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Crescita demografica ed emigrazione

    Il popolamento e la sua evoluzione

    Sguardo alle condizioni demografiche attraverso i censimenti.

    I rilevamenti della popolazione per la regione marchigiana si iniziarono alla metà del XVII secolo; essi non avevano l’intendimento di accertare il numero degli abitanti nè avevano scopi religiosi benché fossero affidati ai parroci, ma soltanto scopi fiscali; infatti la regione era sotto il governo dello Stato della Chiesa e questo faceva la tassazione delle anime escludendo in un primo tempo quelle sotto i tre anni di età. Considerare quindi le variazioni della popolazione basandosi su tali numerazioni comporta innanzitutto per quanto riguarda la prima, quella del 1656, un calcolo preliminare tendente a stabilire il numero di bambini al disotto di tale età, per le altre invece una paziente ricerca della popolazione delle varie località che compongono la regione e che sotto il governo pontificio facevano parte di province diverse.

    I risultati che si ottengono sono necessariamente sommari e imprecisi, tuttavia possono servire a dare una indicazione sulla consistenza della popolazione specie per alcuni secoli nei quali spesso vi sono state forti oscillazioni in rapporto a condizioni economiche particolarmente sfavorevoli oppure ad epidemie.

    I documenti dei censimenti dello Stato Pontificio si conservano nell’Archivio Vaticano e anche in vari archivi di Roma; al principio del secolo il Corridore riunì tutti i dati relativi in un lavoro sulla popolazione dello Stato Romano da cui sono state attinte le cifre, poi opportunamente controllate.

    Per il 1656, considerando le Marche come costituite dalle province di Marca e Ducato d’Urbino, si ha un complesso di 466.075 ab. esclusi i bambini di età inferiore ai tre anni; se a questi si attribuisce un valore di 7,4% della popolazione totale come consiglia il Corridore, si ottiene per lo stesso anno una popolazione di 511.304 individui. Per i censimenti successivi si hanno i seguenti dati:

    Popolazione



    1701

    1708

    1736

    1769

    1782

    Marca   330.795 339.901 373.107 426.222 464.188
    Ducato di Urbino  

    122.172

    119.008

    140.830

    153.006

    166.575

    Totale

    452.967

    458.909

    513-937

    579.228 ,

    630.763

    Il prospetto in linea generale indica un costante aumento della popolazione che in un periodo di circa ottantanni equivale a 177.796 unità. Si ripete però che la consistenza della popolazione è soltanto indicativa; ad esempio, nei dati di ogni censimento è sempre escluso Camerino, i cui valori di popolazione sono uniti a quelli deirUmbria.

    La popolazione di Urbino presenta una diminuzione tra il 1701 e il 1708 che probabilmente è inferiore a quella verificatasi realmente; secondo le relazioni degli ambasciatori veneti Sagredo e Grimani infatti la popolazione dello Stato d’Urbino si ridusse in quel tempo di circa un terzo a causa di pessime condizioni economiche che rendevano i sudditi in uno stato di estrema miseria, tanto che molto spesso essi cercavano di abbandonare la coltivazione della terra.

    Se per le difficoltà di un calcolo specifico si assumono per i valori di densità quelli relativi all’intero Stato, si nota come questi vadano gradatamente aumentando mantenendosi però sempre entro limiti piuttosto modesti; da un valore di 43 abitanti per kmq. nel 1656 si passa a quello di 57 nel 1782.

    Ai censimenti posteriori dello Stato Pontificio, cioè a quelli che vanno dal 1816 al 1853, forse si potrebbe attribuire una maggiore attendibilità, non solo perchè ormai i rilievi erano più organici ed avevano perduto una parte del carattere fiscale vero e proprio, ma anche perchè la suddivisione amministrativa che essi riflettono permette di prendere in considerazione la regione quasi nel suo complesso odierno.

    Popolazione

    1816

    1833

    1844

    1853

    1871

    Abitanti

    Dens per kmq.

    Abitanti

    Dens per kmq.

    Abitanti

    Dens per kmq.

    Abitanti

    Dens per kmq.

    Abitanti

    Dens per kmq.

    Ancona

    147.355

    129

    158.159

    138

    167.119

    146

    176.519

    155

    184.625

    l6l

    Ascoli Piceno

    69.058

    56

    78.946

    64

    83.980

    68

    91.916

    75

    96.438

    78

    Camerino

    31.136

    37

    36.592

    44

    37-705

    46

    42.991

    52

    47.283

    57

    Fermo

    77.089

    89

    89.404

    103

    104.003

    120

    101.321

    127

    106.566

    123

    Macerata

    197.3I3

    85

    220.130

    95

    233.004

    100

    243.104

    105

    241.708

    104

    Pesaro e Urbino

    198.145

    54

    225.806

    62

    235-386

    64

    257.751

    71

    268.404

    73

    Totali

    720.096

    75

    809.037

    84,4

    861.197

    90,6

    922.606

    97,5

    945.024

    99,3

    Tuttavia le differenze che contengono consigliano di considerare i dati esclusivamente come cifre indicative della consistenza della popolazione e delle sue variazioni: infatti gli aumenti che indicano sembrano un po’ eccessivi relativamente al tempo in cui si verificarono, ricco di rivolgimenti e di travagli politici, seppure i governi fossero più maturi per esplicare le loro funzioni amministrative e più organizzati dal punto di vista economico e fiscale.

    Il forte aumento di popolazione riportato dalle statistiche con probabilità è in parte fittizio, cioè anziché rispecchiare una reale variazione porta la correzione dei dati relativamente ai rilevamenti precedenti, oppure si riferisce a differenti superfici di rilevamento. Ci sembra infatti poco probabile che dal 1816 al 1853, cioè in soli 37 anni, si sia verificato un aumento complessivo di 202.000 unità; che anche dal 1782 al 1853, cioè in 55 anni, l’aumento sia stato pari quasi a 300.000 unità.

    Anche se non possono essere prese in considerazione le cifre assolute, è interessante tuttavia l’indicazione che i vari censimenti dànno di un costante aumento della popolazione e di conseguenza anche di un costante aumento dei valori di densità: da quella media di 75 del 1816 si giunge a quella di 97,5 del 1853. Anche le densità relative alle singole province sono molto interessanti perchè, pur nel loro graduale aumento, indicano già una spiccata distinzione tra le aree della pianura e quelle della montagna e ancora tra quelle a fisionomia economica composta agricolo-industriale e quelle ad economia esclusivamente agricola. Si delineano inoltre già delle aree a forte addensamento con valori superiori a 100 ab. per kmq.

    Il IX censimento generale della popolazione, quello del 1951, riporta per le Marche i seguenti dati riassuntivi:





    Provincia

    Popolazione presente

    Popolazione residente

    Ancona   396.727 399.143
    Ascoli Piceno   323.624 329.081
    Macerata.   297.838 300.972
    Pesaro e Urbino   330.623 334.834

    Totali

    1.348.812

    1.364.030

    Le cifre prese per se stesse hanno uno scarso significato se non si pongono a confronto con quelle che riguardano i censimenti precedenti; se infatti prendiamo in considerazione la popolazione presente nelle Marche dal 1871 ad oggi dobbiamo constatare che si è verificata una continua ascesa per la quale dai 945.024 ab. del 1871, si passa al 1.060.755 ab. nel 1901 e al 1.217.746 ab. nel 1931 e al 1.348.812 nel 1951 ; in poco meno di un secolo cioè l’aumento assoluto è stato di 410.393 unità con una media annua di 5130 unità. Gli aumenti medi annui maggiori sono stati tra il 1931 e il 1951, pari a 7314 unità, quello tra il 1911 e il 1921 in media di 5504 unità e infine quello tra il 1881 e il 1901 pari alla media di 6073 unità annue; i maggiori aumenti si sono quindi verificati in rapporto a periodi particolarmente agitati nei quali si sono svolti, ad esempio, due grandi guerre che, come generalmente in ogni altro luogo, hanno determinato un notevole incremento naturale della popolazione.

    Il maggior aumento complessivo è quello della provincia di Ancona con una media annua di 1647 unità, mentre quello minore è della provincia di Macerata con una media annua di 778 unità; è singolare che il maggiore aumento si sia verificato proprio nella provincia di Ancona, che ha una minore superficie territoriale nei confronti delle altre.

    Il confronto fra il censimento del 1931 e quello del 1951 è indubbiamente interessante per una valutazione complessiva dell’andamento della popolazione, tuttavia il fatto che il primo sia stato effettuato con un anticipo di oltre 10 anni sugli avvenimenti collegati alla seconda guerra mondiale e che il secondo sia stato fatto quando già i riflessi di questi avvenimenti sulle condizioni demografiche si avviavano a scomparire, rende poco utili i dati per una valutazione generale delle modificazioni temporanee subite dalla popolazione. A questo proposito è stata compiuta un’indagine dal Gambi, riguardante l’Italia nord e centro-peninsulare basata sui dati del censimento del 1936 e su quelli della popolazione residente calcolata nel dicembre 1947 dall’Istituto Centrale di Statistica; dall’indagine l’autore ricava anche una carta sulle variazioni demografiche tra il 1936 e il 1947. Dall’osservazione di questa si può rilevare che le più forti perturbazioni sia positive che negative si sono verificate nell’area di San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, in oasi limitate tra le valli del Chienti e del Potenza, intorno a Pesaro e nella zona appenninica dei Sibillini; solo in quest’ultima le variazioni sono state più estesamente negative. Gli incrementi più notevoli sono quelli di San Benedetto del Tronto (25,1%), Porto Recanati (17,8%), Civitanova (16,0%), Porto San Giorgio (14,6%); l’aumento è dovuto ad un incremento naturale che si può desumere elevato se in tutta la regione tra il 1936 e il 1940 tale incremento risultava pari al 10,2 %o, mentre in altre regioni limitrofe, come ad esempio nell’Emilia, era per lo stesso periodo pari al 7,3 %o; dal 1940 però in tutta la regione l’incremento naturale tende a diminuire e nel 1946 è pari al 9,2 %o-

    Se insieme ai valori dell’incremento demografico si considera la cronaca degli avvenimenti bellici, si può concludere che alle aree di maggiore aumento corrispondono quelle che non sono state interessate a lungo dalle operazioni di guerra. Infatti il bacino del Metauro risulta movimentato da una serie di aree a condizioni demografiche differenti: si alternano cioè quelle con forte aumento a quelle con diminuzione e a quelle stazionarie che, nell’insieme, denotano perturbazioni non indifferenti attribuibili alle condizioni militari nelle quali la zona si è venuta a trovare e caratterizzate soprattutto dalla vicinanza della linea difensiva « gotica ». Le diminuzioni più appariscenti sono quelle tra il Metauro e il Foglia: — 5,6 a Sant’Angelo in Vado, — 3 a Tavullia. Ad eccezione di queste piccole oasi distribuite qua e là, le zone nelle quali si è verificata una diminuzione di popolazione sempre nel periodo 1936-42 sono prevalentemente quelle montuose e qui la spiegazione si può porre più che nel riflesso delle condizioni contingenti legate alla guerra, in un progressivo processo di spopolamento montano che ha fatto registrare valori percentuali piuttosto elevati come — 14,3 a Fiordimonte, —11,3 a Ussita, —9,4 a Monte Cavallo, —6,5 a Visso, — 5,4 a Castelsantangelo, — 5,3 a Pieve Torina. Che la causa della diminuzione sia più economica che bellica è provato anche dal fatto che aH’incirca nelle medesime aree il decremento è andato via via aumentando dal 1870 ad oggi; inoltre nella stessa zona, accanto alle aree di decremento ve ne sono altre di aumento, corrispondenti in parte ad aree di fondovalle a volte alluvionato dove sono migliori le possibilità di coltura ed è più elevato il rendimento. Soltanto considerando queste condizioni locali del terreno si può comprendere perchè accanto al valore negativo di — 9,8% di Sefro si trova quello positivo di + 19,2% di Fiuminata.

    Un altro fenomeno che spicca dalle considerazioni delle condizioni demografiche postbelliche, è quello dell’aumento di popolazione verificatosi in tutti i capoluoghi di provincia dove si hanno valori percentuali molto elevati come quello di 20,8% di Ascoli, di 15,7% di Pesaro, di 8,7% di Ancona. Tenuto conto che in linea generale nei centri di una certa consistenza di popolazione l’aumento demografico è sempre inferiore a quello delle aree agricole e che in tutti i capoluoghi di provincia delle Marche la guerra ha provocato distruzioni notevoli che in alcuni casi, come ad Ancona, hanno raggiunto il 42% del complesso degli edifici, il notevole incremento di queste città va attribuito più che all’incremento naturale, ad una differente distribuzione della popolazione che, già da tempo, tende a spostarsi dalle aree agricole verso quelle che hanno più sviluppata la fisionomia industriale.

    La densità della popolazione

    Lo spunto che offre l’incremento della popolazione dei capoluoghi è interessante e vale la pena di prendere in esame in generale la densità di popolazione e la sua distribuzione.

    Per quanto si riferisce al periodo nel quale la regione fu sottoposta al dominio pontificio, si nota che la densità della popolazione era molto bassa; nel 1656 i valori maggiori sono quelli di 85 ab. per kmq. e i minori quelli che si aggirano intorno ai 35 ab. per kmq. La media è 56 ab. per kmq.

    In tutto il secolo XVIII la densità della popolazione va gradatamente aumentando e la media passa da 58 per kmq. nel 1701 a 68 nel 1708, 78 nel 1736, intorno a 100 nel 1782. La densità di alcune aree comunali risulta nello stesso periodo assai notevole e si può prendere come esempio Senigallia che nei censimenti sopra citati passa dalla densità di 116 a quella di 125 e poi di 167.

    Densità della popolazione nel 1931.

    Il censimento del 1816 mostra una riduzione della densità media (90 ab. per kmq.) e di conseguenza anche le singole densità registrano un abbassamento; Senigallia scende a 163 ab. per kmq., ma già nel 1833 risale a 189 (densità media della regione 94 ab. per kmq.) e nel 1853 a 203 ab. per kmq., mentre la densità media si mantiene sul valore di 106. Le minime densità in tutti i censimenti pontifici sono quelle della zona più elevata.

    Passando ai censimenti dello Stato italiano si registra un graduale aumento nei valori della densità dal 1871 in poi; i primi risultati però sono più bassi di quelli del secolo precedente, ma fra gli uni e gli altri non si può fare un facile raffronto per i differenti sistemi adoperati nei rilievi.

    La densità media della popolazione nel 1881 era di 97 ab. per kmq., che nel 1901 sale a 109 ab. per kmq.; anche nei censimenti successivi la densità aumenta gradata-mente e passa da 112 ab. per kmq. nel 1911, a 119 nel 1921 e a 126 nel 1931. Quest’ultimo valore che, rispetto a quello registrato nel 1881, è molto elevato, risulta tuttavia inferiore alla media che si registra per tutta l’Italia nello stesso anno e che è pari a 133 ab. per kmq.

    Se dalla densità media dei singoli censimenti si passa a considerare quella relativa alle diverse parti della regione, cioè dell’area litoranea, di quella collinare, di quella montana, si hanno sempre valori fortemente diversi e si può dire grosso modo che la densità dell’area litoranea e di quella collinare è rispettivamente sei e tre volte maggiore di quella montana. A riprova di questo si può prendere come esempio il censimento del 1921, nel quale si trovano per la zona litoranea valori assai elevati pari a 345 abitanti per kmq. a Chiaravalle, 319 a Falconara, 237 a Montemarciano. L’area collinare nello stesso tempo presenta una densità media con l’eccezione delle zone nelle quali è più diffusa la coltura della vite che richiede una notevole mano d’opera; i valori di densità qui vanno da 100 a 200 ab. per kmq. La regione montana ha valori di densità molto bassi : Ficano, ad esempio, nello stesso periodo ha una densità di 47 ab. per kmq., Scheggia e Pascelupo di 50. Si distacca dall’insieme l’area di quei Comuni che pur trovandosi nella regione montuosa hanno industrie capaci di richiamare popolazione dalle zone circostanti, come Fabriano e Sassoferrato.

    Se si confronta la densità media delle Marche con quella delle singole province relativamente all’anno 1931, si nota che il valore medio regionale deriva da valori provinciali molto differenti; infatti la minima densità è quella della provincia di Macerata con 100 ab. per kmq., alla quale segue quella di Pesaro e Urbino con 102, quella di Ascoli Piceno con 138 e quella di Ancona con 184 ab. per kmq. I valori maggiori come si vede sono quelli che si verificano nelle due province che vantano un maggiore sviluppo di coste nei confronti delle altre due che registrano valori minori.

    La densità media delle province presenta un incremento percentuale tra il 1921 e il 1931 pari al 3% per Macerata, al 5% per Pesaro e Urbino e all’11% per Ancona ed Ascoli Piceno. Dalla considerazione della densità delle singole province si può passare a quella dei singoli Comuni e allora si può notare che nel 1931 la massima densità con più di 500 ab. per kmq. si registrava intorno ai due capoluoghi di Ancona e di Pesaro; una densità tra 200 e 500 ab. per kmq., oltre che l’area intorno agli altri due capoluoghi di provincia, si può dire occupi quasi tutta la fascia costiera, con inizio a circa metà distanza tra Pesaro e Fano e con termine quasi all’altezza di Sant’Elpidio a Mare. La continuità della fascia è interrotta da un paio di piccole oasi a minore densità lungo la costa a sud del Cònero. Il resto della costa meridionale è occupata da una densità variabile da 150 a 200 ab. per kmq.; in questa vi sono due oasi con una densità maggiore di 500 ab. per kmq., cioè quella di San Benedetto e quella di Porto San Giorgio. In generale i valori di densità di ogni singola sezione costiera si insinuano anche neirimmediato retroterra prevalentemente con un andamento a cuneo che, grosso modo, delimita l’area di influenza economica di ciascuno.

    Densità della popolazione nel 1951.

    Il caratteristico frazionamento delle singole aree di densità va gradatamente diminuendo procedendo dalla costa verso l’interno e già il valore di 100-150 ab. per kmq. si può dire che occupi una fascia continua da nord verso sud includendo l’area che si trova ad est di una linea congiungente all’incirca Colbòrdolo con Venarotta. Verso occidente ormai la densità diminuisce sempre di più, estese sono le aree con densità da 75 a 100 e da 50 a 75. Un’area molto vasta con quest’ultima densità è quella della zona del Montefeltro nell’àmbito del Monte Carpegna. Le aree a minima densità, cioè con valori inferiori a 25 ab. per kmq., sono molto limitate e si trovano nei Sibillini all’incirca tra Amándola, Bolognòla e Monte Cavallo.

    La distribuzione della densità di popolazione nel 1951 presenta alcune modifiche rispetto a quella del 1931 ; infatti se per comodità di confronto si considerano le stesse classi di densità e cioè meno di 25 ab. per kmq., da 25 a 50, da 50 a 75, da 75 a 100, da 100 a 150, da 150 a 200, da 200 a 500 e più di 500 ab. per kmq., si nota che le aree a maggiore densità, cioè con il valore di più di 500 ab. per kmq., si sono ridotte. Lungo la fascia litoranea infatti mentre restano inalterate tutte le altre aree con tale densità, scompare quella intorno a Pesaro, la quale assume il valore di densità di tutto il litorale posto più a sud fino all’area di Ancona, cioè da 200 a 500 ab. per kmq. Questa classe di densità continua anche lungo il litorale più meridionale però con una minore continuità e nel complesso non si estende molto aH’interno, salvo che nell’àmbito della provincia di Ancona dove si ritrova, come nel 1931, lo stesso cuneo di alta densità che si insinua lungo la valle dell’Esino.

    Non molte differenze esistono nella distribuzione della densità successiva da 150 a 200 ab. per kmq., mentre una fascia quasi continua e molto estesa longitudinalmente è quella della densità da 100 a 150 che specie al centro e a nord della regione ha occupato buona parte dell’area in precedenza a densità più bassa.

    Salvo l’assottigliamento di alcune aree a minore densità, nell’insieme non vi sono altre variazioni cospicue; nella provincia di Ancona non compaiono, come del resto nel 1931, aree con la densità equivalente alle due ultime classi considerate che invece sono relativamente diffuse nelle province estreme meridionali. La densità più bassa in valore assoluto infatti è quella che si registra in provincia di Macerata con i valori di 9 a Caldarola, 15 ad Acquacanina, 18 a Ùssita e Monte Cavallo. In provincia di Ascoli Piceno la minima densità assoluta è quella di Montemonaco con 26 abitanti per kmq. e in provincia di Pesaro e Urbino quella di Casteldelci e di Borgo Pace rispettivamente di 31 e 33. Nella provincia di Ancona invece la minima densità è quella di Genga con 63 ab. per kmq., unico valore inferiore a 100 ab. per kmq. di tutta la provincia:

    Densità della popolazione per chilometro quadrato

    Province

    1921

    1931

    1951

    Ancona.

    173

    184

    206

    Ascoli Piceno

    127

    138

    158

    Macerata

    97

    100

    108

    Pesaro e Urbino

    97

    102

    116

    Regione

    123,5

    131

    147

    Se dall’osservazione della distribuzione della densità si passa a quella della densità delle singole province nel 1951 si nota che la graduatoria di queste resta la medesima del 1931, ma nel complesso vi è un aumento generale che porta la provincia di Ancona ad una densità media superiore a 200 ab. per kmq.; tuttavia in linea relativa il maggiore aumento tra il 1931 e il 1951 è quello della provincia di Pesaro e Urbino. Dal 1931 al 1951 la densità media delle Marche passa da 131 a 147 abitanti per kmq.

    Un’altra osservazione interessante che si può fare è quella relativa ad alcune massime densità: in provincia di Ascoli Piceno nel 1951 compare una densità superiore a 1000, quella di Porto San Giorgio con 1076 ab. per kmq.; un’altra supera i 900 e cioè San Benedetto del Tronto con 914 ab. per kmq.; nella provincia di Ancona il capoluogo ha una densità di 708 ab. per kmq. Pertanto i maggiori valori assoluti fortemente distanziati da tutti gli altri si trovano nelle aree dove l’industria è sviluppata in varie forme ma soprattutto in quelle connesse in qualche modo con il mare.

    Tra il 1952 ed il 1957 in tutte le province si è registrato un certo incremento naturale della popolazione che però si è mantenuto entro limiti piuttosto modesti, oscillando tra i valori di -f 5 e + 7 per ogni mille abitanti. L’analisi del movimento dei singoli Comuni rivela poi che la popolazione è in aumento in generale nei centri con più di 20.000 ab., oppure in quelli compresi nella cimosa litoranea, mentre è in regresso nelle aree montane. Continuerebbe pertanto a manifestarsi ancora la tendenza allo spopolamento montano già rilevata per il periodo precedente il 1947 e che in buona parte è imputabile alla decadenza economica dell’allevamento ovino sia nella forma stanziale che in quella transumante; tuttavia in generale nelle Marche il fenomeno non ha assunto le proporzioni di altre zone montane sia dell’Appennino che delle Alpi, le quali sono anche state oggetto di studi particolari a cura dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria.

    L’emigrazione

    L’emigrazione considerata nel suo complesso, cioè diretta sia all’interno che all’estero presenta dal 1876 fino al 1925 tre fasi distinte: nella prima, che giunge fino al 1910, dopo un lento aumento la curva ascendente tende a raggiungere altezze elevate; la seconda, fino al 1920, denota una diminuzione rapida collegata con gli eventi bellici; l’ultima, che ha inizio dopo la prima guerra mondiale, indica un contenuto sviluppo.

    L’aumento del fenomeno nella prima fase può essere indicato dall’apporto percentuale dell’emigrazione marchigiana nei confronti dell’emigrazione totale dell’Italia; tale apporto eguale a 0,46 nel 1876 sale a 3,68 nel 1913; in questo periodo tra le varie province Macerata ha dato il maggiore contributo, ma comunque tutta l’area a sud del Cònero presenta medie molto superiori a quelle della parte settentrionale della regione.

    L’emigrazione è continentale e transoceanica, diretta nel primo caso prevalentemente in Francia e Germania, nel secondo nell’America del Sud e Centrale; la categoria professionale rappresentata è quella dei braccianti, seguita da mestieri vari come girovaghi, musicanti e da un gran numero di non qualificati.

    All’approssimarsi della prima guerra mondiale il fenomeno migratorio subisce una grande crisi rappresentata da una forte contrazione quantitativa e dalla variazione dei caratteri qualitativi dei componenti; si registra infatti un aumento dei minorenni e delle donne fra gli emigrati. Inoltre diminuisce l’emigrazione continentale in quanto si chiudono gli sbocchi verso la Germania, mentre aumenta quella transoceanica diretta specie verso l’America Meridionale. L’aumento di questa corrente ha un fondamento economico, in quanto in sèguito alla guerra europea i paesi meridionali dell’America diventano centri operosi di rifornimento.

    Il cessare delle ostilità segna la ripresa del movimento migratorio che però non raggiunge mai limiti molto elevati per ragioni di ordine generale, in quanto si assottigliano ovunque le possibilità dei mercati di lavoro; tra il 1919 e il 1923 la media percentuale degli emigranti è di 10 rispetto alla popolazione censita nel 1921. L’emigrazione transoceanica è prevalentemente diretta verso le due Americhe mentre quella continentale ha quasi come unico sbocco la Francia.

    Nel suo complesso come si vede l’emigrazione nel periodo considerato non ha assunto proporzioni di una rilevanza eccezionale, mentre invece i benefici che essa ha apportato sono stati sensibili; trattandosi nella maggior parte dei casi di un fenomeno semipermanente, si è avuta una forte rimessa di danaro da parte degli emigranti che intendevano con questo sia dare sostentamento alla parte della famiglia rimasta in patria, sia costituire una piccola riserva in danaro o una piccola proprietà immobiliare destinata agli anni della vecchiaia da trascorrersi in patria. D’altra parte il fenomeno ha anche prodotto uno sfollamento del mercato del lavoro che nelle aree con eccedenza di braccia, specie in quelle meridionali, ha apportato un beneficio, mentre in altre ha dato luogo ad una carenza di braccia massime in agricoltura; quest’ultima conseguenza a dire il vero non ha mai assunto grandi proporzioni ed ha avuto un carattere sporadico.

    Gravi invece sono state le conseguenze di ordine igienico e sanitario: molto spesso infatti l’emigrante è rimpatriato già colpito da gravi malattie che poi si sono diffuse localmente. Le condizioni di salute dei rimpatriati dalle aree continentali sono state in genere abbastanza discrete, mentre quelle dei rimpatriati transoceanici quasi sempre pessime: le malattie maggiormente diffuse erano il tracoma e la tubercolosi.

    Dopo il 1925 si registra nell’emigrazione una flessione negativa dovuta prevalentemente a cause politiche che ostacolarono l’espatrio della classe operaia e favorirono quello degli intellettuali, dei professionisti e dei commercianti; alla politica demografica esplicata negli anni posteriori al 1927 si aggiunse la limitazione degli espatri a carattere definitivo e la tolleranza di quelli temporanei purché determinati da un contratto di lavoro a termine. Oltre che per queste cause dopo il 1931 il numero degli emigrati diminuì anche in rapporto alle condizioni generali di crisi del mercato del lavoro.

    Grafico della emigrazione 1876-1925.

    Dopo la seconda guerra mondiale si è verificato anche nelle Marche uno squilibrio tra popolazione e capacità produttiva che ha generato una diffusa aspirazione verso l’espatrio; tuttavia in pratica non c’è stata una corrente molto elevata, soprattutto perchè la mano d’opera disponibile non era qualificata. La direzione prevalente è stata quella transoceanica sia verso le Americhe sia verso l’Australia e il

    Canada. Anche l’emigrazione continentale è risalita ed ha assunto un maggiore carattere di temporaneità ed è indirizzata prevalentemente verso i bacini minerari della Francia e del Belgio.

    L’emigrazione interna nell’àmbito delle stesse Marche, cioè lo spostamento di popolazione da un luogo ad un altro, in forma stabile o anche in forma giornaliera, non è rilevante; lo spostamento stabile ha di preferenza la direzione verso le grandi città, specie Roma, Torino, Milano, dove il mercato del lavoro è più attivo. Lo spostamento giornaliero invece è limitato alle aree ad immediato contatto con i capoluoghi di provincia e con i centri dove si sviluppa qualche attività industriale e di preferenza si svolge sulla linea ferroviaria litoranea e con minore intensità usufruisce delle corriere di linea.

    Se si considera il movimento sociale della popolazione, cioè il rapporto esistente tra quantità di popolazione immigrata ed emigrata dalle singole province, nel periodo 1952-57 si nota come ovunque il movimento sociale stesso sia passivo in quanto l’immigrazione supera sempre l’emigrazione. Il comportamento delle singole province non è però eguale; mentre infatti la provincia di Pesaro e quella di Macerata registrano un lieve progressivo aumento del valore negativo ad eccezione di una lieve contrazione nel 1956, la provincia di Ascoli Piceno da un valore negativo di —2525 per il 1952 passa successivamente a valori inferiori per poi raggiungere la quota positiva di 2023 nel 1957. Completamente differente è a tale proposito il comportamento della provincia di Ancona che da un incremento negativo del movimento sociale di —1888 nel 1952 passa successivamente a valori molto bassi come quello di —81 nel 1953 e di —415 nel 1956, e di —482 nel 1957.

    Come si diceva poco fa la popolazione delle Marche nel suo complesso registra negli anni tra il 1952 ed il 1957 un incremento naturale pressoché costante che però viene ad essere quasi completamente annullato dal saldo passivo del movimento sociale della popolazione; se ne può pertanto concludere che la popolazione della regione considerata nel suo bilancio complessivo sembra attraversare un periodo di stazionarietà.

    Alcune caratteristiche sociali della popolazione

    Considerando l’incremento di popolazione avvenuto da un secolo a questa parte e le restrizioni a cui è soggetta l’emigrazione verso l’estero, si può comprendere come l’economia locale, relativamente povera, non sia in grado di assorbire tutte le forze di lavoro disponibili, benché vi sia stato, specie negli ultimi anni, un incremento dell’occupazione anche in relazione alle modificazioni subite dalla composizione qualitativa delle forze del lavoro ; tra il censimento industriale e commerciale del 1927 e quello del 1951 si registra un aumento di imprese che, per esempio, per la provincia di Ancona è pari al 17,75%, al quale però non corrisponde un equivalente aumento nel numero degli addetti che permetta l’assorbimento dell’incremento di popolazione, infatti sempre per Ancona esso risulta di 6,75%. In generale il minore aumento riguarda il settore del commercio fisso, mentre quello ambulante ha registrato un aumento rilevantissimo.

    La disoccupazione è un fenomeno diffuso seppure in proporzioni non allarmanti ; per considerare il periodo più vicino si può dire che già nel 1927-28 cominciò a verificarsi il fenomeno in sèguito alla eliminazione di quelle attività che vivevano ai margini dell’inflazione e che i settori che ne hanno risentito maggiormente sono stati le industrie tessili, quelle per la lavorazione dei minerali, le costruzioni edili, stradali e idrauliche. Dal 1929 al 1938 non si possono seguire bene le vicende del fenomeno legato strettamente alle condizioni politiche, mentre il periodo 1939-42 segna nel complesso un regresso nel numero dei disoccupati in rapporto allo stato bellico, con una serie però di contrazioni e di aumenti che consigliano di considerare i dati con un certa prudenza.

    Alla fine della seconda guerra mondiale il numero dei disoccupati aumenta rapidamente per il reinserimento nella vita civile dei militari, dei prigionieri, per l’inserimento anche delle nuove leve di lavoro e in alcuni luoghi, come ad esempio nella provincia di Ancona, il fenomeno registrò nel 1946 un aumento di circa il 60% rispetto al 1939; le punte maggiori si raggiunsero sempre nei mesi invernali nei quali grava maggiormente anche la disoccupazione del bracciantato in agricoltura. A parte questo però fino al 1950 il fenomeno è caratterizzato da un andamento molto irregolare e nel complesso da un aumento di entità.

    Il maggior numero dei disoccupati riguarda sempre il settore industriale al quale segue quello commerciale e quello agricolo; buona parte dei disoccupati poi è costituita dai giovani in cerca di prima occupazione. Dal 1952 al 1957 il fenomeno si può dire sia restato stazionario nelle quattro province; a parte le oscillazioni stagionali molto spesso legate alle condizioni climatiche, quelle maggiori si sono avute negli anni 1956 e 1957. Ai dati suH’andamento della disoccupazione però si può attribuire soltanto un valore indicativo in quanto molti disoccupati sfuggono ad una regolare registrazione, come pure molti altri, trovata una occupazione, non la segnalano sùbito agli uffici di collocamento.

    Le cause della disoccupazione sono varie sia di ordine generale che di carattere particolare e locale. Alle prime oltre all’incremento della popolazione si possono ascrivere quelle comuni a tutta l’Italia come l’evoluzione economica, la contrazione dei consumi e delle esportazioni; la trasformazione di alcune industrie, il blocco delle disdette in agricoltura. Le cause locali sono di minore portata in quanto al numero dei disoccupati che generano, ma più costanti nel produrre il fenomeno stesso; ad esempio, i piccoli centri di cui sono costituiti gran parte dei Comuni hanno un’economia prevalentemente agricola con una conduzione mezzadrile o diretta e con una proprietà frazionata, e l’insieme non può permettere l’occupazione di tutti gli abitanti. La disoccupazione della pianura è accresciuta dai disoccupati provenienti dalla zona montana da dove, benché spesso la popolazione sia in diminuzione, si verifica una continua discesa verso il piano in cerca di occupazione specie da parte dei membri delle famiglie più numerose; si ha in tal modo uno smembramento del nucleo familiare e un successivo cambiamento di attività dei membri distaccati, perchè coloro che scendono dalla montagna diffìcilmente continuano a lavorare la terra.

    Nei centri maggiori la disoccupazione è causata dalla contrazione di alcuni settori economici; carattere più specifico assume, ad esempio, la disoccupazione di Ancona legata strettamente alle vicende del porto la cui crisi non permette lo sviluppo di quelle attività che generalmente sono connesse con la vita di uno scalo marittimo.

    Poco fa si diceva che una parte dei disoccupati è costituita da giovani in cerca di prima occupazione; è questo un aspetto singolare e in un certo senso anche amaro della situazione perchè la società non riesce ad offrire a chi si affaccia alla vita prospettive di un sereno andamento e questo anche in parte in conseguenza della mancanza di una specializzazione e di una qualificazione. Le aziende regionali per lo più a carattere artigiano, gravate da una serie di problemi economici e finanziari, non riescono ad assorbire tutto l’elemento giovanile e di qui anche il disagio morale di una parte dei disoccupati. Oltre ad Ancona anche altri centri industriali si distinguono per una elevata disoccupazione, come ad esempio Jesi, dove si ha il ridotto esercizio delle filande di seta, la crisi di alcune fabbriche di macchine agricole e dove soprattutto ha cessato di lavorare lo stabilimento aeronautico Savoia-Marchetti che occupava 2000 operai. A Fabriano si ha un cospicuo esempio di forte disoccupazione determinata da un aumento di popolazione che dal 1936 al 1952 presenta un incremento del 25%; tale aumento non deriva da un incremento naturale, ma soltanto da un fenomeno di inurbamento che ha determinato in alcuni centri vicini un decremento che va dal 10 al 30%. Anche a Sassoferrato la disoccupazione ha un aspetto grave per la smobilitazione degli operai delle miniere di zolfo di Cabernardi e di Percozzone che non hanno potuto trovare altra fonte di occupazione in un ambiente già più che saturo ad economia prevalentemente montana. D’altra parte le vicissitudini del lavoro locale si sono ripercosse anche sulla disoccupazione dei Comuni viciniori, come ad esempio su quella di Arcevia di dove proveniva un certo numero di operai delle miniere. Le stesse cose si potrebbero ripetere per altri Comuni dove si era sviluppata qualche industria poi caduta in crisi.

    Il servizio sociale del collocamento dei disoccupati è esercitato da incaricati dello Stato alle dipendenze degli uffici provinciali e regionali del lavoro oltre che da sezioni staccate deH’ufficio dislocate nei luoghi a più elevata popolazione industriale; fin dove è possibile essi cercano anche di porre un freno al fenomeno dell’urbanesimo che si delinea preoccupante dal punto di vista economico e sociale per una regione a struttura prevalentemente agricola.

    Per sviluppare l’occupazione della regione da tempo si attua un vasto programma di lavori pubblici oltre ad una serie di lavori addizionali come quello della costruzione di blocchi di case I. N. A., di cantieri di lavoro, di corsi di istruzione professionale. Fra i cantieri-scuola assumono una importanza sociale rilevante quelli di rimboschimento montano fatti dall’Ispettorato compartimentale del Corpo Forestale, perchè agiscono in un ambiente dove il fenomeno della disoccupazione assume l’aspetto dell’abbandono della terra e dello spopolamento. I corsi di istruzione professionale che sono risultati più efficaci sono quelli per muratori, meccanici, falegnami; mentre ancora non si è trovata la soluzione per i corsi artigianali che necessiterebbero di botteghe-scuola con maestri qualificati.

    La disoccupazione in agricoltura è meno grave, comunque le provvidenze per alleviarla vanno dalla trasformazione delle colture, al risanamento delle case coloniche, al miglioramento delle attrezzature.

    Un altro aspetto della disoccupazione, meno vistoso tuttavia, è quello della disoccupazione intellettuale dovuta alla tendenza diffusa di avviare i giovani alle scuole superiori anziché a quelle professionali e inoltre alla preferenza di una occupazione impiegatizia anziché operaia di buona parte di coloro che provengono da una scuola tecnica industriale.

    Il costo della vita in generale dal 1952 al 1957 è aumentato specie per quanto si riferisce alle spese per l’abitazione, per l’alimentazione, per l’elettricità, ma per lo stesso periodo si ha anche un aumento dei salari che equilibra la dinamica degli indici del costo della vita, ponendo in evidenza che la condizione dei salariati o comunque dei retribuiti è privilegiata nei confronti di quella di altre categorie, come ad esempio degli agricoltori, specie delle aree montuose più povere, perchè dà la possibilità di una disponibilità di danaro immediata anche se poi risulta fittizia; di qui naturalmente deriva l’accentuato movimento di inurbamento.

    L’andamento del costo della vita è determinato da un aumento dei prezzi al dettaglio e di quelli all’ingrosso, ma nel quadro generale si è accentuato uno squilibrio tra i due in rapporto allo sviluppo dell’organizzazione commerciale e alle esigenze igieniche; i divari più forti sono quelli che si riferiscono ai prodotti dell’agricoltura.

    La considerazione dei problemi di poco fa, pone in luce un aspetto piuttosto negativo delle condizioni della vita sociale della regione, invece un aspetto positivo è quello sottolineato dai consumi che nei confronti di alcune voci molto indicative, come ad esempio quella del consumo della carne bovina, registra un sensibile aumento; considerando infatti i consumi del 1952 eguali a cento, si ottiene che gli indici relativi agli anni successivi aumentano fino a raggiungere il valore di 120-125 anche prescindendo dall’aumento della popolazione; altri indici egualmente in aumento, sempre nel campo alimentare, sono quelli relativi al consumo del pesce, dei formaggi, dei latticini, del burro. Più interessante poi è la dinamica dei consumi di altri generi non di prima necessità come del cioccolato, dei biscotti e della pasticceria in genere, dell’alcool e dei liquori, oppure del tabacco il cui consumo medio annuo è aumentato rispetto al 1952 dal 30 al 34%.

    Altri indici che servono ad illustrare il progressivo miglioramento delle condizioni sociali sono quelli del telefono, della radio, della televisione; gli abbonamenti telefonici dal 1952 ad oggi hanno manifestato una continua e costante ascesa affiancata naturalmente dalla diffusione capillare della rete e dalle migliorate condizioni dei servizi; il numero degli abbonamenti è quasi ovunque raddoppiato. Gli abbonamenti alla radio hanno cominciato la forte tendenza all’aumento dopo la fine della guerra, quando la rete elettrica si è estesa diffondendo l’illuminazione anche nelle campagne di quasi tutta l’area collinare, mentre gli abbonamenti alla televisione iniziati più tardi hanno avuto il massimo sviluppo negli ultimi due anni; la televisione però, anche in relazione al maggiore costo di impianto e di manutenzione, per ora è diffusa si può dire esclusivamente nei centri abitati o anche nei piccoli centri rurali, ma non sembra per il momento destinata a penetrare su larga scala nella campagna.

    Anche le spese per gli spettacoli e per le manifestazioni sportive sono aumentate, però si registra una certa stazionarietà negli ultimi anni che corrisponde assai bene al periodo di maggiore diffusione della televisione.

    Altro indice sintomatico è quello dato dagli autoveicoli in circolazione; gli autocarri dal 1952 ad oggi sono moderatamente aumentati, mentre le autovetture hanno subito un forte aumento che tuttavia non ha nulla di paragonabile con quello fortissimo dei motoveicoli; questo tipo di trasporto è entrato in ogni famiglia.

    Molto frequenti e diffusi quasi in ogni nucleo abitato sono i caffè e i bar; il loro numero nel 1951 era di 2288 ma questo probabilmente deve essere considerato inferiore alla effettiva consistenza, in quanto spesso i negozi di generi alimentari gestiscono anche una sezione si potrebbe dire di bar o di osteria che funge da luogo di ritrovo per la popolazione del centro abitato e per quella sparsa all’intorno.

    Le imprese dello spettacolo, che nel 1951 ammontavano nella regione a 278 con 1086 addetti, sono costituite quasi esclusivamente da sale cinematografiche; la diffusione maggiore è nella provincia di Ancona, quella minore in provincia di Ascoli Piceno. Il numero complessivo delle imprese che dall’anno del censimento è aumentato, dimostra che molti centri abitati, specie i nuclei, sono privi di una sala di spettacolo; anche dove poi questa esiste, gli spettacoli sono monosettimanali o bisettimanali, ma non giornalieri.

    Altri tipi di spettacolo, come quello del teatro di prosa, sono saltuari ma comunemente diffusi e affidati a filodrammatiche locali che si costituiscono specie durante la stagione invernale.

    I servizi sanitari, di previdenza e di assistenza sociale sono nel complesso abbastanza sviluppati; tra essi i più importanti e i più numerosi sono i servizi sanitari la cui rete si va estendendo gradatamente ma ancora non ha raggiunto un equilibrio adeguato alle necessità; le condotte mediche ed ostetriche sono relativamente sufficienti, mentre il maggiore difetto si riscontra nel numero delle farmacie; nella regione ammontavano nel 1951 a 312 con un massimo di diffusione nella provincia di Ancona ed un minimo in quella di Ascoli Piceno.

    I maggiori Comuni sono dotati di ospedali di prima, seconda e terza categoria, oppure di infermerie per malati acuti; i centri maggiori, specie i capoluoghi, hanno poi ospedali psichiatrici, ospedali sanatoriali e cliniche private; il censimento del 1951 riporta un complesso di 315 servizi sanitari dipendenti dalla pubblica amministrazione con una distribuzione maggiore nelle due province settentrionali.

    Accanto ai servizi sanitari si possono considerare anche quelli destinati all’igiene e alla pulizia in genere perchè indicativi per la evoluzione sociale della popolazione: in essi sono compresi i servizi di igiene della persona, bagni e docce, quelli delle lavanderie e delle smacchiatorie, della disinfestazione e della nettezza urbana. Il numero complessivo dei servizi sempre nel 1951 ammontava a 1800, con una distribuzione simile a quella dei servizi sanitari, cioè con maggiore densità a nord e minore a sud e inoltre con maggiore frequenza nei capoluoghi di provincia e minore altrove.

    Nel loro complesso le condizioni sociali della popolazione si possono considerare buone; un indice riassuntivo di quanto fin qui è stato detto, è offerto dalla situazione delle abitazioni. La crisi degli alloggi che si delineò piuttosto acuta alla fine della seconda guerra mondiale, sia in conseguenza delle distruzioni operate dalla guerra stessa, sia in rapporto all’afflusso nelle Marche di una certa quantità di sfollati che poi vi fissò la dimora stabilmente, si è risolta con rapidità in sèguito alla costruzione di un ingente numero di case. Nel 1951 il totale delle abitazioni era di 291.876 per un complesso di 1.183.719 vani, tanto che in rapporto alla popolazione di quell’anno risultava una densità di 1,1 ab. per vano. Queste cifre naturalmente riflettono la situazione media, mentre quella delle singole località può offrire condizioni diverse, tuttavia il sovraffollamento delle abitazioni si registra solo in casi eccezionali e sporadici. Tutte le nuove costruzioni sono munite di servizi igienici e di bagno; le vecchie hanno servizi essenziali ma si tende con ritmo accelerato a munirle anche di bagno.

    Un quadro delle condizioni sociali della popolazione agricola può esser offerto dal comportamento e dalla organizzazione gerarchica della famiglia mezzadrile i cui componenti possono variare da un minimo di due ad oltre diciotto; questi ultimi esempi che attualmente vanno diminuendo, raccolgono i genitori e i figli e i cugini con le rispettive famiglie. Il capo famiglia, detto capoccia o vergavo, tratta gli affari sia con il proprietario che con gli estranei e dirige tutti i lavori del podere; quando viene a mancare gli succede il figlio maggiore o un altro figlio che dimostri particolari attitudini per la mansione. L’autorità del capo famiglia è indiscussa e la gerarchia è rispettata scrupolosamente; accanto a lui vi è la moglie che provvede a tutto quello che si riferisce all’andamento della casa e all’allevamento della bassa corte; nelle sue mansioni è coadiuvata dalle altre donne della famiglia quando queste sono libere dai lavori dei campi. Le famiglie numerose vanno gradatamente scomparendo e sono sostituite da famiglie più ristrette limitate ad un unico ramo familiare; per questa ragione molti poderi hanno insufficienza di braccia. La famiglia mezzadrile nella grande maggioranza dei casi è in buoni rapporti col proprietario e anzi nelle due province meridionali il capo famiglia tratta il proprietario con il « tu ».

    La rapida elencazione delle condizioni nelle quali si trovano i settori che maggiormente sono atti ad illustrare la condizione sociale della popolazione, fa rilevare come in genere esista un certo squilibrio tra la diffusa tendenza al miglioramento e le fonti che possono garantire in futuro un ulteriore sviluppo di questo miglioramento. La situazione è comune sia al mondo dell’industria che a quello dell’agri-coltura e probabilmente una delle cause principali deve essere posta nell’alto costo del danaro che esercita un’azione repressiva sia sullo sviluppo dell’attività industriale che di quella agricola. Infatti alle maggiori disponibilità del sistema bancario non ha fatto riscontro un miglioramento nelle condizioni di credito, specie per quanto si riferisce aH’alleggerimento delle garanzie, alla durata dei finanziamenti e alla serie di pratiche relative alle domande. A questo si può aggiungere il gravame della pressione tributaria di qualunque tipo che con i suoi valori elevati scoraggia qualunque iniziativa nel campo soprattutto industriale e diffonde in tutti il convincimento che dopo il saldo di tutti i tributi e delle spese di esercizio non resti nulla per la remunerazione del lavoro dell’imprenditore, per il capitale investito e per il rischio affrontato. Dato il prevalente indirizzo agrario dell’economia della regione si possono prendere come esempio i gravami fiscali che incidono sulla produzione agricola e che rispondono alle seguenti voci: imposte erariali E. C. A. e contributi assicurativi agricoli, imposte provinciali e camerali, imposte comunali e bestiame, aggio alla ricevitoria provinciale, aggio all’esattore, contributi unificati in agricoltura, imposta di famiglia, patrimoniale e complementare.

    Il Ciaffi nella sua indagine sull’agricoltura marchigiana ha fatto il calcolo complessivo dei tributi pagati dall’agricoltura nel 1951, distribuendo il carico per ettaro sia di superficie agraria e forestale, che di superficie di seminativo semplice; dall’indagine è emerso che nelle Marche in quell’anno sono state pagate sotto forma di tasse 5.888.493.981 di lire alle quali si debbono aggiungere 480.000.000 di lire per le imposte di famiglia; escluse queste ultime, i carichi medi di tributi per ettaro di superficie agraria forestale e di seminativo semplice ed arborato risultano rispettivamente di lire 6436 e di lire 9549. Inoltre le imposte camerali e provinciali e quelle comunali e del bestiame per ettaro sono:







    Province

    Provinciale e camerale

     

    Comunale e bestiame

     

    Agraria e forestale

    A seminativo semplice e arborato

    Agraria e forestale

    A seminativo semplice e arborato

    Ancona

     

    I915

    2408

    3162

    3967

    Ascoli Piceno

     

    1769

    1480

    1677

    2350

    Macerata

     

    1167

    1813

    1857

    2887

    Pesaro e Urbino

     

    I206

    2020

    2724

    4575

    Ai gravami fin qui ricordati sono da aggiungersi quelli vari come le imposte di consumo o altro applicati sia dalle province che dai Comuni, oltre ai contributi più recenti con valore retroattivo come, ad esempio, quelli riguardanti la pensione ai mezzadri.

    Le cifre riportate a titolo di esempio sono di per sè indicative e non necessitano di un commento.

    Il servizio bancario, sia con la rappresentazione di tutte le banche italiane, sia con istituti vari di credito e con casse di risparmio, banche popolari e cooperative, aziende di credito, è diffuso ovunque e cerca di alleviare le condizioni di disagio di tutta l’economia in generale, pur con le limitazioni di cui sopra si è detto; tuttavia la situazione finanziaria non è attualmente molto fiorente e basta a provarlo il numero molto elevato delle cambiali, una notevole quantità delle quali cade in protesto, ed anche il numero elevato dei fallimenti che ha raggiunto le punte massime nel 1952 e nel 1957 con minime invece nel 1954 e nel 1956; in genere il fallimento commerciale e quello industriale si equivalgono nei confronti della massima espansione, mentre sono sfasati per quanto si riferisce alle minime punte verificatesi rispettivamente nel 1956 e nel 1954.

    L’affluenza al risparmio, sebbene registri un aumento per alcuni anni che si identificano con quelli particolarmente favorevoli per l’agricoltura, non è ingente e si mantiene in generale stazionaria, salvo a registrare un leggero assottigliamento in alcune aree come, ad esempio, in provincia di Pesaro e Urbino.

    La cultura e l’istruzione

    Le condizioni sociali della popolazione delle Marche più che dagli aspetti ambientali dei vari settori fin qui considerati possono essere delineate dalle condizioni della istruzione intesa sia nella forma più generica di alfabetismo ed analfabetismo, sia in quella più particolare media e superiore, e soprattutto come relativa all’ambiente economico. Il censimento dell’anno 1951 riportava un complesso di analfabeti di 170.583 unità cioè pari al 12,6°/0 della popolazione totale per la maggior parte costituito da donne; la cifra può sembrare elevata se presa per se stessa, ma relativamente modesta se considerata rispetto alla composizione di questa popolazione di analfabeti; infatti essa è costituita per la massima parte da individui dai 45 anni in poi, cioè la situazione complessiva rispecchia le condizioni della diffusione dell’analfabetismo nel passato ed in questo caso in particolare quelle che in un certo senso sono una conseguenza ancora della prima guerra mondiale; infatti buona parte di questa popolazione era nell’età propizia per iniziare la scuola elementare proprio durante la guerra, quando il generale richiamo alle armi della popolazione maschile di età superiore imponeva la necessità di usufruire, specie per il lavoro dei campi e per l’allevamento, del contributo lavorativo dato anche dai più piccoli.

    Il numero elevato di analfabeti compresi fra i 35 ed i 45 anni, cioè 21.073 unità, rispecchia invece il perpetuarsi di una situazione divenuta ormai consuetudinaria. La popolazione di età inferiore ai 35 anni presenta una percentuale di analfabeti molto bassa che va progressivamente diminuendo fino al totale minimo di 1420 individui compresi tra 10 e 14 anni.

    Il totale degli analfabeti compresi fra 6 e 10 anni, molto più elevato e pari a 5474 individui potrebbe trarre in inganno e far pensare ad un aumento dell’analfabetismo proprio negli anni più recenti, tuttavia la considerazione del tempo nel quale vennero eseguiti i rilevamenti censuali, il 4 novembre, vale a dileguare tale impressione; in quel periodo infatti cadono dei lavori minimi in agricoltura e cioè in primo luogo la raccolta della ghianda e in misura molto minore quella delle olive, che sono affidati, specie il primo, prevalentemente ai bambini che di conseguenza iniziano la scuola in ritardo.

    Nei confronti delle province il minor grado di analfabetismo spetta a quella di Ancona, seguita da quella di Pesaro e Urbino; anche questo fenomeno cioè è influenzato come tanti altri dalle condizioni del rilievo, dove infatti la percentuale di questo è maggiore, lì si verificano anche le punte più elevate di analfabetismo: spesso la scuola è lontana, in posizione scomoda e le condizioni climatiche deirinverno ne consigliano la diserzione.

    Agli analfabeti seguono i semianalfabeti, quelli cioè che non hanno raggiunto una licenza elementare e che complessivamente sommano a 203.775 pari al 15,1% della popolazione totale. Il numero maggiore di questi è compreso tra l’età di 25 e 65 anni; prendendo sempre come base i dati riportati dal censimento del 1951 sembrerebbe elevato il numero dei semianalfabeti compresi anche tra 6 e 14 anni, però basta pensare che tra questi è inclusa tutta la popolazione che frequenta la scuola elementare per conseguire un diploma, per non essere tratti in inganno dall’apparenza delle cifre statistiche; a suffragare l’osservazione stanno gli elevati valori degli abitanti forniti di titolo di studio della scuola elementare divisi per età.



    6-10 anni

    11-14 anni

    15-18 anni

    19-21 anni

    22-25 anni

    26-35 anni

    36-45 anni

    46-55 anni

    56-65 anni

    66-75 anni

    oltre 75 anni

    Totale

    Regione

    15.23I

    83.302

    77.942

    56.236

    74.984

    156.473

    134.874

    80.378

    44.347

    23.482

    7.269

    754.526

    La diffusione dell’istruzione media è abbastanza recente ed in aumento; dei complessivi 51.220 individui che nel 1951 erano forniti di licenza di scuola media inferiore, 10.397 erano compresi tra quelli di età dai 14 ai 18 anni, mentre 2566 erano quelli da 55 a 65 anni e 1364 quelli da 65 a 75 anni. Questi dati dovrebbero essere integrati da quelli molto più cospicui relativi agli studenti che frequentano uno o due anni di scuola media e che successivamente si ritirano, senza conseguirne il diploma.

    Nel complesso le scuole medie sono sufficientemente diffuse anche nei centri abitati a carattere esclusivamente agricolo, con una popolazione complessiva relativamente limitata; c’è invece un certo squilibrio tra il numero delle scuole medie generiche e quelle a carattere professionale; queste ultime non in tutte le province rappresentano la metà delle prime e questo emerge anche dalla considerazione del numero di studenti che frequentano corsi di scuola media a carattere professionale e quelli invece che frequentano la scuola media generica; nel 1957 la situazione migliore a questo proposito si verificava nella provincia di Macerata.

    Se la situazione generale dell’istruzione media si può definire non molto adeguata all’ambiente, alle sue esigenze ed alle possibilità locali di assorbimento; non si può dire altrettanto della specifica istruzione agraria che è impartita da quattro istituti tecnici agrari, derivanti da antiche scuole pratiche di agricoltura.

    Il più antico è l’Antonio Cecchi di Pesaro localmente indicato come scuola di Caprile, che risale al 1865 quando l’Accademia Agraria locale istituì una colonia agricola per diffondere la tecnica colturale tra i figli dei contadini. Dati i brillanti risultati, la scuola passò alle dipendenze dello Stato nel 1885; in un primo tempo gli allievi vi erano ammessi a 14 anni con la licenza elementare e dopo un triennio conseguivano il titolo di agente di campagna. Nel 1923 la scuola divenne agraria media e dopo il triennio conferiva il diploma di perito agrario; soltanto nel 1931 si trasformò in Istituto Tecnico Agrario aperto a chi è già munito di diploma di scuola media; dopo cinque anni conferisce il diploma di perito agrario. Attualmente ospita ogni anno una media di 180 allievi che dopo il diploma trovano impiego prevalentemente in attività agrarie come direttori di aziende o come liberi professionisti. Come attività marginale l’istituto ha anche quella dell’istruzione professionale dei contadini, con lezioni pratiche e dimostrazioni sui campi e con l’insegnamento della frutticoltura razionale specializzata. Gli impianti dell’istituto, rinnovati dopo l’ultima guerra, sono molto razionali e comprendono anche un laboratorio di chimica agraria che compie analisi per conto di terzi, un centro di fecondazione artificiale, campi sperimentali e serre per la coltivazione dei fiori che è stata introdotta di recente.

    Di anzianità all’incirca eguale è l’Istituto di Macerata derivante dalla colonia agricola sorta nel 1869 che aveva il compito di preparare capi-operai; successivamente, seguendo vicende analoghe a quelle dell’Istituto di Caprile, divenne Istituto Tecnico Agrario nel 1931.

    L’Istituto Tecnico Agrario di Fabriano si iniziò come colonia agricola nel 1878 occupando i locali di un antico convento di Cappuccini. Dal 1929 ha istituito anche un corso biennale annesso alla scuola pratica, destinato ai ragazzi tra i 10 e i 13 anni, già in possesso di licenza elementare.

    Di carattere prevalentemente pratico e non alle dirette dipendenze dello Stato sono alcune scuole agrarie istituite da privati per mezzo di lasciti testamentari; esse sono la Fondazione Agraria Conte di Montevecchio, a Fano, quella Serafino Sei vati del Pianello di Monteroberto e quella Agraria Professionale per contadini di Urbisaglia.

    Queste fondazioni sono economicamente indipendenti traendo i mezzi di sussistenza dalla rendita dei campi e dei possedimenti che i fondatori hanno lasciato loro in eredità.

    Neiràmbito dell’istruzione professionale in agricoltura non si può dimenticare l’opera svolta dalle Cattedre ambulanti di agricoltura anche se queste non possono essere considerate come scuole vere e proprie; sorsero tra la fine del secolo XIX e il principio del XX non sempre con una giurisdizione provinciale; spesso agirono in territori più ristretti; avevano soprattutto lo scopo della propaganda fra gli agricoltori per il miglioramento di qualunque tipo di pratica agricola e degli allevamenti. Nel 1937 le Cattedre ambulanti furono sostituite dagli Ispettorati Agrari Provinciali che ne hanno ereditato gli scopi. Gli Ispettorati oltre ad una attività sperimentalé dimostrativa nel campo delle colture erbacee ed arboree, si occupano di alcune iniziative particolari, come di esposizioni zootecniche, di mostre regionali o provinciali, di mercati-concorso ed istituiscono corsi temporanei di istruzione professionale, destinati alla formazione di mano d’opera agricola specializzata, promuovono viaggi di istruzione, visite aziendali, indicono corsi speciali di botanica per insegnanti elementari.

    Per le medesime ragioni per le quali si è ricordata l’opera degli Ispettorati dell’agricoltura, si cita anche l’Accademia Agraria di Pesaro che sorta nel 1828 per iniziativa di alcuni cultori di scienze naturali aveva scopi sociali rivolti all’elevazione del livello culturale agricolo in genere e dei figli dei mezzadri in particolare; tenne infatti sempre corsi di lezioni e diede impulso anche alla Scuola di Caprile già ricordata.

    Le scuole vere e proprie e le iniziative culturali di carattere agrario sono numerose e riflettono l’indirizzo prevalente deireconomia della regione; le iniziative nei confronti degli altri settori economici sono più limitate; merita però un cenno particolare la Scuola Professionale marittima di Ancona che prepara personale specializzato e qualificato nel settore della pesca. Sono numerosi poi gli enti e gli istituti culturali di altro genere come l’Istituto Marchigiano di Scienze, Lettere ed Arti di Ancona, la Deputazione di Storia Patria per le Marche, l’Accademia Medica del Piceno, l’Accademia di Raffaello per gli studi di storia patria urbinate, l’Istituto di Belle Arti di Urbino che si dedica alla decorazione e illustrazione del libro ed è l’unico per l’Italia.

    L’istruzione superiore è diffusa nelle Marche da tre centri universitari ed un conservatorio di musica, dislocati sia nella parte settentrionale della regione che in quella meridionale. Il Conservatorio di Pesaro che prende il nome da Gioacchino Rossini e che è erede di una antica tradizione, ha avuto nel 1952-53 un complesso di no iscritti ai quali gli insegnamenti furono impartiti da 40 insegnanti.

    Le università nello stesso anno accademico hanno ospitato complessivamente 1998 studenti mentre negli anni precedenti e precisamente dal 1949 al 1952 avevano avuto una media di 2085 iscritti. Le maggiori possibilità di ricezione, anche per il numero delle facoltà rappresentate, spettano ad Urbino che ha sempre una media di più di 1000 studenti ogni anno; oltre alla facoltà di Giurisprudenza, ha quella di Farmacia e quella di Magistero, nei differenti indirizzi di materie letterarie, lingue e letterature straniere, Pedagogia, Vigilanza scolastica; è fornita di biblioteca e di orto botanico. E una Università libera, come lo era fino a poco tempo fa quella di Camerino istituita nel 1727 con una bolla di papa Benedetto XIII; però prima di tale data a Camerino fioriva già un centro di studi; nella prima metà del 1700, per concessione di Francesco I di Lorena, i diplomi dell’Università avevano valore in tutti i territori del Sacro Romano Impero. Oltre alla facoltà di Giurisprudenza, di Farmacia, di Scienze naturali e biologiche vi è anche quella di Veterinaria che assume un certo rilievo nei confronti dell’indirizzo economico della regione; sono annessi all’Università l’osservatorio meteorologico, il giardino botanico, il museo di zoologia e anatomia comparata. Il numero medio annuo degli iscritti è di 590; in passato erano numerose le colonie di studenti stranieri come romeni, bulgari, jugoslavi.

    La Biblioteca Valentiniana che prende il nome di un letterato che lasciò in eredità la sua libreria nel 1802, è molto ricca anche di incunaboli e manoscritti che riguardano in gran parte la storia locale. Fa capo all’Università anche la Società Eustachiana sorta nel 1903 per promuovere gli studi biologici.

    Altra Università statale è quella di Macerata che è anche la più antica; la sua fondazione avvenne intorno al 1290 e lo studio ebbe grande rinomanza nel Medio Evo nel campo giuridico; ha mantenuto nel tempo la sua fisionomia e infatti non ha ampliato il numero delle facoltà e oggi conta solo quella di Giurisprudenza; per questo ha anche una capacità ricettiva limitata e il numero annuale degli iscritti si aggira in media sui 250. La Biblioteca comunale Mozzi Borgetti insieme a quella del collegio dei Gesuiti, la cui fondazione risale al 1560, e a quella del Seminario che invece è secentesca, provvede alle necessità dello studio; la Biblioteca Mozzi Borgetti è considerata la più ricca delle Marche in quanto ad incunaboli e manoscritti.

    Ad Ancona è stata di recente istituita una scuola universitaria di economia e commercio che tuttora però ha un carattere sperimentale.

    Oltre ai centri universitari anche tutti i capoluoghi di provincia e le maggiori città possiedono biblioteche comunali o biblioteche vescovili a volte molto importanti come quelle di Ancona. Nei centri minori spesso si trovano ricche biblioteche private presso le famiglie di antica casata o presso amatori, che tuttavia attualmente si limitano a conservare quanto in passato era stato raccolto.

    Cenni di storia della cultura e dell’arte

    Le vicende varie ed alterne che la storia ha registrato nelle Marche o nelle regioni vicine e che hanno visto gli abitanti della regione stessa di volta in volta protagonisti

    o spettatori, sono state sempre profondamente sentite tanto che è possibile anche oggi seguirle in testimonianze artistiche di carattere e valore differente. Ogni movimento spirituale ed ogni indirizzo artistico è documentato nelle Marche in forme ora pregevoli ora modeste, distribuite un po’ dovunque, in luoghi noti o di passaggio obbligato, in città importanti o in borghi appartati; si direbbe quasi che in ogni momento i marchigiani siano stati animati da una intensa vitalità interiore ed abbiano aperto lo spirito alle forme più nuove e più moderne, anelando ad una vasta e profonda comprensione più che ad un quieto adattamento. Le Marche hanno anche espresso artisti insigni i cui nomi hanno risonanza mondiale, ma più che altro hanno accolto maestri stranieri, già celebri per opere compiute o per la scuola dalla quale provenivano, ricchi di esperienza e di genialità; le piccole Corti, i Comuni stessi hanno mostrato una grande liberalità progettando opere monumentali e decorative, chiamando ed ospitando i più bei nomi dell’arte, permettendo in tal modo di cogliere ancor oggi l’ampio respiro di genti che ebbero forme di vita forse differenti dalle nostre ma comunque altamente evolute.

    Santa Maria di Portonuovo.

    Le prime forme dell’arte fino alla fine dell’VIII secolo sono certo molto più abbondanti ad Ancona che altrove; qui infatti con i traffici del porto venivano a contatto genti di diversa stirpe e di diversa cultura: s’incontrano così opere di impronta nettamente classica o di carattere bizantineggiante o ravennate; prevalgono i sarcofagi con figure varie, di caccia, sacre, familiari, improntate sempre di vivacità anche se di forma non raffinata.

    I mosaici rinvenuti nelle chiese sottostanti a Santa Maria della Piazza di Ancona, mostrando elementi ornamentali e di composizione di carattere orientale o comuni a quelli di Grado e di Ravenna, costituiscono uno dei classici esempi dell’espansione e dell’irraggiamento di forme di civiltà che vengono a contatto nella città portuale.

    Santa Maria a Piè del Chienti.

    Il periodo romanico ha lasciato manifestazioni molto più organiche e che rivelano una impronta locale più spiccata, specie nelle molteplici forme dell’architettura. Quella sacra è dispersa si può dire in ogni angolo della regione, dalla Pieve di San Leo, a Santa Croce all’Ete presso Sant’Elpidio, da Santa Maria di Portonuovo, alla chiesa delle Moje, da Sant’Angelo a Montespino alla Pieve di San Zenone di Gàgliole, da San Quirico e Giulitta di Lapedona a San Marco di Ponzano e si potrebbe continuare ancora nella citazione di una lunga serie.

    L’area circostante offre i materiali delle costruzioni: calcare, arenarie o laterizio disposti quasi sempre con sapiente cura, in modo da sottolineare i semplici motivi ornamentali con effetti cromici; più ricco nelle forme decorative ma sempre elegantemente equilibrato è il romanico di Ancona, di Ascoli Piceno, di Fano, specie quello che si ritrova nella edilizia civile e che ha una varietà di atteggiamenti espressi per lo più con impiego di pietra e di laterizi.

    La prodigiosa conservazione dei numerosi esemplari del romanico si deve forse alla sua grande dispersione in ogni luogo della regione, spesso lontano dai centri abitati tanto che più di una chiesa fu abbandonata dopo breve tempo; il gotico

    invece, i cui esemplari marchigiani vanno dal XIV al XVI secolo, è arrivato a noi quasi sempre corrotto, perchè le costruzioni erano fatte nelle città e pertanto erano più soggette a modificazioni e trasformazioni; il monumento più insigne e più genuino è quello di Santa Maria di Castagnola a Chiaravalle. Anche il gotico fiorito di impronta veneziana si afferma ad Ancona, a Camerino, a Fermo, a Tolentino, pervaso da uno spirito di raffinata eleganza, di fantasiosa armonia ed esprime per lo più la personalità ed il temperamento di Giorgio Orsini da Sebenico.

    La forma artistica che più compiutamente esprime le vicende di alcuni secoli della vita marchigiana, quando piccoli feudatari e limitati Comuni intessevano tra loro patti e guerre, localizzate a ristrette aree, è quella delle opere militari; le opere più importanti sono legate alle Signorie dei Malatesta, dei duchi di Montefeltro e d’Atri, ma quelle più comuni, costituite di mura di cinta munite di torri, sono diffuse ovunque e si può dire che non vi sia un paese che non abbia qualche avanzo di un’antica fortificazione civica o che, ancora compreso entro il recinto murato, non abbia l’aspetto di un castello. Le torri nobiliari dovettero dare al loro tempo un aspetto del tutto singolare alle città e tale da non poter essere immaginato da noi, basti pensare infatti che al tempo di Federico II ad Ascoli ne esistevano circa 200. Lo stesso si può dire per le torri feudali che, avendo funzione di vedetta, di segnalazione e di collegamento, sorgevano isolate nei punti più strategici come sul litorale, lungo i fiumi, sulle colline, nei valichi, animando le morbide forme del paesaggio con una nota forte e minacciosa. Le rocche vere e proprie invece sono in numero minore e più segnatamente legate alle fortunose vicende dei signori : ad esempio quelle dei Montefeltro dovevano essere numerose a giudicare dai ruderi che restano e così quelle dello Stato di Camerino.

    Abbazia di Chiaravalle.

    I ruderi della rocca di Montemònaco.

    Contemporaneamente alle opere di architettura religiosa e civile e di carattere difensivo sono quelle della pittura gotica marchigiana che, espressa dapprima dalla tradizione giottesca abbracciata dai pittori riminesi, si concreta poi nella fioritura della prima scuola pittorica marchigiana, quella fabrianese, che, oltre ad Allegretto

    Nuzi e Francesco Ghissi, avrà il massimo rappresentante in Gentile da Fabriano e che, se pure nelle forme non esprime aspirazioni e tormenti particolari, pure presenta figure semplici e sobriamente austere che hanno i lineamenti e il tipo della gente marchigiana.

    Il fermento del Rinascimento trova nelle Marche un campo molto ben disposto e particolarmente fruttuoso; giungono nella regione maestri di grande fama specie dalla Toscana come Masaccio, i Sangallo, Michelangelo, i Della Robbia i quali riflettendo correnti e personalità differenti producono opere insigni tra le quali primeggiano il Palazzo ducale ed il portale di San Domenico ad Urbino, la Basilica di Loreto, il Palazzo della Signoria a Jesi, oltre ad una serie di rocche e di opere difensive.

    La rocca dei Varano presso Camerino.

    Il seme della rinascenza sparso con dovizia dai precursori, fruttifica nella regione che dà il suo contributo con lo stile urbinate, diffuso non solo nel Montefeltro ma a Pesaro, a Fossombrone, a Urbino; un ambiente così evoluto e ricco di contatti e di esperienze fornirà la base per l’educazione artistica di due grandi marchigiani: Bramante e Raffaello, oltre che di altri minori fra cui primeggia Girolamo da Genga che nella Villa Imperiale di Pesaro è riuscito a far aderire perfettamente la massa architettonica alla natura circostante, grandiosa nel paesaggio e ricca di vegetazione.

    La scultura quattrocentesca annovera soltanto nomi di artisti di importazione, ma nel pieno Cinquecento ecco un maestro locale rappresentativo, Federico Bran-doni di Urbino, assai noto per le sue decorazioni vivaci e fantasiose.

    La rocca di Senigallia.

    Mura medioevali e scorcio panoramico di Gradara; la tradizione pretende che qui si sia svolta la tragedia di Francesca da Rimini.

    La pittura rinascimentale che nelle forme regionali è localizzata e sviluppata specie a Fabriano, Camerino e Sanseverino, centri che esprimono delle vere e proprie scuole anche se di modesta entità, mostra altre due grandi correnti artistiche, l’umbra e la veneziana, che penetrano da vie diverse, l’una dall’ampia zona di confine, l’altra lungo il litorale. Ma ad onta della varietà delle manifestazioni che sono disseminate in ogni luogo, le Marche restano in questo periodo un centro secondario di operosità artistica, offuscata dallo splendore dei grandi centri della civiltà rinascimentale come Firenze, Siena, Perugia, Padova, Ferrara, Milano.

    Tra le arti industriali del Rinascimento che forniscono un aspetto tipico della evoluzione artistica regionale, la più insigne è quella della maiolica che si svolse in tre centri principali: Pesaro, Castel Durante e Urbino. Ogni centro ebbe personalità notevoli come i Pellipario, l’Avelli, i Fontana e diede luogo a prodotti con caratteristiche differenti: a Pesaro prevalsero i piatti amatori con lustri metallici, a Castel Durante le decorazioni a trofei, a cerquate, a candeliere, ad Urbino le grottesche e l’istoriato con una colorazione giallo-turchina.

    Il centro di maiolica di Pesaro pare fosse il più importante e fu fiorente dalla metà del XV alla metà del XVI secolo; la produzione doveva essere ingente e assai pregevole se nel 1462 si costituì una società per l’incremento del commercio dei vasi e se sono state tramandate dichiarazioni di ammirazione di papa Sisto IV e di Lorenzo il Magnifico, i quali ringraziavano rispettivamente Costanzo Sforza e Roberto Malatesta per aver loro mandato in dono dei vasi. La ceramica di Pesaro produceva specie piatti a coppa nei quali predominava la tonalità giallo-oro con riflessi perlacei e di rubino; avevano nel fondo un’effigie femminile ed un motto ed erano inviati dai fidanzati alle giovani, pieni di dolci e di frutta.

    Anche nelle vicinanze di Pesaro pare vi fossero delle officine, per esempio a Gabicce dove lavorarono i Lanfranchi; però quando le opere non sono firmate riesce arduo distinguere la produzione di Pesaro da quella di Urbino perchè la vicinanza dei luoghi, posti sotto la medesima signoria, favorì l’accostamento dei due indirizzi.

    La produzione di Castel Durante si distingueva per il tipo degli oggetti che creava, come le impagliate composte di cinque o sette pezzi sovrapposti in modo da formare una specie di vaso e costituiti da oggetti da tavola che si regalavano alle spose nel primo parto; i maiolicari del luogo avevano inoltre speciali procedimenti tecnici tra i quali il così detto soprabianco, simile ad un merletto: il bianco del fondo era mescolato all’azzurro in modo da formare un bianco tinto. Nonostante lo sviluppo della tecnica e la personalità raggiunta nella produzione, il centro non sembra aver avuto una grande fortuna commerciale perchè si ha notizia di una continua migrazione di maestri a Venezia, Corfù, Anversa, Roma e anche nella stessa Urbino.

    Officine di maioliche esistettero certo anche in altri luoghi delle Marche ma la loro produzione non acquistò una risonanza storica; ad esempio a Fano alcune vie ricordano questa attività come via del Vasaro, delle Maioliche; ad Ascoli Piceno i vasai figurano nel Consiglio dei Cento e della Pace alla fine del XV secolo.

    L’intaglio in legno e la tarsia ebbero parecchi maestri in qualche centro locale come a San Severino, nell’Ascolano, a Cagli; i Marchigiani si recarono spesso a lavorare in quest’arte fuori della regione, specie in Umbria, mentre artisti toscani lasciarono nelle Marche opere molto significative.

    Il panorama dell’oreficeria marchigiana durante il Rinascimento è molto vasto ed i suoi maggiori rappresentanti sono Lorenzo d’Ascoli, Pietro Vannini e quel Lucagnolo da Jesi che il Cellini considerò un suo emulo. La Corte d’Urbino era molto ricca di argenterie che sono però tutte scomparse e delle quali si ha notizia soltanto attraverso gli inventari; si sa anche che era fiorente a Jesi la bottega di orafo di Pietro Arcolani, a Ripatransone quelle dei Mottillo e dei Castelli e molte altre ancora.

    Due torri medievali nella campagna di Falerone.

    Molto numerosi sono i fonditori di campane che provengono specie dal territorio urbinate e lavorano tra il XV e il XVI secolo; accanto a questi ci sono i fonditori di armi come maestro Rado di Urbino e gli armaioli che forse erano semplici artigiani come Lorenzo di Piero da Urbino, Antonio Pieri da Fabriano.

    La fioritura spirituale delle Marche come si può ricavare dai brevi cenni tratteggiati, fu notevole nel tempo e molteplice nell’espressione artistica ed è quindi cosa naturale che anche in altri campi culturali il livello fosse elevato e l’attività ingente, tuttavia non sono molti i nomi che si sono imposti ed hanno avuto una risonanza notevole; alcuni però si stagliano netti sull’orizzonte regionale e spiccano con la loro personalità in campi differenti. Nella prima metà del secolo XV si distingue Grazioso Benincasa, il più noto ed attivo cartografo italiano del tempo; nato ad Ancona scelse l’attività marinara e passò buona parte della vita viaggiando nel Mediterraneo; in base alle sue esperienze costruì il portolano delle coste orientali dell’Adriatico e un buon numero di carte nautiche e di atlanti che rispecchiano le conoscenze geografiche anteriori alla scoperta dell’America.

    La conquista della terra con la conoscenza di luoghi ignoti, di genti sconosciute e di usanze meravigliose ha affascinato sempre l’umanità che in ogni tempo ha ammirato qualcuno che, avviatosi verso l’ignoto, è riuscito spesso a portare indietro racconti nuovi, colmi di fantasiose notizie; questa continua ed umile attività dell’umanità ha avuto a volte un interesse economico, a volte uno politico o puramente scientifico, ma spesso è stata guidata da un interesse religioso, da un entusiasmo missionario.

    La Cina fu uno dei campi più affascinanti e di più difficile penetrazione e verso di essa si diresse intorno al 1577, carico di cognizioni filosofiche e scientifiche ed animato da grande entusiasmo, padre Matteo Ricci da Macerata appartenente alla Compagnia di Gesù. Era un uomo certo eccezionale ed attraverso le sue lettere ed i suoi commentari riuscì a far rivivere le bellezze ed i colori del paesaggio cinese, le singolarità delle idee e delle credenze del popolo, e, data la stazionarietà dei costumi cinesi, come dice P. Gribaudi, « i suoi scritti possono leggersi con profitto anche ora, specialmente qui in Italia ove ben pochi sono quelli che di quel lontano paese abbiano un giusto concetto ». Agli indubbi risultati scientifici derivati dalla sua permanenza, debbono aggiungersi anche quelli religiosi che attraverso fasi alterne e difficili condussero ad un incremento del Cristianesimo in Cina alla fine del Cinquecento e al principio del Seicento.

    Di minore statura, ma non per questo meno interessante è la figura di un altro maceratese, padre Cassiano Beligatti, cappuccino, che tra il 1741 ed il 1742 soggiornò a Lhasa nel Tibet annotando le osservazioni fatte sulle feste e le cerimonie locali in un Giornale in due libri di cui ci resta soltanto il primo.

    Più vicina a noi e più patetica nelle sfumature dei contorni, perchè inquadrata nella cornice dell’esplorazione africana tinta di tanto sangue, è la figura di Antonio Cecchi, pesarese, che fu compagno dell’Antinori, del Chiarini, del Bianchi e che dal 1877 al 1896, quando morì per un’imboscata, calcò la dura terra d’Africa preparando per l’Italia la via di una penetrazione commerciale e di una esplorazione scientifica.

    Le figure marchigiane del Risorgimento sono numerose, perchè il movimento, patrocinato dalla estensione capillare della Carboneria, penetrò ed investì ogni ceto sociale e spesso le rappresaglie pontificie condussero ad espatri e ad esili verso Firenze; tra tutte però primeggiano alcune che ebbero per la loro individualità e personalità una risonanza nazionale. Ad esempio Diomede Pantaleoni di Macerata, deputato al Consiglio dello Stato Pontificio, con il suo patriottismo moderato ma costante e con i suoi scritti sulla soppressione del potere temporale dei papi e su Roma, fu una figura assai eminente che tuttavia riesce difficile paragonare con quella complessa e vivace di Terenzio Mamiani, pesarese, al quale si deve in parte la preparazione dei moti del 1831.

    In questo stesso travagliato periodo risorgimentale giunse al pontificato Giovanni Maria Mastai Ferretti di Senigallia che assunse il nome di Pio IX e che con il suo carattere ardente ed impetuoso fu alternativamente causa di speranze e di delusioni. Intorno alle personalità tanto varie e contrastanti, ai loro ideali generosi ed alle loro patetiche, fredde determinazioni, il tempo ha creato sfumature ovattate che attutendo i contrasti ideologici permettono a noi di considerarle insieme e di apprezzarne la generosità degli animi e degli intenti come unica espressione di vita spirituale e di operosità, emanata da un medesimo ambiente, quello della regione marchigiana.

    Nel campo delle scienze e delle lettere ecco Bartolo da Sassoferrato, Benvenuto Stracca, Alberico Gentile, Cecco d’Ascoli, Annibai Caro, il Bacciolini e molti altri ancora, fino a giungere al genio del grande Leopardi che, anche se con la sua arte sublime oltrepassa i confini regionali, in tutta la sua produzione fa rivivere l’ambiente, il paesaggio delle Marche; «la natura è presente in tutta la poesia di Leopardi », dice il Piovene, ed è realmente la natura dolce, dai colori tenui, dagli sfondi ampi e sereni quella che è evocata anche nei canti più amari e dolosi del poeta.

    Anche la triade musicale di Rossini, Spontini e Pergolesi ha celebrato con armonie ora gioiose ora malinconiche tante immagini di questa terra, la cui ricchezza culturale e spirituale profusa nel tempo, ha lasciato un’impronta anche sulle genti che l’abitano, fornendole di modeste virtù che si riassumono in un complessivo equilibrio e nel desiderio di una vita semplice e patriarcale e nell’amore laborioso per la terra.

    Vedi Anche:  Le divisioni territoriali