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Case, insediamenti urbani e dimore rurali

    Gli insediamenti

    Agglomeramento e dispersione

    L’esame dei rapporti di densità e della loro distribuzione nel territorio della regione non esaurisce certo l’esame della distribuzione geografica della popolazione.

    Vi sono, essenziali, i fatti di agglomeramento e dispersione. Essi si osservano, statisticamente, col rilevare la popolazione residente, quindi nei luoghi dove si trova « insediata », abitualmente « dimorante ».

    Il fatto che anzitutto colpisce è il notevole inurbamento, non però in uno o pochi centri (come avviene in altre regioni), ma in numerose medie e piccole città.

    All’ultimo censimento prebellico (1936) l’Emilia contava un centro con 226.800 abitanti (Bologna), undici fra 60.800 (Parma) e 20.800 (Imola), e altri quindici oltre i 5000 abitanti. Insomma, della popolazione totale, il 7% nel capoluogo, il 12% nelle città minori, il 4% nelle cittadine da 5000 a 20.000 abitanti.

    La rimanente popolazione accentrata toccava il 26% in 311 altri centri minori o minimi. La popolazione sparsa oltrepassava il 50% della totale, una delle più alte percentuali fra le regioni italiane (dopo Marche e Umbria).

    Al censimento del 1951 più della metà della popolazione (54%) è risultata insediata in centri, e precisamente in 2264 centri con una media di 846 ab. per centro.

    La popolazione sparsa nelle campagne era rilevata poi raccolta ancora in 9314 «nuclei» con 50 ab. residenti in media (13,23% della popolazione totale) e disseminata in «case sparse» per il 32,77%.

    Queste cifre fanno risaltare e precisano la già notata numerosità dei centri, chè quel valore medio di abitanti, così basso, risulta dall’accompagnarsi di non pochi centri grossi con numerosissimi minori e minimi; mentre, di contro, la tendenza ad agglomerarsi anche della popolazione rurale è rivelata non solo dal numero dei nuclei, ma in ispecie dalla loro media inattesamente così elevata di abitanti (50 per nucleo).

    Comunque resta caratteristica della distribuzione degli insediamenti la forte diffusione della popolazione rurale nelle campagne, specialmente nella pianura, nei pedemonte, ma anche nei fon-divalle sin entro la montagna e sui declivi della collina.

    Popolazione presente dal 1901 al 1951: i, nei centri; 2, nelle case sparse ( 1951 : case sparse e «nuclei»).




    Resta caratteristica, ma non più preminente come in passato. Ai censimenti 1901 e 1911 la popolazione dei centri non raggiungeva il 41 % della totale. Progressivamente le percentuali si ravvicinavano nei censimenti 1921 e 1931 (nei centri, rispettivamente 45 e quasi 47%, di contro a 55 e 53% sparsi). Nel 1936, come abbiamo visto, apparivano equilibrate (49,7% nei centri; 50,3% sparsi). Poi decisamente la proporzione si è invertita. Al censimento 1951 la popolazione dei centri

    toccava il 54% della totale.

    In quest’ultimo censimento veniva individuata a parte la popolazione dei « nuclei », che noi qui abbiamo considerato insieme con quella delle « case sparse » per maggiore omogeneità del confronto coi dati dei censimenti anteriori. Questo accertamento della popolazione dei « nuclei » consente una più precisa espressione della reale distribuzione della popolazione in condizioni di agglomeramento (in nuclei anche se non in centri) in confronto a quella, sempre però « relativamente » isolata nelle case sparse. Ma per il confronto col passato è necessario ricorrere all’accorgimento usato.

    Chè se, d’altronde, volessimo porre a confronto la popolazione agglomerata (in centri e nuclei) e la sparsa, la prima addirittura salirebbe al 67% contro il 33%.

    E, osservata per zone, avremmo un 64% di agglomerata nella montagna, 55% nella collina, 79% nel pedemonte e 62% nella pianura.

    La popolazione dei nuclei, d’altronde, va tenuta presente anche perchè l’incremento di quella accentrata non dipende soltanto da incremento nei centri preesistenti, ma anche da quella dei nuclei (di vecchia o nuova formazione), che sono diventati centri fra un censimento e l’altro.

    Tuttavia, forse proprio per l’introduzione del rilevamento dei nuclei (per il quale qualche abitato censito una volta come centro può essere stato più correttamente compreso fra i nuclei) il numero dei centri sarebbe diminuito fra i censimenti 1931 e 1951 da 2363 a 2264.

    L’insediamento urbano

    Nei capitoli descrittivi corografici, tratteremo particolarmente delle singole città, maggiori e minori.

    Qui, in uno sguardo d’insieme, ci limiteremo ad osservare l’entità della popolazione accentrata in esse, la loro distribuzione territoriale e talune caratteristiche generali di struttura.

    Dei 2264 centri censiti nel 1951 oltre 230 superavano i 1000 ab. accentrati.

    Le maggiori agglomerazioni urbane corrispondono in genere ai capoluoghi di provincia. Fa eccezione Rimini che con 50.123 ab. residenti (nel 1951 ) superava Forlì e Ravenna, rispettivamente con 45.927 e 34.904 abitanti.

    Nel complesso degli otto capoluoghi di provincia più Rimini risultavano accentrati 815.286 ab., cioè il 23% di tutta la popolazione residente nella regione.

    Sviluppo della popolazione nei comuni capoluoghi di provincia.

    Seguivano per consistenza numerica tre centri con oltre 24.000 ab., cioè Faenza (25.041), Cesena (24.986) e Imola (24.245). Oltre un quarto della popolazione regionale complessiva si accentra in queste 12 città.

    I maggiori centri che seguono sono Carpi con 16.014 ab. e Lugo con 12.502.

    Quanto alla distribuzione territoriale (e lo si può osservare nella cartina) il fatto che più colpisce è l’allineamento delle città lungo la Via Emilia. Sei degli otto capo-luoghi di provincia vi si trovano e radunano già, con Rimini, 710.000 ab., cioè un quinto di tutti quelli della regione (dato del 1951, si ricordi). In più altre città minori, ma di notevole consistenza, intervallano codesti capoluoghi, a cominciare da Fio-renzuola d’Arda (6634 ab.), per Fidenza (9235 ab.), Rubiera (2739 ab.), Castelfranco (5260 ab.), Castelsanpietro (4080 ab.), Castelbolognese (3034 ab.), Imola e Faenza già ricordate, Forlimpòpoli (3561 ab.), Cesena pure ricordata, Savignano sul Rubicone (3195 ab.), Santarcàngelo (3951 ab.), fino a Rimini. E l’allineamento prosegue ancora, in sostanza, con Riccione (9895 ab.) e Cattolica (8306 ab.).

    A questo allineamento stradale potremmo aggiungere, all’altro estremo, Castel San Giovanni (Piacenza), con 5972 ab. (quantunque il Comune sia attribuito alla zona di collina).

    Ancora nella zona pedemontana, pur più o meno discosti dalla Via Emilia, sono Casalecchio di Reno (però ormai intimamente saldato a Bologna); Spilamberto, Cavriago, Montecchio, tutti dalla parte della collina.

    Degli altri agglomerati che possono considerarsi urbani i più sono nella pianura.

    I maggiori centri di coordinamento di questa sono piuttosto nella bassa: cioè i due capoluoghi di provincia di Ferrara (70.287 ab. residenti nel centro) e Ravenna (34.904 ab.).

    Pochi, ma relativamente piuttosto grossi, gli altri centri che possiamo considerare della bassa: Codigoro (6631 ab.), Copparo (5775 ab.), Portomaggiore (4252 ab.), Argenta (4498 ab.) e altri quattro o cinque fra i 3000 e i 4000 abitanti.

    Sul litorale sono centri notevoli Comacchio (9805 ab.), Cervia (6047 ab.), Cesenatico (5935 ab.) e Bellaria (4597 ab.).

    Nella pianura intermedia (alto Ferrarese, pianura dei Ducati, del Bolognese e Ravennate interna) i centri maggiori sono Carpi (Modena) con 16.014 ab. e Lugo (Ravenna) con 12.502. Nessun altro giunge a 10.000 ab., anzi neppure a 8000 salvo Miràndola (Modena) 8014 ab. Con oltre 5000 ab. seguono ancora nel Modenese Finale (6157 ab.), nel Bolognese Cento (7502 ab.) e San Giovanni in Persiceto (7030 ab.), nel Reggiano Guastalla (6416 ab.) e Correggio (5960 ab.), nell’alto Ferrarese Bondeno (6206 ab.). Un’altra ventina di centri, sparsi, supera i 2500 abitanti.

    Nelle zone di collina e di montagna vere e proprie città non esistono, se non forse Salsomaggiore, caratteristica ville d’eaux a m. 160 sul mare, non lontana dalla Via Emilia anch’essa, con una popolazione residente di 8476 ab., ma una fluttuante ben più numerosa. Sassuolo (Modena) la supera, seppur di poco, al censimento (9010 ab.); Vignola (Modena) arriva a 5868. Ancora nella collina non più di cinque o sei centri superano i 2500 abitanti.

    Parte centrale di Bologna. Le Torri sorgono allo sbocco orientale del decumanus maximus. Si nota verso nordovest l’antico nucleo romano rettangolare, verso sudest il ventaglio delle vie irradiantisi verso la campagna e il primo giro di raccordo fira esse.

    Nella montagna i centri relativamente più grossi non hanno più dei 3882 ab. di Borgo Val di Taro. Similmente affondata nella valle del Reno è Porretta (3201 ab.).

    Il più alto di questi centri meritevoli di menzione è Pavullo, in conca più o meno al centro del Frignano, ma con appena 2409 abitanti.

    Lo sviluppo della popolazione accentrata e specialmente del rapporto fra essa e la sparsa è stato cospicuo nell’ultimo secolo ed è tuttora vivacissimo, se non pure proprio particolarmente accentuato dall’ultima guerra in poi.

    Osserveremo il fenomeno, in quanto dà luogo ad aspetti di vero e proprio urbanesimo nei centri maggiori, particolarmente nell’esame di ciascuno di essi (cap. XV-XVIII).

    Caratteri comuni si riscontrano anche nella morfologia di codeste città, particolarmente di quelle lungo la Via Emilia. Obliterate le eventuali strutture più antiche e spesso anche spostata, se pur di poco, l’ubicazione, il nucleo conserva l’impronta del castrimi romano. La Via Emilia stessa ne rappresenta il decumanus maximus, accompagnato da paralleli decumani minori e attraversato ortogonalmente da cardines fra i quali non è sempre facile individuare l’originario cardo maximus. La forma complessiva è di un rettangolo e questa sembra conservata anche nelle ricostruzioni e costruzioni aggiunte del primo Medio Evo. Airincrocio della Via Emilia col cardo maximus o in vicinanza di esso, altro elemento caratteristico è la « piazza », la piazza per eccellenza, quasi sempre sul luogo dell’antico forum e tuttora centro d’incontro e coordinamento di tutta la vita cittadina.

    Vedi Anche:  La migrazione e la densità della popolazione

    « In vicinanza », abbiamo detto, perchè in qualche caso l’elemento che ha determinato la formazione e ubicazione della « piazza » attuale è stato non il forum antico con la sua funzione civile e commerciale ma la cattedrale con l’episcopio, il centro religioso, stabilitosi in luogo separato dall’antico forum, e che del resto per lunghi periodi del Medio Evo è stato anche la sede del potere politico preminente. Così, per es., a Modena. In altri invece è stato il tempio maggiore della città a localizzarsi sulla « piazza » preesistente, come a Bologna.

    In terzo tipo la « piazza » è rimasta nel forum e ad essa si sono affiancate le sedi del potere civile (Palazzo Comunale, Palazzo del Podestà…), mentre cattedrale ed episcopio si insediavano in luogo separato, anche se non molto distante, senza determinare la formazione di una piazza o determinandola tale da non assumere le funzioni della « piazza » per eccellenza. Così a Parma e ad Imola, per esempio.

    Attorno alla città quadrata o, più spesso, rettangolare romana ed ai primi timidi sviluppi dopo le distruzioni barbariche, si è estesa la città medioevale, prendendo a prestito le strade di campagna irraggianti dalle porte della città antica, collegate poi fra loro da congiungenti tendenzialmente circolari anche dove costituite da spezzate di tratti rettilinei e curvilinei misti. L’espansione è stata marcata, in genere, da due successivi episodi di limitazione, concretati in due cinte murate, una intorno al Duecento, l’altra fra la fine del Trecento e il Cinquecento.

    Ciascuna di esse si è proposta di includere nel campo delle difese cittadine i borghi, che si erano formati all’esterno (e la toponomastica tradizionale, se non più oggi quella delle targhe stradali, ne conserva aperta testimonianza), e in pari tempo, specie la seconda cinta, si è proposta di dare spazio entro le stesse difese ai presumibili sviluppi dell’agglomerato.

    Già la prima di queste cinte dà alla città la nuova forma poligonale (pentagoni, esagoni, ecc., irregolari), che si ripete più al largo e in genere più complessa nella seconda. In quasi tutte le città quest’ultima è stata tracciata con una larghezza che dimostra previsioni eccessive in confronto a quello che è poi stato lo sviluppo delle costruzioni. Sicché questa cinta rinascimentale ha potuto conservare la sua funzione di limite della città fino all’Ottocento inoltrato, senza una piena saturazione e includendo quindi a lungo aree verdi, come orti, giardini, ecc., anch’essi testimoniati tuttora nella toponomastica tradizionale.

    Altro elemento che ha influito sulla forma della rete viaria è stato costituito dalla presenza di tratti di alvei torrentizi, canali e fossi di scolo entro la zona d’espansione della città. I loro andamenti sono testimoniati da contorte vie che ne seguivano il corso o che vi si sono sovraimposte in seguito alla loro copertura o riempimento, concorrendo a complicare l’intrico delle vie, viuzze, stradelli e piazzette.

    E curiosa caratteristica di quasi tutte le città emiliane, per contro, la mancanza di un rapporto diretto, non dico con veri e propri fiumi (che non ci sono), ma neppure coi più grossi corsi d’acqua. La più sensibile eccezione si presenta a Parma, l’unica città emiliana che da un corso d’acqua, quello omonimo, sia divisa in due parti e dove si sviluppano i « lungofiume » (in questo caso i Lungoparma).

    Altre città sono invece sorte a fianco di un corso d’acqua o l’hanno raggiunto con la loro espansione. In questo caso sovente esso è stato divertito dall’alveo primitivo per dare spazio alla diffusione dell’agglomerato urbano, come il Crostolo a Reggio.

    Ricordiamo infine il caso di Ferrara, sorta su un ramo del Po, in antico anzi il principale; anch’essa però a fianco e non a cavaliere di tale alveo. Poi il fiume, l’unico vero fiume che bagna l’Emilia, abbiamo detto, ha assunto altra direzione e Ferrara ne è stata abbandonata. In quest’ultimo tempo, però, la sua espansione tende a saldarla al centro da essa gemmato sul nuovo corso del Po, cioè Pontelagoscuro.

    Ma torniamo a considerare le cinte murate.

    Tanto la prima, quanto e ancor più la seconda hanno lasciato una traccia indelebile nella rete viaria, in cui sono rimasti inseriti coi loro andamenti poligonali i cammini di ronda e i fossati successivamente riempiti, mentre le mura, i barbacani, le torri di scolta sono rimasti inglobati nelle costruzioni che vi si sono, per così dire, incrostate sopra. Soltanto sono conservati taluni archi delle « porte ».

    A uno dei vertici della cinta poligonale si trovava poi la Rocca o Cittadella, la fortezza principale, quasi dappertutto fortunatamente conservata e restaurata.

    Nonostante l’attardata saturazione dell’area inclusa nell’ultima cinta murata, la città, in genere, si è aperta vie di espansione all’esterno, specie al di là delle singole « porte », lungo le maggiori strade, anche nel Settecento e nel primo Ottocento.

    Ma l’esplosione oltre le mura, che ha finito per travolgerle, è opera essenzialmente degli ultimi cent’anni. Par di poterla caratterizzare in tre momenti di particolare intensità ed efficacia.

    Il primo andrebbe, grosso modo, dagli anni intorno al 1880 fino alla prima guerra mondiale e presenta come fatto tipico il riflesso della costruzione delle strade ferrate ed ubicazione delle stazioni ferroviarie. Lungo la Via Emilia queste sono tutte a nord dei centri urbani. L’espansione della città ha teso a saturare rapidamente l’intervallo ed in genere con quartieri industriali e commerciali, cui fa da asse la via che congiunge la « piazza » alla stazione.

    Nel caso di città animate da particolare tensione espansiva lo sviluppo ha superato anche l’ostacolo della sede ferroviaria, determinando la formazione di quartieri nuovi al di là di essa, ma, in genere o in origine, sempre con fulcro nella stazione.

    L’incremento della popolazione inurbata e delle attività industriali e commerciali ha poi sempre più fatto dilagare l’abitato in tutte le direzioni con intensità e forme diverse secondo gli ostacoli e le remore naturali incontrate e nonostante i tentativi, già pronunciatisi negli ultimi decenni dell’Ottocento, di imporvi una certa razionalizzazione mediante piani regolatori.

    L’ondata espansiva si è ripetuta dopo la sosta causata dalla guerra 1915-18, ma con intensità enormemente maggiore in questo nuovo dopoguerra.

    I quartieri nuovi, residenziali, industriali e misti che in certe città hanno raddoppiato o più che raddoppiato in dieci anni l’area coperta dall’edilizia urbana, vie e piazze nuove, ecc., si presentano — e dal punto di vista estetico dobbiamo dire: purtroppo — uniformi e anonimi. Siamo a Bologna, a Parma, a Forlì, ma se non ce l’avessero detto potremmo credere di trovarci indifferentemente alla periferia di Milano, di Padova o di Bari.

    C’è poi da tener conto dei rimaneggiamenti all’interno stesso delle città. Gli avi non hanno avuto i nostri stessi mezzi e le stesse esigenze, ma non hanno dato prova di minor disinvoltura, quando hanno affollato e sopraelevato le case e casette delle città antiche nell’intrico delle vie e viuzze medioevali o le hanno spianate per far posto ai loro duomi e palazzi pubblici, saccheggiando i monumenti antichi per costruirli.

    Ma l’ultimo Ottocento e il primo Novecento sono stati il periodo dei più massicci e profondi « sventramenti » dei centri cittadini, nell’intenzione di conservar loro invariata l’antica funzione pur nella enormemente accresciuta intensità e complessità della vita economica e sociale. E proprio nello stesso tempo in cui si cercava affannosamente di riportare alla forma primitiva palazzi, chiese ed edifici medioevali.

    Questi « sventramenti » con la sostituzione di ampie strade ed edifici moderni in accostamento a edifici medioevali e rinascimentali, messi in aperta luce (ma in una visuale diversa da quella nella quale erano stati concepiti), hanno dato un carattere affatto nuovo a certe zone centrali, creando effetti estetici, sui quali non si finirà mai di discutere se e quanto gradevoli o deplorevoli. Comunque la congestione che oggi vi si verifica di persone, veicoli, rotaie, fili, negozi, uffici e rumori rumori rumori fa dubitare che il sacrificio fatto non sia stato giustificato da una previsione adeguata. E il problema del decongestionamento dei centri delle città emiliane è assillante oggi, pur con nuove forme, come ed anzi assai più che non era apparso cinquanta o sessanta anni fa.

    Vedi Anche:  Il Reno, il Po, gli altri fiumi e le sorgenti

    La generalizzazione qui fatta riguarda, come s’è premesso, quasi esclusivamente le città lungo la Via Emilia, con le varianti che saranno illustrate a suo luogo volta a volta per le singole città.

    Ma anche in quelle di pianura di più antica origine le tre fasi fondamentali appaiono in modo evidente: la romana meno frequentemente e meno accentuata-mente, ma la medioevale-rinascimentale e l’odierna largamente e con forme analoghe alle osservate.

    Certo le più interessanti fra queste città presentano loro caratteristiche eminentemente originali. Come Ravenna per la sua storia collegata alle vicende degli antichi lidi e porti; Ferrara per i suoi rapporti coi rami del Po e coi canali; Comacchio, città di « valle », di canali e di ponti ; Rimini per la recente ma grandiosa espansione lineare lungo-spiaggia in funzione dell’economia balneare.

    Le caratteristiche case dell’Oltretorrente sulla sponda sinistra del Parma.

    Altre caratteristiche comuni presentano le città emiliane in funzione dei materiali da costruzione impiegati. Prevalente di gran lunga è il mattone rosso-bruno (la bigia pietra, il fosco vermiglio mattone del Carducci) per le opere murarie e la tegola per le coperture, prodotti dalle fornaci che ab immemorabili utilizzano a tal fine le buone terre argillose dell’alta pianura e dei fondivalle.

    Soltanto per gli elementi ornamentali si faceva venire l’arenaria del prossimo Appennino e in qualche raro, ma caratteristico caso, la pietra di gesso.

    Il volto delle città emiliane e romagnole era rosso, prima che il Seicento e il Settecento lo velasse degli intonaci giallastri. E così i restauri tendevano a ristabilirlo caratteristico in larga misura dalla fine dell’Ottocento, prima che dilagassero nelle zone d’espansione e penetrassero anche aH’interno le strutture pandemie del cemento armato, prive di alcuna caratteristica locale.

    Altra nota tipica di codeste città era il portico pedonale intorno alle piazze e lungo le vie, frequente in particolare a Bologna, ma anche a Modena, Parma, Ferrara, Cento e nelle cittadine romagnole.

    Svettavano poi sul livello vario delle città i campanili e le rosse torri gentilizie, elementi pur tipici, minacciati oggi dal confronto con le massicce moli biancastre di grattacieli o piuttosto « grattacielini » (12-15-20 piani) alquanto periferici, in genere, e pochi, uno o due per città, ma sempre disambientati e non sai quanto giustificabili.

    Infine era caratteristica delle città nostrane la pavimentazione stradale a ciottoli, pazientemente raccolti e trascelti negli alvei delle medie valli e infissi in uno strato di sabbia e terra costipata. Anche questa è una nota scomparsa o confinata in qualche viuzza secondaria di centri minori, sostituita come è da pavimentazione a lastroni di macigno o cubetti di porfido (di provenienza atesina) e sempre più dalla bitumazione.

    Centri minori e nuclei

    La tipizzazione della struttura e forma dei centri minori e dei nuclei difficilmente può ricondursi ad alcuni paradigmi comuni.

    In una generalizzazione sommaria potrebbe dirsi che i centri minori tendono ad adeguarsi ai tipi cittadini, mentre i nuclei si costituiscono piuttosto in associazioni di elementi rurali.

    Il centro minore tende infatti a raccogliersi anch’esso in una « piazza », la piazza per eccellenza cui si affacciano la chiesa parrocchiale, il municipio od altro edificio pubblico e gli esercizi e negozi più frequentati, e nella quale si svolge il mercato. Intorno si dispongono le case di abitazione, mentre alla periferia tendono a localizzarsi le nuove scuole, gli stabilimenti industriali, i magazzini, con una espansione a macchia d’olio, irregolare, ma con tendenza a seguire le maggiori strade.

    Naturalmente le varianti sono numerose ed in ispecie porterebbero a distinguere due tipi fondamentali, cioè di centri di antica origine e struttura e centri di nuova formazione o almeno di recentissimo sviluppo.

    I primi sono i più pittoreschi. Conservano, in genere, la rocca e qualche tratto di mura medioevali o rinascimentali e, nel nucleo interno, l’intrico di vie e viuzze, rettilinee in pianura    o seguenti i livelli isoipsici in collina e montagna. Indichiamo come esempi Dozza Imolese, Bertinoro, Castell’Arquato in collina, Corniglio, Séstola e Castel del Rio in montagna. (Ma quanti e quanti castelli e rocche incontreremo nell’aggirarci attraverso la regione per la  parte descrittiva del presente volume!).

    Rocca e centro di Rivalta sulla Trebbia

    I centri di nuova formazione o recente sviluppo presentano una pianta a maglie rettangolari, in genere una maggiore spaziosità e un minor contrasto fra il nucleo originario e le addizioni recentissime e attuali.

    Negli edifici dei nuclei, invece, si ripetono in genere le caratteristiche delle dimore rurali, mutandosene cioè quasi soltanto le dimensioni e il rapporto di distanza ridotto a giustapposizione o quasi.

    Raramente però, e soltanto in montagna, il nucleo è costituito di elementi conservanti ciascuno in pieno la funzione rurale, cioè con stalla, rustico, ecc. Di norma la funzione dei nuclei è essenzialmente residenziale: non ospitano, cioè, «contadini », ma lavoratori salariati, braccianti, avventizi ed anche, in vicinanza dei « centri », operai dell’industria, addetti ai trasporti, ecc. Ciò si dice specialmente per i nuclei che numerosi si disseminano nella pianura, in genere allineandosi lungo le strade di più intenso traffico.

    Un tipo a sè vengono a costituire poi ora i centri e nuclei di nuovissima formazione nelle zone di bonifica e di riforma agraria, rispondenti a norme razionali e comunque volontarie, disposte in piani e programmi di attuazione.

    « Nucleo » di case coloniche sotto Guiglia (Modena).

    Le dimore rurali

    Oggetto di recenti studi speciali, sistematici, estesi a tutta la regione, sono state le dimore rurali sì che di queste è possibile riassumere in poche pagine una illustrazione schematica.

    Naturalmente gli studi si sono soffermati sulle caratteristiche delle dimore rurali tradizionali, le quali del resto, salvo qualche integrazione e qualche ammodernamento esteriore ed in ispecie nell’arredamento, sono tuttora di gran lunga le più diffuse.

    Le stesse costruzioni recenti e recentissime si attengono di massima agli schemi tradizionali, se pur non mancano qua e là costruzioni, specie degli ultimissimi tempi, le quali, in una tendenza a una razionalità e a una estetica secondo canoni « liberi » e « nuovi » aprioristicamente concepiti o sotto la suggestione di modelli di ambienti lontani (americani o magari russi), vanno perdendo della loro tipicità, restando ancora spaesati e in realtà ingiustificati nell’ambiente nostrano.

    Crediamo tuttavia opportuno premettere alcune osservazioni su quelle che fra le « case sparse » nella campagna vanno distinte come dimore « padronali », le « ville », costruite in origine per abitazione estiva dei proprietari, loro famiglie e ospiti, e quelle dei coloni (proprietari, coltivatori diretti, affittuari, mezzadri, ecc.), alle quali più propriamente si connette il termine di « dimore rurali ».

    Non mancano di tipicità le ville, anche se il loro numero in confronto a quello delle dimore rurali propriamente dette è esiguo ed in accentuata diminuzione, specie dopo la guerra recente, per effetto della quale molte sono state abbandonate o adattate alla meglio ad uso residenziale di famiglie bracciantili, artigiane e miste. Concorrono a determinarne l’abbandono e il declassamento la sempre più diffusa consuetudine della « estivazione » delle famiglie benestanti al mare e al monte e il progresso dei mezzi di comunicazione, che attenua la necessità di una presenza immediata, sul posto, dei conduttori agricoli non coltivatori manuali.

    Nella sua forma classica la « villa » nostrana consisteva di un edificio a più piani attorniato da parco e giardino. L’accesso all’interno è costituito da un ampio corridoio centrale, che l’attraversa dal fronte al retro. A questo corridoio si affacciano, ai due lati, i locali di soggiorno e pranzo, la cucina, la dispensa. E la scala, la quale porta al corridoio che al primo piano ripete forme e funzioni del sottostante, dando accesso alle camere da letto, bagno, ecc. Nel sottotetto o terzo piano, poi, si trovano le stanze per la servitù e i granai. Non manca (sempre nella configurazione classica) un interrato con la cantina e la legnaia e, talora, la cucina.

    Numerose sono le varianti intorno a questo schema, in relazione con la potenzialità economica della famiglia « padronale », con la funzione di centro amministrativo aziendale che può competere alla « villa », coi gusti settecenteschi e ottocenteschi del tempo di costruzione, con le condizioni ambientali (specie in collina), ecc.

    La più interessante e diffusa di tali varianti è quella che, pur conservando una scaletta interna, porta lo scalone principale all’esterno, addossato alla facciata con due rampe convergenti, quindi l’ingresso e il corridoio centrale al « piano nobile ».

    Nella dimora rurale propriamente detta le funzioni sono ancora più complesse. Essa non deve servire soltanto all’abitazione ma anche a ricovero degli animali domestici e dei mezzi di lavoro e alla conservazione dei prodotti.

    Gli elementi essenziali che vi si associano sono l’abitazione, la stalla, il fienile, il portico per il ricovero dei carri agricoli e attrezzi. Magazzini, se ci sono, sono incorporati nell’abitazione, nella quale non mancano i vani di uso misto (per abitazione e magazzino). Altri minori elementi, che però non mancano mai, sono lo « stelletto » per i suini, il pollaio, il forno (anche se questo oggi va in disuso, specialmente in pianura) e infine il pozzo.

    Vedi Anche:  Storia dell'Emilia Romagna

    Nella disposizione classica la paglia resta fuori accumulata in pagliai, una volta di forma conica, oggi, con la paglia pressata e legata, piuttosto in parallelepipedi. Come restano fuori i covoni del grano, in grandi biche provvisorie (fra mietitura e trebbiatura). Nelle aziende più complesse, tuttavia, appositi portici a parte (porti-coni) sono costruiti per tali fini (paglia, fieno e provvisoriamente covoni).

    « La Marcona », tipo di villa padronale nella collina romagnola (Dozza)

    Tipi di abitazioni nelle diverse zone di montagna, collina, pianura, bonifica.

    Resta pure fuori, dietro stalla, la vasca per il liquame e il mucchio squadrato del letame. E fuori restano, spesso, anche le cataste di legna e fascine.

    I reciproci rapporti di posizione e di sviluppo di codesti elementi costituiscono la base preferita per le classificazioni nelle quali si concludono gli studi ricordati. Esse li semplificano in due: l’abitazione e il «rustico».

    I tipi fondamentali sono quindi stati riconosciuti, nella nostra regione, in tre: la «casa unitaria», in cui l’abitazione è sovrapposta al rustico in un solo edificio; la dimora ad elementi giustapposti , con abitazione e rustico contigui, in un unico corpo; la dimora ad elementi separati, con la « casa » e il rustico intervallati da più o men breve distanza.

    Il quarto tipo fissato dagli studiosi, la « corte », nel quale vari elementi edilizi e più famiglie si raccolgono intorno ad uno spazio aperto, recinto, si riscontra in Emilia soltanto nel Piacentino, sotto l’influenza della vicina Lombardia, dove invece è caratteristico. E si è creduto di segnalarlo anche, con qualche esemplare, nella collina fino al Frignano.

    Le zone di diffusione dei tre tipi fondamentali sono qui delineate in una carta d’insieme sulla scorta di quelle che corredano gli studi citati.

    Nella casa unitaria al piano terreno è la stalla, e sovrapposta, l’abitazione. La scala di accesso a questa è generalmente esterna, in pietra. Si ritiene che questa sia la forma più antica di dimora rurale, caratteristica anzi indigena delle regioni appenniniche. E la si designa anche pertanto come « tipo italico ». Se ne distingue per i suoi aspetti particolari, obbligati, il tipo di pendio, in montagna e collina. Che forse è proprio quello che ha dato origine alla casa unitaria, per la necessità di portare l’abitazione sopra, fuori del contatto col suolo, mentre la stalla sottostante resta in parte interrata nel pendio.

    La casa unitaria si ritrova anche nella pianura cesenate-riminese, con una variante locale, caratterizzata dalla scala portata all’interno del corpo del fabbricato.

    Il tipo ad elementi giustapposti è già uno sviluppo del precedente nel senso di una più razionale differenziazione di funzioni e forme, qual è in genere, consentita e suggerita da maggiori disponibilità di spazio e potenzialità economica.

    E il tipo più diffuso nella pianura emiliana occidentale e nella collina immediatamente sovrastante fino al Bolognese.

    In una sola costruzione sono raccolti tutti gli elementi costitutivi della dimora. A volte sono coperti da un unico tetto ed il complesso assume un aspetto più unitario; a volte l’abitazione ed il rustico sono semplicemente accostati ed un salto nel tetto denuncia la linea di giunzione. Cucina e stalla sono al piano terreno mentre al piano superiore trovano posto le camere da letto ed il fienile, ma non si notano compenetrazioni tra gli elementi del rustico e quelli dell’abitazione. Ad essi si aggiunge quasi sempre il portico che, variamente inserito nel complesso, determina diverse varianti locali o frammiste nelle stesse zone.

    Casa unitaria di pendio con scala esterna (Fontanelice).

    Nel Reggiano il portico è interposto tra l’abitazione ed il rustico e costituisce la così detta « porta morta ». Questa si trova anche nel Parmense, ma più spesso accompagnata da portico antistante il fabbricato, con un salto nella copertura.

    Forme analoghe si trovano anche nel Piacentino, dove però prevale una variante col portico dietro la casa e interposta concimaia.

    Nella collina e media montagna bolognese fienile e portico sono incorporati alla casa sul fianco esterno del rustico. Ma qui, come, ed ancor più, nell’adiacente pianura imolese e ravennate, forte è la commistione delle dimore di questo tipo con quelle del seguente.

    E il tipo ad elementi separati, diffuso in tutta la pianura padano-veneta. Sua caratteristica è di avere l’abitazione del contadino o dei contadini, la stalla-fienile ed i servizi accessori ospitati in edifici nettamente separati gli uni dagli altri. Una siffatta composizione degli elementi edilizi è determinata da esigenze funzionali particolari delle zone di bonifica meno recente e di quelle a colture industriali.

    Infatti, la disposizione ad « elementi separati » favorisce la libera circolazione di carri e di animali impiegati in gran numero sulle terre bonificate, le quali, generalmente povere e pesanti, richiedono molti animali una volta per il lavoro e ancor oggi per la concimazione. Comoda circolazione di carri ed ampi spazi liberi sono anche richiesti per i prodotti delle colture industriali, come la canapa e la barbabietola. Possono accompagnarsi a queste esigenze ragioni di sicurezza e di igiene che consigliano di tenere lontani dall’abitazione il fienile e la stalla.

    La “Mascherina”, dimora rurale a elementi giustapposti: fienile, stalla, ingresso all’abitazione, magazzino attrezzi (pianura imolese).

    Si avverte pure che nelle aziende più complesse agli elementi classici separati (ed anche a quelli giustapposti) si sono aggiunti e se ne aggiungono frequenti di nuovi provvisori (capanne, originariamente con piedritti e travi di legno, pareti e coperture in paglia o canne palustri), sviluppati poi anche in stabili capannoni aperti, a portico, ed ora anche in sili (in genere per foraggi).

    Il tipo a elementi separati domina in Emilia nella pianura orientale, dal Modenese al mare, penetrando largamente nelle valli maggiori, in particolare in quella del Reno.

    Nelle « terre vecchie ferraresi » e nelle adiacenti di pianura modenese e bolognese esso si presenta con varietà caratterizzate da notevoli dimensioni: abitazione di forma rettangolare allungata, con portico d’ingresso, cucina e magazzini ai lati, camere da letto al primo piano. Talvolta vi si riuniscono due abitazioni, quelle del conduttore e del boaro. Stalla e fienili discosti.

    Nelle zone di bonifica recente o in atto le forme si differenziano ancora, per maggiore estensione e complessità, ed in rapporto con la struttura economica dell’azienda, sì da dar luogo ad un distinto tipo della bonifica. E detto anche « a corte », impropriamente quasi soltanto perchè manca la recinzione. Ne è tipica la « boaria » ferrarese.

    Ma in queste zone, che sono individuate particolarmente nel nordest del Ferrarese e nel Ravennate fra il basso Reno e il mare, si disseminano oggi le modernissime costruzioni date agli assegnatari delle terre scorporate e appoderate. Nelle quali riappaiono dominanti i caratteri del tipo a elementi separati, pur in dimensioni ridotte.

    Casa di tipo reggiano con « porta morta ».

    Dimora a elementi separati: stalla e fienile a destra, abitazione a sinistra (alta pianura bolognese).

    Infine una varietà locale, che non rientra nelle precedenti, e si riallaccia caso mai, concettualmente, al tipo della casa unitaria, è quella tradizionale, in via di lenta scomparsa, del litorale adriatico ferrarese: dimora «elementare», priva di rustico per l’assenza di foraggio sulle dune aride, abitata da vignaiuoli, ortolani e braccianti.

    Le ulteriori varianti ai grandi tipi accennati sono determinate in primo luogo dalla situazione rispetto al rilievo, che consente di individuarne tipi di montagna, di collina e di pianura, dai quali va separato, come si è già avvertito, quello delle zone di bonifica.

    Altre varianti insorgono in funzione degli ambienti subregionali, naturali, storici ed economico-sociali, nei quali si differenziano quelle stesse grandi zone o se ne accomunano tratti diversi.

    Di alcune si è fatto cenno. Ma non riteniamo di poter seguire qui tutto il minuzioso studio che ne è stato condotto dagli autori ricordati e da altri prima e dopo di loro nell’intento di individuarle e localizzarle. Anche perchè una norma generale è pur sempre la mescolanza di forme di tipi diversi, più o meno frequente e più o meno sensibile in quasi tutte le aree che si è potuto ritenere di caratterizzare con l’uno o con l’altro. E, crescenti, il riadattamento, le addizioni (giustapposte e separate), il rinnovamento, il raffittimento delle dimore rurali tendono sempre più — come s’è pur già avvertito — a confonderne e obliterarne la tipicità.