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Forme e tipi di insediamento

    Le forme di insediamento

    Dopo Tesarne di fenomeni dinamici, svolto fino a qui, non sarà inutile sostare — sia pure brevemente — a una analisi più minuta delle condizioni demografiche odierne come appaiono, o meglio risultano, dalle rilevazioni di censimento tenute nel 1951 (le ultime fino ad ora edite, comune per comune). Quella dinamica — lo so — si avrà ora l’impressione che scompaia in una immota figurazione fotografica, in qualcosa di schematico ed elementare, chiuso nel risultato del censimento: e chi scrive ha dichiarato più volte — e vuol ripetere ora — le sue riserve per le figurazioni che dimostrano, a seconda dei luoghi, l’entità del popolamento umano ma rischiano di fissar come pali gli uomini nei luoghi ove ciascuno di loro è iscritto anagraficamente o ha abitazione legale, e offuscano in ogni modo il valore delle relazioni umane, cioè la mobilità umana che è la principale realtà sociale. In ogni caso la quantità e la diversa densità degli uomini e il loro modo di distribuzione, importano a chi scrive solo a condizione che servano a chiarire meglio le strutture economico-sociali delle comunità umane esaminate. Con tale precisazione si può giustificare l’utilità di una figurazione come quella a pag. 255, ricavata — con alquante modificazioni che l’aggiornano — da una nota ricostruzione del Biasutti.

    Le più appariscenti forme di insediamento

    La prima notazione che vien naturale a chi guardi bene la carta è che la Calabria si mostra meno improntata da una forma di insediamento che domina tipicamente in prossime aree del Mezzogiorno, come ad es. la Puglia e la Sicilia: e cioè la forma a distanziati e grandi e fortemente popolati villaggi rurali, con agri deserti per lo più di dimore stabili per i coltivatori, e solo qua e là abitati in voluminose massarie. Le uniche aree della Calabria ove qualcosa di simile si nota un po’ largamente ai nostri giorni, e con notevole ampiezza si coglieva fino al 1950: cioè prima della riforma agricola, sono le zone ondulate del Marchesato fino al Trionto, e più in là una buona metà della piana sibarita e più a nord — già ai confini con l’ambiente lucano — la arida sequenza di colline fiancheggianti la costa ionica fra le fiumare del Saraceno e del Canna. Ma — lasciando da parte ora i grandi massicci a più di un migliaio di m. di altitudine — la Calabria ha un po’ ovunque popolazione che abita sparpagliata per gli agri, in case isolate o in minuscoli casali: cioè in gruppetti di case alquanto asserragliate fra loro, ma abitualmente con meno di una decina di famiglie in totale. La aliquota di questa popolazione, che il censimento chiama «sparsa», equivaleva nel 1951 a 18,5% della popolazione totale della regione, pari a 385.000 unità — una quota che segna un aumento discreto riguardo agli inizi del secolo, quando sparpagliato per gli agri viveva solo il 14,2% della popolazione. E tale aumento, che specialmente negli ultimi trenta anni si è manifestato con singolare prontezza ovunque l’uomo ha divulgato le colture che richiamano più mano d’opera e richiedono più elevato capitale — cioè gli agrumi, il vigneto, i fiori, i generi da orto — è di per sè un sintomo di incipiente rinascita in una regione di agricoltura per lo più non evoluta, come questa.

    Ma se si indaga meglio il censimento risulta chiaro che l’aliquota della popolazione sparsa ha nelle principali zone della regione valori alquanto diversi : e l’istmo di Catanzaro forma a tale riguardo un limite significativo. A nord di esso le aree rivolte al Tirreno e la valle — o meglio, in questo caso, il Vallo nel suo significato originale — del Crati indicano quote molto elevate, in genere di più di 30% e qualche volta di più di 50% : in special modo ove la valle del Crati si dilata (Luzzi 62,8% e San Marco in Argentano 60,6%). Così pure nel cuore della catena padana (Aiello 77% e Longobardi 57,8%; Falconara 51,6%; Cetraro 53,3%; Buonvicino 83,1%; Maierà 60%). Diversamente le parti ioniche mostrano valori più umili o poco rimarchevoli, e in genere — almeno prima che vi iniziasse la sua opera, nel 1950, la riforma rurale — sotto il 10% (ad es. Mesoraca 2,7%; Crotone 3,1%; Melissa 5,5% e poi Casabona 7,1%; Campana 3,3%; Cariati 12,8%; Corigliano 9,7%; Spezzano degli albanesi 5,3%; Trebisacce 3,5%; Montegiordano 5,6%. Trascuro di nominare Isola: 3,6% e Cutro: 6,7% perchè nei loro comuni sono sorti dopo il 1952, ad opera della riforma, una decina di nuclei rurali e diverse centinaia di case poderali ove dimorano ora per lo meno 5.000 persone: cioè un quarto della popolazione dei due comuni).Tale opposizione — che ha la sua ragione basilare nella diversa struttura economica a coltura mista e aziende di mediocre o minuscola ampiezza, che domina in buona parte del medio bacino del Vallo e su le pendici dei rilievi padani, e di contro a latifondi (per lo meno fino a quando fu tenuto il censimento) con sovranità dei seminati nudi o poveramente arborati, sui caotici rilievi marnosi o arenari fra il Simeri e il Trionto e fino al 1955 pure nel piano sibarita, ove la vecchia calamità della infezione plasmodica costringeva gli uomini ad aggruppare le loro dimore in qualche punto elevato — tale opposizione non si coglie invero a sud della strettoia di Catanzaro ove, per quanto con oscillazioni locali a volte pronunziate, l’aliquota della popolazione seminata per gli agri è più uniforme su ambi i versanti e figurano più comuni i valori fra 12% e 25% con punte non rare a più di 40% : sia in piane litorali che sono state oggetto di un ripopolamento negli ultimi lustri per conseguenza di sistemazione idraulica, come quella eufemiate (35,7%) o per dilatazione di colture di pregio, come la cimosa di Locri (media di 38%) e sia in qualche valletta un po’ riparata e riempita di alluvione, con un discreto numero di sorgive, come quella del fiume Ancinale (fra Chiaravalle: 39% e Torre di Ruggiero: 31,2%) o i tronchi medi di quelle fra il Torbido (Gioiosa 41%) e lo Stilaro (Caulonia 32%), ove le colture di pregio — come l’olivo e il gelso e in ultimo l’agrume — già da un secolo sono praticate con frutto. Un po’ meno saliente invece — per quanto non trascurabile — è la quantità della popolazione sparsa nelle pianure litorali, come quella di Gioia (ad es. Rosarno 11,3% ; Palmi 12,6% ; Taurianova 10,1%) splendide sì di rinomate colture ma il cui popolamento ha un’origine più remota e quindi si è conservato più fedele ai tipi raccolti. Ma pure in questa estremità della penisola, le aree ove regna il seminato nudo e arido sono quelle con minore quantità di famiglie dislocate negli agri: così nella media valle del Mesima (Maierato 3,5% e poi Sant’Onofrio 0,7% e Stefanaconi 3,8%; Francica 7,5% e Mileto 2,4%; Soriano 2,7% e Dinami 2%) come sui primi franosi rilievi della zona fra Monasterace e Bado-lato (ad es. Guardiavalle 2%).

    Schema delle forme di insediamento rurale.

    Ciò che da questi dati però non si può ricavare, è un fenomeno alquanto abitu-dinale in diverse zone della regione — peculiarmente in aree montane ove i centri sono meno densi e i comuni di maggior amplitudine — per cui una parte della popolazione sciama dai centri e sparpaglia le proprie dimore in pieno agro per una stagione annualmente. Ricordo i piani più elevati di Aspromonte — a un’altitudine fra 1100 e 1300 m. — a cui salgono nei mesi estivi dai villaggi intorno (Bagaladi, Santo Stefano, Sant’Eufemia, Sinopoli ecc.) delle intere famiglie ad abitare per la mietitura e per i raccolti delle ortaglie e delle frutta, in gruppi di case di legno stabilite fra le colture di patata o fagiuoli o pomodori, e le non rare piantate di meli e ciliegi. E già un certo numero di famiglie — cioè per lo più le giovani, non legate da alcuna proprietà o da qualche occupazione invernale nei centri vicini — ha fermato negli ultimi anni la sua dimora qua, in case un poco più robuste, con muri di pietra e una elementare ripartizione in vani e con molti annessi (uno stalletto, un porcile, un pollaio, una legnaia, un’armatura di travi per l’essiccazione delle frutta e dei pomodori ecc.). Ma anche più notevole è la risalita su le platee della Sila: qui fino a cinque o sei anni fa — ora l’opera di riforma agricola ha mutato alquanto le cose — al di sopra di una catena di paesi tra i più elevati del Bruzio: e cioè a levante San Giovanni in Fiore e Savelli a più di un migliaio di metri, a nord Bocchigliero a 870 e Acri a 700, a ponente Spezzano a 800, Parenti a 820, Colosimi a 870 e Bianchi a 830 ecc., vivevano in minuscoli nuclei, stabilmente — pure nella stagione invernale — solo due o tre centinaia di persone: guardie forestali, addetti ai servizi di viabilità e agli impianti delle industrie del legno e di quelle idroelettriche; ma con la stagione buona era un rimontare animato — fino da aprile — di boscaioli e di addetti ai lavori di segatura, e poi a maggio di rurali provenienti dai numerosi paesi scaglionati ai margini degli altopiani per eseguirvi colture di patata e cereali, e poi ai primi di estate, con tradizioni vecchissime per lo meno di venticinque secoli — e però da vari lustri in declino — i mandriani delle marine ioniche coi loro animali, e specialmente dopo il 1933, quando fu aperta la ferrovia fino a Camigliatello, pure gli addetti alle stazioni turistiche e infine i villeggianti: in realtà la densità umana della Sila, che in inverno non giungeva a una unità a kmq., saliva sicuramente a 6-7 unità in media, nella stagione estiva. E ora anche in questa zona l’insediamento stabile si è fortemente rinvigorito: nei minuscoli villaggi — una decina — e nei nuclei funzionali per vari servizi, creati dalla riforma, dimorano per lo meno 3.600 persone. E neanche le stazioni turistiche restano più vuote d’inverno. Di guisa che pure la Sila — la cui popolazione stabile si può stimare ora a 6.000 persone, per un terzo intorno a Camigliatello — si vien immagliando in questi anni con tipi di insediamento alquanto aperti.

    La fiumara del Trionto a monte di Cropalati.

    Il numero dei centri per le diverse zone della regione, nel 1951, ripartiti a seconda della entità demografica.



    Profilo della entità della popolazione raccolta nei centri, nel 1951, ripartita in base a zone altitudinali.

    I centri

    Le condizioni ora descritte del popolamento dispersivo, sono una conseguenza del numero fortissimo e della entità abitualmente mediocre dei centri della Calabria. Diversamente da quel che si manifesta nelle vicine regioni sicula e pugliese, la Calabria è regione ove, per numero, prevalgono i centri minuscoli o esigui : e ciò risulta bene dal censimento del 1951. A quella data i centri con popolazione sopra i 20.000 ab. erano solo cinque (di cui però solo uno — cioè Reggio — varcava i 50.000), quelli con popolazione da 10 a 20.000 erano 12, quelli con popolazione fra 5 e 10.000 erano 39. Ma 159 avevano una popolazione fra 2 e 5.000 anime, 185 una popolazione fra 1.000 e 2.000, 207 una popolazione fra 500 e mille anime, e 647 una popolazione fra cento e cinquecento. Come si vede, più di un migliaio (cioè i 4/5) non giungeva con la sua popolazione a 2.000 persone: e in questo migliaio di villaggi — ciascuno in genere chiuso gelosamente nel suo meschino giro di vita — abita, e frantuma e invilisce le sue energie, più di metà della popolazione della Calabria. A meditare questi dati si ha come l’impressione, in diverse zone, di un pulviscolo di villaggi: che è il risultato di secoli e secoli di depressione economica e di vita così elementare che la natura fu in grado, quasi ovunque, di dire apertamente la sua parola e costringere gli uomini ad umiliarsi ad alcune sue configurazioni: e quindi a frazionare in modo incredibile i loro abitati e i loro campi, zone di altitudine secondo le diverse qualità dei coltivi, e a dare origine ad abitati in uniforme positura, come scaglionati a catena, là ove il rilievo è accidentato e aspro ma ripete a lungo motivi uniformi — ad es. ai margini dei terrazzi di Aspromonte o degli altopiani silani. In ogni modo il pulviscolo dei villaggi è più forte ove la tradizione bruzia — come la ho già chiamata più volte — ha radicato meglio.

    Vedi Anche:  La Calabria vista dagli italiani

    Profilo della entità della popolazione “sparsa” nel 1951, ripartita in base a zone altitudinali.

    I centri di discreta entità, quanto a popolazione, sono — come dianzi ho riferito — poco numerosi in Calabria: in quel gruppo di neanche una ventina con più di 10.000 anime, vive solo un quinto della popolazione della regione. Lo schema che qui si è indicato, o meglio lo scalare diminuendo del numero dei centri da quelli minimi via via fino ai più grossi, non è però valevole per ogni zona della regione : in realtà potremmo individuare in Calabria vari tipi di portamento molto significativi, in quello che risulta come carico medio di popolazione nei centri a seconda le zone.

    E così la scalarità a cui ho accennato si rivela chiara nel Vallo del Crati (58% dei centri con popolazione fino a 500 ab., 20% con popolazione da 500 a mille, 14% con popolazione fra 1.000 e 2.000 e 6% con popolazione fra 2 e 5.000) e nei distretti montani rivolti al Tirreno: specialmente il Poro (ove il 40% dei centri ha meno di 500 ab., quasi il 30% da 500 a mille, il 15% da 1.000 a 2.000 e il 12% da 2 a 5.000) e la valle del Savuto (ove il 46% dei centri ha meno di 500 ab. e il 30% fra 500 e mille). Su tale fianco della regione anzi pare che ove il rilievo si fa più duro, imponente e discriminatore, là predomini il numero dei villaggi con minima popolazione: vedere la catena paolana lungo cui l’8i% dei centri ha una popolazione sotto i 500 ab. e il 7% fra 500 e mille e neanche 7% fra 1.000 e 2.000, o il lato di Aspromonte che guarda lo Stretto ove il 61% dei centri ha meno di 500 ab. e il 25% fra 500 e mille. Ma un portamento un po’ diverso ha l’unica area di pianura, di popolamento alquanto remoto, che guarda al mare occidentale: e cioè la piana di Gioia (così come le pendici di Aspromonte che finiscono in quella) ove si ha un discreto risalto (22%) dei centri fra i 500 e i mille ab. ma in ben più elevato numero (46%) appaiono i centri con più di mille ab. : la pianura quindi (anche perchè in origine era in forte misura boscata e, nelle aree più depresse e a lato dei fiumi, malsana) ha meno frazionato i punti di raccolta della popolazione.

    Diversamente, una tendenza al primeggiare quantitativo dei centri un po’ più corposi e al contrarsi di quelli minori, si ha ovunque sul lato ionico: così lungo la Serra (sul cui lato interno il 55%, e sul lato orientale il 48% dei centri ha una popolazione fra i 1.000 e i 5.000 ab.) come nel Marchesato (ove il 50% dei centri ha una popolazione fra 1.000 e 5.000), ma in modo particolare sul vasto digradare di colline fra il Neto e il Trionto (con 64% fra 1.000 e 5.000) e nel pedemonte del Pollino (con 78%) e sui franosi spogli e miseri rilievi che chiudono la regione a nord del Saraceno (con 66%). E ove, da questo lato della penisola, il numero dei villaggi minimi si rivela fortemente elevato, come nel distretto di Locri (74% dei centri con meno di 500 ab.) o nel nastro di colline a cui fa da muraglia culminale la Sila Greca (55% dei centri con meno di 500 ab.), gli è che in tali zone il popolamento della esile pianura litorale fronteggiante ha originato negli ultimi lustri una catena di minuscoli nuclei intorno a stazioni ferroviarie, a innesti di strade per l’interno, nel cuore di aree fortemente olivetate o vignetate. Ma pure nei casi ora nominati la frequenza dei centri con più di 1.000 ab. — e sono quelli più vecchi — non è trascurabile (poco più di un quinto del totale). Un portamento simile manifesta pure la zona istmide, che ha un buon numero di villaggi minimi (36% dei centri) frutto della riconquista della piana di Santa Eufemia e della costa ionica, ma un numero leggermente più elevato di centri 1.000 a 5.000 ab. (42% del totale). Dai vari dati ora riportati paiono quindi emergere nuovi elementi di disparità fra l’oriente della penisola e il ponente: elementi che la carta inserita a pag. 257 individua più lucidamente di una minuta descrizione.

    Popolazione, nel 1951, dei due versanti orientale e occidentale (esclusi gli altopiani, le valli interne e il versante dello Stretto) a seconda del modo di insediamento — in centri o sparso — e a seconda l’altitudine.

    Le diverse configurazioni demografiche dei due versanti però non si fermano qui : un esame della distribuzione della popolazione in altitudine — poiché l’altitudine in questa regione ha avuto in qualunque epoca un valore economico — le fa risaltare egualmente vive. I dati del censimento 1951 (che sono editi in forma bruta) una volta selezionati e vagliati con metodica elaborazione, mostrano che la popolazione glomerata nei centri vive per più di metà fra i 100 e i 500 m., e diversamente la popolazione sparsa per gli agri si trova per più di 2/5 fra il mare e i 250 m. di altitudine. I profili a pp. 258 e 259 indicano chiaramente i due fenomeni: ma in realtà il dettaglio zonale di quei profili, dato più avanti, rivela che a tal riguardo i due lati della penisola divergono in modo risentito. Sul lato ovest più di 2/3 della popolazione che vive nei centri dimora ad altitudine fra 100 e 500 m. — ma una decisa predilezione è per la zona fra i 100 e i 300 m. — e il carico di popolazione sparsa che si insedia fra 250 e 500 m. è poco minore di quello sotto i 250 m. Di contro sul lato orientale l’aliquota della popolazione che abita nei centri fra 100 e 500 ab. è un po’ minore che a ovest (58%) ma predomina quella dei centri che si trovano fra i 300 e i 500 m: e la popolazione sparsa è molto più numerosa (quasi metà del totale) al disotto di 250 m. che a quota più elevata. Si potrebbe dire quindi che a ovest le zone — in termini altitu-dinali — di maggior popolamento in centri e di maggior popolamento sparpagliato coincidono o appaiono vicine: e diversamente sul fianco ionico vi è come una disgiunzione altitudinale fra le aree più dense di popolazione sparsa e quelle ove la popolazione che si annuclea è più numerosa. La disparità fra i due fianchi della penisola si ripete nella frequenza dei centri (vedere i profili qui a fronte) : a ovest la loro frequenza altitudinale è in piena rispondenza con il carico zonale della popolazione che vi abita. Ma sul lato ionico tale rispondenza non vi è: fra le zone altitudinali mostra il maggior numero di centri — ma minuscoli: per 4/5 la loro popolazione non giunge a 1.000 anime — quella presso il mare: quella cioè in via di popolamento (e la piccolezza dei centri ne è un segno). E la zona fra 300 e 500 m. da questo lato ha un forte carico di popolazione raccolta nei villaggi, non perchè il loro numero sia elevato ma perchè la loro demografia media è discreta (più di metà di loro supera i 1.000 ab. e alcuni di loro i 5.000). Una zona che però fa a sè è la fiancata di Aspromonte (cfr. i profili qui in alto) che guarda lo Stretto, ove la parte bruzia di quella che possiam chiamare la conurbazione dello Stretto — con Reggio, Villa ecc. — rialza in modo singolare (cioè a più di 3/4 del totale) l’aliquota di popolazione che si ammassa in centri ad altitudine marina (e inoltre vi contrae la popolazione sparsa). Al di sopra di 100 m. i centri sono alquanto numerosi ma minimi (solo un decimo di loro supera i 1.000 ab.): e però la loro frequenza ha un significativo aumento — così come si può notare pure sul fronte meridionale della Sila — nella fascia da 500 a 750 m., cioè nella zona mediana dei terrazzi.

    Popolazione, nel 1951, delle valli interne (diagramma di sinistra) e degli altopiani (diagramma di destra), a seconda del modo di insediamento — in centri o sparso — e a seconda l’altitudine.

    Entità della popolazione nei centri o in forme « sparse » e numero dei centri secondo l’altitudine nella regione dello Stretto (1951).

     

    E infine una predilezione per particolari altitudini è quella della popolazione che vive verso l’interno della regione, come ad es. la valle del Crati e il bacino del Mesima : qui i 2/3 della popolazione stabilita nei centri dimorano fra i 250 e i 500 m. e qualcosa meno di 1/3 fra i 500 e i 750 m., cioè — ad eccezione di Cosenza — lungo quella fascia impluviale ove si stagliano i terrazzi quaternari. Ma la popolazione sparsa è discretamente rilevante (30% del totale) al di sotto di 250 m. — ove il suo affollamento è in genere di giovane data e conseguente al contrarsi della infezione plasmodica — e invece meno frequente (24% del totale) sopra i 500 m. : perciò il profilo ricorda quello disegnato per la zona ionica.

    Come è naturale le aree della Calabria ove la popolazione si porta in notevole quantità a più saliente altitudine sono gli altopiani interni, cioè quelli chiusi fra i dorsi marginali dei massicci : e non quindi i ripiani quaternari in egual misura elevati, che — si guardi l’Aspromonte — a motivo probabilmente del loro affacciarsi verso gli orizzonti marini non furono mai focolaio di una vita economica autonoma — come diversamente, nei secoli più oscuri, gli altopiani chiusi fra rilievi — e quindi di un popolamento stabile. Su l’Aspromonte, ad altitudine di più di 500 m. abita unicamente 1/7 della popolazione dei centri e neanche il 10% della popolazione sparsa della minuscola regione. Invece sugli altopiani silani più di 3/4 della popolazione dei centri dimorano a oltre 750 m. e fino a 1250 m., e nella Serra i 4/5 della popolazione dei centri si trovano fra i 500 e i 1000 metri. Ma il popolamento agricolo sitano che si è iniziato dopo il 1950 per impulso della riforma, ha sicuramente aumentato negli ultimi anni il peso degli insediamenti sparsi ne l’area al di sopra di iooo m.

    Numero dei centri in ciascuno dei due opposti versanti, nelle valli interne del Crati e del Mesima e negli ambiti degli altopiani (1951).

    versante tirreno




    versante jonico

    valli interne

    Altipiani

    Da questi elementi unicamente numerici risulta una esauriente documentazione di quanto ho più volte indicato: e cioè che in Calabria, a parte le zone ove i richiami dei boschi o dei pascoli costringono a salire sui monti, si ha o si aveva fino a qualche lustro fa — ma l’energia di simili costumi ed esperienze è dura da smantellare! — una tendenza irrobustita nei secoli ad insediarsi ad altitudini rilevate (su un totale di 1235 centri nella regione il 58,8% sono ubicati a più di 300 e fino a 1000 m. di altitudine) per la convenienza squisitamente economica di impiantare le dimore, la chiesa e il mercato in zona mediana fra i litorali, o le minuscole piane o i fondi valle di alluvione, e i culmini montani. Però non solamente in zone al di sopra di 300 m., ma anche in positure isolate e di frequente su rilievi o scogli o promontori dai fianchi dirupati e non agevoli a salire. Ciò per ragioni igieniche (il vento era una volta il miglior medico in grado di disperdere i germi dei morbi) e per motivi di difesa e di salvaguardia. Di salvaguardia però non dai vicini (come fu per il nord d’Italia nei secoli preromani e medioevali) ma da quanti giungevano per conquista — e perciò da di fuori — a qualche punto degli sviluppatissimi litorali della penisola.

    Vedi Anche:  Prodotti della terra e del mare

    Sequenze a “ catene uniformi ” e loro motivazione economica.

    Neanche però le notazioni a cui mi sono indugiato ora risolvono le molte disparità di forme di popolamento fra i due versanti della penisola bruzia. Ho già accennato a quanto frequentissima è nei centri della regione una disposizione a catena: è raro cogliere in altre regioni d’Italia così numerose sequenze di abitati di ogni tipo, sgranati in seriazioni continuate, diverse per origini e ubicazione. Seriazioni che a prima vista paiono connettersi con linee di morfologia naturale, ma che in realtà sono anche o in modo particolare condizionate da nastri di sutura o giunzione fra aree a diversa configurazione economica, o meglio agricola. Si guardino le cartine ora inserite, ove ho indicato pure i diversi tipi di coltivazione: notevoli tratti del litorale, specialmente di quello occidentale fra le foci del Lao e del Savuto, e di quello che bagna il piede di Aspromonte, e di quello ionico lungo la pianura di Locri e lungo il golfo di Squillace ecc. sono segnati da file regolari e dense di « marine » o nuclei nati per richiamo di stazioni ferroviarie; rosari di villaggi indicano i bordi dei terrazzi quaternari fronteggiantisi sul lato ovest della Serra e sui margini orientali del Poro ; e così pure una catena di villaggi si profila su la scarpa meridionale del rilievo silano, delineando i bordi di tre brevi ripiani quaternari uno a 350 m. in media, uno a 500-600 e uno a poco più di 800. (Diversamente, sul lato di Aspromonte che guarda lo Stretto — a eccezione dei terrazzi meno elevati, ove l’annucleazione dei villaggi rurali risale per lo più agli ultimi secoli — v’è stata fino a cinque o sei secoli fa, per timore di colpi di mano provenienti dal mare, una tendenza quasi a nascondere i villaggi, che in realtà sono raramente visibili dal mare, negli anfratti o sui ripidi fianchi delle fonde valli: vedi San Roberto, Laganadi, Santo Alessio, Po-dargoni, Santo Stefano, Cardeto, Bagaladi, Con-dofuri ecc., o al riparo e in cima di imprendibili scogli : come Orti, Montebello, Pentedattilo, San Lorenzo ecc. — anziché dispiegarli apertamente sul piano dei terrazzi). E una egualmente significativa, per quanto un po’ aperta catena si individua sopra le colline ioniche dai fianchi meridionali di Aspromonte a quelli orientali della Sila (con il solo intervallo della strettoia di Catanzaro) lungo le aree di sutura fra i calcari arenari — i cui estremi rilievi (cioè i più avanzati verso il litorale, o isolati e torreggianti) formano il sito preferito di molti abitati di origini bruzie o bizantine — e le incavate e mobili argille che sono abitualmente quasi vuote di stabili nuclei umani. Una bella seriazione di centri si rivela pure sui terrazzi marini intorno a 250 e intorno a 400 m. con cui termina il pedemonte della Sila Greca; e una alquanto chiara su le unghie dei grandi conoidi che fasciano da Villapiana a Morano il piede meridionale del Pollino. E una catena foltissima infine v’è ai margini elevati della principale pianura di popolamento anziano — quella di Gioia —: cioè sui conoidi delle fiumare che precipitano dai monti vicini. Ma la più densa e meglio configurata e forse più lunga catena — 60 km. sul lato di levante — è quella che si disegna ai due lati del Vallo del Crati — ove forma le due file di « casali » cosentini — e sugli spalti silani dei bacini di raccolta dei fiumi Savuto e Amato e Corace : villaggi sistemati a oriente lungo i resti di un gran ripiano presilano che si eleva da un po’ meno di 400 m. a Bisignano a più di 600 m. a Rogliano, e a occidente sugli spalti del principale gradino interno della catena padana (il cui profilo giunge fino al bacino di raccolta del fiume Esaro) ad altitudini di poco diverse. Ho ricordato gli esempi più tipici: ma se da questo    sguardo    puramente    topografico ci eleviamo di un poco a esaminare le origini di così uniformi rosari di paesi, la corrispondenza o la somiglianza di ubicazione loro risulterà come cosa di superficiale portata: in realtà vi è solo un comune denominatore nelle origini di tali paesi, e cioè che la maggior parte di essi è nata in un ambito di civiltà alquanto primitive — un certo numero con i bruzi, fra i rilievi padani e gli altopiani silani, e con i siculi forse agli estremi meridionali della penisola, e un forte numero in secoli di avvizzimento di una civiltà dianzi progredita, come fu qui l’età dei bizantini, o in un periodo di iniziale ma flebile rinascita, con forze inadeguate e non coordinate, come fu il ritorno ai litorali fra la metà del secolo XVIII e i primi lustri del nostro.

    Catena di centri: i Casali cosentini in sinistra del Crati.

    1. zona delle colture promiscue e degli oliveti, corrispondente più o meno ai terrazzi pliocenici;
    2. limite basso del castagno;
    3. villaggi;
    4. stazioni ferroviarie.

    Voglio dire: quelle sequenze di paesi sono germinate in secoli in cui la vita locale era più debole e chiusa, e quindi non restìa a plasmare le sue forme di popolamento su le indicazioni o le disposizioni o le coercizioni della natura. Al di là di questo comune denominatore però, la storia è molto diversa: e così la fila di centri su la costa paolana (Scalea, Diamante, Belvedere, Cetraro, Paola, Amantea ecc.) o su quella dirupata del fianco nord di Aspromonte (ad es. Scilla) o su quella a minuscole cale del Poro (ad es. Tropea) è formata in genere da due elementi topograficamente divisi (o divisi in origine e solo di recente saldati) ma funzionalmente congiunti da alcuni secoli — in qualche caso fino da età bizantina —: e cioè un nucleo sistemato su qualcuno dei pittoreschi promontori che i solchi delle fiumare intagliano nelle platee dei terrazzi, e presso il mare un nucleo da pesca o da traffico, di frequente decaduto — fino a poco prima della costruzione della ferrovia litorale — dal locale risalto e animazione che aveva avuto in origine, e in particolare nel secolo diciottesimo. Fra le due parti, fra i due nuclei del centro, che potevano distare due o tre centinaia, a volte un migliaio di m. in linea d’aria, vi era quindi — e così è rimasta — complementarità economica: in basso vivevano i marinari e i pescatori, e in alto, sul dirupo o il terrazzo che domina il mare e da cui irradiano le strade per l’interno, erano stabiliti i contadini. E solo la evoluzione delle forme di traffico spostò la prevalenza da questo a quello dei due nuclei : nel secolo XVIII il gran smercio di oli e vini e frutta di fico o di cedro ecc. favorì le marine; dopo il 18io la ricostruzione della strada carrozzabile per iniziativa dei napoleonidi aveva rialzato il valore del nucleo di sopra che la strada sfiorava o per cui transitava; dopo il 1890 l’apertura della ferrovia rielevò in vari casi il peso delle marine perchè vi era stata impiantata la stazione. E oggi le marine riprendono nuova forza con la nascita di qualche stazione balnearia, la frequente deviazione più vicino al mare della strada carrozzabile, e la comune dilatazione delle parti nuove degli abitati lungo la piana cimosa litorale. Diversamente lungo la costa ionica, ove fino a tre secoli fa unici nuclei abitati erano Crotone e Cariati, la formazione delle marine è fenomeno dell’ultimo secolo e fino a qualche lustro fa fu riguardevole solo ove l’infezione plasmodica era meno pesante: e cioè su l’esile costa a sud della strettoia di Catanzaro che fino dal secolo XVIII aveva visto divulgare in diversi punti (Melito di Porto Salvo, Gioiosa ecc.) una coltura di agrumi. A tale fenomeno — che a nord del Simeri il forte anofelismo ha reso meno    vivo fino agli anni fra le    due guerre — diè    animazione e sveltimento dopo il 1870    la costruzione della ferrovia bordeggiante il mare: si crearono così in meno di un secolo numerosi centri marini di sicura vitalità economica e discreta popolazione come Bova marina, Bovalino marina, Gerace marina (ora chiamata Locri), Siderno marina, Gioiosa marina ecc. Tali paesi sono in realtà lo sdoppiamento di paesi più interni — e lo documentano pure i loro nomi — che distano dal mare cinque o sei, a volte una decina di km. e più, per carrozzabile, ma che neanche la minima relazione di complementarità lega con i nuovi. Vi è anzi rivalità fra i paesi interni e le corrispondenti marine, che sorte per migliorare, con la stabile dimora degli agricoltori, le coltivazioni delle fertili cimose litorali e per rendere più spedito e razionale il traffico delle produzioni locali, e poi a mano a mano ingrandite con il flusso di popolazione proveniente dai paesi interni, sono giunte negli ultimi cinquanta anni a rivendicare — e in genere a conquistare — pure una autonoma gestione comunale. E il fenomeno si ripete ora fedelmente pure sul litorale crotoniate e sibarita, ove l’opera di disinfestazione plasmodica prima e di riforma rurale poi ha dato vivo impulso negli ultimi quindici anni a un ingrossamento di vari nuclei rivieraschi dianzi solo accennati (es. Torre di Melissa, Marina di Ciro, Torre di Crucoli, Marina di Schiavonea) e a una fioritura di nuovi (es. Fasana, S. Giacomo di Calopezzati, Mirto, S. Angelo, Torre Cerchiara).

    Catena di centri intorno ai limiti — un po’ alterati nell’ultimo secolo — del castagneto, sul versante meridionale della Sila.

    1. colture promiscue e oliveti;
    2. castagneto;
    3. colture di altitudine (cereali, patate e legumi) frequentemente irrigue;
    4. pascoli;
    5. villaggi.

    Catena di centri ai lati del bacino del Mesima.

    1. colture promiscue e oliveti ;
    2. villaggi;
    3. margine del terrazzo pleistocenico profilato fra 250 e 300 m. ;
    4. margine del terrazzo orientale del Poro, riconoscibile fra 420 e 470 m. ;
    5. margine del terrazzo occidentale della Serra, riconoscibile fra 570 e 700 m.

    In alto una topografia di Scalea e in basso una topografia di Paola. A colore sono indicate le linee di cinta dei due abitati nel secolo diciottesimo. (Per questa e per le topografie seguenti ha servito di base la carta della Calabria a scala io mila, edita nel 1959 dalla Cassa per il Mezzogiorno).



    Topografia di Amantea. A colore è delimitata l’area occupata dell’abitato medioevale.

    Topografia di Tropea. A colore è delimitata l’area urbana nel secolo XVI. Nel foglio 30 della carta del Rizzi Zannoni (1808) già descritta a pag. 6, gli scogli Linguata e S. Leonardo figurano circondati dal mare. Da poco più di un secolo i due scogli si sono saldati al litorale arenoso.



    Un altro caso di disparità nei motivi originali è riconoscibile nei nastri di villaggi scaglionati su le gradinate che plasmano i bordi dei principali massicci: nel Vallo del Crati la formazione di questi villaggi — che sui terrazzi meno elevati sono ora ai limiti fra l’oliveto e le colture promiscue poco o mediocremente progredite, e sui terrazzi di maggior altitudine indicano i limiti odierni fra questi coltivi misti e il castagneto — esprime, in modo alquanto funzionale, le convenienze di una elementare società (cioè la bruzia fra il secolo III a. C. e il secolo IX d. C.) la cui vita era basata in origine su turni stagionali e su diversa dislocazione altitudinale dei seminati e dei pascoli. Di contro nella cuspide meridionale della regione il perimetro dei centri da cui è circondata l’area cacuminale di Aspromonte, è la conseguenza — come si sa — di una risalita, forse capillarmente svolta, fra i secoli quinto e decimo, di comunità più decisamente rurali e un poco più evolute di quelle silane (questa zona fu uno dei primi focolari della coltura foraggiera della sulla, che si rivelò poi efficientissima nei suoli aridi, di costituzione marnoso-calcare) che lasciavano i loro villaggi distrutti o declinanti o poco sicuri, su la costa: ma là, sui ripiani ad altitudine sopra i 500 m. quelle comunità venivano in relazione con nuclei di pastori di più vecchio stabilimento, e per via di sinecismo fra i due gruppi di diversa provenienza e base economica, si crearono i numerosi villaggi (più di una cinquantina) ubicati fra poco meno di 500 m. e poco meno di 1000 m. Il sinecismo però lasciò impronte indelebili fino ai nostri giorni nella loro costituzione sociale e perfino — in più di un caso — nel loro disegno topografico (ad es. la odierna Delianuova, che è il frutto della giunzione di due casali da una decina di secoli molto vicini fra loro — meno di un km. — e legati fino dagli inizi da una integrazione economica, ma che sono restati, per lo meno fino al 1930, uno tipicamente agricolo e uno tipicamente pastorale e boscaiolo).

    L’urbanistica tradizionale

    Invero — e non dico una esagerazione — il più appariscente elemento in comune fra i centri di Calabria è la povertà: quella impressione di irrimediabile squallore, cioè di deficienza economica e di deplorevoli condizioni igieniche che — pure in misura un po’ diversa — mostrano così i villaggi di qualunque zona come le parti residenziali di vecchia edificazione o — se pur nuove — di abitato bracciantile, nei principali centri. Un miserevole quadro che duramente, fino ai nostri giorni, ha segnato nel corpo della regione il cospirare di due forze : la continuità di una storia penosa e oscura per una quindicina di secoli, e la frequenza dei colpi repentini e degli sconvolgimenti dovuti a calamità naturali, cioè in primo luogo i moti sismici e poi le inondazioni e le frane. Se si fa per ora astrazione di quelli, per lo più minori, sorti da un secolo o meno su le cimose litorali, e di quelli — di qualunque grado di ampiezza — ricostruiti negli ultimi due secoli dopo una distruzione sismica, gli abitati di vecchio impianto svelano in Calabria una topografia informe: di frequente si appollaiano o si inerpicano su rupi nude, che a volte (e specialmente sul fianco ionico, per la costituzione arenosa o conglomeratica) rudimentali muraglioni si sforzano di salvare da scivoli e frane ai margini. Le vie strettissime e inclinate, e non di rado scavate nella pietra viva, o formate da rustiche gradinate. Le case meschine e basse (un piano o due) fra cui troneggia qualche edifizio signorile, una volta decoroso, ma ora di frequente in rovina o declassato, con grande portone e balconi a bella ringhiera di ferro, e non di rado eleganti ma maltenuti cortili, chiaroscurati da scale e da loggie. In genere meno dominanti le chiese : per lo più molto rustiche e abitualmente prive di campanile (per tema di crolli sismici) o con campanile poco elevato, che non svetta e non crea profili salienti. Per meglio dire, chiese emergenti o severe, con qualche notevole elemento d’arte, solo in quei paesi ove siedevano famose famiglie baronali, la cui parentela con illustri famiglie del centro e del nord Italia agevolò la penetrazione di rinomate scuole (vedi ad es. la chiesa della consolazione di Altomonte e la chiesa di San Nicola a Scalea, la chiesa madre di Montalto e la chiesa madre di Castelvetere, la collegiata di Leoluca a Vibo ecc.). A parte il rilievo della posizione, vi è in realtà piattezza nel blocco di questi abitati : e a chi li guardi a qualche distanza ciò che risalta veramente superbo e bello è, per armonica e lata campitura di volumi, per forte taglio di sagome, l’ambiente naturale che li circonda, a cui niente però — cioè nessun richiamo particolare — quegli abitati conferiscono, e fra cui il maggior numero di loro resta come inerte e sordo e non dà spicco nè di forme nè di colori. Scriveva giustamente l’Alvaro (Itiner. ital., pp. 346-347) che in Italia «vi sono altri e più bei paesaggi, che danno il senso della trionfale presenza dell’uomo, come se l’uomo li avesse ridotti in suo potere e resi soggetti, che sono la chiara immagine della sua storia: c’è nella Lombardia dei canali la geometria di Leonardo e v’è la Toscana dove la natura non è che l’introduzione alla architettura… Ma in Calabria siamo ancora al primo balzare dell’uomo nella sua abitazione terrena, tra mille forze nemiche: l’uomo vive in mezzo alla natura ancora sottomesso, ma vi sta come figlio, con quanto è insondabile in questa affezione ».

    Il motivo di queste dolenti impressioni è anche che gli edifizi insigni come opere d’arte sono rari — in special modo nella parte meridionale della penisola — perchè rovinati dai poderosi scuotimenti sismici e per lo più frantumati a ruderi (ricordo la roccelletta di Squillace e l’abbazia di Mileto — fondamentali esperienze della edilizia religiosa normanda prima di giungere ai fulgori siciliani — e i rinascimentali conventi certosino di Serra e domenicano di Soriano): le opere meglio conservate figurano nella parte settentrionale e media, e sono le deliziose chiesupole di stile bizantino (a Rossano, a Stilo, nella greca Siberene) elevate con sistemi murari di tradizione romana — e perciò molto salde — e le costruzioni religiose normande e sveve (ad es. le chiese episcopali di San Marco in Argentano, di Tropea e di Gerace e l’abbazia fondata da Gioachino da Fiore in San Giovanni) e quelle militari angioine e in modo particolare aragonesi di Rocca Imperiale, Roseto a Capo Spulico, Castrovillari, Belvedere, Corigliano, Santa Severina, Strongoli, Vibo ecc., di cui numerose appaiono fotografate in questo volume.

    I moti sismici, così reiterati negli ultimi secoli nella parte meridionale della penisola, distruggendo in larga misura un buon numero di abitati imposero poi un’opera di ricostruzione secondo canoni più razionali — cioè antisismici — e quindi con schemi urbanistici meglio ordinati. Perciò alla informe e stipata configurazione della topografia medioevale si è venuta sostituendo, nei paesi la cui riedificazione fu integrale, una planimetria su schema regolare e a costruzioni basse — frequentemente a un solo piano —: comune è quindi in diverse zone della Calabria meridionale, come ad esempio l’altopiano di Vibo, la piana di Gioia, l’Aspromonte occidentale ecc., il tipo di paese risorto dopo gli sconvolgimenti sismici, a maglie uniformi di vie spaziate, aperte e dritte, e grandi piazze regolari, con case uguali e a volte superstiti baraccamenti (es. Villa, Palmi, Polistena). Agli aspetti visibili se ne aggiungono poi di connessi coi sistemi e coi materiali costruttivi: cioè le opere di consolidamento e di spianamento del sito dei paesi, con replezione di avvallamenti, sbancamento di ondulazioni, erezione di muraglioni per sostenere i pendii franosi, e poi — per le ricostruzioni operate negli ultimi cinquanta anni, secondo i più razionali canoni antisismici — l’intelaiatura degli edifìci eseguita esclusivamente con ferro e cemento e le fondazioni ben impiantate su terreni stabili. In qualche caso perfino la toponomastica dà il segno della origine artificiale, o per lo meno ringiovanita, di tali paesi (es. Filadelfia, Pianopoli, Cittanova). Questa planimetria a riquadri, che è la più elementare nei piani di costruzione sistematica e a ritmo rapido, è stata poi ricopiata dai più giovani centri specialmente ionici, di ripopolamento delle marine, già più volte ricordati: paesi però esteriormente mancanti di qualunque personalità: uguali, scialbi, che stancano. E ove — per quanto la vita sia più dinamica — neanche la novità della costruzione ha eliminato quel tono di malinconica e torpida desolazione che fino ai nostri giorni ha riempito la vita dei centri in Calabria. In ogni modo la riedificazione post-sismica ha portato nuovi elementi di diversità nei tipi di stabilimento umano: a nord della insellatura di Catanzaro la topografia dei paesi rimane abitualmente quella a impianto medioevale, cioè ammassata e confusa, qualche volta a linee un poco concentriche verso i simboli edili — diruti o no — di medioevali autorità: la dimora del barone e la chiesa madre. Invece a sud — e un po’ ovunque lungo il nastro delle pianure litorali — la configurazione dei centri è mutata con notevole frequenza fino dagli anni seguenti le rovine del 1783, ma specialmente dopo l’ultima distruzione del 1908, secondo il disegno uniforme della più elementare urbanistica moderna.

    Topografia di Nicotera e della sua marina, annucleatasi dopo la metà del secolo scorso.

    Topografia di Gioia Tauro e della sua marina. A colore è delimitata l’area occupata dall’abitato verso la fine del secolo XVIII (v’era una cinta di mura con torri quadre) quando vi furono istituiti i principali magazzeni oleari della omonima piana.

    Topografia di Locri. Il foglio 31 della carta del Rizzi Zannoni (1808) indica in questa zona un litorale totalmente deserto.

    Topografia di Belvedere e della sua marina. La configurazione liscia e aperta del terrazzo pleistocenico fra 50 e 80 m. che divide l’abitato dal mare è un motivo della positura un pochino più internata di Belvedere. Ma anche la natura dei suoli deve aver agito, in quanto quel terrazzo è eroso nella sua scarpata marina.

    Topografia di Soverato e della sua marina, nata intorno a un minuscolo fortino, a metà del secolo XVIII e ingranditasi poi dopo il 1880 con l’apertura della ferrovia ionica.

    Topografìa di Ciro marina. La zona aveva già rade colture e qualche ricovero agli inizi del secolo scorso.

    Topografia di Trebisacce. A colore la cinta di mura del secolo XVI. Dove ora si spande, con schema regolare, la parte nuova, agli inizi del secolo scorso v’era qualche coltura e un deposito di merci.

    Topografia di Gerace. L’area che l’abitato riveste, con la sua configurazione tipicamente medioevale, è la medesima occupata agli inizi del secolo scorso.

    Topografia di Squillace. La sua configurazione non ha avuto mo dificazioni dopo la metà del secolo scorso.



    Topografia di Santa Severina. La zona priva di case, ad altitudine di 290-300 m. fra i limiti orientali de l’abitato e i margini dello scoglio che lo ospita, era occupata nei secoli scorsi dal quartiere Grecia, che rovinò totalmente per il cataclisma del 1783.

    Topografia di Bisignano (la bruzia Besidiae) da cui prese nome il ramo primogenito dei prìncipi Sanseverino, finito nel 1888. Si notino i numerosi conventi ed edifici religiosi, e le tracce del quartiere israelitico, un po’ isolato.

    Topografia di Rogliano.

    Topografia di Carpanzano.

    Topografia di Taurianova, che risulta dalla fusione di due centri vicini — ben visibili qui nel loro impianto originale — con base economica molto simile (l’oliveto): cioè Radicena e di latrinoli.

    Topografia di De-lianuova, nata per la fusione di due villaggi vicini, di diversa struttura. Pedavoli è l’originale villaggio contadino, fra gli oli-veti e Paracorio l’originale villaggio pastorale, fra i castagneti. Le due comunità si unirono poco prima del 1880 per fronteggiare i sintomi di una crisi economica.




    Topografìa di Villa San Giovanni, quasi totalmente ricostruita dopo il 1908.

    Topografia di Palmi: risorta già una prima volta dopo la paurosa rovina del 1783, ebbe distruzioni anche dai seguenti sismi del 1894 e del 1908. Quindi è stata quasi totalmente ricostruita con criteri antisismici negli ultimi cinquanta anni.

    Topografia di Filadelfia, costruita negli ultimi anni del secolo XVIII al posto di Castel Monardo (sita 2 km. ad oriente) che era stata diruta dal sisma del 1783.




    Topografia di Vibo. È riconoscibile a oriente — e culmina nel castello fondato da Ruggiero di Haute-ville e ampliato dagli svevi e dagli angioini — la parte medioevale con strade sinuose, alternate però a vie dritte che furono aperte, a mano a mano, dopo i danneggiamenti sismici degli ultimi secoli.

     

    Vedi Anche:  Origine del nome