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I rilievi e le coste

    Il rilievo

    Costituzione geologica

    La massa di terra emersa che costituisce l’Emilia fa parte del complesso appen-ninico-padano. Non vi è a questo riguardo originalità o autonomia. Come si è estroflesso, nelle varie fasi del suo corrugamento, il sistema appenninico, si è sollevata la parte di esso che rientra neirEmilia; come si è svolto l’innalzamento e riempimento del golfo padano, così si è formata la parte della pianura che rientra nell’Emilia.

    La struttura geologica della zona montuosa non presenta più — all’occhio dello studioso — la lineare semplicità ritenuta un tempo: un’ossatura di masse eoceniche, più o meno piegate sopra un nucleo mesozoico, e ricoprimenti successivi nel tempo e nello spazio, da monte a valle, dei vari orizzonti miocenici e specialmente pliocenici, immergentisi infine sotto l’ultimo mantello alluvionale quaternario del piano.

    Le perplessità maggiori e le controversie più accese sono dovute alla presenza della formazione tanto caratteristica quanto enigmatica delle argille scagliose.

    Caratteristica della nostra regione per la sua diffusione nell’Appennino emiliano, quindi per sua importanza nel determinarne forme ed evoluzione del rilievo e per i suoi riflessi sulla idrografia, la vegetazione, le condizioni di vita in genere.

    Enigmatica per la sua costituzione complessa e per la sua ricchezza di elementi evidentemente estranei; per la difficoltà di una datazione in mancanza di una documentazione paleontologica limitata ad un’età definita; per la sua varia e talvolta apparentemente contraddittoria posizione stratigrafica in rapporto alle altre formazioni.

    Queste argille devono essersi formate per sedimentazione in mare profondo. Ma, secondo l’ipotesi ormai più comunemente accetta, dopo e fors’anche durante la deposizione sono state sollecitate dai movimenti delle masse più rigide sottostanti e portate, plastiche e pastose per loro natura, a scivolare, a franare sui pendìi che queste venivano presentando. Così le argille assumevano il loro abito scistoso e « scaglioso », travolgevano quanto emergeva ad ostacolarne il cammino, e dove si sono arrestate hanno presentato infine quell’assetto caotico, ricco di interclusi di varia dimensione, origine ed età, che ne costituisce l’altro carattere dominante. Secondo la definizione del Penta le argille scagliose sono « la formazione alloctona nata per frane e scivolamenti sui pendii delle rughe orogeniche nel periodo che va dal Cretaceo superiore al Pliocene e ricoprente vaste aree dell’Appennino ».

    Di tale formazione non si dovrebbe quindi cercare di sistemare nella cronologia tanto l’età di costituzione degli elementi litologici che la costituiscono (scisti argillosi, argille, interclusi litoidi), quanto quella dell’arrivo, per così dire, dei suoi ricoprimenti là dove sono attualmente constatati nella serie delle formazioni stratificate.

    Ad ogni modo in sede di geografia più che la definizione di un’età di questa e delle altre formazioni, interessa la loro distribuzione in superficie nella loro natura litologica, di quali materiali, insomma, si tratta. Perchè è dalla natura di questi, che dipendono da un lato il loro comportamento di fronte ai fattori di trasformazione della plastica esterna, quindi le « forme del rilievo » che si constatano ; e dall’altro lato dipendono le attitudini che il suolo presenta per l’avvaloramento economico (pascolo, bosco, colture arboree, arbustive e erbacee; risorse minerali) oltre che le condizioni tecniche per le opere umane di adattamento del paesaggio naturale (suolo, idrografia, ecc.) e di sovracostruzione (dighe di ritenuta di laghi-serbatoi, strade, ferrovie, abitati, dimore, stabilimenti industriali, ecc.).

    Carta geolitologica.



    Evidentemente interesserebbe anche, accanto alla conoscenza delle condizioni litologiche in superficie, quella della disposizione tettonica delle stesse in profondità. In quanto da queste dipende il riconoscimento della presenza e l’accessibilità delle risorse minerali, la circolazione delle acque sotterranee e quindi le possibilità di loro sfruttamento e, nel caso di opere che debbono spingersi entro il rilievo (come, per es., le gallerie ferroviarie e stradali e gli acquedotti) fondamentali condizioni tecniche per la loro esecuzione.

    La ricostruzione della tettonica del paese ha compiuto passi notevoli negli ultimi decenni in ciò che riguarda i suoi aspetti di dettaglio (in zone peraltro limitate) per via dell’esperienza che se n’è fatta con la costruzione delle grandi e minori gallerie attraverso il rilievo e, in pianura, con la prospezione geofisica per l’individuazione delle anticlinali impermeabili sotto la coltre quaternaria oltre che con l’esperienza delle ormai numerosissime perforazioni che vi sono state eseguite, negli strati più superficiali per la ricerca delle falde artesiane e in profondità per quella dei giacimenti metaniferi.

    Con tutto ciò lo studio della tettonica « in grande », dei grandi assi di corrugamento, delle grandi linee di frattura e di faglia, degli eventuali ricoprimenti, ecc., lascia tuttora largo campo a indagini e discussioni, pur se nelle linee generali sembri senz’altro accettabile la ricostruzione che il Merla ne ha fatto per l’Appennino settentrionale in genere e che a noi interessa per la parte limitata compresa nei confini della regione (i).

    Intanto l’età del corrugamento al margine padano-adriatico deve essere più recente di quello dalla parte tirrenica. Il Miocene superiore è ancora coinvolto dalle dislocazioni, come le rughe, in genere, debbono ritenersi anteriori l’una rispetto all’altra adiacenti più a nordest.

    Esse sono distinte da una struttura a faglie, sia normali che inverse. Le faglie normali, di solito ben osservabili, si trovano sul fianco sudovest ed hanno quindi immersione (forte) a sudovest. Le faglie inverse si osservano più raramente e si trovano, o si può ammettere che si trovassero in origine, sul fianco nordest. Le pieghe vere e proprie sono di limitata occorrenza e di dimensioni assai minori di quelle delle rughe.

    Rientrerebbero del tutto o in gran parte nella regione le « rughe » che il Merla indica come 4a, Cerreto-Cetona, comprendente, per intenderci, il Monte Orsaro, il Monte Cusna, l’Alpe delle Tre Potenze; la 5a Cimone-Pratomagno, comprendente il Corno alle Scale, ecc., fino al Pratomagno; la 6a Falterona-Alpe della Luna>

    e investirebbe l’antistante montagna media romagnola; la 7a cui si trapasserebbe dalla precedente con un contatto nascosto dalla sedimentazione, ruga, comunque, poco accentuata, interessante la bassa montagna e collina dal Santerno fin verso il Foglia.>Noteremo fra breve una certa corrispondenza fra codeste « rughe » tettoniche e le « quinte » orografiche nelle quali si fraziona la zona di crinale.

    Terreni e loro distribuzione

    Ma veniamo dunque, come ci siamo ripromessi, alla descrizione delle formazioni in affioramento nella loro costituzione litologica e distribuzione geografica.

    La più antica risale al Trias, limitata ad una piccola area nell’alto bacino del Secchia (Appennino reggiano-parmense). Sono, inferiormente, quarziti biancastre o giallo-rosate fra l’Alpe di Succiso e Collagna e, al di sopra, potenti banchi calcareo-gessosi, biancastri, talora cavernosi, con saltuarie intercalazioni scistose, che il fiume incide a valle di Cerreto e di Busana.

    La serie cronologica dovrebbe seguire col Cretaceo. Ed a questo si vogliono da vari autori attribuire le formazioni argillo-scistose.

    Noi daremo posto qui alla presentazione delle argille scagliose ma senza alcuna intenzione di comprometterci con una datazione. Esse appaiono su vastissime superfici dall’Appennino piacentino a quello bolognese e di nuovo nella parte più orientale di quello romagnolo (bacino del Marecchia).

    Un aspetto caratteristico delle argille scagliose.

    Spuntone ofiolitico nelle argille scagliose (in destra el Sillaro)

    Sono costituite da argilloscisti grigiastri, talora grigio-plumbei od anche rossigni e violacescenti, quasi sempre disposti in « scaglie » (onde il nome) e qua e là alternati da straterelli calcareo-marnosi e calcareo-arenacei frammentati, con frequenti venuzze calcitiche bianche.

    Verso l’alto della formazione gli straterelli calcarei e calcareo-arenacei diventano più abbondanti finché si passa alla formazione calcareo-marnosa eocenica, con una gradualità tale che la distinzione riesce spesso incerta.

    Non mancano variazioni di facies abbastanza caratterizzate. Si può dire che quella tipica dell’Appennino marginale e medio si trasformi gradualmente verso l’Appen-nino assiale in argilloscisti più compatti (i così detti « galestri ») con assetto meno caotico e frequenti intercalazioni arenacee.

    Di fra le argille scagliose spuntano spesso masse di rocce eruttive o derivati metamorfici, le così dette « rocce verdi » (ofioliti), specialmente diabasi spilitici, serpentini e più raramente gabbri. Queste masse si presentano come blocchi o lenti più o meno schiacciate di ogni grandezza, da pochi metri perfino a qualche centinaio. In connessione ai più grandi affioramenti si trovano talora rocce diasprigne, ftanitiche, per lo più rossastre, in strati di modesta potenza, e calcari lievemente marnosi di color grigio-bianco. Comuni inoltre nelle argille scagliose sono i grugni oficalcitici (più raramente ofisilici) di aspetto breccioide. Non mancano, pur se rare, masserelle granitiche.

    Intorno agli affioramenti ofiolitici vi è quasi sempre una specie di rivestimento più o meno esteso pseudo-breccioide accompagnato da una zona in cui sono disseminati frammenti rocciosi ofiolitici e calcarei, disordinatamente sparsi, anche a notevole distanza. Ciò è altro indice delle enormi pressioni e degli spostamenti e rimaneggiamenti che hanno subito i depositi argillo-scistosi e le masse di rocce verdi ofiolitiche durante gli sforzi orogenetici che portarono i terreni appenninici alla attuale posizione.

    Gli affioramenti ofiolitici in forma di grandi ammassi sono soprattutto sviluppati nell’Appennino piacentino e parmense, particolarmente nella vai Trebbia, nell’alta vai Nure, nell’alto crinale fra la valle d’Aveto e la vai Taro e nella media ed alta vai Taro. Nel resto dell’Appennino emiliano ad oriente della vai Taro e sino a quella del Sìllaro si trovano in affioramenti di limitate o limitatissime proporzioni. Degni di rilievo soltanto nell’alta vai Dragone e nell’area compresa fra il Passo della Rati-cosa e quello della Futa. Mancano poi addirittura nelle argille scagliose dell’Appennino romagnolo.

    Dalla formazione così descritta, si passa, spesso assai gradualmente con alternanze più frequenti di marne e di calcari marnosi, alle serie arenaceo-marnose e calcareo-marnose.

    Al Cretaceo andrebbe attribuita secondo il Lipparini la così detta « formazione di Loiano », o di Monghidoro, mentre il Merla la designa « di ancora incerta attribuzione ». Essa costituisce una placca fra le valli del Sìllaro e del Setta, nella quale si presentano due facies, una prevalentemente calcareo-marnosa, l’altra prevalentemente arenaceo-marnosa. Ma, in complesso, litologicamente ambedue le facies non si mostrano gran che differenziate dalle corrispondenti della serie seguente.

    E questa la diffusa serie concordemente attribuita all’Eocene. Essa si riscontra particolarmente sviluppata nell’Appennino piacentino, parmense e reggiano. Risulta costituita da una pila di strati calcareo-marnosi alternati da straterelli marnoso-argillosi o argillosi, che generalmente si presenta con una certa regolarità.

    In generale si può dire che nella parte alta della formazione prevalgono calcari grigi o grigio-biancastri o grigio-giallastri ben stratificati, lastroidi, spesso un po’ scagliosi, mentre nella parte bassa prevalgono calcari più marnosi a grana finissima (i così detti « calcari alberesi ») e marne grigie o leggermente rosate, sempre in alternanza con straterelli marnoso-argillosi o argillosi. Queste formazioni a straterelli alternati arenacei e argillosi o marnosi sono quelle una volta indicate come Jlysch appenninico.

    « Flysch » sulla strada dei Mandrioli.



    Seguono, cronologicamente, le serie arenaceo-marnose dell’Oligocene. La prima, caratterizzata dalla presenza del « macigno », si sviluppa soprattutto nell’alto Appennino bolognese, modenese, reggiano e parmense; una larga fascia in corrispondenza della zona di crinale.

    E una formazione assai potente, costituita da un’alternanza più volte ripetuta di banchi o strati arenacei grigiastri con interstraterelli marnoso-argillosi brunastri. E ai banchi arenacei più potenti, omogenei e compatti, che si connette più propriamente il termine di «macigno» o «arenaria macigno». Talora in questa formazione prevalentemente arenaceo-marnosa compaiono interstrati calcarei o calcareo-marnosi ed anche lenti ghiaiose-ciottolose cementate in conglomerati o puddinghe ed elementi di facies « alpina » (diremo così per intenderci, alludendo a dioriti, quarziti, gneiss, ecc.) mescolati ad elementi di facies appenninica (calcari alberesi, ofìoliti, ecc.).

    La distinzione fra la serie arenaceo-marnosa eocenica e quella arenaceo-marnosa oligocenica è ben chiara in complesso, ma esistono zone in cui è meno marcata per lo sviluppo di orizzonti in cui gli strati calcarei si alternano più volte con quelli arenacei.

    Altra serie di formazioni oligoceniche si presenta nella zona marginale sub-appenninica in particolare, ed anche in quella media retrostante. Qui essa compare costituita da marne grigie straterellate friabili alla base (talora però mancanti) e, superiormente, da una serie di strati e banchi (anche banconi dello spessore di parecchi metri) arenaceo-sabbiosi od anche arenaceo-marnosi, talvolta arenaceo-conglomeratici con intercalazioni marnose. La variabilità di facies litologica di tali formazioni è notevole, da luogo a luogo e dal basso in alto.

    Vena del Gesso presso Tossignano.




    Il termine « molasse » si riferisce genericamente alle arenarie meno consistenti, friabili, che s’incontrano nei sedimenti di questo ed in ispecie del periodo seguente.

    È questo il Miocene, largamente e potentemente rappresentato in tutti i suoi piani, anche se la distinzione di questi fra loro riesce spesso difficile per il graduale passaggio esistente fra i rispettivi terreni e molto frequentemente per l’analogia dei loro caratteri litologici.

    Si nota anzitutto la grande placca della così detta « formazione marnoso-arenacea romagnola » stesa fra le valli del Santerno e del Marecchia. Il Pellizzer trova opportuno distinguervi due « livelli » non in base a criteri cronologici ma per una certa diversità dei caratteri litologici. In linea generale, la zona più internata nell’Appennino è caratterizzata dalla prevalenza degli strati arenacei su quelli marnosi; quella medio-appenninica, all’incontro, dalla prevalenza degli strati marnosi su quelli arenacei.

    Altre facies litologiche del Miocene abbastanza bene differenziate si riscontrano nella rimanente parte dell’Appennino. Così quella riferibile al Langhiano, presente in ispecie nel medio Appennino reggiano e nel basso Appennino parmense, rappresentata alla base da marne calcaree grigie compatte ed in alto da marne grigie meno compatte, più o meno friabili ; così la facies calcareo-arenacea, talora conglomeratica, riferibile all’Elveziano che si trova presso Predappio, a San Marino e nel Monte-feltro.

    Incisione dei sabbioni del Piacenziano presso Castell’Arquato.




    Particolarmente estese poi le formazioni del Tortoniano (Miocene superiore) caratterizzate da prevalente costituzione marnoso-arenacea nel medio e basso Appennino parmense e reggiano, nel basso Appennino modenese e bolognese e nella parte medio-orientale dell’Appennino romagnolo; prevalentemente marnosa nel basso Appennino romagnolo fra le valli del Montone e del Sìllaro, nel medio e basso Appennino bolognese e nel basso Appennino modenese.

    Al Mio-Pliocene si attribuisce poi la caratteristica formazione gessoso-solfifera. In realtà è ancora essa rappresentata per lo più da marne argillose ma caratterizzata dalla presenza di lenti o potenti banconi di gesso, nonché di lenti ghiaiose, sabbiose, conglomeratiche ed anche di calcari cariati o concrezionati talora impregnati di piccole quantità di zolfo. Gli adunamenti utili di zolfo si trovano, scarsi, nel Cesenate, mentre la formazione sterile, esclusivamente gessosa, emerge con la più perspicua evidenza nella muraglia della cosidetta « Vena del Gesso » al traverso delle valli del Senio e del Santerno, riprendendo, più ad occidente e avanti, più presso il piano, dalla vai d’Idice al Reno.

    I edimenti del Pliocene costituiscono un’ampia quasi ininterrotta fascia sub-appenninica particolarmente larga nel Bolognese ed in quasi tutta la Romagna. Vi si distinguono chiaramente due facies litologiche corrispondenti a due piani ben individuati.

    L’inferiore (Piacenziano) è per lo più rappresentato da marne argillose grigioazzurrognole e argille marnose oppure sabbiose nella parte più bassa, talvolta con particolari strati o banchi o lenti di calcari grossolani più o meno arenacei, un po’ cariati, che spiccano assai bene fra le tipiche argille marnose grigie, giacché generalmente presentano un colore giallastro e sono notevolmente compatti tanto da determinare restringimenti vallivi.

    Il Pliocene superiore (Astiano) è costituito di sabbie giallastre, talora intercalate da lenti ghiaiose-ciottolose. Anch’esse sono senza dubbio di ambiente litorale: a provarlo contribuisce anche la evidente stratificazione che molto spesso si presenta incrociata a tipo di deposito irregolare di spiaggia.

    Vedi Anche:  Strade, ferrovie, porti e navigazione

    Questi sedimenti di ambiente litoraneo preannunciano l’emersione onde alla fine del Pliocene all’ambiente marino è venuto a sostituirsi quello continentale-fluviale.

    I terreni del Quaternario infatti sono essenzialmente continentali e rappresentati per lo più da alluvioni fluviali o da depositi fluvio-lacustri o, per più propriamente dire, lagunari, e da depositi litoranei e deltizi. Non mancano comunque anche sedimenti di mare basso. La fase continentale erosiva e incisiva ha in gran parte plasmato l’attuale oro-idrografia dell’Appennino emiliano-romagnolo; però le acque continentali, oltre all’azione erosiva e incisiva nelle regioni che si erano via via venute sollevando, hanno creato al margine padano, ove giungevano perdendo velocità, quell’insieme di depositi costituiti da alluvioni più o meno grossolane che in gran parte hanno riempito la depressione padana sino a colmarla ed a trasformarla nell’attuale grande pianura.

    E abbastanza agevole distinguere Pleistocene e Olocene. Il Pleistocene è per lo più rappresentato da depositi alluvionali ghiaioso-ciottolosi commisti a sabbia argillosa che costituisce verso la superficie una specie di mantello terroso-argilloso, giallo-rossiccio per ferettizzazione. Nelle località interne, ove tali depositi si presentano per lo più terrazzati (sovrastando, in qualche lembo, fin di 100-150 m. l’attuale fondo del solco vallivo), lo spessore si riduce a pochi metri e i depositi stessi sono argillo-terrosi ; là, dove le valli si allargano, sotto il mantello terroso-argilloso i depositi di quello ghiaioso-ciottoloso vanno sempre più ispessendosi ed al margine appenninico ove inizia la pianura si immergono sotto i depositi olocenici di quest’ultima.

    Pleistocenici sono inoltre quei depositi morenici che si riscontrano nell’alto Appennino reggiano e parmense. Sono lembi sparsi, a volte foggiati a guisa di archi o di cordoni, a volte costituiti da massi caoticamente accumulati. In questi ultimi casi rimane il dubbio se tali depositi non debbano piuttosto riferirsi ad accumuli di frane.

    I depositi del Quaternario più recente, quelli olocenici, essenzialmente alluvionali, sono costituiti da ghiaie, sabbie, ciottoli più o meno commisti e sono ricoperti da uno strato più o meno sottile di sabbia terroso-argillosa. Essi occupano il fondo delle valli appenniniche, spesso collegandosi lateralmente con i detriti di falda e con i coni di deiezione, e formano inoltre quasi tutto il suolo della pianura ove raggiungono anche spessori rilevanti.

    Non mancano variazioni di terreno anche nella pianura. Ma per la geologia si tratta di sfumature di relativo interesse. Interessano invece ben più la pedologia. Si tratta anzitutto di variazioni fra un’alta pianura, non così nettamente definita come, per es., in Lombardia e nel Veneto, una media e un’inferiore. Nell’alta pianura è la fascia relativamente ciottolosa in cui si saldano i fronti dei conoidi appiattiti dei corsi d’acqua. Nella media si notano allineamenti di depositi laterali dei corsi stessi, nelle loro numerose divagazioni, e fondi di materiali ancor più fini fra l’uno e l’altro, con presenza qua e là di orizzonti torbosi. Questi si fanno relativamente più frequenti nella bassa, nella quale per di più compaiono gli altri allineamenti, grosso modo frontali, dei lidi litoranei e pennelli di delta antichi e recenti, eminentemente sabbiosi.

    Le forme del rilievo

    La morfologia, cioè la varietà delle forme plastiche del rilievo, nei suoi lineamenti generali e di dettaglio è dominata dagli effetti concorrenti di tre fattori fondamentali:

    1. il diverso comportamento delle masse rocciose, secondo la loro natura litologica, di fronte all’attacco degli agenti di modellamento subaereo (degradazione meteorica, dilavamento, erosione fluviale, ecc.) dalle resistenti arenarie macigno alle molasse friabili, dai gessi alle argille plastiche, dagli spuntoni ofiolitici ai conglomerati sciolti e sino alle instabili argille scagliose;
    2. la disposizione tettonica « in grande » (rughe) non molto chiaramente riconducibile, come s’è visto, a pieghe ben definite, le quali comunque sembrano successive dalla zona di crinale alla media montagna e orientate, grosso modo parallele, da nordovest a sudest, e la minuta casistica della tettonica minore delle masse rocciose nella loro diversità, di qua, di là e per entro stesso le placche occupate dalle argille scagliose, con faglie, fratture, protrusioni e subsidenze locali;
    3. la successione delle fasi di innalzamento e dei cicli di erosione e appianamento in relazione con gli ultimi episodi dell’orogenesi attenuata e col cambiamento del livello di sbocco dei corsi d’acqua per effetto delle successive pulsazioni glaciali e interglaciali.

    Se gli aspetti di dettaglio della morfologia sono pertanto assai vari e complessi, i lineamenti generali si presentano abbastanza semplici e possono ricondursi essenzialmente al secondo e al terzo di quei fattori.

    Sul secondo si fonda la spiegazione della pendenza generale del rilievo dalla zona cacuminale verso nordest e delle intumescenze che la variano.

    Alta val Trebbia. Osservare come le sommità del rilievo si raccordano nel « semipiano » antico superiore.

    Con l’erosione fluviale, sia pur forse combinata, in qualche caso, con linee di faglia e fratture, si spiega il tracciamento di un fondamentale reticolo idrografico conseguente alla pendenza generale del paesaggio e l’incisione delle valli grosso modo parallele fra loro, che hanno isolato le dorsali rilevate fra valle e valle, i cosidetti « contrafforti » della nomenclatura tradizionale (2).

    La successione dei cicli erosivi, d’altro canto, ha stabilito i due principali semipiani alti, nei quali si raccordano, spesso con evidenti « terrazzi orografici », i crinali dei contrafforti scendenti dalla zona cacuminale al piano, e poi ha lasciato le sue impronte, sui fianchi delle valli che li incidono e smembrano, in tre principali ordini di terrazzi alluvionali. Non continui certo neanche questi, ma più o meno smembrati a loro volta e non sempre riconoscibili, anche per la tendenza, comune a quasi tutte queste valli con le altre del versante adriatico della Penisola, di presentare il declivio in destra più ripido, spesso sovraincombente in modo diretto sull’alveo, e quello di sinistra più lento e ampio.

    Il terzo terrazzo, il più basso, scende infine quasi inavvertitamente o con breve gradino sul piano di fondovalle, nel quale è inciso l’alveo attuale, generalmente poco profondo e con scarse divagazioni.

    I terrazzi orografici, relitti dei semipiani antichi, non arrivano quasi mai in vicinanza della pianura (sola eccezione notevole, forse proprio quella alle spalle di Bologna), ma vi si congiungono con un declivio a gradini. Tali gradini frontali si susseguono dal Po al Conca e si raccordano ai terrazzi fluviali dei rispettivi corsi d’acqua, che stagliano così la bassa collina in caratteristiche forme a tumulo.

    Ai piedi di esse si congiungono fra loro i conoidi appiattiti dei vari corsi d’acqua, determinando quella striscia or più, or meno larga di pedemonte alluvionale relativamente ciottoloso, che tanta importanza ha avuto per la storia della regione.

    L’aspetto della pianura, infine, non presenta quei contrasti che si riscontrano nella pianura piemontese, lombarda e veneta.

    L’ultimo processo di riempimento non risale ad età, relativamente, molto antiche. Ancora ai tempi dei Romani la « Padusa » (3) era o si ricordava come una immensa estensione di acquitrini e paludi. In essa i fiumi vagavano, lasciando ai margini le strisce ciottolose e limose, sulle quali avanzarono i primi pionieri a conquistare la terra per le colture e si fecero via al mare, mentre lungo le zone di contatto con questo si formavano i cordoni dei lidi litoranei, rassodati dalla vegetazione di antiche macchie e selve, testimoniate ancora — in certo qual modo — dal bosco di Mesóla e dalle pinete ravennati, che vi si sostituirono poi.>

    Non vi è qui, veramente, una distinzione fisica di piani più alti e più bassi: dai limiti di affioramento dei conoidi alla spiaggia si scenderanno, sì e no, da 40 a 30 m., e quindi in genere quasi inavvertitamente. La distinzione è quindi piuttosto tra piani di più antico rassodamento e di più recente, e ancor questa di rado con contrasti netti, con bruschi passaggi. Non quindi una pianura terrazzata, ma soltanto una sola lenta discesa, con lentissime ondulazioni di pochi metri, un « microrilievo », come l’ha espressivamente designato l’Ortolani, il quale tuttavia basta a rendere complicatissimo il sistema degli scoli e necessario l’arginamento dei corsi d’acqua, nonché a determinare nel Nordest, la permanenza (sempre più ristretta) delle « valli » comacchiesi sommerse da un sottile velo di acque.

    Catene e contrafforti, monti e colline

    Il crinale non si presenta con una linea continua, ma anzi in tronconi distinti, che sono stati indicati come successive quinte, succedentisi da ovest ad est. Ciascuna di esse per un tratto segna il displuvio fra i fiumi tirrenici e adriatici, poi perde in altezza e sviluppo, mentre lo spartiacque si sposta, mediante una « sbarra » trasversa, su una catena più orientale.

    Questo aspetto si rileva sùbito a levante del Passo dei Giovi. Lo spartiacque oltre il Passo della Scoffera (m. 679 sul mare, sulla strada Piacenza-Genova) si allontana dalle vicinanze del mare. Le vette più elevate non si riscontrano però lungo di esso, ma in dorsali più vicine alla pianura padana, disposte ciascuna in direzione generale meridiana e tagliate dalle valli trasversali degli affluenti del Po.

    Così la catena a sinistra della Trebbia coi Monti Antola (m. 1598 sul mare), Lesima (1727 m.), Elvo (1701 m.), Pènice (1460 m.); quella fra Trebbia e Ceno coi Monti Penna (1735 m.), Maggiorasca (1803 m.), Bue (1780 m.), Ràgola (1710 m.), ecc.; quella fra Ceno e Taro col Monte Pelpi (1480 m.).

    A sudest, abbastanza isolato fra la Vara, la Magra e l’alto Taro è il gruppo del Monte Gòttero (1640 m.), che appartiene allo spartiacque.

    Ad oriente della Cisa la disposizione a quinte è ancor più caratteristica: le catene assiali hanno ormai tutte la direzione nordovest-sudest e fungono l’una dopo l’altra da spartiacque.

    La prima si allaccia al gruppo di Monte Gòttero mediante la sbarra spartiacque Monte Molinàtico (1549 m.)-Monte Borgognone (1401 m.) tagliata dal Passo della Cisa; si leva subito a 1830 m. col Monte Orsaro e procede a sudest con vette arrotondate o spianate, comprese fra m. 1700 e 1800 sul mare.

    Oltre il Passo di Lagastrello (1260 m.) il rilievo cresce ancora in altezza, culminando nel Monte Alto (1904 m.), nell’Alpe di Succiso (2017 m.) e nel Monte Cusna (2121 m.). Ancora più a sudest la catena costituisce spartiacque fino al Monte Giovo (1991 m.) e all’Alpe delle Tre Potenze (1940 m.). La dorsale prosegue oltre, abbassandosi e prolungandosi a sud, in Toscana, fino alla lunga schiena del Monte Albano (615 m.).

    Tra il Rondinaio e il Cimone un’altra sbarra trasversale, tagliata dal Passo del-l’Abetone (1368 m.), porta lo spartiacque alla seconda catena, che s’inizia appunto col Cimone, il monte più alto dell’Appennino settentrionale (2163 m.). Questa fa da spartiacque per soli 25 km. fino al Monte dell’Uccelliera (1797 m.) mediante l’alta dorsale, comprendente anche il Libro Aperto (1937 m.) e il Corno alle Scale (1945 m.). A sudest dell’Uccelliera la catena è incisa dalla profonda gola del Reno al di là della quale le appartiene ancora il Monte La Croce (1318 m.), e così ancora più innanzi in Toscana risulta come smembrata da forti intaccature vallive: diminuendo di altezza, accompagna la Sieve a destra (Monte Giovi, 992 m.) e oltre questo fiume può considerarsi prolungata e terminante col Pratomagno.

    Una terza catena inizia sulla destra del Reno dapprima poco elevata (Monte Calvi, 1348 m.) e tagliata, dopo l’ancor alta Sella di Montepiano (1136 m.), da frequenti valichi assai depressi, come la Futa (903 m.), il Giogo di Scarperia (879 m.) e la Colla di Casaglia (927 m.). Poi cresce poco a poco di altezza fino a culminare nel gruppo del Falterona (1649 m.) e a prolungarsi nel Monte Fumaiolo (1408 m.) e nell’Alpe di Luna (1454 m.).

    Scendendo da questa zona di vette e di spartiacque, si spingono verso nordest grosso modo perpendicolari ad esse e parallele fra loro, a pettine, le dorsali, i « contrafforti », che costituiscono l’Appennino medio e basso e il Subappennino collinare.

    Il Monte Pènice ed il Passo omonimo

    Il Monte Cimone.

    Le valli, che li hanno separati, incidendo il rilievo, presentano in genere forme di successione di slargature e strette, corrispondenti appunto le prime al passaggio nelle formazioni più tenere, argillose, sabbiose, sciolte; le seconde a quello attraverso le formazioni arenacee, talora anche con netti strapiombi d’ambo le parti, come nelle gole del Reno, a monte di Porretta, o da una parte sola, come a Sasso Marconi. E cosi pure, in genere, all’attraversamento della Vena del Gesso, per esempio a Tossignano sul Santerno e alla Grotta del Re Tiberio sul Senio.

    La presenza di pieghe, sia pur attenuate, antistanti la zona del crinale parrebbe riflessa nella serie di allineamenti di alture riconoscibili anche nella media e bassa montagna al traverso delle valli e paralleli grosso modo a quello della zona cacuminale.

    Così si crede di spiegare come i contrafforti, tutti si può dire, si deprimano e si sollevino a vicenda nel loro decorso dalla zona di crinale al piano. E come tanto spesso il deprimersi e il risollevarsi dei singoli contrafforti trovino corrispondenza da l’uno all’altro vicino, dando luogo agli allineamenti di cui sopra. D’altra parte i contrafforti non sono smembrati tanto dalle valli affluenti ai corsi d’acqua principali, quanto dall’insediarsi di altre minori, conseguenti anche esse alla inclinazione generale del paesaggio, sì da determinare l’articolarsi dei contrafforti stessi in digitazioni sempre più numerose ed espanse accostandosi alla pianura.

    La valle della Secchia verso il suo sbocco in pianura. Osservare il progressivo allargarsi della valle e a sinistra i ben pronunciati terrazzi.

    Non daremo qui una minuta descrizione di tutti questi aspetti.

    Ci limiteremo ad elencarne i principali, sia negli andamenti della zona di crinale al piano, sia negli allineamenti più evidenti che coordinano i profili longitudinali in senso trasversale.

    Venendo da occidente il primo « contrafforte » è tra la valle del Tidone e quella della Trebbia. Dopo aver culminato nel Monte Pietra di Corvo (1078 m.) e un’altra volta nel Monte Làzzaro (887 m.) si apre in varie digitazioni scendendo alla collina.

    Il contrafforte fra Trebbia e Nure si stacca dalla zona di crinale a quota 1573, si rialza nel Monte Arosei (1431 m.) e poi di nuovo nei paralleli e vicini Monti Capra (1310 m.) e Oserò (1297 m-) e dopo una nuova altura a 863 m. si assottiglia nella collina. Fra Nure e Taro, invece, il contrafforte attestato ai Monti Penna (1735 m.) e Gòttero (1640 m.) ingloba il Monte Pelpi (1480 m.) avamposto della quinta di crinale del Molinàtico-Monte Orsaro, poi si allarga col complesso allineamento trasversale degli alti Monti Menegosa (1355 m.), Caramente (1318 m.), Dosso (1255 m>) e Barigazzo (1284 m.) che si riconnettono al Cervellino, di cui appresso, e si apre ancora maggiormente più avanti col nuovo allineamento della Croce di Segni (1071 m.), Monte Mezzano (955 m.), Monte Canale (853 m.), fino a perdersi nel grande ventaglio di colline che muoiono al piano fra Piacenza e Parma.>

    Il contrafforte fra Taro e Parma, sezionato per lo mezzo dalla stretta valle del Baganza, si attesta al crinale fra il Monte Molinàtico e il Monte Orsaro. Esso si mantiene discretamente alto e scende da 1000 m. sin quasi alla pianura tra Felino e Torrechiara a sud di Parma. Le vette che ne indicano la direzione sono il Tàvola (1453 m.), il Borgognone (1401 m.), il Cervellino (1492 m.), la cima più alta di tutto il contrafforte, il Monte Scarabello (1341 m.), il Monte Cavalcalupo (1370 m.), il Monte Montagnana (1312 m.), il Monte Vitello (1052 m.) ed il Monte Sporno (1058 m.), dopo del quale è un alternarsi di colline coltivate e graziose che a poco a poco muoiono nell’uguale pianura.

    L’ultimo dei contrafforti dell’Appennino piacentino-parmense, fra il Parma e l’Enza, ha principio fra il Monte Sillara ed il Monte Malpasso, torreggia con il Groppo Cardello (1397 m.), s’abbassa poi per risollevarsi col Monte Fuso (1118 m.), quindi scende con una serie di colline ondulate fra Traversètolo e Lesignano dei Bagni.

    Veduta della media montagna romagnola dal Passo di Centoforche.

    Fra il Passo di Lagastrello e la foce delle Radici è l’Appennino reggiano, il quale invia i contrafforti fra Enza e Secchia e fra Secchia e Dragone. Monte Alto e Monte Prado ne sono come i punti di partenza, chè dal primo si distaccano l’Alpe di Succiso (2017 m.), il Monte Casarola (1979 m.) e più oltre il Ventasso (1727 m.), dal quale due rami si dipartono, quello vicino alla Secchia col Monte Fiorino (1018 m.), la Pietra di Bismàntova e il Monte Fosola, e l’altro più presso all’Enza, che dopo Monte Castellino (834 ni.), Monte Piano (876 m.) e Monte Faiello (787 m.), scende a colline. L’ultima altura è il Monte della Sella, in prossimità del castello di Canossa, alto 542 m., al di là del quale si stende la pianura.

    Ecco che si notano tipici gli allineamenti trasversali. Il primo, più presso il crinale, unisce il Monte Barigazzo (1284 m.) fra Ceno e Taro, il Monte Cervellino (1492 m.) fra Taro e Parma, il Monte Caio (1580 m.) fra Parma ed Enza, il Monte Ventasso (1727 m.) fra Enza e Secchia. Il secondo più avanti comprende il Monte Cassio (1022 m.) fra Taro e Baganza, il Monte Vitello (1052 m.) fra Baganza e Parma, il Monte Fuso (1117 m.) fra Parma ed Enza e il Monte sopra Castelnuovo (1047 m.) fra Enza e Dolo.

    L’altro contrafforte fra Secchia e Dragone, suddiviso alla sua volta in due dalla valle del Dolo, parte dal Cusna (2121 m.), la seconda cima dell’Appennino settentrionale; presenta il Monte Cisa (1701 m.) e il Monte Prampa (1698 m.), e una serie di cime superiori ai 1000 m. : Monte Roncadello (1353 m.), Monte Mattioli (1341 m.), Monte Modino (1414 m.) e Monte Aldro (1134 m.), dominante la confluenza del Dragone e della Secchia.

    Il Prampa si allinea trasversalmente col Monte Ventasso a nordovest, oltre Secchia, e con l’Alpe di Sigola (1642 m.) a sudest, oltre Dragone. Un secondo allineamento più avanti è rappresentato dal Monte Modino, fra Dolo e Dragone (1414 m.) e dal Monte Acuto fra Dragone e Scoltenna (1338 m.).

    Appennino modenese o del Frignano si designa la complessa serie di catene, che ha per limiti la Foce delle Radici ed il Col dell’Oppio, abbraccia tutto il bacino dello Scoltenna-Panaro e sta fra il Dragone-Secchia ad occidente ed il Reno ad oriente.

    Dal Libro Aperto si staccano i monti che culminano nel Cimone (2163 m.), scendono col Monte Cervarola (1623 m.), con il Monte della Penna (964 m.), con il Monte Emiliano (979 m.) e formano tutto il complesso insieme di terre montuose che s’ergono fra Pievepélago e Fanano a sud, fra Lama Mocogno e la confluenza del Leo nello Scoltenna, a nord.

    Ad occidente e ad oriente di questo poderoso contrafforte altri due partono. L’uno viene dal Passo delle Radici, prima stretto fra Dragone e Scoltenna, e poi ampliantesi fra Secchia e Panaro con il Sasso Tignoso (1492 m.), l’Alpe di Sigola (1642 m.), il Monte Rovinoso (1530 m.), il Monte Cantiere (1617 m.), il Monte Mologro (1280 m.), il Monte San Martino (1053 m.), e poi segue con molti colli, inferiori tutti ai 500 m., quali Poggio Grande, Monte Croce, Monte Sant’Andrea e Monte Scisso, quasi allineati davanti alla pianura fra Vignola sul Panaro e le rive della Secchia.

    Veduta della Valsenio.

    L’altro contrafforte, quello ad oriente dello Scoltenna-Panaro, fra questo corso d’acqua e il Reno, ha origine al Corno alle Scale e va quasi diritto verso nord, terminando un po’ prima della Via Emilia, a Bazzano, col Monte Budello. Divide il bacino dello Scoltenna-Panaro da quello del Reno e dei suoi affluenti di sinistra, anzi manda numerose brevi diramazioni verso nordest che finiscono, spesso alte e dirupate, al Reno, ed altre ancora ne invia verso la pianura, fra Reno e Lavino, fra Lavino e Samoggia, tanto che le colline fra Casalecchio e Bazzano si possono considerare come le estreme manifestazioni di questo contrafforte. Il quale corre elevato, con le cime a prati e i fianchi boscosi, fino al Monte Grande (1581 m.), quindi si deprime per rialzarsi sùbito e formare il largo ed esteso dorso chiamato Altipiano di Belvedere (1140 m.). Continua poi compatto e con elevazione quasi uniforme fino al Monte della Torrazza (1083 m.), dove comincia a diminuire d’altezza: i Monti Acidola, Righetti, Acuto, di Riva stanno fra gli 800 ed i 900 metri. A nord di Zocca l’altezza diminuisce ancora: s’entra nel dominio delle colline che, come già detto, muoiono nel piano presso Bazzano.

    Un piccolo contrafforte — piccolo di sviluppo ma elevato — è quello che si diparte dal Monte dell’Uccelliera, alto, boscoso, rotto da frequenti burroni, che forma lo spartiacque fra Siila e Reno. Al Monte dei Boschi si biforca per accogliere il bacino del rio Maggiore, affluente del Reno. Questi due rami, dalle vette di Monte Roncale e del Monte di Granaglione, piombano l’uno su Castelluccio e l’altro su Capanne di Granaglione; quindi si avanzano con due sproni depressi, l’uno su Porretta e l’altro fino alla confluenza del Siila nel Reno.

    Fra le valli del Reno e dell*Idice un primo contrafforte ben delineato dalle incisioni del Reno e del Setta, attestato allo spartiacque al Monte della Scoperta (1278 m.) mostra un rialzo al Monte Vigese (1090 m.), poi si assottiglia e si perde verso la confluenza.

    La Penna Grande di San Marino.

    Fra Setta e Idice si espande il contrafforte che scende dal Monte Freddi (1275 m.) per rialzarsi solo col modesto Monte Vènere (966 m.).

    Dopo ridice il confine regionale abbandona lo spartiacque. Sono i contrafforti dei bacini del Santerno, del Senio e del Lamone, piuttosto dolci ed uniformi se non fossero interrotti dalla Vena del Gesso. Le maggiori elevazioni sono sul confine: il Monte La Fine (993 m.) fra Sìllaro e Santerno, il Monte Faggiola (1031 m.) fra Santerno e Senio, il Monte Carnevale (886 m.) fra Senio e Lamone.

    Dopo il Lamone il confine regionale ritorna al crinale. Il bacino del Montone si attesta ai Monti Lavane (1241 m.) e Gemelli (1206 m.). Il contrafforte in sinistra, che parte dal primo, si rialza al Monte Sacco (744 m.) e poi di nuovo al Monte Trebbio (623 m.).

    Quello in destra si confonde nella serie dei contrafforti successivi verso oriente, minutamente frazionati dalle valli del Rabbi, del Bidente, del Borello, del Savio.

    Il Monte Guffone (1198 m.) fra Rabbi e Bidente non è che l’avamposto della « quinta » di crinale dello stesso Monte Gemelli, ma un altro allineamento più avanzato, che si può notare fra il Rabbi e il Savio, culmina nel Monte Mescolino (969 m.).

    Il contrafforte che separa quelli che in pianura diverranno i Fiumi Uniti (Montone e Ronco) parte dal Monte Falco e tocca il Monte Piancastelli (1576 m.), la costa di Pian delle Fontanelle, i Monti Ritoio, Avorgnolo, Guffone, Penna, Montironi (tutti superiori ai 1000 m.), Grignolaia, Altaccio, Grosso, Fuso, Bruchelle (fra 1000 e 500 m.) e poi le colline sulle quali stanno la Rocca delle Caminate e le borgate di Lardiano (ad ovest di Mèldola) e di Collina, dopo le quali si perde nella pianura.

    Inoltre il Montone è diviso dal suo affluente, il Rabbi, altrettanto lungo di corso fino al pedemonte, da un contrafforte che muove dalla linea spartiacque fra il Passo di San Godenzo e quello degli Orticai, e tocca Monte Pian Casciano, Monte Gemelli, Monte Róncole, il Colle di Centoforche, Monte Marina, Monte San Pietro, Monte Colombo, Monte Mirabello, Monte Cadignana, Monte Testa, Monte Casalude, Monte della Birra fino alla ridente collina della Terra del Sole.>

    Il contrafforte che divide dal Savio il Ronco o Bidente ha principio da Monte Cucco (1330 m.) e dal Monte Tèrmini (1247 m.), cime che sorgono all’estremità orientale della lunga linea spartiacque principale abbracciata dalle sorgenti dei due fiumi i quali, prima distanti, giunti in pianura, assommeranno le loro acque. Indi prosegue sui Monti Castelluccio (1115 m.), Frullo (981 m.), Aiolà, Faggia ed Altello (674 m.), al quale succede una lunga serie di colline senza nome che giunge al paese di Bertinoro. Questo contrafforte manda un ramo a nordest, a separare le valli del Borello e del Savio: se ne stacca al Poggio Carnaio, s’eleva coi Monti Mescolino (969 m.), di Faciano, Monte Vecchio e Monte Pietra e poi si perde in una distesa di colline, verso Sàrsina, Sorbano, Mercato Saraceno.

    Lo spartiacque fra Savio e Marecchia va sul contrafforte contrassegnato dalle cime di Monte Aquilone (1355 m.), Fagiola Vecchia, Castello (più alti di 1000 m.), Zùccola, Ercole (ad oriente di Sant’Agata Feltria), Moscellino, Perticara (883 m.). Presso il paese di Perticara cessa l’adiacenza col bacino del Marecchia e comincia quella con l’Uso, il Fiumicino e il Pisciatello, fra i quali il contrafforte si dirama in un ventaglio di colline.

    Il contrafforte, che separa le acque della Marecchia da quelle del Foglia, si scinde al Monte Carpegna in due, poi più a nordest il ramo romagnolo si suddivide ancora per accogliere i torrenti Ausa, Marano, Tavollo.

    Esso parte di fra il Monte dei Frati ed il Monte Maggiore, a quota 1384, e si abbassa sùbito a Monterano (1087 m.), Sasso Aguzzo (981 m.), Poggio delle Campane (1038 m.), s’innalza a Sasso di Simone e Simoncello (1221 m.) ed ancora più al Monte di Carpegna (1415 m.). Nuovamente scende a Pròtole ed alla Rocca di Monte Copiolo, a Tassona ed alla Rocca di San Marino (738 m.), indi passa nella zona delle basse colline.

    Il ramo di contrafforte che sta fra il Conca e il Foglia prima, il Foglia e il Tavollo poi, partendo da Monte Carpegna, tocca la Costa dei Salti (1240 m.), il Monte Boàg-gine, i Monti Faggiola, San Lorenzo e San Giovanni, poi i paesi di Tavoleto e di Mondaino, ed i Colli Marrone, Trebbio e San Bartolo e va in mare a nordovest della foce del Foglia.

    Fra Tavollo e Conca s’innalzano le colline che partendo dal paese di Tavoleto vanno verso est-nordest, verso Montefiorito, Marciano e San Giovanni in Marignano.

    Infine fra il Conca e il Marano corre una linea di alture che, staccandosi dai monti limitanti a destra il bacino del Marecchia, comprendono la cima di Monte Ghelfo presso il paese di Sasso Feltrio, poi sulle groppe collinose i paesi di Montescudo, Monte Colombo e San Clemente, dopo i quali si erge il Colle di Annibolina, da cui si scende nella zona piana bagnata dal mare.

    Forme e fenomeni speciali

    L’Appennino emiliano-romagnolo presenta una serie di minori aspetti e fenomeni caratteristici.

    Notiamo anzitutto le diffuse e frequenti frane. Non ne sono teatro soltanto le argille scagliose, nelle quali la stessa composizione caotica le rende facili. È ovvio che, quando il dilavamento delle acque piovane o correnti isola gli interclusi litoidi, il rotolamento di questi verso il basso determini il crollo dei materiali sovrastanti. In tal caso frequentissimo, ma generalmente di piccola o piccolissima dimensione unitaria, si dovrebbe però piuttosto parlare di smottamenti che non di frane. Nelle stesse zone si hanno vere e proprie frane anche di grandi dimensioni, quando la massa argillosa imbevendosi di acqua fino a una certa profondità in sèguito a forti piogge, si spappola e dilama, scorrendo in grandi colate fangose verso il basso. E questo è un primo tipo di frana.

    Un secondo tipo si riscontra dove banchi di arenarie o di calcari si trovano sovrapposti alle stesse argille scagliose oppure    strati arenaceo-sabbiosi    si alternano a strati marnosi. Se l’inclinazione dei banchi e strati è forte, avviene che le acque s’insinuano nelle argille e sabbie, determinando una superfìcie di slittamento lungo la quale le masse, anche considerevoli, del materiale sovrastante si muovono scendendo al basso. Sono queste le frane più tipiche, tanto più pericolose per l’uomo e le sue opere in quanto si producono generalmente rapide senza alcuna possibilità di previsione altro che generica in zone ch all’esperienza risultano più frequentemente colpite, ma quasi mai in punti costanti ben definiti.

    Una conseguenza di tale fenomeno è la formazione di laghi di frana nei fondo-valle interrotti dall’accumularsi del materiale franato. Sono generalmente, peraltro, molto piccoli e di scarsa durata, in quanto ben presto interrati dalle torbide e dal ciottolame recato dagli stessi corsi d’acqua e svuotati dalla facile erodibilità dello sbarramento.

    Un esempio caratteristico e particolarmente interessante, perchè si è ripetuto più volte nello stesso punto, è quello del laghetto di Castel dell’Alpi, che si è formato, svuotato e riformato già tre volte in men di un secolo (1870, 1909, 1951) per frane venute a interrompere il corso del Savena a sudovest di Monghidoro.

    Frana a sud di Modigliana (25 dicembre 1959)

    Altipiano gessoso del Farneto visto dalla vai di Zena.

    Nelle stesse zone delle argille scagliose e in quelle adiacenti delle argille plastiche, più a valle, si trovano poi diffusi i calanchi, la cui formazione è altro fenomeno tipico della bassa montagna e collina emiliano-romagnola.

    Si è detto che, dove esso si trova, il calanco sostituisce la frana. Si tratta di val-lecole di minutissima orditura, con pareti precipiti e divisori alti ed aguzzi, plasmati dal dilavamento delle acque di precipitazione nel materiale argilloso, e raccolte, generalmente, in anfiteatri aperti ai quadranti meridionali e non di rado affiancati. Vi concorre da una parte la natura del materiale, che appunto si imbeve di acqua alla superficie, smotta e cola fangoso e semifluido al basso, e da un’altra parte la disposizione tettonica degli strati, che espone al dilavamento le testate, mentre consente sulla faccia di essi, lievemente inclinata dal lato opposto, uno scorrimento normale. Più difficile resta da spiegare se vi sia un rapporto fra l’esposizione a mezzogiorno (sud o sudovest) dei fianchi intaccati dai calanchi e la formazione e conservazione di questi; o non piuttosto una coincidenza casuale dovuta al fatto che appunto l’inclinazione più frequente degli strati è verso i quadranti settentrionali (nord e nordest).

    Manifestazioni del carsismo sono pure presenti e, ancorché poco rilevanti per frequenza ed estensione, tipiche. Più che nelle scarsissime formazioni calcaree vere e proprie, esse si riscontrano nei gessi, sia in quelli triassici della valle della Secchia, sia in quelli miopliocenici dell’allineamento fra la valle del Reno e il confine marchigiano. Tali manifestazioni consistono principalmente in grotte, strette e allungate, ma non mancano piccole doline imbutiformi, come si possono osservare sùbito sopra Bologna.

    Ancor meno attirano l’attenzione allo sguardo del paesaggio i segni lasciati dal glacialismo. Questi — e sono anche discussi — si riscontrano naturalmente soltanto nella zona più elevata, dai confini con la Liguria al Corno alle Scale. Gli studiosi hanno stimato una sessantina i ghiacciai appenninici dell’ultima espansione: i più molto piccoli, qualcuno eccezionalmente sino a 5 km. di sviluppo.

    Le loro tracce sono costituite da escavazioni circoidi, talune con laghetti oggi ormai quasi tutti colmati, e da accumuli morenici, di rado però effettivamente tipici.

    Anche le manifestazioni esterne di fattori endogeni sono rare e di scarso rilievo.

    Magmatiche sono soltanto le intrusioni ofiolitiche nelle argille scagliose, le quali vi formano aggetti quasi improvvisi, come scogli nero-verdastri emergenti fra lo sfasciume caotico, che colpiscono l’occhio come hanno colpito l’immaginazione popolare : i « Sassi » o « Sassi neri ». Si ammette ora generalmente che la loro presenza dipende semplicemente dalla forte resistenza opposta per loro natura alla degradazione del materiale circostante e che, quindi, siano qui giunti inglobati e trascinati nello stesso movimento delle argille scagliose, certo non per vera e propria intrusione endogena in situ.

    La più meridionale delle salse di Mirano.

    D’origine endogena — e da ritenersi comunque senza alcun rapporto con fenomeni magmatici — sono altre diffuse e interessanti manifestazioni.

    Sono le emissioni di idrocarburi gassosi, che qua e là fuoriescono da fessure di rocce compatte, come le arenarie, od anche di fra le argille scagliose, e dànno origine alle fontane ardenti o fuochi perchè accese formano fiamme persistenti alte qualche metro come si osservano (o meglio, si osservavano) a Porretta, a Barigazzo (nel Frignano) e a Pietramala (alto Santerno, provincia di Firenze).

    Notati da Plinio, osservati e descritti con amore dai nostri naturalisti dell’Ottocento, codesti fuochi sono ora spenti: le emissioni sono state captate per uso industriale ed anzi hanno costituito spie preziose per la ricerca e lo sfruttamento di idrocarburi nei dintorni.

    In altri luoghi, in collina, emissioni analoghe hanno dato origine a manifestazioni più complesse. I gas, facendosi strada attraverso formazioni argillose o finemente arenacee imbevute o spappolate dall’acqua, trascinano e fanno traboccare in superficie una melma più o meno densa.

    Essa costruisce intorno alla bocca di uscita un conetto di fango, che in alcuni casi si leva di qualche metro, conservando in cima una specie di cratere    e facendo colare intorno altro fango fino a una certa distanza.

    Parecchi di codesti vulcanelli di fango si trovano disposti su uno stesso fianco di collina. Il nome proprio loro è salse (perchè quasi sempre il    fango    è più o meno salato, talora anche impregnato di idrocarburi).

    In altri luoghi l’emissione non arriva a depositare consistenti masse di fango, ma si limita a gorgogliare al fondo di pozze più o meno larghe (bulldùr, in dialetto, cioè « bollitori »).

    Si riscontrano tali manifestazioni dal Parmense all’Imolese, ma le salse più importanti e note sono soltanto quelle della Céntora, presso la strada statale dell’Abetone in località Rocca Santa Maria (provincia di Modena), cono isolato, alto un otto metri entro un più ampio circoide; di Nirano (presso Maranello, Modena); di Puianello e Regnano (nelle colline del Cròstolo, provincia di Reggio); di Rivalta (Lesignano dei Bagni, Parma).

    A questa categoria di manifestazioni vanno infine ascritte le numerose « acque termali » e « fanghi » per uso terapeutico che arricchiscono tante località, dal grande centro termale di Salsomaggiore e da quelli minori e pure frequentati di Porretta Terme, Riolo Terme, Castrocaro agli altri numerosi di interesse prevalentemente locale.

    Quanto ai terremoti tutte le parti della regione, ma specialmente la collina e la montagna, sono soggette a manifestazioni sismiche abbastanza frequenti. Ma, riandando la documentazione storica, rare e strettamente localizzate si possono dire quelle che hanno raggiunto una violenza tale da determinare vittime umane in numero, rovine di abitati ed altri gravi danni.

    Ciò dipende anche dal fatto che, come i più frequenti, così pure gli episodi più vistosi si producono in aree relativamente poco popolate, come appunto in montagna e collina, in ovvia correlazione con fatti di assestamento tettonico. Così dall’alta vai Secchia, dove notevoli distruzioni si ebbero a Collagna nel 1920, dalla vai di Taro, dove a Borgo si lamentano i sismi del 1545 e 1927, e dai paesi intorno al Cimone, fino alle valli del Senio e del Savio (Càsola, Riolo, San Piero in Bagno, ecc.).

    Tipico paesaggio dei calanchi in argille scagliose a SE di Reggio, fra San Polo d’Enza e Canossa.

    Il più recente periodo sismico si è avuto nello stesso i960 con scosse in fine d’aprile nell’alto Forlivese (Santa Sofia, Tredòzio, Rocca San Casciano) e l’11 maggio nel Modenese (Vignola, Marano, Savignano sul Panaro).

    La documentazione storica denuncerebbe una ancor maggiore frequenza lungo tutto il pedemonte, da Piacenza a Cattòlica, ma ciò si spiega considerando che vi si susseguono le maggiori città, nelle quali le cronache più puntualmente avvertono le manifestazioni anche meno sensibili.

    Così notizie si hanno sin dal 1117 e dal 1222 per la fascia da Piacenza a Bologna e poi dal 1279 a Faenza e Forlì, a Rimini dal 1038. Ma veramente distruttivi appaiono soltanto alcuni terremoti di Parma e Modena nel Medio Evo e, pur non gravissimo, quello da Rimini a Cattolica nel 1917.

    Anche nella pianura, nonostante l’effetto ammortizzatore dello spesso materasso alluvionale, sono registrate varie manifestazioni sismiche, di cui tuttavia effetti ragguardevoli si ricordano soltanto a Ferrara nel 1570 e ad Argenta nel 1624.

    La costa

    Il contatto fra la terra emersa e il mare avviene lungo una costa bassa. Dalla parte di terra essa è costituita da una larga spiaggia sabbiosa, che sale lentissimamente fino a una serie di basse formazioni dunose (dove sono conservate). Dalla parte di mare la stessa lieve pendenza prosegue, lasciando posto solo a un velo di acque sottili, pur variando fra scanni e fosse, del resto appena sensibili, fino a notevole distanza. Il mare antistante, d’altronde, non raggiunge anche al suo mezzo fra la costa emiliana e le isole dalmate profondità superiori a 50-60 metri.

    In senso longitudinale la nostra riva può distinguersi in tre tratti: quello settentrionale è interessato dal delta del Po, all’incirca fino alla foce del Reno; il tratto meridionale può intendersi sviluppato da Cervia fino al piede della punta di Gabicce; il tratto di mezzo, dalla foce del Reno a Cervia, fa da transizione fra quei due.

    Solo il primo tratto presenta un disegno molto articolato ed anzi continuamente cangiante per l’effetto combinato del depositarsi degli apporti alluvionali del gran fiume con l’azione distributiva di essi esercitata dal mare.

    Del delta parleremo più appropriatamente in altro luogo, a proposito dell’idrografia. Le variazioni dei lobi che lo costituiscono e delle sacche che vi insinuano interessano però limitatamente la nostra regione, perchè il confine amministrativo — come s’è detto — ne corre lungo il braccio più meridionale dei principali odierni: il Po di Goro. Dietro questa prominenza si allarga l’ultima sacca, appunto detta Sacca di Goro, fino alla bocca del Po di Volano; poi la spiaggia si allunga a sud con un’amplissima falcatura fino alla nuova, appena pronunciata prominenza della foce del Reno.

    Le variazioni recenti del delta, studiate accuratamente dal Visentini fino al 1938 e dall’Albani per il periodo successivo fino al 1944, interessano pertanto molto limitatamente la costa emiliana anche se sono comunque di gran lunga le più vistose in confronto a quelle del restante sviluppo di essa.

    Nel tratto al confine, la bocca del Po di Goro e quella, sùbito a nord, del Po della Gnocca si influenzano a vicenda. Nel periodo 1811-60 la battigia segna un arretramento davanti al Po della Gnocca e un avanzamento a quello di Goro. Di poi prevale l’avanzamento, interrotto da un periodo di erosione nel 1886-96 e di stazionarietà nel 1905-35. In complesso dal 1860 al 1935 l’avanzata della linea di battigia ha raggiunto fin 2914 m. e quella dell’area di spiaggia 1800 ettari.

    Nella sacca di Goro con maggiore continuità prevale l’avanzamento anche se con valori minori: in complesso dal 1811 al 1935, 2200 m. di spostamento della linea di battigia in avanti e 1317 ettari di affioramento della spiaggia.

    Dopo il 1924 si sono formati un lungo « scanno di Goro » a destra della bocca e uno della Piallazza, ancora più a sudovest.

    Ed è con questi, che, come si esprime l’Albani, « termina la serie dei cordoni sabbiosi, che, a cominciare dallo scanno del Palo, presso la foce del Po di Maestra, delimitano il delta con una linea quasi continua ». Gli scanni di Goro e della Piallazza hanno protetto la foce e la sacca determinando un nuovo rallentamento dell’erosione.

    Retrostante al tratto di spiaggia fra il Po di Volano e il Reno si stende la zona delle valli comacchiesi. Non vi è quindi apprezzabile apporto di materiale alluvionale se non indirettamente dai due estremi, cioè dal Po e dal Reno e altri fiumi romagnoli, per l’azione distributiva del mare.

    L’influenza che se ne riflette sulla costa ha assunto però vari aspetti. Il lungo periodo dal 1811 al 1896 costituisce una fase di ritiro della linea di battigia, il decennio 1896-1905 appare stazionario, il successivo trentennio 1905-35 ne segna lievi variazioni, però con un certo incremento dell’area di spiaggia. Questa appare diminuita di 584 ettari fra il 1811 e il 1896, aumentata invece nuovamente di 37 fra il 1896 e il 1935. Ciò forse sta in rapporto con le mutate condizioni della foce del Reno, voltasi nei primi decenni del secolo direttamente a nord.

    Nel secondo dei tratti nei quali abbiamo distinto la costa, cioè fra la foce del Reno e Cervia, essa si presenta quasi diritta, da nord a sud, con un lieve inarcamento in avanti in corrispondenza di Ravenna, un secondo ancor meno sensibile alla foce dei Fiumi Uniti e un terzo appena avvertito a quella del Savio. Le variazioni di questo tratto di costa, come noto, sono state notevoli nei tempi storici, in quanto anch’essa, per lo meno fin sotto Ravenna, è stata coinvolta nelle vicende del delta padano e della « Padusa ».

    Se ci limitiamo invece a considerare il periodo dal 1811 al 1935 la linea di battigia appare stabilizzata. Immediata precedente è una fase di avanzamento, specie nel tratto più settentrionale, sul quale si rifletté la definitiva sistemazione del basso Reno nel Po di Primaro, quindi con nuovo apporto di alluvioni e avanzamento. Ma nel secolo scorso le torbide vennero sempre più intensamente intercettate dalle opere di bonifica, specie nel settore immediatamente a nord (Lamone) e a sud (Fiumi Uniti) di Ravenna.

    In definitiva il periodo si conclude con una minima variazione della linea di battigia, in senso tuttavia di ritiro medio di 115 m. (0,9 m/anno) e con una perdita di 473 ettari di spiaggia, distribuiti per tutto il lungo tratto dalla foce del Reno a Cervia.

    Il terzo tratto della costa, da Cervia alla Cattolica, si stende quasi rettilineo con direzione da nordovest a sudest. Soltanto a Rimini, cioè alla foce del Marecchia, appare una protrusione abbastanza sensibile, il cosidetto delta del Marecchia.

    Gli altri corsi d’acqua e canali che sfociano su questa costa (il Pisciatello, il Rubicone, l’Uso, l’Ausa, il Marano, il Conca) sono brevi, con regime accentuatamente torrentizio e attraversano una zona di pianura consolidata ormai da tempo, epper-tanto non arrivano a convogliare in mare materiale alluvionale e ciottoloso altro che scarsissimo.

    Nel settore più settentrionale si riflette l’apporto delle torbide del Savio, con un costante incremento del litorale, da 2,5 a 3 m/anno (calcolati per il periodo 1825-1938).

    Panorama di Cesenatico. Notare a destra l’ampia spiaggia in incremento, in alto al di là del molo la spiaggia in relativo arretramento.




    Ma per tutto il rimanente percorso la tendenza è stata fino al 1900 a una lenta avanzata salvo qualche limitato arretramento locale. Col nuovo secolo, invece, alla diminuita intensità di aumento generale si accompagna tutta una serie di incrementi ed erosioni locali, che si succedono lungo il percorso dal nord al sud.

    Movimento delle sabbie sulla spiaggia di Rimini.




    Queste variazioni locali sono tanto più interessanti in quanto si connettono a opere dell’uomo eseguite sulla spiaggia stessa. Il paradigma di esse si presenta costante: una zona di erosione al nord dei protendimenti dei moli (sopra vento) ed una di ripascimento a sud (sotto vento). Il profilo di questa tende ad una forma ad arco allungato, la cui concavità, aperta verso sud, si attesta da una parte al molo sin verso la sua estremità, mentre dalla parte opposta sfuma verso l’andamento normale della costa. Il profilo della zona di erosione, al contrario, presenta una concavità aperta a nord sempre più accentuata tendendo ad un semiarco rotto dal tratto retti lineo in cui il battente marino percuote direttamente l’opera.

    Così a Cesenatico, a Bellaria, a Rimini, alla foce del Conca, con gravi riflessi sull’economia balneare delle spiagge a nord dei moli portuali.

    I termini « sopra vento » per « a nord » e « sotto vento » per « a sud » stanno in rapporto con una spiegazione del curioso fenomeno, che, come si ripete lungo tutta la spiaggia, non può non dipendere da una causa unica dominante.

    Non è ammessa ormai più l’esistenza di una corrente litoranea costante, che lambisca la costa adriatica peninsulare dal nord al sud e poco importa che la marea, del resto non superiore ai 40-60 cm., sia utilizzata per tener sgombri i porti-canali, anche con vasche di espandimento ai lati come a Cesenatico e a Ravenna (piallasse).

    Il fattore fondamentale va riconosciuto nel moto ondoso. E questo, a sua volta, è regolato dai venti da mare, che sono dominati dal quadrante orientale, con traversia da est-nordest (solo a Cattolica da nord-nordest).

    Il compianto Buli, osservato il fenomeno a Rimini, così lo descriveva. « Il sistema di onde provenienti dal largo con direzione normale a quella del vento, urtando contro il molo portuale più protratto si sdoppia. L’ala destra si spegne a ridosso della banchina; l’ala sinistra, potendo continuare la sua corsa, subisce un rallentamento ed è costretta ad inflettersi con la convessità verso terra e variare perciò la direzione del suo movimento.

    « Questa inflessione, sempre più accentuata a misura che l’onda procede verso il litorale di ponente, in causa dei maggiori attriti i quali ne trattengono l’estremità che rade il molo di sinistra del porto-canale, definisce un’area (area di inflessione) estesa approssimativamente allo specchio d’acqua sotto vento del molo destro più protratto, area il cui limite può tracciarsi con una normale alla direzione delle onde a partire dall’estremo del molo suddetto (vedi figura qui a fronte).

    « La corrente di flutto così deformata, che giunge sulla linea di spiaggia, esplica nel suo urto contro la battigia una risultante, diretta bensì secondo la direzione del litorale, ma con prevalenza della componente verso il mare. Ne consegue che la ghirlanda dei materiali sabbiosi in viaggio sarà spostata lateralmente a se stessa, ma con tendenza ad essere riportata al largo ».

    L’allungamento dei pennelli portuali è quindi fattore fondamentale sulla trasmigrazione dei materiali alluvionali, molto più se l’azione è concomitante con quella della variazione dell’apporto delle torbide fluviali, come appunto nel caso del Marecchia.

    Spiaggia di Bellaria. Evidente effetto del recente molo: spiaggia in erosione a nord, in avanzamento a sud.




    Nè gli accorgimenti vari messi in atto per contenere l’erosione di certe spiagge sopra vento frequentatissime dai « bagnanti » (in ispecie a Bellaria), quali frangiflutti e scarpate, hanno avuto effetti molto incoraggianti.

    Vedi Anche:  L'economia rurale: irrigazione,bonifica e pesca