chierese verso est, mentre a sud comprende l’agro di Poirino, andando al di là del confine della provincia di Asti, e verso ovest include Villastellone e Santena fino a ritrovare la displuviale della collina di Torino sopra Moncalieri. I floridi colli che fanno corona al territorio di Chieri l’hanno reso rinomato per gli eccellenti vini, tra cui ben noto il Freisa. Ma meriterebbero quei colli altrettanta ed ancor più lusinghiera fama per le soleggiate, deliziose vallette che durante la fioritura dei ciliegi riproducono paesaggi di sapore giapponese. Ville, castelli e paesi stesi sulle dorsali e al loro piede ridanno al quadro l’intonazione nostrana, mantenendola anche quando nel quadro compare tra il folto degli alberi lo specchio d’acqua del lago di Arignano.

    La vecchia Moncalieri dominata dalla rossa mole del suo castello.

    Con dossi vieppiù espansi e sfumati, i costoloni della collina di Torino si perdono nella pianura come in un grande golfo verde. La campagna assume, tuttavia, aspetti diversi. Umida e fiorente tra Chieri, Buttigliera d’Asti, Riva presso Chieri, Pessione e Cambiano, ogni tanto rotta da un gruppo di case su cui s’alza un castello, e proprio nelle vicinanze del capoluogo striata d’autunno dal verde argenteo dei cardi, la distesa dei coltivi si fa quasi spoglia d’alberi e meno frequente di agglomerati nella zona di Villanova d’Asti e specialmente sul pianalto di Poirino. Qui una stentatezza delle colture denuncia il terreno fortemente argilloso delle alluvioni antiche e la mancanza di irrigazione. La povertà d’acqua appare anche dalle numerose « peschiere », in cui si raccoglie lo scolo delle piogge per l’allevamento del bestiame. Ma quando dal pianalto di Poirino si scende nella pianura di Villa-stellone e di Santena, la ricchezza idrica del sottosuolo dà alle sue sabbie, largamente occupate da asparagiaie di alto reddito, un vigore nutritivo di cui sono superba testimonianza le piante del parco che a Santena circondano la tomba di Cavour. E anche in questo lembo della pianura, borgate seminascoste nel verde della campagna si serrano intorno ad altrettanti castelli, pochissimo noti agli stessi Torinesi. Le fila di una gloriosa tradizione tessile ancora tengono buono nel Chie-rese, se accanto alle fabbriche di coperte della città continuano a funzionare quelle di telerie di Poirino.

    La parte più alta e più antica di Chieri si raccoglie intorno alla chiesa di San Giorgio.

    Panoramica parziale di Rivoli e dell’imponente castello sabaudo.

    Ma ritorniamo alla montagna, per infilare la valle che attraversate Chieri, Mon-tosolo e Torino, i commercianti astigiani e genovesi erano soliti percorrere nel viaggio verso i grandi mercati delle Fiandre. La valle di Susa è ancor oggi quello che era allora: uno dei grandi, se non il più grande corridoio delle Alpi. Questa funzione alla quale l’hanno incamminata fin da epoca preistorica gli importantissimi suoi valichi, insieme alla sua unità di bacino oroidrografico, le valgono di costituire una subregione alpina, ad onta delle divisioni subite nel corso della storia. E noto, di fatto, che mentre la comba di Susa e la bassa valle hanno presto appartenuto e soggiaciuto ai Savoia, da Chiomonte in su l’alta valle ha fatto parte, nel primo Medio Evo, del Delfinato, e poi della Francia, sotto cui è rimasta fin al 1713, l’anno del trattato di Utrecht. È un diverso destino che sembra essere stato patrocinato dalle condizioni geografiche. Effettivamente la vai di Susa si direbbe risultare dalla sutura di due tronconi, aventi alcune fattezze in comune ed altre contrastanti. La bassa valle, intanto, ha direzione ovest-est, ed è larga, piatta, quasi rettilinea. Le conoidi di deiezione formatesi sul suo fondo, all’uscita di valloni, brevi e precipiti, portano ciascuna il suo bravo centro abitato: da Sant’Ambrogio a Condove, da Vaie a Sant’Antonino, a Villarfocchiardo, a Bussoleno. Alla povertà dell’agricoltura è giunta in tempo a dare qualche compenso l’industria, che appoggiandosi alle prime forniture di energia elettrica, allo stimolo della vicina Torino ed alla mano d’opera locale, è andata, già verso la fine del secolo scorso, disseminando sul capace fondo-valle i suoi stabilimenti. L’attività industriale è risalita dal basso fino a Susa, ma perdendo di forza. La bella conca sprofondata ai piedi dell’aguzzo Rocciamelone, dove il trapano degli antichi ghiacciai ha stupendamente lavorato di sbalzo e di bulino, conserva le attrattive di un quieto angolo di vita alpina. Anche perchè la ferrovia del Fréjus l’ha scartata, facendo di Bussoleno un notevole centro ferroviario e lasciandole soltanto il movimento di va e vieni per il Moncenisio: un movimento assai intenso nella bella stagione, ma bloccato dalla neve nei mesi invernali.

    Dopo Susa, la grande valle piega bruscamente verso sudovest, e prende a salire quasi di colpo, chiudendosi al tempo stesso nella profonda gola di Exilles. Il paesaggio è diventato severamente montano — prima il piatto fondovalle poteva sembrare una digitazione della pianura padana — e non bastano i vigneti di Chiomonte ad ammorbidirlo. E mantiene una certa asprezza anche quando torna a riprendere un po’ di respiro nella radura di Salbertrand, circondata di magnifici boschi. La valle si fa bifida: il ramo più ampio è quello che si dirige verso nordovest, lungo il percorso del torrente Bardonecchia e sbocca nella larga conca omonima, sotto il muraglione forato del Fréjus. L’altro ramo prosegue verso sudovest. E inciso dalla Dora chiamata Riparia dal suo affluente, il torrente Ripa, che la raggiunge nell’ameno slargo di Cesana. Di qui lungo la piccola Dora si sale a Claviere e al Mon-ginevro: lungo la Ripa si giunge a Bousson, donde si può o continuare per il vallone della Ripa o imboccare il vallone di Thures. Sempre da Cesana si diparte la strada che per il Sestriere scende in vai Chisone, lungo uno degli itinerari più frequentati delle nostre Alpi.

    Sono queste le località alle quali s’affida la larga rinomanza odierna della valle di Susa. Bardonecchia, che aspira a diventare la San Remo delle Alpi, pervasa da una vera febbre edilizia: Cesana, Claviere, il Sestriere, Ulzio, e le montagne circostanti, di quando in quando rilassate per la presenza di teneri calcescisti, hanno una loro vastissima clientela, divisa fra i frequentatori estivi delle stazioni di base, e quelli invernali delle funivie e delle alte stazioni presso i campi di sci. Agli uni ed agli altri è da augurare che rimanga un po’ di tempo per avvedersi che l’alta valle di Susa, specialmente, ha boschi e prati di montagna tra i più belli del Piemonte. Villeggiatura, sci, movimento ferroviario e stradale per i valichi, fanno oggi della valle di Susa, data la sua posizione geografica, un pacifico crocicchio internazionale, spesso improntato a mondanità ed a eleganza. Pure, sempre in conseguenza di quella cruciale posizione, ben altri incontri ha veduto un tempo la valle svolgersi tra la chiostra delle sue montagne. Sono dappertutto nell’aria i ricordi di un passato militare e guerresco, che ha travagliato la vita valsusina, lasciandole poco posto per l’arte, per le stesse leggende, per il folclore. Le vuote occhiaie del Chaberton — ora in territorio francese — concludono una serie di apprestamenti bellici, di cui rimangono poderose testimonianze nelle mura con cui i Longobardi sbarrarono ai Franchi, invano, la via delle Chiuse, chiave d’Italia, nel forte d’Exilles, più volte incendiato e saccheggiato, nei grandiosi avanzi nel forte della Brunetta, poco sopra Susa.

    Susa quasi si rannicchia in rondo alla sua « comba ».

    Questo clima di austerità militare, che sembra penetrare di sè anche le massicce costruzioni di molte case, ben si accorda con l’esercizio di una rigida attività monacale che ha avuto come centri di irradiazione la prevostura di Ulzio, l’abbazia della Novalesa nella valle della Cenischia e la Sacra di San Michele, poderosamente issata sulle rocce del Monte Pirchiriano, simile più ad una fortezza che ad un edifìcio religioso. Persino il Rocciamelone, creduto nel Medio Evo il più alto monte delle nostre Alpi, e scalato nel 1358 da Bonifacio Rotario d’Asti, reduce dalla prigionia, era considerato come una rocca e chiamato arx romulea. Naturalmente non mancavano i castelli — quelli di Condove e di San Giorio, ad esempio, — ma il minor frazionamento feudale li ha ridotti di numero rispetto alla valle d’Aosta.

    La vicinanza di Torino e le belle montagne che la circondano Fanno la fortuna turistica di Bardonecchia.

    Il visitatore curioso che desidera sollevare il suo spirito da cupi ricordi ha di che scegliere abbastanza largamente. Dalle ombrose fresche pendici di Meana e di Gravere, dai pometi di Giaglione e dai pescheti di Almese alle acque azzurro-

    biancastre del lago del Moncenisio con le doline sprofondate nei gessi; dai ripari sotto roccia di Vaie, abitati dall’uomo neolitico, alle forre di Chianocco e di Foresto. E se si interessa ai problemi della valle, saprà dalla bocca dei suoi abitanti che il più impressionante ed urgente è quello del disordine idrologico, causa di gravi alluvioni che devastano ampie zone del fondovalle, dove la Dora, verso il termine dei suoi 125 km. di corso, si trascina pigramente in larghi meandri. Fortunatamente per l’economia valsusina, la relativa facilità delle comunicazioni con Torino — che potrebbero notevolmente migliorare — consente a migliaia di operai e di impiegati della media e bassa valle di Susa di raggiungere fabbriche e uffici della metropoli. E ciò mentre i vuoti di un bilancio demografico negativo vengono riempiti dall’afflusso di immigranti veneti e meridionali, richiamati dai centri industriali della valle.

    Anche la valle del Chisone e quelle valdesi, che, con un tratto della sottostante pianura, formano il Pinerolese, pur offrendo visioni di pace e di fattiva operosità moderna, hanno storia intessuta di guerre fierissime e di secolari inimicizie. Più che come mercato o come centro amministrativo, Pinerolo è degna di rappresentare le sue valli come « porta d’Italia » — così soprattutto l’ha vista e descritta il De Amieis — e cioè come piazza assai importante nelle lunghe lotte tra Francesi e Piemontesi. È vero che Pra Catinat ha acquistato rinomanza tra gli escursionisti per la sua splendida fioritura di narcisi, e che un altro campo di battaglia, quello dell’Assietta, è diventato celebre per il suo panorama, ma la vera e propria scalea di giganti costituita dal complesso fortificato di Fenestrelle è un’ancora possente testimonianza della dura vita dei tempi in cui i gigli di Francia decoravano le pietre confinarie a 9 km. da Pinerolo. All’influenza di questa graziosa, e al tempo stesso, forte città sulle terre contermini ha indubbiamente contribuito l’antica funzione di capitale del dominio degli Acaia, e, successivamente, l’aver dato impulso ad attività industriali e commerciali, irradiantisi nelle valli vicine.

    Le « torri » del Sestriere in una suggestiva visione notturna

    Quella del Chisone, la maggiore, ha una lunghezza di 55 chilometri. Superata poco dopo Pinerolo la stretta gola di Porte, si allarga notevolmente in un sèguito di bacini ricchi di coltivi e di prati. Ma più in alto si scavano il talco e la grafite — perchè non chiamare la vai Chisone, la « valle in bianco e nero ?» — e gli stabilimenti di prima lavorazione di questi minerali, insieme a setifici, a cotonifici e ad industrie meccaniche, tra cui predomina di gran lunga la fabbrica di cuscinetti a rotolamento della RIV a Villar Perosa, dànno alla parte inferiore della valle, fino a Perosa Argentina, una fisionomia moderatamente industriale.

    Da Perosa Argentina si stacca la valle Germanasca, che ci porta sùbito in ambiente valdese e che attraverso la verde conca di Prali e di Ghigo fa scendere al Perrero i minerali e il legname di cui abbonda. Continuando, invece, a seguire da Perosa Argentina il Chisone si entra nella sua alta valle, detta anche valle di Pra-gelato. Un primo tratto piuttosto stretto termina a Fenestrelle, dove sono specialità locali il « genepy » e la lavanda. Dopo Fenestrelle, passando nella grande zona dei calcescisti, la vai Chisone si allarga, e il suo fianco, a destra di chi sale, si plasma in morbide pendici ben coltivate a patate e ricche di magnifici pascoli, la cui fioritura rende ricercatissimo il miele di Pragelato. Si sale ancora e dopo alcune antiche frazioni si entra nel modernissimo centro turistico di Sestriere, caratteristico per i suoi alberghi a torre e per i lenti pendii che ne hanno fatto una delle zone sciistiche più apprezzate d’Italia.

    Come la valle laterale della Germanasca — nella sua parte superiore costellata di laghetti alpini — la valle del Pellice è breve, ma più ampia, ricca di frutteti e di castagneti fino a Bobbio, poi boscosa e selvaggia fino al magnifico piano del Pra, che ne inverdisce la testata. Le due valli sono note per la religione valdese della massima parte dei loro abitanti, e per un che di lindo, di colto, di puritano, che dalla fede e dai costumi trapassa ad ingentilire anche aspetti esterni della vita locale. Torre Pellice, la Ginevra d’Italia, Luserna San Giovanni, Angrogna e poi più su Villar e Bobbio Pellice, dove di frequente, affiorano da templi e da monumenti le memorie delle lotte arditamente e pazientemente sostenute per la libertà di fede, sono rallegrate da molte ville, e dotate di un’attrezzatura alberghiera che parla di non remoti tempi in cui le valli valdesi erano alquanto più frequentate di quel che oggi non sia.

    Manifatture lungo il Chisone (San Germano Chisone).

    Si spera che la progettata apertura di una strada o di una galleria che renda largamente transitabile il colle della Croce (2309 m.) — donde dalla valle Pellice si scende nella valle del Guil — aumenti il turismo e il commercio della piccola patria valdese. E si attende anche che sia consentita l’utilizzazione di acque dell’alto Guil, tratte sul nostro versante per ricavarne energia elettrica. Intanto continuano a lavorare, seppure con qualche fiacchezza, le fabbriche tessili, che a Luserna San Giovanni e a Torre Pellice hanno trovato forza motrice e mano d’opera a buone condizioni. Tutt’intorno le montagne, le cui più alte cime, dal Granerò all’Albergian, hanno dato il nome a valorosi battaglioni alpini, e i cui passaggi sono colli di battaglie, proteggono questo piccolo mondo in una pace tanto più meritoria ed apprezzabile in quanto frutto del reciproco rispetto per credenze diverse. E proteggono anche materialmente dai venti freddi le propaggini collinari dei contrafforti, e la stessa Pinerolo, cinta parzialmente da alture sulle quali si possono trovare piante isolate di olivo. Condizioni climatiche temperate da queste influenze, terreni di discreta e anche di buona fertilità, e le acque del Chisone e del Pellice, derivate in una fitta rete di bealere e di rogge, a cui si aggiungono, fra Scalenghe e Cercenasco, coli di fontanili, fanno ricca la pianura pinerolese, che giunge ad includere Frossasco (dove è interessante la ben conservata cerchia delle mura medioevali), Piscina, Airasca, Virle, Pancalieri, Villafranca Piemonte e Cavour. Fra questi centri, abbondanti di bestiame, la florida campagna s’apre qua e là in umidi prati, ed è sparsa localmente di colture specializzate, come quella della menta a Pancalieri.

    La ridente conca di Prali in val Germanasca.

    Una minor regione di chiara amalgamazione storica è il Saluzzese, ma proprio per questo sarà opportuno parlarne a proposito dei marchesati di cui i Savoia si sono assicurati l’eredità. Passiamo quindi senz’altro, e il passaggio non è brusco, dal Pinerolese al Cuneese, tenuto anch’esso insieme dal prestigio di un centro, che riproduce, in scala ridotta, nel Piemonte meridionale, certe caratteristiche e certe funzioni proprie di Torino nel Piemonte settentrionale. Una serie di assedi valorosamente sostenuti mostra la celebrità passata delle due città subalpine come piazzeforti. E si spiega, perchè anche Cuneo è nel bel mezzo di una raggiera di valli convergenti, due delle quali conducono a valichi internazionali. Oggi, il potere irradiante, se così si può dire, di Cuneo, proviene quasi interamente dalla sua dignità di capoluogo di provincia. E di una provincia che porta pomposamente, ma giusti-ficatamente, l’appellato di « granda ». Il Cuneese non amministrativo, però, è alquanto più ristretto, comprendendo il giro di valli che dalla vai Maira porta alla vai d’Ellero inclusa, e il tratto di pianura, un vero golfo, insaccato tra le Alpi e le Langhe, e definito a settentrione da una linea che unisce montagna e colline passando sopra Fossano.

    Vedi Anche:  Colline, pianure ed Alpi Piemontesi

    Le valli del Cuneese non sono molto profonde e le vette che ne coronano le testate non superano i 3400 metri. Neppure le catene secondarie sono molto elevate, sicché numerosi valichi facilitano il passaggio da una valle all’altra: comodità di transito più comuni che non in altre parti delle valli piemontesi e di cui, comunque, ci si serviva assai più un tempo che non oggi. Ciò non toglie che le montagne cuneesi presentino asprezze e vivacità di forme del più puro stile alpino. La scarsezza di grandi attrattive naturali, come i ghiacciai, e di vistosi richiami turistico-mondani, fa sì che le valli in discorso siano assai meno note di altre del Piemonte. E proprio per quel tanto di casalingo, di primitivo che conservano, le montagne cuneesi effondono un loro sottile fascino. Un’altra scarsezza, quella d’industrie, le accomuna, e conferisce loro un’atmosfera di quiete georgica e pastorale, che si lascierebbe godere assai più pienamente se non si accompagnasse a frequenti testimonianze di arretratezza e di povertà. Tradizioni, leggende, usi e costumi, trattengono in queste valli più del passato che non in altre zone montane del Piemonte dove è largamente penetrato il soffio livellatore della vita moderna. Sopravvivono poi, in tutte le valli, casematte, fortilizi e ricordi di fatti d’arme che ben s’accordano con le glorie militari della città capoluogo.

    Veduta di Torre Pellice e della media valle.

    Val Maira, lunga una quarantina di chilometri, ha il suo centro di sbocco in Dronero, donde è facile raggiungere San Costanzo sul Monte, una delle più interessanti chiese del Piemonte, e i famosi cició ‘d pera di Villar San Costanzo, colonne di erosione nel morenico, nelle quali, secondo la pia leggenda, si sarebbero pietrificati i pagani persecutori di San Costanzo, cavaliere cristiano della legione tebea. Dopo San Damiano Macra, il fiume entra in una stretta gola per uscirne poco prima di Alma. Sopra Stroppo immettono nella valle principale i due valloni di Elva e di Marmora, che offrono al visitatore alcune visioni di boschi e di prati, tra le più pittoresche e poetiche delle valli cuneesi. La valle termina con una profonda conca in cui è Acceglio.

    Incuneata tra le valli Maira e Stura, e come quelle diretta da est-ovest, la vai Grana non arriva con la sua testata allo spartiacque principale, ma si arresta quanto prima, sul fianco orientale del vallone di Marmora, presso il colle del Mulo. Ha quindi minore lunghezza dei due solchi limitrofi: una trentina di chilometri. Ed ha anche caratteri meno decisamente alpestri. Ricca di boschi nella parte inferiore, nella superiore offre quadri di grazia pastorale. Si apre sulla pianura a Caraglio, e di qui s’addentra tra i dirupi come un lungo corridoio tagliato nella roccia. Si dilata, tuttavia in qualche tratto, come a Pradleves, consentendo la formazione di un discreto centro di villeggiatura, e attraversata da ultimo una bella gola, si spalanca sul bacino terminale, con una visione di ampi pascoli, tra i quali appaiono sparpagliati molti villaggi. E la conca di Castelmagno, dal nome di uno di questi villaggi, passato pure a un tipo di formaggio piccante che ha larga reputazione.

    Una via di Frossasco, tipico paese dalla pianta a scacchiera e tuttora circondato da mura. In fondo, una porta della cinta.

    Segue alla val Grana, la più lunga e la più importante delle valli cuneesi: quella della Stura di Demonte. La più lunga perchè raggiunge uno sviluppo di 60 km. : la più importante, oltre che per l’area utilizzabile (ha un bacino amplissimo), per il fatto di condurre al valico della Maddalena (o dell’Argenterà), il più facile delle Alpi dal Monginevro al Colle di Tenda. L’antica reputazione di Borgo San Dal-mazzo, la cittadina che domina l’ingresso della valle e che in epoca romana si chiamava Pedona, è una prova della già allora notevole funzione militare e commerciale della valle, che è tuttora il cardine di tutto il sistema delle valli cuneesi. Il lungo solco vallivo è in un primo tratto, da Borgo San Dalmazzo a Demonte, piuttosto stretto e movimentato, fra ripide pendici largamente rivestite di vigorosi castagneti. A Demonte, un’ampia e florida distesa di coltivi e di prati, che si presta ottimamente all’allevamento bovino, è limitata dalla presenza di una schiena rocciosa a due gobbe. Poi il piano riprende: la valle si mantiene spaziosa nel fondo, su cui sporgono come quinte, successivi contrafforti, ma assume un aspetto vieppiù grandioso ed austero fino a Vinadio, guardata d’ogni parte da fortificazioni antiche e moderne che miravano a sbarrare la valle. Poco sopra Vinadio, si stacca il vallone dei Bagni, dove sorgono i noti stabilimenti termali. La valle principale, intanto, si è ristretta tra enormi burroni e rupi strapiombanti, sino a che torna ad aprirsi nella conca di Sambuco. Di qui a Pietraporzio ciò che maggiormente colpisce è l’estensione e la fittezza delle foreste di abeti e di altre conifere che rivestono il versante. Si oltrepassa Pontebernardo, ed ecco la strada tagliata nella roccia entrare nella grandiosa gola, che ha preso il nome guerresco di Barricate. La gola termina aprendosi improvvisamente nella conca di Bersezio, dominata da aspre giogaie, e dopo pochi chilometri, superato il paese di Argenterà, si arriva al valico, giudicato uno dei più belli delle Alpi, per l’ampiezza della svasatura in cui si apre, per la grazia del suo lago, e per la meravigliosa fioritura dei prati circostanti a primavera.

    Funghi di pietra: sono i famosi cició di Villar San Costanzo (Cuneo).

    Calma di acque e arditezza di monti in val Maira In primo piano il lago del Saretto.

    In linea generale — e il discorso varrà pure per altre valli del Cuneese — le tre di cui abbiamo sin qui fatto cenno vivono per un tratto inferiore anche di agricoltura, oltre che dei prodotti dell’economia silvo-pastorale, che domina invece completamente nelle altre valli. Ma quella pastorale, specialmente in mano ai Comuni e alle imprese armentizie del piano che affittano i pascoli, è un’economia da cui scarso beneficio viene ai « particolari ». Piccole industrie ed artigianato versano quasi sempre in condizioni precarie. In valle Stura, per esempio, e più precisamente a Demonte e a Vinadio, ha una certa importanza l’erboristeria, che procede all’estrazione di essenze. Pure da ricordare è l’apicoltura, con centri di produzione a Sambuco e a Pietraporzio.

    Tra le fonti accessorie di guadagno è attiva la raccolta dei prodotti secondari del bosco: lamponi, fragole, funghi; raccolta che in alcuni comuni è affidata a speciali imprese che vi impiegano mano d’opera locale. Primi mercati di incetta dei prodotti ora ricordati sono Demonte e Borgo San Dalmazzo.

    Scorcio panoramico di Busca, sul torrente Maira.

    Il massiccio dei Gelas, nelle Alpi Marittime.

    Tutto sommato, in queste valli si vive una vita, se non assolutamente primitiva, certo povera ed arretrata, in condizioni di alimentazione, di abitazione e di igiene, che lasciano alquanto a desiderare e che spiegano, forse più della scarsezza dei redditi, il sempre crescente abbandono dell’alta montagna da parte dei giovani. La vicinanza della Francia e la facilità di trovare impiego nelle campagne provenzali, negli alberghi e negli esercizi pubblici della Costa Azzurra e di Montecarlo, e nelle fabbriche di Lione e di Marsiglia, sono incentivi ad emigrare, che smuovono facilmente chi già medita di sottrarsi in qualche modo alla misera esistenza che il proprio paese gli riserba. E l’emigrazione, che potrebbe essere temporanea, si trasforma spesso in definitiva, sicché l’abbandono si legge nelle pieghe del paesaggio e lentamente lo intristisce, lo imbruttisce.

    Il trapasso da un antico fervore di vita ad un impoverimento e ad un ristagno delle attività di un tempo non sfugge a chi risalga, con occhi aperti, la valle del Gesso, orientata da nordest a sudovest e lunga una trentina di chilometri. Il ripido versante di una sottile catena divisoria la limita verso la valle della Stura. Sul fianco opposto, invece, la valle del Gesso si rompe in una digitazione di profondi valloni che arrivano fino alla maggior displuviale, al piede di imponenti masse montane, che si chiamano Clapier, Gelas, Matto e, fra tutti eminente, la Serra dell’Argenterà, la regina delle Alpi Marittime, che leva al cielo arditissime guglie di taglio dolomitico. Alpinisticamente è forse la più interessante e la più frequentata delle valli cuneesi, anche perchè numerose strade agevolano l’accesso a facili colli, che permettono di passare da vallata a vallata e di affrontare da più lati le belle montagne ora ricordate. Un tempo, le cacce reali animavano, sia pure temporaneamente, queste alte, solitarie regioni, costellate qua e là di laghetti alpini, mentre più in basso fumavano nelle radure e nei boschi le carbonaie. La valle deve al fatto di essere incisa parte nei calcari e parte nei graniti caratteristiche morfologiche assai diverse.

    Partendo dallo sperone di Borgo San Dalmazzo, che la separa dallo sbocco in piano della valle Stura, la valle del Gesso supera dapprima la stretta di Andonno, poi s’allarga nel bacino del paese omonimo. A pochi passi dal fiume si vede nereggiare l’ingresso della caverna del Bandito, conosciuta per i ritrovamenti ossei cui diede luogo. Poco oltre s’apre, a sinistra di chi sale, il morbido vallone di Roaschia, fra i cui ampi prati grossi cespi di lavanda vengono utilizzati per trarne essenza. Il capoluogo della valle, Valdieri, sorge in una ridente conca, dalla quale si stacca il vallone di Entracque, fino al paese, ampio, soleggiato e largamente coltivato a patate, di qualità scelta, apprezzate ovunque come patate di Entracque. Ma proseguendo per la valle principale, dopo Valdieri, è un succedersi di bacini separati da strozzature, ora ameni, ora chiusi fra severi anfiteatri di pareti e cime. Come è appunto quello di Sant’Anna di Valdieri, dove sorgono le palazzine, che servivano al soggiorno estivo dei Savoia. Il fondovalle si fa poi più ripido e sale, quasi nascondendo, tra enormi macigni crollati dall’alto, gruppi di rustiche case dal tetto di paglia. Un ulteriore rinserrarsi della valle porta al grande stabilimento delle terme di Valdieri, che utilizzano acque caldissime (fino a 69 gradi) e le muffe che in esse si formano. E si è giunti, ad un tempo, ai piedi della Serra dell’Argenterà.

    Per altre caratteristiche si è fatta conoscere la vai Vermenagna, che si apre in pianura essa pure sopra Borgo San Dalmazzo, e che ha direzione sud-nord, toccando, dopo 22 km. di sviluppo, la linea di cresta principale, là dove s’abbassa nel Colle di Tenda. Al di là del colle la vai Vermenagna continua, se così si può dire, nella valle del Roja, che scende per il versante tirrenico fino a Ventimiglia. Questa facilità di comunicazioni col mare e, lungo il mare, con la Francia, è, dal punto di vista antropico ed economico, la principale prerogativa della vai Vermenagna, percorsa da una strada e da una ferrovia, ora inattiva, di rango internazionale. Ma alla conoscenza della valle hanno largamente contribuito le condizioni di clima e di rilievo che fanno di Limone Piemonte e della sua conca una delle zone sciistiche più quotate delle Alpi piemontesi.

    La valle comincia a risalirsi dallo sperone di Roccavione, che la separa dallo sbocco della vai del Gesso, e in un primo tratto, fin sotto Vernante, ha un fondo-valle abbastanza spazioso. Poi, tra pendici verdeggianti di castagneti, si fa angusta, obbligando strada e ferrovia a sorpassare valle e valloni laterali con una serie di arditi viadotti, cui s’alternano tratti di galleria. A Limone, l’incontro della valle col vallone di San Giovanni crea un pittoresco slargo, poco sopra del quale si profila la depressione del Colle di Tenda, sottopassato da una galleria stradale lunga 4 km., e da una galleria ferroviaria lunga il doppio. Ad onta della sua attuale appartenenza politica, l’alta valle del Roja rimane storicamente cuneese. Rudemente alpestre e precipite, ma quanto mai pittoresca, essa è attraversata più volte dalla strada e dalla ferrovia, che continuano il loro tormentato percorso con viadotti e gallerie. Sbucando su Tenda, lo sguardo è attirato dalle nere case della città vecchia, e i ricordi storici si appuntano su quella Beatrice Lascaris di Tenda che, andata sposa a Filippo Maria Visconti, fu da lui decapitata per sospetto adulterio. Scendendo ancora, ecco Briga Marittima, ed infine, in un fresco bacino con vasti castagneti, San Dalmazzo di Tenda. Di qui è difficile resistere alla suggestione che promana dal Monte Bego, dai trenta e più laghi d’ogni forma e d’ogni tinta, incastonati in tratti selvaggi e in conche nude ed isolate sui suoi fianchi. Ma un’escursione da quelle parti mirerà soprattutto ad accostare de visu le famose « meraviglie » : le migliaia e migliaia di figure preistoriche che ornano le pareti del monte, per vasti tratti levigate dall’azione glaciale.

    Termina verso oriente il grandioso anfiteatro delle vallate cuneesi la fresca e boscosa valle del Pesio, affluente del Tanaro. La valle ha modesto sviluppo in lunghezza, ma, scavata com’è sui fianchi della Besimauda o Bisalta, l’onnipresente montagna che è il simbolo del Cuneese, quasi il suo Monviso, si riveste della sua importanza. Ha però anche attrattive proprie, come i magnifici castagneti, le numerose sorgenti che dànno acque abbondanti e leggere, e l’antica Certosa di Pesio, per qualche tempo stabilimento idrotermale, ed ora restituita ad uso religioso.

    Come si è già detto, la cerchia delle montagne cuneesi rinserra un tratto della pianura padana sulle cui caratteristiche morfologiche s’è già, a suo tempo, insistito.

    Valdieri è circondata da rilievi di aspetto quasi dolomitico.

    Effettivamente quella cuneese è una pianura sui generis, per costituire un’alternanza di lembi elevati e piatti e di profonde depressioni in cui scorrono i fiumi. Ricche d’acque che s’infiltrano anche nel sottosuolo e danno inizio, presso Beinette, alla lunghissima fascia dei fontanili della pianura padana, le montagne cuneesi fanno parte generosa di tale ricchezza anche alla superfìcie della pianura sottostante, che trova nell’irrigazione un provvidenziale correttivo alla prevalente grossolanità dei terreni. Di qui un’agricoltura, e particolarmente un allevamento del bestiame, che rappresentano la vera, fondamentale, e quasi sola risorsa del Cuneese. Quasi sola, perchè lo sviluppo delle industrie è molto modesto. E ancora si tratta in maggioranza di industrie alimentari (caseifici, salumifici, fabbriche di carne in scatola, conserve, sottaceti).

    Limone Piemonte e la sua conca, quasi alla testata della vai Vermenagna.

    Più che l’industria ha importanza nel Cuneese il commercio. Centri di notevole movimento commerciale sono, oltre che Cuneo, i vari abitati che si trovano ai piedi della montagna, come Busca, dove la Maira si stacca dalla montagna stessa, come Boves e Peveragno, ai piedi della Bisalta, e specialmente quelli già ricordati, che sorgono allo sbocco delle valli, come Dronero, Caraglio, Borgo San Dalmazzo, Chiusa di Pesio. Il commercio è qui alimentato, oltre che da scambi locali, da esportazioni di bestiame verso la Liguria e da più frazionati traffici con la Francia, soprattutto in conseguenza dell’emigrazione e del turismo. Questo, di fatto, registra un numero crescente di Italiani e di Francesi, che ritornano al paese, o si recano a villeggiare in questa o in quella vallata, o anche semplicemente vengono a fare acquisti sui mercati più importanti. Ma per l’incremento delle relazioni commerciali sarebbe indispensabile ripristinare la Cuneo-Nizza o ridurla ad autostrada e sistemare la strada nazionale n. 22 per il valico dell’Argenterà.

    Caratteri ed aspetti quasi esclusivamente agrari hanno, invece, i centri che sorgono nell’aperta pianura. Fa, tuttavia, eccezione Fossano, in cui s’accentra buona parte dell’attività industriale del Cuneese, ma che soprattutto è importante come mercato. Tra i centri minori — come Centallo, Villafalletto, Trinità — Carrù è famosa per la fiera del bue grasso e merita un cenno Benevagienna, interessante non solo come patria del geografo e statista Giovanni Botero, ma anche per le antichità romane dell’antica Augusta Bagiennorum.

    L’estremo angolo suborientale del Piemonte alpino, costituito dal tratto montano della valle del Tanaro, da Mondovì, e dalle sue valli, può essere unitariamente considerato, non solo per la comunanza di un asse idrografico, qualè quello del Tanaro, ma anche perchè l’una e le altre valli appaiono incise nella massa degli stessi imponenti bastioni montuosi, dall’Antoroto al Pizzo d’Ormea, al Mongioie, al Marguareis. E va aggiunto che il largo sviluppo dei calcari in questi massicci crea tutta una serie di caratteri (grotte, doline, sorgenti carsiche, ecc.) che danno affinità al paesaggio dei due versanti: quello intagliato dalle valli monregalesi verso nord, e quello verso sud, scendente alla valle del Tanaro nel grande arco ch’essa descrive tra Ceva e Ormea.

    Nella pace riposante di rigogliosi castagneti s’adagia la Certosa di Pesio.

    Le valli monregalesi — la valle dell’Ellero, la vai Corsaglia, la vai Casotto e la vai Mongia — hanno una media lunghezza di 30 km. e si svolgono parallelamente con direzione complessiva sud-nord. La più importante, ed anche la più nota, è quella dell’Ellero. Nel suo bacino si trovano di fatto, vicino a Villanova Mondovì, la notevole grotta dei Dossi, ben fornita di stalattiti e di stalagmiti, con laghetti e una cascatella: a Lurisia le acque più radioattive d’Italia; a Frabosa Sottana, la grotta del Caudano, molto estesa, ossifera e molto ricca di concrezioni ; a Frabosa Soprana, dei campi di neve che accolgono sciatori da assai vasto raggio. In vai Corsaglia la maggiore attrattiva è rappresentata dalla grotta di Bossea, la Postumia del Piemonte, effettivamente una delle grotte più interessanti d’Italia per il sèguito di vaste sale, per la ricchezza delle concrezioni e per il gioco delle acque di un torrente che precipita in cascata per calmarsi in un cristallino laghetto. Ma in questi ultimi anni le esplorazioni speleologiche nelle alte valli cuneesi e monregalesi, fattesi sempre più frequenti, hanno condotto alla scoperta di numerose nuove grotte e specialmente al riconoscimento del complesso sotterraneo di Piaggia Bella (versante sudorientale del Marguareis). Questo costituisce oggi il sistema di cavità più esteso e più profondo d’Italia, avendo uno sviluppo complessivo di 5800 m. ed ha una profondità totale di 689 metri. Il complesso di Piaggia Bella sarebbe pertanto il secondo di tutto il mondo per profondità, non essendo superato che dal Gouffre Berger (Grenoble, Francia) che si sprofonda a —1133 metri. La vai Casotto e la vai Mongia non si staccano per aspetti curiosi e particolarmente attraenti, ma, come le consorelle, ricche di ottimi marmi, di folti boschi e di fresche sorgenti, serbano, più di quelle, intatte visioni di originaria bellezza e forme di vita primitiva. La pianura immediatamente sottostante a Mondovì si differenzia dalla cuneese per un certo sviluppo dell’attività industriale, con importanti stabilimenti a Magliano Alpi.

    Un tratto della pianura cuneese con lo sfondo delle Alpi Cozie e Marittime.

    Rovine dell’anfiteatro romano di Benevagienna.

    L’alta valle del Tanaro spicca specialmente per i suoi grandi boschi di castagni e, presso la testata, per le ampie praterie, profumate di lavanda. Ma anche ha importanza per le comunicazioni fra il Piemonte e la Liguria, perchè fra le montagne che ne costituiscono il fianco destro orografico e che sul versante opposto declinano in Liguria, si deprimono dei colli di modesta altitudine e di facile percorribilità — colle del Melogno che porta a Final Marina, colle del San Bernardo che scende ad Albenga, col di Nava, che immette ad Imperia —. L’alta valle del Tanaro più che dai Piemontesi è turisticamente frequentata dai Liguri, che apprezzano particolarmente la riposante frescura dei boschi intorno alle due località di villeggiatura preferite, Garessio ed Ormea. Garessio si trova a 25 km. di strada all’inizio della valle, dopo un suo restringimento, e si sparpaglia in piano e sui pendii vicini con tre borgate e numerose frazioni. Ormea è a 11 km. più in su, ma, per il lento salire della valle, è appena a 719 m. d’altitudine. La ferrovia ha dunque potuto addentrarsi sin qui, nel cuore della montagna, e portar seco qualche segno sparso di attività industriale, favorita tra l’altro dalla abbondanza e dalla purezza delle acque del Tanaro. A Ponte di Nava comincia la parte di testata della valle, che raccoglie da più rami le acque del Tanaro, e che è sforacchiata di cavità e di grotte, fra rocce a picco e baratri, mentre su vasti ripiani panoramici magri coltivi e buoni pascoli mantengono poveramente in vita villaggi molto caratteristici, come Viozene, Upega, Camino, dove dalle alte abitazioni a più piani a certi aspetti del costume locale, alla diffusione delle leggende, si palesa la forza conservatrice di una montagna, che il soffio vivificante del mare non lontano non è sufficiente a penetrare e a rinnovare. E quasi naturale, di conseguenza, che sia questa una delle zone del Piemonte in cui i segni dello spopolamento montano appaiono più profondi. In quasi tutti i centri si trovano abitazioni chiuse e del tutto abbandonate, con muri ed infissi cadenti. Qui le colture avevano raggiunto casi limite, con fasce su cui si coltivavano cereali vernini fino a 1400 m. d’altitudine. E qui, specialmente nell’area del colle di Nava, i terreni già coltivati ed ora completamente trascurati raggiungono una superficie non indifferente. Nello stesso tempo, e per le stesse ragioni, non pochi sentieri e varie mulattiere sono diventati impraticabili, mentre il bestiame bovino ed ovino ha subito sensibili diminuzioni. Paesaggio, insomma, e situazioni di cui, per fortuna, solo gli anziani avvertono la diffusa tristezza.

    Una grandiosa sala nelle grotte di Bossea.

    I marchesati e le Langhe

    Tra le subregioni del Piemonte ve ne sono due che, a differenza del restante del paese, riproducono alcune loro caratteristiche dalla secolare permanenza di una organizzazione statale, impersonata nel potere di due dinastie marchionali: quella di Saluzzo e quella di Monferrato. Formazioni, dunque, eminentemente storiche, ma come abbiamo già notato a suo tempo, non prive, nella loro configurazione territoriale, di una certa coerenza anche geografica. Così si può dire del Saluzzese, in quanto formato da un tratto caratteristico della catena alpina e della pianura sottesa. Effettivamente nel gruppo del Viso, che è l’alto pinnacolo del Saluzzese, le Alpi avvicinano alla pianura, come in nessun altro posto, un loro poderoso pilastro. E in nessun altro posto, quasi a sottolineare questo accostamento dello spartiacque principale al piano, un contrafforte alpino penetra così profondamente nel piano stesso, come quello alla cui estremità siede Saluzzo. Brevi, per conseguenza, sono le valli — la valle del Po e la vai Bronda — che appaiono scavate nel possente piedestallo su cui troneggia il Viso. Sembra strano che il massimo fiume d’Italia, il creatore, il plasmatore della pianura padana, debba avere un percorso montano così limitato.

    In realtà l’alta valle del Po è lunga appena una ventina di chilometri, dal Piano del Re allo sbocco in piano verso Revello, e, nell’insieme, appare quasi precipite, perchè su tale distanza supera un dislivello di 1670 metri. Fino a Paesana, però, il fondovalle, spazioso e fiancheggiato da bellissimi castagneti, sale lentamente. Le cose cambiano proseguendo verso Crissolo. A poco a poco la valle si fa ripida e si rinserra fra dirupi, formando quasi un’unica gola che si apre sulle praterie di Ostana. Contornando il promontorio su cui è il Santuario di San Chiaffredo, si arriva a Crissolo, centro di villeggiatura e di ascensioni nel gruppo del Viso. Anche senza proporsi di scalare la bella piramide, chi è a Crissolo si trova quasi in obbligo di arrivare almeno alle sorgenti del Po o ai parecchi laghi che s’incontrano andando verso il Rifugio Sella, o più su ancora al Buco di Viso o Buco delle Traversette. Così si chiama la galleria, scavata dal 1475 al 1480 per ordine di Ludovico marchese di Saluzzo, allo scopo di evitare, durante la brutta stagione, il disagevole e pericoloso passaggio del sovrastante colle delle Traversette e donde si scende nella valle del Guil. L’esteso dominio di pascoli nel tratto superiore della valle, e le possibilità agrarie del tratto sotto Paesana non sono sufficienti a rattenere la popolazione, che lascia sempre di più la valle per la Francia e la pianura. Curiosi sono alcuni tipi di mestiere, come la vendita dei fiori praticata in città da molte donne di Oncino, e l’incetta dei capelli per farne trecce e parrucche.

    Groppe calcaree e stazione di piscicoltura nella zona di Ormea,

    Paesana si stende all’ingresso della valle del Po.

    La valle del Po, che a settentrione una catena diramata dal Monte Granerò divide dalla valle del Pellice, a mezzogiorno confina con la vai Varaita, lungo la cresta di un poderoso contrafforte. All’estremità di questo contrafforte, che termina con lo sperone di Saluzzo, s’infossa la breve valletta (5 km.), del torrente Bronda, che si apre in piano nelle immediate vicinanze di Saluzzo. Più a sud s’addentra nella montagna e si spinge fino a contornare la massa del Viso la vai Varaita, la più importante delle valli saluzzesi. Ha uno sviluppo di 35 km. da Costigliole Saluzzo a Castel-delfino, dove si biforca nelle due valli della Varaita di Bellino, che mette al colle dell’Autaret, e della Varaita di Chianale. Fino a Casteldelfino il fondovalle è ampio e sale dolcemente, ospitando fra belle praterie e boschi di conifere, prima Venasca e poi, più importante, Sampeyre, luogo di villeggiatura assai noto. Superato il vecchio confine fra marchesato di Saluzzo e Delfinato, si entra nella Castellata. Così si chiamava il territorio dei tre comuni di Casteldelfino, Bellino e Chianale in possesso dei Delfini di Vienna dal 1373 al 1713. Le donne portano ancora il costume della Castellata, di ruvido panno di lana nera, a grandi pieghe, con vita alta, grembiule bianco o a colori e cuffia con ricchi pizzi. I pizzi al tombolo sono, anzi, una industria tipica della vai Varaita, con centro di più attiva lavorazione a Bellino. Ma è una industria in grande decadenza. Da Casteldelfino sale infine, per i villaggi di Bellino e di Chianale, chi tende agli alti valichi comunicanti con le valli della Ubaye e del Queyras, o chi vuol godersi lo spettacolo della smagliante fioritura che, nella prima estate, presentano i prati di fondovalle e i pascoli.

    Salendo verso il Monviso: Crissolo.

    Prima di ritornare alla pianura è bene sostare in qualche località delle colline che vi fanno passaggio. Nella bella stagione, ma meglio ancora d’inverno, non può non essere notato, fra i frutteti, i vigneti, i giardini delle numerose ville, il gran numero di palme, di magnolie, di piante mediterranee, che testimoniano di un clima particolarmente felice. Si potrebbe parlare di una « riviera saluzzese », ed in realtà questa soleggiata bordura collinare è del paesaggio saluzzese una nota caratteristica. Una serie di centri sorge, come Saluzzo, al piede dei rilievi ora ricordati. Bagnolo e Barge vi ostentano la floridezza dei loro esemplari frutteti. Revello è, come Barge, all’ombra di un altro promontorio saluzzese, il brullo Monte Bracco, che sporge in pianura come per congiungersi alla Rocca di Cavour. E sotto Saluzzo, Manta col suo massiccio, istoriato castello, Verzuolo conosciuta per le sue centrali idroelettriche, e specialmente per la più grande cartiera d’Italia, Piasco con le sue cave di calce e di gneiss, s’allungano esse pure alla base della montagna, tra Po e Varaita, al cui sbocco in piano è Costigliole Saluzzo.

    Lago e diga di Ponte Chianale in val Varaita.

    Azienda ortofrutticola nel Saluzzese.

    Nella verde, aperta campagna, abbondantemente irrigata, tra Saluzzo e Cavour, s’incontra il complesso di edifici dell’Abbazia di Staffarda, uno dei più interessanti monumenti del Piemonte. Avanzando verso oriente si fanno notare, tutti e tre scaglionati lungo la Maira, i grossi centri di Savigliano, di Cavallermaggiore e di Racconigi. Savigliano, in mezzo a ricche campagne, è più specialmente conosciuta per il suo sviluppo industriale, con importantissime officine di costruzioni ferroviarie. Cavallermaggiore è interessante per alcune antiche chiese, mentre Racconigi, fiorente un tempo per industrie seriche, può vantare il grandioso castello reale e il bellissimo parco che vi è annesso.

    Dallo sviluppo degli eventi storici il Monferrato è uscito, come subregione, con la curiosa caratteristica di esser diviso in due parti dal diaframma di un’altra unità storico-geografica, l’Astigiano. In termini fisici, il cosiddetto Basso Monferrato, corrisponde alle colline tra Gassino-Casale-Valenza Po; l’Alto Monferrato abbraccia le colline e le propaggini appenniniche a mezzogiorno di una linea, che partendo dalla strada Alba-Canelli-Nizza-Acqui-Ovada-Novi Ligure, risale tra la Bormida e la Stura, notevolmente a monte per le valli della Bormida, dell’Erro e della Stura. Tra colline dell’Alto e colline del Basso Monferrato s’infossa la valle del Tanaro. Le due parti ora ricordate del Monferrato hanno strette affinità di struttura geologica, ma dal punto di vista della morfologia e soprattutto della rete idrografica le differenze non mancano.

    Paesaggio monferrino fra Moncalvo e Cereseto.

    La collina Gassino-Casale-Valenza Po, con le sue ampie diramazioni verso sud, tutte foggiate in dossi tondi come cupole maestose, anche quando i pampini della vite sono nel massimo rigoglio, non è fresca del verde di tante altre colline. Il grigio cenere o rossastro delle marne e delle arenarie domina nei riquadri dei campi e tra i filari dei pulitissimi vigneti e sembra bene accordarsi con la siccità che è stata, ed è in parte ancora, il tormento di queste pur feraci terre monferrine. E relativamente recente il grandioso acquedotto che è venuto a dissetare un buon numero di Comuni del Monferrato settentrionale. Ma qui è, per quattro quinti, creazione umana anche il paesaggio vegetale, con l’estensione dovunque prevalente dei vigneti e più ancora con la rigorosa geometria che guida i filari intorno ai poggi e attraverso le vallette. Tutto questo apparato può ingenerare un senso di artificiosità e di monotonia in chi non vi è avvezzo. Ma quando si sale su qualche colle dominante e da una parte, oltre la pianura del Po, si vedono biancheggiare le Alpi su cui spicca il Rosa, e dall’altra parte, oltre la bassura del Tanaro, s’individuano le Langhe e più in giù l’Appennino ligure, continuato nelle Alpi Marittime, allora gli incanti della natura riprendono i loro diritti e s’impongono.

    Castelli e vigneti, glorie del Monferrato (Camino).

    Sulle dorsali collinose, come su aerei terrazzi s’allungano molti paesi del Monferrato (zona di Moncalvo).

    Dalla varietà di orizzonti come questi si può passare nel Monferrato alla idilliaca visione di angoletti degni della dantesca valletta dei prìncipi. Anche perchè la circolazione è facile fra queste colline. Si entra nel loro cuore per la strada che da Bru-sasco, superato il ciglio della dorsale, entra nella valle della Stura, l’unica longitu-dinaie tra le maggiori depressioni, che, come solchi scavati in un immenso campo arato, incidono il fianco meridionale del rilievo casalese. La strada, che ritorna sul Po a Pontestura, o può proseguire entro la collina fino a Casale, è in vista di alcuni fra i maggiori centri della regione — Murisengo, Villadeati, Mombello Monferrato, San Giorgio Monferrato — che svettano come tanti altri sulla sommità dei colli. Raccolti intorno all’immancabile castello o stesi sulle dorsali, questi centri danno la misura della molta gente che qui vive e lavora. I castelli, dei quali alcuni famosi, come quelli di Camino, di San Giorgio Scarampi, di Pomaro Monferrato, sono, oltre che uno spettacolo, un richiamo alla vivacità che qui conservava la vita feudale. Parecchie sono le strade che, attraversando la catena collinare, degradano con le sue valli verso la conca astigiana. E dovunque il fondo verdeggiante ed alberato delle vallette — la più importante è quella del torrente Versa — fa contrasto con i loro fianchi rivestiti di campi e di vigneti. Qualche viuzza laterale o un sentiero conduce a delle piccole sorgenti d’acqua solforosa o magnesiaca, di cui alcune, come la Pirenta di Murisengo, la Salera di Vignale, quelle di Villadeati e di San Salvatore, godono di una salutare rinomanza.

    Vedi Anche:  Confini, forma e area

    La vita di questi paesi, che vanno lentamente spopolandosi, rimane tenacemente agricola, e fondata in gran parte sulla viticoltura. Neppure i centri cementiferi del Casalese e i segni dell’attività mineraria la vincono sulle note bacchiche, ovunque dominanti nel paesaggio. Ma dappertutto è dato osservare che l’amorosa, quasi gelosa cura della terra e del vino lasciano nondimeno posto all’apprezzamento dei più alti valori dello spirito. Ne fa fede il santuario di Crea, simbolo religioso del Monferrato, uno dei luoghi di pellegrinaggio più celebri del Piemonte, su di un poggio panoramico, con le famose cappelle ricche di opere d’arte. Tutti, poi, i centri mon-ferrini, da Cocconato a Montiglio, da Villadeati a Mombello Monferrato, da Ottiglio a Occimiano, a Rosignano Monferrato, da Gabiano a Camino, per non ricordarne che alcuni tra i principali, hanno il loro patrimonio di bellezze artistiche e archeologiche, di curiosità storiche e paesistiche. Ed anche nel loro carattere i Monferrini, uomini di temperamento acceso e sanguigno, portano note di rustica gentilezza e di aperta cordialità, di cui sono espressione il colorito dialetto, altro elemento di coesione regionale, e gli antichi balli che sono diventati il segnacolo del folclore piemontese in genere. Sicché il valore turistico, diciamo così, del Monferrato, è notevole per diversi aspetti, tra i quali non va dimenticata l’attenzione dedicata alla cucina, che, ottima e sana, attira un buon numero di buongustai dalle vicine città.

    In luogo di costituire un’unica catena come le colline casalesi, quelle del cosiddetto Alto Monferrato si presentano, nell’insieme, come un insieme di dorsali parallele, separate rispettivamente dai solchi vallivi del Belbo, della Bormida e della Stura di Ovada, aventi tutti, grosso modo, direzione nordest-sudovest. Il paesaggio, per conseguenza, è più vario, e per chi segue i tortuosi fondivalle, più arioso, anche perchè, ben sovente, alla confluenza di due o più torrenti si sono formate vaste conche, dove sorgono i principali centri abitati. Anche qui predomina, a drappeggiare poggi e fianchi delle dorsali, il vigneto, e anche qui i molti agglomerati figurano come placche rossastre sulla cima dei colli. Ma il bosco, ridotto nel Basso Monferrato ad isolette superstiti sui pendii esposti a settentrione, nell’Alto Monferrato si è conservato meglio, e non di rado occupa discrete superfici sui pendii più ripidi, scendendo fino a valle. Strade e ferrovie principali seguono i fondi valle, ma le comunicazioni stradali e ferroviarie si sviluppano anche in senso trasversale congiungendo tronchi vallivi paralleli. All’incrocio delle due direzioni, commerci ed attività industriali han dato luogo allo svilupparsi di graziose cittadine.

    Così, il centro più importante della valle del Belbo è Canelli, la patria dell’« Asti Spumante » e di altri vini pregiati che gli vengono dalla corona dei suoi colli, e che danno lavoro a numerosi stabilimenti. In vai Bormida, poco a valle della confluenza delle due Bormide di Spigno e di Millesimo con l’Erro, dove il letto del fiume è già veramente appenninico e cioè molto ampio, si trova l’importante centro termale e industriale di Acqui, seguito nella stessa valle da centri minori come Rivalta Bormida, Castelnuovo Bormida, Sezzadio. Centro principale della valle della Stura è Ovada, alla confluenza con l’Orba, noto centro ferroviario e industriale. Come un tempo, anche oggi, queste boscose convalli, dove al rarefarsi delle colture s’accompagna il moltiplicarsi di ville e di giardini, incanalano le grandi arterie del traffico di parte del Piemonte e della Lombardia con la Liguria.

    Il Basso e l’Alto Monferrato (qui siamo nei pressi di Canelli) sono accomunati dalla passione per la vite.

    Alla conca pliocenica depressa tra i due Monferrati, diciamo così, abbiamo veduto corrispondere, con la sua uniforme livellata distesa di fulve colline, quasi completamente rivestite di vigneti, l’Astigiano, esteso quanto il dominio territoriale di Asti, Comune e Repubblica. Asse della subregione è l’ampia valle del Tanaro, che s’incanala tra le aride dorsali collinose come un’oasi di frescura e di verde, e su cui l’irrigazione consente colture di alto reddito (orti e giardini), specie nelle vicinanze della città capoluogo. Sul fondo dell’incavato solco vallivo il Tanaro divaga, spesso allargandosi in più braccia, o formando dei meandri. Non è qui il caso di ricordare l’importanza vitale di questo corridoio obbligato per le comunicazioni di Torino e di gran parte del Piemonte con Genova, Bologna e il resto d’Italia. Sarà, diremo, fatalmente portata a passarvi anche la futura autostrada Torino-Piacenza. Ma la vita sembra ritrarsi dalla pianura alluvionale soggetta ai capricci del fiume, per raccogliersi al sicuro, sulle pendici collinose che lo sovrastano. In realtà, per l’Astigiano la valle del Tanaro è una via di passaggio: ciò che veramente conta è la collina, con la sua produzione di vini generosi, fra cui classicamente astigiano il « Barbera ».

    Poca parte del fianco destro della valle del Tanaro rientra nei confini della subregione, che si estende invece assai di più sul versante sinistro. Lungo questo versante, dai piedi delle colline di Torino e di Casale scende verso il Tanaro una fitta rete di vallette, convergenti nella zona di Asti. E così la geografia ha servito a dare una sua ossatura all’àmbito territoriale della turrita città. Anche e soprattutto perchè le maggiori di queste vallette sono percorse da strade che hanno assicurato ed assicurano le più rapide comunicazioni della pianura torinese, della vai d’Aosta, del Canavese, del Vercellese con Asti. La strada e la ferrovia Torino-Genova, scendendo dal Dusino, imboccano un seguito di depressioni che le conducono ad Asti. Da Chivasso, la strada che segue il torrente Leona, tra la collina di Torino e quella di Casale, si unisce sotto Cerreto d’Asti, con la strada che viene da Chieri per Castelnuovo Don Bosco, e passando a Montechiaro d’Asti, s’allinea con la ferrovia Chivasso-Asti, e la segue fino ad Asti. Un’altra coppia strada-ferrovia, partendo da Casale, ne attraversa la collina e, toccando l’importante centro di Moncalvo, si infila nella vai Versa, che la porta ad Asti. Questa però, decaduti i commerci e le industrie, ha partecipato sempre più da vicino alla vita dei suoi colli e dei suoi vigneti. Oggi, questa vita, lo abbiamo accennato a suo tempo, attraversa un periodo di difficoltà, che incidono anche sulla psicologia dei coltivatori. Quelli che si dichiarano vinti, emigrano, quelli che rimangono, piegano il loro carattere, chiuso in un geloso individualismo, a forme di cooperazione e di attività sociale. Così un soffio di vita nuova penetra nei vecchi paesi, ammassati o allungati sulle cime dei colli, da Mon-tafia a Tonco, da Portacomaro a Montemagno, a Costigliole d’Asti, a Mombercelli.

    Il frazionamento politico territoriale, già in atto nel Monferrato con la sua bipartizione, ha assunto aspetti avanzatissimi nelle Langhe, dove fino al 1748 è riuscita a perdurare una minuzzaglia di feudi che si protestavano ligi al Sacro Romano Impero, per potersi meglio mantenere indipendenti dai Signori genovesi e dai Savoia, i più vicini e pericolosi aspiranti al loro dominio. Questa posizione di pratica libertà e di autonomia, favorevole all’esercizio di un lucroso contrabbando, trovò aiuto nella natura selvaggia, boscosa, e, tutto sommato, poco redditizia, dell’insieme collinare delle Langhe, che anche fisicamente, come abbiamo veduto, si stacca dalle subregioni circostanti. Tra il solco del Tanaro, da Ceva quasi ad Asti, e la Bormida di Spigno da Bistagno a Cairo Montenotte, s’allungano parallelamente da sud-sudovest a nord-nordest le alte dorsali separate all’interno dal Belbo e dalla Bormida di Millesimo, col suo affluente Uzzone. Tra la dorsale più occidentale e il margine del sistema collinare, intaccato dal Tanaro, alcuni rapaci torrenti, il Tallona e il Cherasca, hanno aperto delle vaste conche, che sboccano su Alba, contribuendo a creare intorno alla città un alone di terre tributarie che, varcato il Tanaro, si spinge sino a Cherasco ed a Bra, per inoltrarsi nelle colline del versante opposto, fino alla Montà ed a Canale.

    L’Albese, con le sue molli ondulazioni dove fruttificano le pesche di Canale e le viti che dànno i vini ben noti di Barolo, di Neive, di Barbaresco, di La Morra, di Castiglione Falletto, di Verduno, di Roddi, di Grinzane, di Diano d’Alba, si può considerare come una invitante anticamera delle Langhe. Ha, di fatto, tratti molto simili a quelli del Monferrato e dell’Astigiano, compresa la larga diffusione delle industrie, dei vini e dei liquori, con centri importantissimi, quali Santa Vittoria d’Alba. Di caratteristico, tuttavia, ha la maggiore estensione e la imponenza delle forme di erosione nelle marne e nelle sabbie, ad opera del Tanaro e dei suoi affluenti (le Rocche di Pocapaglia, ad es.), e una più varia ed intensa attività industriale, sviluppata soprattutto in Alba ed in Bra. La valle del Tanaro, già interessante, pittoresca per sè, ricca eli memorie del passato, come le rovine romane e il castello reale di Pollenzo e la scenografica cittadina di Cherasco, offre dalla ferrovia che la percorre, diretta a Savona, una suggestiva visione del margine occidentale delle Langhe.

    Anche le case isolate nell’Albese sorgono di preferenza sulle sommità dei colli.

    Belvedere Langhe è al centro di una stupenda cerchia di montagne e di colline.

    Ma le vere Langhe, le Langhe selvagge, offrono, insieme agli incantevoli panorami della cerchia alpina dalle alte dorsali, più rudi visioni di dettaglio, sia per la minore frequenza di centri abitati, sia per l’estensione dei boschi, che scendono giù fino al piede dei versanti, sui fondivalle. Questi sono generalmente ampi, e alla confluenza di torrenti e di strade accolgono centri di discreta importanza, come Cortemilia, Monesiglio, Santo Stefano Belbo, Bubbio. Ma talvolta si rinserrano e rendono meno facile il transito. Anche per questo, le strade seguono spesso le creste, sulle quali si sono fatti pure posto paesi tranquilli e solitari, come Muraz-zano, Bossolasco, Belvedere Langhe, Roccaverano, per non ricordare che i più popolosi. Quanto alle comunicazioni, è particolarmente interessante la parte già submontana delle Langhe, fra Ceva ed Altare, attraversata dalla strada e dalla ferrovia, che per Cadi bona portano a Savona. Molto le Langhe si aspettano dalla costruzione della camionale Ceva-Savona, entrata recentemente in funzione, perchè, lo abbiamo già ricordato, la regione delle Langhe è considerata come zona economicamente depressa e quindi attende provvidenze per diminuire la disoccupazione. Ma il male è profondo, e non bastano, a curarlo, i rimedi temporanei. L’isolamento, forse più psicologico che reale, è aggravato dalla lontananza del capoluogo di provincia, Cuneo, e dall’uniformità dell’ambiente geografico-economico, un po’ sonnolento nella patriarcale osservanza alle forme del passato.

    Un angolo di Macugnaga con case moderne arieggianti il tipo vallesano.

    Le terre di nuovo acquisto

    Affonda le radici nell’esistenza di un municipio romano e di un carolingico comitato oxillense la distinzione di un’« Ossola » per indicare la valle della Toce, che sulle carte geografiche, stretta com’è tra il Vallese e il Canton Ticino, appare simile ad un dito puntato in direzione della Svizzera. L’individualità complessa che è alla base di una regione, l’Ossola la ricava non solo dalla sua lunghezza — la Toce si snoda per 83 km. — e dalla sua ampiezza — il bacino idrografico della Toce abbraccia 1600 kmq. — ma soprattutto dal diverso aspetto dei suoi vari tronchi. Ampio, solenne, un po’ triste quello della vai d’Ossola strido sensu, dal lago Maggiore alla piana di Domodossola: più serrato e ondulante il tronco mediano, di vai Antigorio: magnifica conca alpina il tronco superiore o di vai Formazza, ricco d’acque, di boschi, di pascoli. Sul fianco occidentale della vai d’Ossola s’apre, andando da sud a nord, la pittoresca valle Anzasca, che conduce al famoso bacino di Macugnaga, il « Belvedere del Monte Rosa ». Sullo stesso fianco, dopo la valle Anzasca, si diramano soltanto la solitaria valle Antrona e la stretta valle termale di Bognanco. Quindi, pochi chilometri dopo Domodossola s’apre la valle di Vedrò, tosto strozzata in una orrida gola attraverso cui punta al Sempione. Nel fianco orientale appare inciso un solo solco vallivo importante: quello della vai Vigezzo, incassata nella parte inferiore, spaziosa e bellissima nell’altopiano di Santa Maria Maggiore.

    Più che la cerchia delle alte cime da cui è delimitata, dà una particolare fisionomia all’Ossola la struttura dell’imponente basamento gneissico in cui sono scavate le valli. E un basamento che imprime alle valli stesse il frequente aspetto di un corridoio a pareti compatte, in cui si leggono nettamente scolpite le memorie dell’antico passaggio dei ghiacciai, mentre in alto il rilievo è foggiato in enormi panconi di gneiss che fanno gradino al regno delle vette. Questa disposizione quasi orizzontale di strati tenacemente impermeabili ha favorito il formarsi di numerosi laghi a varie altitudini, e quindi la loro ormai completa utilizzazione come serbatoi idroelettrici. Sotto questo riguardo l’Ossola forma uno dei sistemi idroelettrici propriamente integrali. La stessa plastica del suolo a grandi banchi sovrapposti ha determinato il moltiplicarsi dei salti d’acqua, tra i quali è celebre la cascata della Toce, detta «la Frua», splendida al momento dello sciogliersi delle nevi.

    Ma oltre al paesaggio fisico anche quello umano varia nelle diverse parti dell’Ossola. La bassa valle è ormai orientata a diventare un attivo distretto industriale. Già centro di cultura e severa cittadina di uffici e di commerci, Domodossola ha anche assunto importanza come centro metallurgico e meccanico. Ma vera cittadina industriale è diventata Villadossola, e poco a sud, vicino al vecchio borgo di Piedi-mulera, Pieve Vergonte si è trasformata nell’operaia Rumianca. In decadenza, per contro, è la vita agricola nella media montagna, dove lo spopolamento ha creato vuoti paurosi ed è reso manifestamente visibile, oltreché dalla rovina delle case, dall’abbandono dei campi e dei vigneti sui cui terrazzi s’installa subdolamente una boscaglia degradata.

    In tutt’altro ambiente si passa entrando in vai Formazza, solitario reame dell’alta montagna, dove guardiani delle dighe dei laghi, boscaioli e tenaci mandriani vivono una vita isolata e quasi immobile. Rifugi ed alberghetti portano un po’ di animazione estiva nelle incantevoli conche dell’Alpe Veglia e in quella di Devero. Ma anche molti villaggi sparsi sul fondovalle sono interessanti per la loro bionda popolazione di origine vallesana, e cioè svizzera, parlante un duro dialetto alemannico: per le loro case, a suo tempo descritte, dal rude e pure elegante aspetto esterno, intessute di travi di spesse tavole di pino, di finestrelle minute con le tendine bianche e i fiammanti gerani; per gli interni squisitamente accurati e confortevoli. Ma nella bassa valle Antigorio riprende il suo dominio il solido gneiss locale con cui son fatti palazzotti e chiese di belle proporzioni classiche, influsso della pianura padana. Del resto l’Ossola, già dominio visconteo e quindi milanese, è sempre più aperta, con la grande via da Milano al Sempione, all’influsso della pianura lombarda. E procedendo verso sud viene a sboccare ad un tratto nell’aperto bacino lacuale di Stresa, Intra e Pallanza.

    Nell’alta valle del Cervo. Frazioni compatte (Piedicavallo) in mezzo a folti boschi

    Tetti e comignoli caratteristici sulle case di Craveggia (val d’Ossola).

    Forse più gli stranieri che gli Italiani tengono nel giusto pregio le bellezze della regione piemontese del Verbano, con le famose isole Borromee, con i parchi, i giardini e le ville antiche e nuove, che si sono man mano arrampicate fin quasi al supremo belvedere del Mottarone (1491 m.). Un clima fatto quasi mediterraneo dalla cospicua massa d’acqua del lago, ma con interferenze di carattere subtropicale per l’abbondanza della umidità e delle precipitazioni — non per nulla Gignese è la patria degli ombrellai — offre un’oasi di riparo a freddolose genti del settentrione europeo. Ma ad un tempo questo mite clima suscita e tiene in perfetto rigoglio una esuberante vegetazione arborea, con un sottobosco che meraviglia per la taglia dei rododendri e delle felci alte come arbusti. La misura di ciò che clima e vegetazione possono dare in questi luoghi, con l’aiuto dell’uomo, si ha nei giardini delle isole maggiori, dove fan bella figura di sè, cedri, aranci, limoni, allori, magnolie, colossali camelie, oltre a splendide conifere ed a grandi piante rare.

    Sono queste del clima, dell’aperta luminosa conca lacustre, della spettacolare fioritura, le risorse locali, chiamiamole cosi, che sono alla base dell’economia essenzialmente turistica della zona. Ma, come giustamente osserva il Bonfantini, l’affollamento internazionale — di cui può fornire una idea a Stresa, per esempio, il movimento delle macchine sul lungo lago in una bella domenica estiva — non soffoca in sostanza la vita propria di questi paesi. Dietro alla facciata dei suoi grandi alberghi, Stresa continua nelle vecchie stradicciole la sua funzione di piccolo emporio lacustre e prealpino. Le isole sono occupate, l’una da un palazzo rinascimentale e dagli splendidi giardini pensili dei Borromei, l’altra da un autentico paesetto di pescatori che le ha dato il nome. A Baveno la quiete delle ville, degli alberghi, delle terme è rotta di quando in quando dal rombo delle mine che, squarciando i fianchi del Mottarone, preparano l’escavazione del bel granito rosa.

    Andando verso Arona, e cioè verso la parte inferiore del lago, la montagna si fa meno precipite. Strada e ferrovia possono più comodamente snodarsi fra il succedersi dei paesi — Belgirate, Lesa, Meina — e delle ville fiorite. Da Arona, sormontata dalla gigantesca statua di San Carlo, il popolare « San Carlone », la vista è richiamata dalla parte opposta su cui spicca la pittoresca Rocca d’Angera e dalle ondulazioni dello sfondo collinoso che accompagna il primo riformarsi del Ticino. L’ariosa dorsale montana, che, dalla cuspide del Mottarone declina alle ultime alture di Arona e di Oleggio Castello, è il Vergante: così si chiama la piccola unità regionale interposta tra il lago Maggiore e il lago d’Orta o Cusio. Il bacino del lago d’Orta, come area, è cosa modesta (102 kmq.) relativamente agli altri laghi della famiglia subalpina, ma il fatto di rappresentare l’unico membro della famiglia stessa che sia interamente piemontese gli conferisce un prestigio che non è soltanto regionale e che regge anche dal punto di vista del paesaggio.

    Il non ampio giro della montagna getta una lieve ombra di tristezza sull’insieme della conca. Quest’ombra cade principalmente dalla ripida, boscosa, solitaria riviera occidentale, o valsesiana, sotto la quale il lago è cupo, e fresco il clima, anche in piena estate. La riviera orientale, la riviera d’Orta, degrada al contrario lentamente ed è tutta dolce e fiorita, aperta al sole della pianura, popolata di giardini e di ville, che interrompono filari e filari di vigneti. Orta e l’isola di San Giulio sono nuclei superstiti di tempi che in breve spazio amavano compendiare tutte le sedi della vita intellettuale, economica e sociale: cittadine in miniatura, cui palazzetti patrizi e solide case borghesi danno un tono di rustica signorilità.

    Ma se qui la piccola regione del Cusio vive fra i ricordi del passato un placido ritmo commerciale, turistico ed agrario, alle due estremità del lago sono venuti creandosi aree di notevole attività industriale. Le acque della Nigoglia e dello Strona, che portano, andando « in su », quelle del lago d’Orta alla Toce, hanno richiamato in vai Strona le prime fabbriche che poi, sviluppandosi sempre più numerose da Omegna a Gravellona Toce, sono venute a gravitare verso l’Ossola e, praticamente, a far parte del suo distretto industriale. Ad animare questo fiorire d’industrie, principalmente tessili e meccaniche, è, di fatto, intervenuta la ricchezza idroelettrica dell’Ossola che, per riversarsi in pianura, ha scelto di passare per il corridoio della vai Strona e sul fianco orientale del lago, dove pali e conduttori s’inseguono fitti. E accanto alle maggiori e medie fabbriche sono numerose le modeste aziende, tra le quali ricorderemo quelle per la bucatura delle pietrine da orologi: procedimento paziente che dà luogo ad un intenso traffico, alimentato dalla vicina industria svizzera degli orologi.

    All’estremo opposto del lago d’Orta, il meridionale, tra un ondeggiare di basse colline il paesaggio industriale riprende, ma più sparpagliato, con centri a Gozzano, Bolzano, Gargallo, giù fino a Borgomanero. Sono stabilimenti tessili, chimici, meccanici e fabbriche di laterizi. La regione del Cusio prosegue declinando verso la pianura in una fascia di «medie terre» che spaziano fra Sesia e Ticino: terre di mosse alture, come a Gattico e Bogogno, e di riposati altipiani come ad Oleggio. Quando s’entra in pianura, s’entra nel cuore del Novarese. Del Novarese vero e proprio, perchè non manca chi, in omaggio soprattutto a presenti (e passati) limiti amministrativi, vorrebbe includervi, oltre all’Ossola, la Valsesia e addirittura il Biellese, mentre l’area di più diretta influenza della città rimane contenuta fra la regione dei laghi, il Ticino e la Sesia. Verso sud, più che da un ulteriore deprimersi ed arricchirsi d’acque della pianura, il confine del Novarese con la Lomellina è dato dalla storia, coincidendo sostanzialmente con quello che separava i due antichi comitati di Lomello e di Novara.

    Un tranquillo, vecchiotto centro del lago Maggiore (Feriolo)

    isola di San Giulio nel lago d’Orta e un lembo di antico paesaggio rimasto come sospeso nel tempo.

    L’impronta della città, tanto più energica in quanto non contrastata da altri centri urbani, giunge alle terre circostanti soprattutto attraverso un alone di stabilimenti industriali, che s’inspessisce in direzione del Ticino, inglobandovi i Comuni di Cameri, di Galliate, di Romentino, di Cerano. Ma impianti chimici, brillatoi di riso, manifatture tessili, raffinerie di petrolio non creano un proprio ambiente: rimangono come sommersi in una atmosfera sostanzialmente agricola, di cui sono come un simbolo le risaie che stagnano alla periferia di Novara. Un’agricoltura meno pingue, meno specializzata, meno meccanizzata, di quella della vicina pianura lombarda. E non è questo il solo carattere per cui bisogna riconoscere al Novarese una sua fisionomia di terra di « marca », di confine. Piemonte esso è ancora dal punto di vista fisico, per la mancanza di quella ridente zona di laghi, di colline, di prealpi, che s’incontra subito al di là del Ticino. Ma già Lombardia per dialetto, dove tuttavia, se lombardo è il vocabolario, subalpina per una certa quale durezza è la pronuncia. Anche nel carattere della gente la mescolanza, favorita dalla facilità delle comunicazioni, si fa sentire. Si attribuiscono, di fatto, ai Novaresi una mentalità più aperta, di quella piemontese, alle imprese, alle novità, ai commerci, ma non l’audacia nelle stipulazioni e la generosità propria dei Milanesi: che anzi, il carattere continua a rimanere un po’ chiuso, poco proclive agli slanci e agli entusiasmi.

    L’alta val Sesia alterna asprezza di vette e morbidezza di pascoli.

    Il santuario di Varallo s’erge come simbolo della spiritualità valsesiana…

    … mentre in basso le fabbriche testimoniano di fortunate attività pratiche. Maglificio a Quarona.

    Tra le vallate alpine del Piemonte, quella scavata dalla Sesia in una fiancata del massiccio del Rosa ha indubbi caratteri di originalità. Dovendosi adattare al più ampio disegno della Valdossola a settentrione e della valle d’Aosta ad occidente, la Valsesia ne è uscita relativamente piccola — ha una lunghezza di 63 km. e una superficie di 760 kmq. — e piuttosto disugualmente configurata. E vero che dal bastione calcareo del Monfenera — lembo isolato di una mancata prealpe piemontese — e dalla confluenza del Sessera fino a Varallo e alla stretta di Roccapietra, la bassa valle appare diritta, ampia e serena, allargandosi sulla sinistra nelle rigogliose, ridenti convalli di Cellio e di Valduggia. Ma oltre Varallo e su su fino ad Alagna, la Sesia è costretta a frequenti, quasi capricciosi cambiamenti di direzione. E anche il versante di destra — quello di confine con il Biellese — non lascia posto che a brevi valloni, mentre quello di sinistra si dilata in un ventaglio di vallate secondarie della maggiore unità oroidrografica: la vai Piccola o Sermenza, la vai Mastallone, le vallette del territorio di Varallo.

    La muraglia di fondo del massiccio del Rosa, se decora la suprema testata della valle principale con uno spettacolo di vette e di ghiacciai che ha poche possibilità di confronto, ha, per altro, reso quanto mai difficili le comunicazioni dell’alta Val-sesia con i grandi solchi vallivi contermini. Non solo la Valsesia non conduce a qualche importante valico transalpino, ma anche i colli ed i passi, per lo più altissimi e faticosi, che dànno sull’Ossola ed in vai d’Aosta, mettono in parti secondarie delle valli stesse. Queste difficoltà di transito non hanno impedito ai Vallesani, arrivati dalla Svizzera in vai Anzasca, di traboccare di qui in alcuni comuni della Valsesia superiore — Alagna, Carcoforo, Fobello, Rima e Rimella — e di inserirvi una nota di colore, specialmente manifesta per le tipiche abitazioni in legno. Ma la Valsesia è rimasta comunque chiusa in un isolamento che, se l’ha privata di determinati vantaggi economici, le ha valso, per altro, una vita relativamente tranquilla, e l’affermazione di una sua unità anche storica, concretatasi assai presto nella Comunità generale della Valsesia. Da allora, e cioè dalla prima metà del secolo XIII, per cinque secoli i Valsesiani difesero validamente, pure in seno a maggiori unità politiche, la loro autonoma organizzazione popolare.

    Un centro agricolo e industriale dell’Alessandrino: Spinetta Marengo.

    Di questa autonomia ha beneficiato anche la bassa valle, ancorché largamente aperta verso il bacino del lago d’Orta su di un fianco, e sull’altro verso il Biellese, attraverso quella vai Sessera, che è tradizionalmente ed economicamente biellese, pur convogliando le sue acque alla Sesia. Ricca di pascoli per essere abbondantemente piovosa, la Valsesia ha sviluppato, come il contiguo Biellese, l’industria laniera, ma limitatamente alla valle inferiore (Borgosesia). Anche l’industria cartaria, insieme ad altre attività manifatturiere, ha trovato nella ricchezza e nella costanza delle acque un ambiente favorevole. Ma nell’alta valle, nè il pascolo, nè la stentata agricoltura, nè qualche risorsa mineraria, e neppure il bosco, potevano bastare a mantenere la crescente popolazione. Di qui, da parte degli uomini una specializzazione di mestieri – scalpellini, decoratori, stuccatori, capimastri, lattonieri, albergatori — ed una antica migrazione che hanno fatto rifluire in valle discreti guadagni.

    Si deve, probabilmente, a questa agiatezza e alla tranquillità goduta per lunghi periodi se la Valsesia si è arricchita attraverso i tempi anche di una serie di manifestazioni artistiche, pittoriche ed architettoniche, di sviluppo, se non di ispirazione, locale, che culminano, come è noto, nel celebratissimo Sacro Monte di Varallo, illustrato dai capolavori di Gaudenzio Ferrari. Ma in tutta la Valsesia sono frequenti le chiese, le cappelle, le pareti affrescate, testimonianti l’abilità raggiunta da numerosi ottimi artefici nel campo della pittura, della scultura, del disegno, della tecnica costruttiva. Gusto e sensibilità artistica risultano anche nello slancio e nell’armonia di linee delle abitazioni, spesso adorne di snelli loggiati, nella lavorazione del puncett (puntetto), magnifica trina ad ago, nei diciannove tipi di costumi femminili, che permangono in tutta la parte superiore della valle, ammirevoli per la ricchezza e la varietà dei ricami e dei colori. Essi, insieme alla « torre di roccia » di Boccioleto, alla gula (orrido) di vai Mastallone e alle grotte ossifere del Monfe-nera, costituiscono altrettante « curiosità » della Valsesia. Non meno curiose, però, sono certe forme di attività artigianali di antica origine, come le fonderie di campane che dànno rinomanza a Valduggia, o di moderna applicazione, come le rubinetterie e le minuterie metalliche, che dalla Valsesia trapassano al versante occidentale del Cusio.

    Novi Ligure concentra comunicazioni e fabbriche in una amena cornice di colline.

    Quella pianura di Alessandria, compresa fra le estreme propaggini orientali delle colline del Basso e Alto Monferrato, che, per la sua posizione dominante lo sbocco della valle del Tanaro verso la Lombardia e l’Emilia, ebbe in passato una individuazione e una fama affidate soprattutto alla funzione di campo di battaglia, oggi figura meglio come subregione per le sue caratteristiche agrarie. Così, ai ricordi della battaglia napoleonica, nella pianura di Marengo s’affiancano le realizzazioni dell’industria zuccheriera. Plaga cerealicola per eccellenza, l’Alessandrino ha, come alla Frascheta, zone poco produttive per scarsità d’acqua, ma, col ricorso a falde freatiche ed artesiane profonde, ha trasformato la piatta distesa del suo territorio in ben curate campagne. E dove l’acqua è in abbondanza, come può fare Castel-lazzo Bormida traendola dal fiume omonimo, si ottengono colture orticole su scala industriale. Ma la posizione della pianura di Alessandria, se non gioca più, almeno come un tempo, in campo strategico, ha un’importanza di prim’ordine in quello delle comunicazioni, comandando rapporti stradali e ferroviari, tra Piemonte, Lombardia, Liguria ed Emilia. E una specie di plaque toumante del traffico, per cui Alessandria fa sistema con le cittadine « ferroviarie » che sorgono al margine della sua pianura e all’imbocco delle boscose valli appenniniche: Ovada, Novi Ligure e Tortona. Queste cittadine sono, a loro volta, centro di una raggiera di comunicazioni fra pianura e vallate, che ne fa attive piazze commerciali, e che s’innesta sulle grandi linee di trasporto. Condizioni queste favorevoli al sorgere e allo svilupparsi di manifatture, tra le quali basterà ricordare le industrie dolciarie e meccaniche di Novi, e quelle meccaniche e tessili di Ovada.