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Storia dell’Emilia Romagna

    Sguardo storico

    La preistoria

    E un po’ difficile parlare di una storia dell’Emilia.

    L’Emilia non ha avuto una propria storia se non forse per periodi brevi o brevissimi e distanziati. Ha partecipato alla storia d’Italia quando c’è stata una storia d’Italia o ha avuto una storia divisa quando è stata divisa in formazioni politiche distinte sue proprie e in territori sotto l’influenza di formazioni politiche costituitesi ai suoi margini, talora intorno a centri di coesione anche lontani, non solo come Venezia o Milano ma addirittura come Roma.

    Già nella preistoria è dubbio se le popolazioni di cui si ha la più lontana testimonianza siano mai state omogenee nella regione fra l’Appennino, il Po e il mare.

    Il primo popolamento documentato dai reperti litici si fa risalire all’orizzonte geologico tirreniano, cioè del Pleistocene superiore o più precisamente all’interglaciale Riss-Würm ed ai prodromi di quest’ultima glaciazione. Vuoisi all’inizio del II millennio avanti Cristo.>

    Nella successione dei periodi individuati dall’evoluzione delle industrie litiche questo è il Musteriano, Paleolitico medio, da noi nella facies all’aperto, mancando praticamente in tutta la regione la possibilità di vita trogloditica. Se ne sono trovati reperti nella zona pedemontana: a Traversétolo e Vignale nel Parmense, nelle terrazze alluvionali del Parma, dell’Enza, del Santerno. Ed è qui, nell’Imolese, che se ne sono trovati e studiati i primi sin dalla metà del secolo scorso: scaglie a ritocchi, spesso con evidenza del bulbo di percussione, punte lanceolate, larghi raschiatoi.

    Quali siano la provenienza di questo popolamento (evidentemente di nomadi cacciatori e raccoglitori) e i rapporti di esso con l’umanità già documentata in tempo anteriore nella Liguria (razza di Grimaldi) e nell’Italia centrale (uomo di Saccopa-store) e con quelle genti, delle quali si ha la successiva documentazione locale, è oggetto di congetture, tuttora aperte a discussione. Si parla, in genere, di questi primi abitatori della regione come di « mediterranei ».

    Ma che questi siano un tutt’uno — sia pure attraverso una lunghissima evoluzione culturale — con le popolazioni del Neolitico è tutt’altro che dimostrato, tanto più che manca ancora, per l’Emilia, una documentazione dei periodi intermedi del Paleolitico superiore e Mesolitico.

    Lo strato etnico e culturale Neolitico, che si sviluppa in Eneolitico o Neocupro-litico, appare presente un po’ per tutta la regione, ma persiste poi e si caratterizza nella sezione orientale, quando nell’occidentale compaiono i terramaricoli.

    Sono infatti, i primi, capannicoli e praticano l’inumazione dei cadaveri rannicchiati in fosse individuali, raccolte però in sepolcreti con un certo ordine, a pianta tendenzialmente rettangolare. E da questi si trae la quasi totalità dei reperti : oggetti in pietra lavorata, in ceramica, in bronzo, in osso e corno.

    Le fragili costruzioni di capanne, di materiale ligneo, presto rivestito di mota e poi rafforzato da muriccioli a secco, furono più facilmente spazzate dalle intemperie e dall’usura del tempo. E quanto di esse poteva rimanere sul suolo o a qualche profondità fu, a sua volta, ricoperto da sovrapposizioni o andò disperso nelle opere dell’agricoltura. Questo spiega il numero relativamente piccolo di tracce degli abitati di questo genere. Tuttavia i «fondi di capanne», come si è usato di chiamarli, sono apparsi e continuamente si vanno scoprendo e studiando.

    Pianta della terramara di Castellazzo di Fontanellato (Parma) con l’annessa necropoli.




    Gli altri, i terramaricoli, se le terramare possono considerarsi un’evoluzione delle dimore su palafitte, sarebbero provenuti dal Nord, respingendo i primitivi raccoglitori e cacciatori, divenuti anche pastori, nella montagna. Solo mescolandosi a questi e raggiuntili poi a loro volta nei recessi montani, perchè sospinti da nuove ondate etniche, i terramaricoli occidentali si sarebbero identificati con loro nella tradizione dei Liguri, le cui discendenze predominano in tutta la zona montana, per lo meno fino al Frignano.

    L’arrivo di questa nuova gente è indicato dall’apparire del rito della combustione dei cadaveri.

    Tipica è la terramara di Castellazzo di Fontanel-lato (Parma). Appare di forma trapezoidale, larga 319 m. e con la lunghezza maggiore di 641 m., la minore di 537 m., circondata da un terrapieno e da un fossato per immettervi l’acqua del Taro. Una selva di pali conficcati nel suolo all’interno del terrapieno avrebbe sostenuto un tavolato, sul cui pavimento, costituito di terra battuta, si levavano le capanne. L’intercapedine fra il pavimento e il suolo accoglieva i rifiuti, che vi si lasciavano cadere da apposite aperture. Proprio questi cumuli di rifiuti offrono oggi con la loro composizione e stratificazione i più preziosi indizi per lo studio della vita economica, sociale, culturale e della sua evoluzione. Da essi, tra l’altro, viene la denominazione di « terramara », da « terra marna », scura e « grassa ».

    Ossuari villanoviani dell’ultimo periodo (Bologna, Museo civico).

    Se anche la disposizione regolare delle capanne con strade ortogonali e uno spazio vuoto al centro, embrione della « piazza », è stata messa in dubbio, i particolari riferiti ed altri denotano una civiltà relativamente sviluppata anche nel senso di un’organizzazione sociale in vista della difesa comune e della comune attività economica.

    Il carattere di tale società solidale appare testimoniato anche dai sepolcreti, nei quali i cinerari venivano deposti gli uni accanto agli altri e gli uni sugli altri. Non vi sono più tombe individuali o familiari, il che dà un vivo contrasto con l’anteriore e coeva civiltà mediterranea.

    Altre terramare testimoniate da resti della selva di pali sono nel Piacentino, Parmense, Modenese e a Parma stessa, dove questa « è per così dire » come si esprime il Ducati « la prima pagina di storia della città ».

    A sudest del Panaro sullo strato neocuprolitico più profondo si avverte l’incontro, anzi l’incrocio, di influssi evolutivi della civiltà del bronzo provenienti dal Sud e dall’Adriatico con la civiltà terramaricola.

    Successivamente i capannicoli del Sud appaiono sostituiti od assimilati da altri provenienti dall’Italia centrale, indicati come Proto-italici, identificandosi poi nella fusione con gli Umbri della tradizione. Con loro si presenta e si sviluppa l’età del ferro.

    Questa civiltà del ferro si identifica con la così detta Villanoviana, nome convenzionale derivato da una località Villanova a 8 km. da Bologna, nella quale ne fu per primo rinvenuto e studiato un vasto sepolcreto, testimoniante un grande centro, in cui si succedono stratificazioni tra l’Vili e il VI secolo avanti Cristo. Centro capannicolo, con crescente industria dei metalli.

    Altri centri importanti sono Verucchio nel Riminese e Sàrsina nell’Appennino, in vai di Savio. E come stazioni estreme verso nord Savignano sul Panaro, Golfera presso Nonàntola ed Argenta.

    La civiltà villanoviana è caratterizzata dall’assunzione del rito della combustione dei cadaveri. Le ceneri si mettevano in vasi di terra o di bronzo, che, coperti alla bocca da una ciotola, s’interravano in un pozzetto, per lo più coperto e difeso da una lastra di pietra non lavorata. Il corredo funebre deposto insieme all’urna dimostra la pratica di una agricoltura e di industrie dei metalli relativamente progredite.

    L’area di questa civiltà ha limite verso nordovest al Panaro e si stende fino a Rimini, dove viene a contatto con quella della contemporanea e analoga civiltà picena (o « di Novilara »).

    Etruschi e Galli

    Una storia propriamente detta comincia nell’Emilia dalla fine del secolo VI avanti Cristo con l’arrivo degli Etruschi, provenienti dall’oltre Appennino. Essi si infiltrano e avanzano specialmente in pianura, mentre nei recessi della montagna restano irreducibili le popolazioni liguri. L’influsso degli Etruschi è prevalentemente culturale, economico e politico, forse più che etnico. Hanno avuto le loro avanguardie commerciali, diffondendo nel paese prodotti industriali che già si trovano presenti nei sepolcreti ricordati. Si sono poi presentati come conquistatori, sovrapponendo alle popolazioni locali la propria organizzazione politica, stabilendo i primi nuclei urbani veri e propri, costituendo i primi porti sull’Adriatico.

    Il centro del loro dominio pare Felsina, dove oggi è Bologna, ricordata dai Romani come Princeps Etruriae. E nella prossima vai di Reno era Misa, le cui reliquie si trovano presso Marzabotto. Ma agli Etruschi debbono la loro origine, come rivelano i nomi, anche Cesena, Modena all’interno (probabilmente anche Parma e Piacenza) e sul mare Ravenna, Rimini e Spina, la per tanto tempo misteriosa città portuale il cui volto si rivela ora presso Comacchio. Il V secolo a. C. contrassegna il periodo di maggiore fiore dell’Emilia etnisca.

    Stele felsinea (Bologna, Museo Civico).




    Essa è travolta dall’invasione celtica, che sopravviene all’inizio del IV secolo, d’oltre Po da nordovest.

    Erano famiglie intere che si muovevano coi bagagli e con le masserizie, protette dai loro guerrieri « dal terribile aspetto, alti di statura, biondi e bianchi di pelle; ricoperti di pelli irsute, con ispidi baffi e chiome prolisse; durante la marcia intonavano canzoni di guerra inebrianti, mentre nella battaglia irrompevano ignudi a disprezzo della morte con belluini ululati ». A parte gli « ignudi », che lascia dubbiosi, la descrizione del Ducati è efficace.

    L’invasione, come è noto, spinse le sue avanguardie oltre l’Appennino centrale già nel 390 a. C. e queste ceperunt Romam come si esprime Livio. Erano costoro i Senoni, che poi si ritrassero nel territorio fra il Montone e l’Esino, dove ebbero centro eponimo in Sena Gallica (Senigallia). E furono però anche i primi a subire la reazione di Roma, costretti ad accogliere la colonia di Sena stessa nel 283 a. C. e poi quella di Ariminum nel 268.

    Al centro della regione emiliana si soffermarono i Boi, il popolo più potente, organizzato in 112 tribù, rette da un’aristocrazia, con alla testa un capo supremo indicato dai Romani come Re (Bojorix).

    La lotta dei Romani contro di loro, iniziata nel 224 a. C., finì solo nel 191 quando Scipione Nasica ne ebbe annientata la nobiltà.

    Ad oriente, verso le spiagge adriatiche, si insediarono i Lingoni, nelle odierne province di Ferrara, Ravenna e Forlì.

    Nel Nordovest infine fra Piacenza e Liguria si arrestarono gli Anani e gli Ana-mari, che si assimilarono ai Liguri, onde si parla spesso di loro come di celto-liguri, fattisi presto amici dei Romani contro le stesse altre tribù galliche.

    Quanto alla consistenza numerica dello strato etnico gallico sopravvenuto non si hanno idee chiare. Secondo la tradizione, riferita da Giustino, trecentomila sarebbero stati i Galli i quali « abbondando la popolazione e non potendo le terre che li avevano generati contenerli tutti, trasmigrarono a cercare nuove terre e di questi una parte venne in Italia e vi si stabilì ».

    Quanti dei trecentomila (se pur questo numero non è lontano dal vero) venissero in Italia e quanti se n’insediassero nella nostra regione non è facile congetturare.

    Certo è che, se da un lato la loro penetrazione nelle alte valli appenniniche fu contenuta dai Liguri, che vi si dispersero e resistettero, d’altro lato profondi sono rimasti i riflessi della presenza gallica in tutta l’Emilia, tuttora espressivamente testimoniati dalle caratteristiche inflessioni fonetiche dei dialetti.

    L’Emilia romana

    Se i Galli hanno passato le Alpi all’inizio del IV secolo e nel 390 erano già arrivati a Roma, il consolidamento del loro dominio nell’Emilia, ove si erano ben presto ritratte le loro punte più avanzate, non tardò molto ad essere disturbato dall’espansione romana.

    Vedi Anche:  La migrazione e la densità della popolazione

    Dopo la vittoria di Telamone su Insubri, Boi e Lingoni, i Romani valicano l’Appennino già nel 225 a. C. e nel 218 fondano le due colonie di Piacenza e Cremona a controllo del passaggio del Po. Subito dopo però l’Emilia è raggiunta e percorsa dall’esercito di Annibaie che sgomina sulla Trebbia il console Sempronio Longo (218 a. C.) e passa oltre. Insubri e Boi insorgono, prendendo le parti del Cartaginese, i Liguri della montagna rinfocolano la propria resistenza. Solo dopo un decennio di lotte (201-191 a. C.) la pax romana è imposta.

    Cammino percorso da Annibale fino alla battaglia della Trebbia.

    La centuriazione romana in Romagna nella ricostruzione del Gambi

    Le colonie di Rimini, Cremona e Piacenza chiudono il territorio dei Galli Boi in una morsa, la quale si stringe sin che le fondazioni delle altre tre colonie di Bologna (189 a. C.) e di Parma e Modena (183 a. C.) non consolidano la completa conquista e riorganizzazione del territorio.

    E già era stata compiuta nel 187 a. C. dal console Emilio Lepido, sulla traccia della pista pedemontana dettata dalla natura e ormai da secoli seguita, la costruzione della Via che ne consacra il nome, segno e strumento dell’unità della regione.

    I Romani « colonizzano » il paese, stabilendo presidi nei centri principali e dividendo l’alta pianura in concessioni a pianta regolare, con tracciati a maglie rettangolari (graticolato) tuttora largamente riconoscibili.

    L’aliquota base dell’area assegnata a ciascun colono era lo heredium, un quadrato di circa m. 70 X 70. Cento heredia costituivano la centuria (onde il termine « centuriazione »), anch’essa quadrata.

    L’orientamento del graticolato è dato da una direttrice fondamentale (decumanus maximus) disposta a priori secundum coelum, cioè da est a ovest, oppure secundum naturam adeguandosi a una direttrice naturale o umana preesistente, come da noi la Via Emilia. Perpendicolare ad essa il cardo maximus. Decumani e cardini minori paralleli ai rispettivi massimi completano la centuriazione.

    Quanto al numero dei coloni introdotti, che sarebbe interessante conoscere per avere un’idea della loro influenza nella composizione della popolazione come strato etnico sovrimposto a quelli più antichi, non è facile nè semplice precisarlo. Ma non fu certo irrilevante.

    Dalle cifre riferite per alcune delle « deduzioni » è lecito presumerlo dell’ordine di quaranta-cinquantamila unità soltanto nei primi decenni del secolo II avanti Cristo.

    Codesti « coloni » non erano certo tutti Romani puri : si parla di Romani e Latini, ma in sostanza si trattava di militi degli eserciti consolari, congedati e in parte tuttora con obblighi di servizio militare. E, insediati sulle terre loro assegnate, vi portavano o vi formavano le loro famiglie.

    Rimini. Arco di Augusto.




    Certo la notevole densità della popolazione che si rileva sia dalle notizie riferite per i primi secoli dopo le « deduzioni » delle colonie, sia dagli elenchi dei numerosi centri di agglomeramento e delle aree « centuriate » e coltivate, non si spiega senza tener conto di quello che indubbiamente fu il processo essenziale, cioè l’assimilazione dell’elemento locale e la fusione con esso.

    La posizione strategica della regione ne fece teatro di episodi cruenti nelle guerre civili di Roma: Pompeo nel 78 a. C. assediò e costrinse alla resa Marco Bruto in Modena; Cesare, provenendo dalle Gallie, «varcò il Rubicone» nel 49 a. C.; nel 43 in una isoletta del Reno si svolse l’incontro che fondò il secondo Triumvirato e nella battaglia di Modena Antonio battè Decimo Bruto. Cionondimeno nei secoli dal I a. C. al III d. C. la regione godè un periodo di lunga e feconda pace. Si svilupparono l’agricoltura e le opere di bonifica, i numerosi centri urbani, la coltura, gli scambi; Ravenna diveniva il porto principale sull’Adriatico. Le sorti della regione seguirono quelle d’Italia e dell’Impero, prima nella fioritura dei secoli d’oro, poi nella decadenza.

    Il Medioevo

    Le turbolenze ricominciarono con questa. Per far fronte ai germi di dissoluzione all’interno ed alla pressione dei nemici esterni (i « Barbari » che sui confini e attraverso i confini si facevano sempre più irrequieti e baldanzosi) l’Impero si divideva una prima volta alla morte di Teodosio (395 d. C.) e il primo Imperatore dell’Occidente, Onorio, ne portava la capitale a Ravenna (402). Ma intanto e poi il paese era desolato dal passaggio delle truppe dei vari contendenti al titolo imperiale e infine dalle invasioni barbariche, finché Odoacre, re degli Eruli, a capo di un esercito misto, rinuncia alla finzione, depone Romolo Augustolo (476) e da Ravenna regge l’Italia, assumendone il titolo di Patrizio.

    Rimini: Ponte di Tiberio.

    Per breve tempo, perchè sopravviene l’invasione degli Ostrogoti. Il loro re Teodorico espugna Ravenna (493) e vi si insedia, impegnandosi nel tentativo di armonizzare la convivenza dei Germanici vincitori, che rappresentavano la forza del regime, coi « Romani », che costituivano la massa dei soggetti ed erano tuttora i custodi della tradizione e della cultura.

    Scomparso Teodorico nel 526, esplode l’insofferenza dei Goti, mentre si rinfocolano le pretese del pontefice, che in pratica era rimasto signore di Roma, e quelle dell’Impero. Bisogna tener presente che, deposto l’ultimo dell’Occidente, era rimasto unico imperatore quello che sedeva a Bisanzio ed una sua vaga autorità suprema era stata riconosciuta tanto da Odoacre quanto da Teodorico nel sollecitarne una sorta di investitura.

    Era venuto il tempo di Giustiniano (527-565), il fondatore di una nuova potenza militare e civile dell’Impero. Egli fa sbarcare nell’Italia meridionale Belisario (535), il quale battendo i Goti giunse ad espugnare Ravenna (540). La conquista o riunione dell’Italia all’Impero è però compiuta soltanto con una lunga guerriglia. Siamo all’età d’oro di Ravenna, che col suo porto assicura al governatore d’Italia (Esarca) le più dirette comunicazioni con Bisanzio e si arricchisce degli splendidi monumenti ancora testimoni di quella potenza e magnificenza.

    Sarcofago dell’Esarca Isaaccio nella Basilica di San Vitale a Ravenna.

    Ravenna. Mausoleo di Teoclorico.

    Ma lo sviluppo del regime bizantino è interrotto ben presto. Scende dalle Alpi Giulie una nuova invasione. Sono i Longobardi, condotti da Alboino (568). Resistono le forze bizantine e latine concentratesi intorno all’Esarca in Ravenna, al Papa in Roma. Alboino pone la sua sede in Pavia (572), ma vi è ucciso l’anno dopo. Per un decennio i duchi longobardi, fra i quali era stato suddiviso il territorio conquistato, si reggono autonomi, ma la spinta espansiva e la stessa coesione ne sono rallentate.

    L’unità di comando è ricostituita con l’elezione a re di Autari (584), che si spinge fin nell’Italia meridionale. Non però riuscì a lui nè ai successori di espellere i Bizantini nè di assoggettare durevolmente Roma. Dalla venuta dei Longobardi data quindi il definitivo frazionamento dell’Italia in unità politiche distinte.

    Ed in particolare il frazionamento dell’Emilia. I Longobardi vennero avanti con una certa rapidità fino al Panaro, si concentrarono in Reggio, mentre i Bizantini ponevano il nucleo della loro difesa avanzata a Bologna. Frammezzo rimase Modena ridotta a rovina.

    Insieme alla Pentapoli marchigiana, l’Esarcato, cioè la zona costiera dal basso Adige alla Marecchia, rimaneva ai Romani di Bisanzio (onde il nome Romagna), mentre la Longobardia (Lombardia) con Liutprando si stese poi fino a comprendere Bologna e Imola pur fra le continue lotte che facevano ondeggiare l’incerto confine. In ultimo, anzi, Ravenna stessa fu occupata più volte (726, 749) ed esautorato l’Esarca, che già, fra l’altro, era venuto a conflitto con Bisanzio per essersi rifiutato di accettarne i decreti iconoclastici (728).

    Resta il Papa a contrapporsi ai Longobardi e finisce col chiedere aiuto ai Franchi, loro nemici ereditari. Due volte il re franco, Pipino, costrinse il longobardo Astolfo a duri patti (753). Fu in quest’ultima occasione che Pipino, oltre a riconoscere al Papa il dominio romano, fece a lui la famosa « donazione » dell’Esarcato e di tutte le altre terre già soggette a Bisanzio, ponendo le basi della formazione dello Stato Pontificio.

    Succeduto a Pipino, Carlo Magno riconduce i Franchi in Italia, ancora una volta chiamato dal Papa contro i Longobardi, che avevano occupato l’Esarcato e minacciavano Roma (773). Carlo Magno ne annienta le resistenze, facendosi egli stesso re dei Longobardi, confermando la « donazione » al Papa e dando poco di poi (780) il titolo di Re d’Italia al figlio Pipino, mentre per sè richiama quello d’imperatore romano (800).

    Carlo Magno aveva dato al rinnovato Impero, che per la consacrazione pontificia assume l’appellativo di Sacro, una struttura organica apparentemente perfetta, combinando i princìpi germanici tradizionali della libera federazione con quello dell’investitura gerarchica dall’alto mutuato dallo spirito delle costituzioni romane, civili ed ecclesiastiche.

    In questo ordinamento « feudale » l’autorità discendeva dall’alto per investitura dell’Imperatore ai suoi compagni (Comites), cioè grandi feudatari, e da questi ai loro vassalli, e così via fino ai vassalli dei vassalli, valvassini e valvassori.

    Il legame di subordinazione era assicurato dall’obbligo di lealtà dei minori verso i rispettivi superiori.

    Nel contempo, peraltro, restava che, scomparso un imperatore, il successore era eletto dai grandi feudatari, soggetto, nondimeno, alla consacrazione, che al solo pontefice romano competeva.

    Questa costruzione, apparentemente mirabile, aveva però in sè i germi della propria dissoluzione. In pratica la forza finiva nelle mani dei feudatari più potenti per risorse economiche e militari, per capacità organizzativa, per abilità politica. L’imperatore poteva far valere la sua autorità soltanto in quanto avesse trattenuto o conquistato per sè domini diretti e riuscisse a rendersi alleati pochi o molti dei feudatari maggiori.

    In secondo luogo il principio dell’investitura dall’alto e quello stesso dell’elezione vennero minati alla base dalla tendenza a tradurre in diritto quella presto affermatasi in fatto di rendere ereditari i titoli feudali, e lo stesso diadema imperiale. Per cui essi si rendevano « vacanti » solo all’estinzione di una dinastia o alla sua estromissione con la forza.

    Complicava le cose la pretesa del pontefice di essere il depositario supremo del diritto di investitura — riconosciutogli per la consacrazione dell’imperatore — anche, di riflesso, per i gradi minori. Ciò specialmente quando (e fu caratteristica politica degli imperatori Ottoni, 936-1002) i feudi vacanti o creati ex novo vennero assegnati sempre più frequentemente non a Comites, che potevano fondare una dinastia, ma ai Vescovi, cui vennero affidate specialmente le città. Se ne determinò quindi, più tardi, la lunga «Lotta delle Investiture» per decidere chi doveva investirli per primo (e cioè in pratica nominarli): se il Papa, in quanto capi spirituali, o l’Imperatore, in quanto feudatari.

    L’incoronazione e l’omaggio all’imperatore: bassorilievo nella Cattedrale di Fidenza.

    La storia si fraziona dunque, si spezzetta, si sbriciola, si intreccia in tante storie feudali e municipali, quali, particolarmente nella nostra regione, avremo modo di riassumere singolarmente trattando di città e località nella parte descrittiva del presente volume. Solo i due comitati di Modena e Reggio rimasero a lungo nelle salde mani della casa detta di Canossa, che li aveva ottenuti da Ottone I (951). Da questa casa, che allargò i suoi possessi oltre Po (Mantova ne fu la sede preferita) e in Toscana, discendeva la famosa Contessa Matilde, quella che assistè nel suo castello di Canossa, sulla collina reggiana, all’umiliazione dell’imperatore Enrico IV di fronte a papa Gregorio VII (1077).

    Vedi Anche:  I dialetti, le tradizioni e i caratteri antropologici

    Lo sfaldarsi del dominio matildico e la Lotta delle Investiture (1074-1122) determinarono un progressivo sviluppo dell’influenza della borghesia cittadina nel reggimento delle città. Consenzienti o meno i Vescovi-Conti e in antagonismo con i feudatari del « contado » si costituiscono i Comuni, coi propri « Consoli ». Li troviamo ricordati a Bologna in forma dubbia fin dal 970, certo nel 1116; poi nel 1127 a Piacenza, nel 1135 a Modena, nel 1136 a Reggio, nel 1149 a Parma.

    E la « rivoluzione comunale » che impronta il XII secolo con un improvviso rigoglio di vita economica e culturale, ma purtroppo anche di lotte fratricide fra città e città e ben presto anche intestine nelle singole città stesse, polarizzandosi dapprima nei due partiti dei Guelfi, che tenevano per il Papa, e dei Ghibellini, per l’Imperatore, poi in fazioni di sfondo economico-sociale o più semplicemente (e più spesso) personalistico, o, meglio, di clientele familiari, nello stesso seno dei partiti vincitori.

    Possessi della casa di Canossa fra la fine del secolo XI e il principio del XII.




    Castello di Torrechiara (secolo XV), a sinistra dello sbocco della valle del Parma, circa 17 km. a Sud della città.

    Ma intanto i Comuni formatisi nei maggiori centri espandono il loro dominio intorno, cacciando i feudatari del contado e costringendoli a prender dimora nella città, assorbendo sotto la loro protezione comunità rurali. Si delineano così intorno a Bologna, a Modena, a Reggio, a Parma, a Piacenza quelle unità territoriali che si riflettono ancor oggi nelle province.

    Si sviluppano le rivalità, ma anche le alleanze. E tuttavia non di grandi gruppi e specialmente non di Comuni contigui, ma in vario intreccio. Una larga unione si ebbe soltanto nella prima grande lotta dei Comuni con l’Impero (Lega Lombarda, 1164-83).

    Ma già nella Seconda Lega (1226) i partiti appaiono divisi: Piacenza, Bologna, Faenza e Ravenna stanno con Milano guelfa; mentre terranno per l’Impero Parma e Cremona in contrasto con Piacenza; Reggio, Modena e Imola in contrasto con Bologna; Ferrara contro Ravenna. E qui in Emilia si decide la sorte del tentativo imperiale di Federico II le cui forze sono sgominate con la caduta di Parma (1248) e la battaglia di Fossalta (1249), nella quale i Bolognesi fanno prigioniero suo figlio, Enzo, che portava il titolo di re di Sardegna.

    Il trionfo dei Guelfi non consolida l’assetto dei Comuni emiliani: fra gli stessi vincitori — come s’è già accennato — si formano nuove dissensioni, dalle quali traggono profitto famiglie potenti locali o addirittura esterne per affermare la propria signoria.

    Nell’Emilia occidentale si può seguire la formazione del Comune nei suoi ordinamenti, che gli diedero a capo prima i Consoli (o come altrimenti chiamati) poi i Podestà, sino alla sua evoluzione nella Signoria e da questa al Principato, in ispecie a Piacenza, a Parma, a Ferrara. Nelle prime due le vicende furono varie. A Piacenza il potere passò per le mani di signori locali, dei Pallavicino (1254-71), di Carlo d’Angiò (1271-90), dei Visconti, signori, poi duchi di Milano (quasi ininterrottamente dal 1313 al 1447), poi ancora con gli Sforza, Luigi XII, ecc. (1499-1521), seguendo, cioè, quasi sempre le sorti del Milanese fin verso la metà del Cinquecento. Anche a Parma il Comune si sviluppò in signoria, per poco e a tratti sotto famiglie locali, più a lungo sotto i Visconti e poi gli Sforza (1341-1404, 1449-1500) e quindi i Francesi, loro eredi.

    Ferrara, dopo un breve dominio veneziano (1240), diviene il centro della signoria degli Estensi (dal 1242), che poi si estende a Modena e Reggio ed oltre monte. In un certo momento il loro dominio, con titolo ducale dal 1452, andava attraverso tutta la Penisola, dall’Adriatico sin quasi al Tirreno. Lo toccarono però solo nel 1741 col matrimonio dell’ultimo Estense con l’erede del ducato di Massa, ma nel frattempo avevano perduto il Ferrarese.

    E famiglie signorili, che consolidano il loro potere con titolo feudale (o in origine feudali anch’esse) sono i Pico della Mirandola, i Pio di Carpi, i Correggeschi, i conti Boiardo di Scandiano, ecc.

    Ancor più intricata, se possibile, la vicenda in Romagna.

    Romagna tua non è e non fu mai

    senza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni

    (Inf. xxvii, 37-38).

    A Bologna il regime comunale perdura più a lungo, pur fra lotte di fazioni intestine, e solo brevemente vi si affermano la signoria dei Pepoli (1337-49) e molto più tardi quella dei Bentivoglio, nella seconda metà del secolo XV, ma con lunghe interruzioni sino a Giovanni II (1443-1508).

    Nelle minori città di Romagna si formano, si succedono, si intrecciano le signorie: gli Alidosi a Imola, i Manfredi a Faenza, gli Ordelaffi a Forlì, i Polentani a Ravenna, i Malatesti a Rimini, ecc.

    Espansione della signoria dei Visconti.

    Pur fra tante guerre e risse l’età dei Comuni e delle Signorie è anche quella in cui si sviluppano col maggior fervore e varietà la vita culturale ed economica, l’arte, la poesia, non meno che l’industria, l’agricoltura, i traffici. Proprio nei secoli dall’XI al XIV le città dovettero ripetutamente estendere le loro cerehie murate per accogliere il crescente numero degli abitanti.

    E il tempo in cui s’afferma lo Studio di Bologna, al quale accorrono sin gli Ultra-montani, e se ne fondano e prosperano altri in quasi tutte le maggiori città. E il tempo in cui fioriscono le Fiere dei Cambi di Piacenza (secoli XI-XIII) e poi quelle commerciali di Ferrara e anche di Parma e Bologna.

    E il tempo nel quale si alzano le moli delle cattedrali e dei palazzi comunali e podestarili, espressione di vivo spirito pubblico, religioso e civile, e insieme di potenzialità economica.

    Ma è anche il tempo in cui si rinnovano e si disseminano sempre più numerosi i castelli e le rocche, che imperatori, Comuni e prìncipi pongono a guardia e difesa dei loro domini o nelle quali si rinserrano feudatari e signori irriducibili, testimonianze indenni o dirute, tuttora, da un capo all’altro della regione, ma specialmente nella collina, nel pedemonte e nell’alta pianura.

    Intanto sulla Romagna si presentava e ripresentava tenace la volontà della Chiesa di dar sostanza all’autorità che si richiamava alla « donazione » di Pipino e ai riconoscimenti più o meno spontanei degli imperatori. Una prima volta l’impresa del cardinale Albornoz (1353-67) «restaurava» la sovranità pontificia. La Cattività Avi-gnonese (1305-77) e lo Scisma d’Occidente (1378-1414) facevano di nuovo crollare l’instabile edificio. Feudatari, signori e Comuni riprendevano ad intrecciare le loro risse, ed anzi da Milano, da Venezia, da Firenze potentati esterni si annettevano porzioni più o men vaste della regione. La più duratura di queste acquisizioni fu quella che i Fiorentini spingevano sin quasi alle porte di Forlì (Rocca San Casciano, 1381; Castrocaro, 1402). I Veneziani tennero a varie riprese Ravenna e continuativamente dal 1441 al 1509.

    I pontefici si inseriscono ben presto di nuovo in queste lotte, ma soltanto sul finire del Quattrocento il processo di unificazione della Romagna sotto il dominio della Chiesa fu ripreso con energia e successo, prima da Alessandro VI che ne investì il duca Valentino, lo spietato sterminatore delle piccole dinastie romagnole e marchigiane (1500-03), poi da Giulio II (1503-13). Questi ne cacciò i Veneziani e giunse a sottomettere Modena e Reggio tolte agli Estensi, Parma e Piacenza sottratte al ducato milanese, praticamente unificando tutta la regione, salvo il Ferrarese e i salienti gonzagheschi di qua dal Po e quelli toscani di qua dall’Appennino.

    Ben presto però Modena e Reggio erano restituite agli Estensi, mentre di Parma e Piacenza si costituiva un ducato autonomo, di cui erano investiti i Farnese, discendenti diretti di papa Paolo III (1545). Sola variazione successiva fu la devoluzione alla Chiesa di Ferrara, dove si era estinto il ramo legittimo degli Estensi nel 1597-Così l’Emilia orientale era unificata nello Stato d ella Chiesa, organizzata nelle tre province eli Bologna, Ferrara e Ravenna, cui, per essere rette da Cardinali Legati, venne il nome antonomastico di Legazioni.

    Il cardinale Albornoz riceve l’omaggio delle città sottomesse. (Roma, Biblioteca vaticana).

    In conclusione dalla prima metà del Cinquecento, se non possiamo ancora parlare di una storia dell’Emilia, possiamo almeno vederla coagulata in quella di tre sole e abbastanza estese e complesse unità territoriali: i due Ducati e l’insieme delle Legazioni.

    Ciò non toglie che residui e riflessi dell’età feudale e comunale non rimangano al loro interno. Sono piccoli territori, nei quali 1 feudatari esercitano « diritto di mero e misto imperio », come si diceva allora, sotto’ il controllo più o meno stretto del Papa, dell’Imperatore o di Prìncipi locali. Così i conti, poi duchi di Guastalla fino al 1748, i prìncipi di Correggio fino al 1630, gli Sforza di Castell’Arquato e i conti poi duchi Pico della Mirandola fino al 1707, i conti Pio di Carpi fino al 1525, e tanti altri.

    Così persistono i Comuni, conservando però funzioni quasi meramente amministrative e con ordinamenti oligarchici, riapparendo in primo piano la nobiltà di sangue o creata da imperatori, prìncipi e papi. Sono i conti, i marchesi, i cavalieri, i « nobiluomini » a dare il Senatore e gli Anziani o come altrimenti si chiamino secondo i luoghi i capi del Comune e i componenti i corpi collettivi, che li affiancano. Ma restano anche nell’estensione territoriale che hanno raggiunto, vastissima in qualche caso come a Ravenna e a Ferrara, e non senza strutturazioni interne ulteriori di Comunità dipendenti, appodiate, ecc. Infine esempio, se pur unico, superstite di ordinamento comunale sovrano resta, allora e tuttora, la Repubblica di San Marino.

    Monumento al duca Ranuccio I Farnese (1592-1622) innanzi al palazzo del Comune, detto il Gotico, a Piacenza.

    Piazza di Carpi e palazzo dei Pio.

    L’età moderna

    In questo assetto la regione ebbe finalmente pace dalla metà del Cinquecento fino al periodo napoleonico. Pace, per quel tanto tuttavia che lo consentono gli eserciti stranieri che l’attraversano e vi si danno battaglia.

    Già la « Calata » di Carlo VIII in Italia era passata da Milano per Piacenza, Parma e la Cisa alla volta della Toscana (1494) e ritornando l’anno dopo si risolveva proprio

    con la dura sconfitta subita a Fornovo, sul Taro. Poi l’esercito di Luigi XII batteva la Lega Santa, patrocinata da Giulio II, nella battaglia di Ravenna (1512), pur senza frutto.

    Poi passarono gli eserciti di Francesco I e di Carlo V in lotta. Fra loro la famigerata truppa dei Lanzichenecchi luterani all’andata e al ritorno dal triste Sacco di Roma (1527), cui seguì la conciliazione fra l’Imperatore e il Papa nel Congresso di Bologna (1530).

    Poi furono i riflessi della guerra dei Trent’anni (1618-48), nell’ultimo periodo della quale presero parte diretta gli Estensi prima contro la Spagna, poi contro l’Austria.

    Nella prima metà del Settecento sono le Guerre di successione di Spagna (1701-1713), di Polonia (1733-38) e d’Austria (1744-48). Vi sono travolti i Ducati, specie quello di Parma e Piacenza, dove, estinti i Farnese nel 1731, succedono loro i Borboni di Spagna, discendenti di Elisabetta Farnese e di Filippo V.

    Intanto gli Estensi, per compera, per matrimoni o per eredità, acquistavano anche i principati di Carpi (1525) e Correggio (1630) e i piccoli ducati di Mirandola (1707) e di Massa e Carrara (1741).

    E la seconda metà del Settecento il periodo dei principi illuminati. E se fra questi apertamente si allineano soltanto i duchi di Parma, i fermenti ne dilagano anche nell’altro Ducato e sin nello Stato della Chiesa.

    Vedi Anche:  gli edifici, il territorio e la popolazione di Bologna

    Ben lo s’intende quando al sopravvenire degli eserciti repubblicani di Francia, anche l’Emilia si rivela pronta ad accogliere le idee da essi portate.

    Varie nondimeno si svilupparono le vicende delle varie parti della regione. Parma e Piacenza, per un riguardo alla Spagna, furono dapprima lasciate ai Borboni. Di Modena e delle Legazioni si costituì invece una Repubblica Cispadana (1796), che nel Congresso di Reggio proclamava « universale lo stendardo dei tre colori verde, bianco e rosso» (7 gennaio 1797). L’anno dopo essa era unita alla Cisalpina, travolta dall’invasione austro-russa (battaglia della Trebbia, 1799) e poi di nuovo ricostituita dopo Marengo, assumendo il nome di Repubblica Italiana nel 1802 (26 gennaio) e poi di Regno d’Italia (1805).

    Parma e Piacenza, invece, alla morte di Ferdinando di Borbone (1802) vennero annesse direttamente alla Francia indi all’Impero, costituendovi il dipartimento del Taro (1808-14).

    Anche il Regno Italico era diviso in dipartimenti dei quali uno nella Divisione di Mantova (Dipartimento del basso Po, capoluogo Ferrara) e quattro in quella di Bologna (Dipartimento del Crostolo, Reggio ; del Panaro, Modena ; del Reno, Bologna ; del Rubicone, Forlì).

    Emiliani e Romagnoli parteciparono alle imprese napoleoniche fino al 1814, coprendosi di gloria.

    Dopo la disastrosa campagna di Russia, gli Austriaci penetravano e dilagavano di nuovo nella pianura padana.

    Troppo tardi e invano da Rimini Gioachino Murat diffondeva il famoso proclama che chiamava gli Italiani alla lotta per l’indipendenza e l’unità.

    Reggio nell’Emilia: la Sala del Tricolore, dove sedette il Congresso del 1797.

    Il Risorgimento

    Il Congresso di Vienna (1814-15) restaurava l’antico ordine, restituendo le Legazioni allo Stato Pontificio e Modena agli Estensi (o, più esattamente, a Francesco IV d’Asburgo, nipote deU’imperatrice Maria Teresa e di Ercole Rinaldo III, ultimo discendente diretto degli Estensi) e dando Parma all’austriaca ex « Imperatrice dei Francesi » Maria Luigia in attesa del ritorno dei Borboni, cui era assegnata prò tempore Lucca (da devolversi poi al Granduca).

    Il sollievo della pace riacquistata fu di brev’ora. I governi retrivi della Restaurazione, i ricordi dell’epopea napoleonica, i prestigiosi nomi d’Italia, libertà, indi-pendenza, repubblica, che echeggiavano ancora, l’intristire delle condizioni economiche e sociali in regimi nuovamente chiusi determinarono diffuso malcontento e il radunarsi degli spiriti insofferenti in conventicole più o meno segrete. Gli eventi napoletani e piemontesi del 1821 ebbero scarsa ripercussione in Emilia, dove peraltro, a Ravenna, nel 1828 era scoperto un raduno di Carbonari, dei quali quattro furono impiccati il 13 maggio. Non così l’ondata rivoluzionaria che dalla Francia dilagò per tante parti d’Europa nel 1831. In Emilia il fulcro ne fu Modena, dove il duca Francesco IV aveva fors’anco incoraggiato i Carbonari. Da Modena il moto riecheggiò a Parma, da una parte, nelle Legazioni da l’altra, propagandosi rapidamente anche nelle Marche e in Umbria. A Bologna si riunì un’Assemblea che proclamò lo Stato delle Province Unite.

    Ma la Santa Alleanza e per essa l’Austria vigilava e fu pronta a passare il Po con le sue truppe giungendo fino ad Ancona, che fu l’ultima a capitolare. La reazione fu mite soltanto a Parma, la più spietata invece proprio a Modena e pesante anche nelle Legazioni, dove le truppe austriache rimasero con l’arma al piede fino al 1838.

    Il fermento non cessava certo per questo. E quando nel 1846 proprio un presule di Romagna, il cardinale Mastai Ferretti, nativo di Senigallia, ma vescovo di Imola, salì alla cattedra di San Pietro col nome di Pio IX e diede a vedere di voler accogliere per lo meno le istanze riformatrici e affermare uno spirito d’indipendenza nei confronti dell’Austria, i liberali ripresero animo, nonostante che gli Austriaci si affrettassero a occupare Ferrara (18 agosto 1847).

    L’ondata rivoluzionaria del 1848, iniziatasi in Francia con la deposizione della monarchia ancorché « borghese » di Luigi Filippo e l’instaurazione della seconda Repubblica, trovò pronti echi anche nell’Emilia. Dato lo Statuto al Piemonte e rotta la guerra fra esso e l’Austria, i Ducati insorsero (marzo 1848), costrinsero i prìncipi alla fuga e proclamarono poi l’annessione al regno di Sardegna.

    Bologna, Ferrara e la Romagna ricevevano la costituzione concessa allo Stato Pontificio il 14 marzo da Pio IX, il quale giunse sino a consentire l’invio di truppe pontificie e di volontari oltre Po.

    Ma egli ben presto, con la famosa enciclica del 29 aprile, denegò la sua partecipazione alla guerra contro l’Austria. Seguì un torbido periodo, finché, allontanatosi il Papa da Roma, venne proclamata la Repubblica Romana (9 febbraio 1849). Ma intanto gli Austriaci avevano passato il Po, riportavano i duchi ai loro posti e occupavano le Legazioni.

    Caduta Roma sotto l’attacco dei Francesi, l’ultimo episodio dell’epica vicenda si svolse in Romagna: la ritirata di Garibaldi fino a Comacchio e di qui poi per Modigliana in Toscana.

    Si ricostituiva l’assetto precedente, sotto un’ancor più pesante vigilanza dell’Austria, ma fu soltanto per un decennio di più intesa e consapevole preparazione.

    Quando le truppe alleate di Vittorio Emanuele II e Napoleone III proprio un secolo fa (maggio 1859) passarono il Ticino e i presidi austriaci si ritirarono, insorsero i Ducati, ripetendo il voto di annessione al Piemonte, insorsero le Legazioni e ricevettero i Commissari del Re: Luigi Carlo Farini nei Ducati e Massimo D’Azeglio nelle Romagne, poi sostituiti, dopo Villafranca, dal solo Farini, che si proclamava Dittatore unico dell’Emilia.

    Seguirono i plebisciti di cui s’è già detto (cap. I) l’u e 12 marzo 1860 e l’annessione, con l’estensione graduale della legislazione del Regno Sardo alle nuove Province, che si ordinavano nel numero di otto come tuttora. I rappresentanti di esse entrarono a far parte del Parlamento subalpino (2 aprile 1860).

    Le prime elezioni generali di quello che doveva poco dopo proclamare il Regno d’Italia ebbero luogo il 27 gennaio 1861.

    Parecchi emiliani, i più illustri patrioti ed alte personalità, vennero chiamati fin dal 1860 nell’altro ramo del Parlamento, il Senato, allora di nomina regia.

    L’Emilia nell’Italia unita

    L’assimilazione delle province emiliane nell’Italia unita conobbe i suoi travagli per la secolare divisione del paese fra legislazioni diverse, per le situazioni economiche contrastanti, per risorgenti rivalità municipalistiche.

    Complicavano le cose, specialmente nei territori già soggetti alla Chiesa, la resistenza del clero, privato degli antichi privilegi e dei beni per l’estensione all’Emilia delle leggi « eversive » già vigenti nel Regno Sardo, da una parte, e dall’altra parte una persistente opposizione repubblicana nel triangolo Ravenna-Forlì-Rimini. Un episodio clamoroso se n’ebbe con l’arresto di Aurelio Saffi ed altri esponenti convenuti a Villa Ruffi (presso Rimini) nel 1874.

    Divisione politica dell’Emilia-Romagna al principio del 1859.

    Intanto, pur mo’ soddisfatta la coscienza nazionale, si svegliava la coscienza sociale. Più che il proletariato industriale e commerciale dei centri urbani, ancora poco consistente, ne poneva i problemi la presenza del numeroso bracciantato agricolo. Cominciava il movimento socialista, affiancato dagli anarchici. Nello stesso 1874 si ebbe nel Bolognese un conato insurrezionale, stroncato con l’arresto e la fuga dei capi. Ambedue gli episodi del 1874 si risolsero, si può dire, tranquillamente, con l’assoluzione degli arrestati.

    Nel 1892 il Congresso di Genova fondava il Partito socialista; nello stesso anno Andrea Costa, imolese, entrava primo deputato socialista nella Camera italiana.

    E le lotte sociali continuarono ed improntarono la cronaca politica interna nel periodo fino allo scoppio della prima Guerra europea. Scioperi agrari di particolare asprezza si ricordano quelli del 1907-08 nelle province di Ferrara, Bologna, Parma. Un ultimo episodio assunse tinte insurrezionali proprio alla vigilia della Grande Guerra, e fu la così detta «settimana rossa» nel Ravennate (giugno 1914).

    Con tutto ciò il periodo fra il 1870 e il 1914 è stato caratterizzato essenzialmente dal grande sviluppo economico col progresso dell’agricoltura, l’inizio di grandi opere di bonifica, la formazione di industrie moderne, l’attivizzazione del commercio.

    Dopo la guerra 1915-18 l’Emilia visse l’esperienza fascista, che vi ebbe anzi alcuni dei fulcri originari più tipici e determinanti, come a Bologna, a Ferrara, a Modena, a Parma. E di quel di Forlì era nativo colui che ne impersonò il mito.

    Ma nuove vicende belliche, di una asprezza non più conosciuta fin dal lontano Medioevo, raggiunsero la regione negli ultimi anni della seconda Guerra mondiale.

    Dopo l’8 settembre 1943 i Tedeschi approntarono sull’Appennino, fra le Apuane e Pesaro, la loro seconda linea difensiva. Nel settembre del 1944 gli Alleati sfondavano questa « Linea Gotica » tanto a nord di Firenze, quanto nel Pesarese. Ma l’avanzata sull’Appennino si arrestava sin dai primi di ottobre con l’attestarsi degli Alleati nelle valli del Reno e dei suoi affluenti fino a una dozzina di chilometri da Bologna, mentre in Romagna, pur rallentata, proseguiva fino al dicembre, giungendo sopra Ravenna (occupata il 5 dicembre) e sino al Senio (occupazione di Faenza, 17 dicembre).

    Dure giornate per tutta la regione, quindi, quelle dell’inverno 1944-45. Anche al di qua della nuova Linea Gotica si spargeva sangue, prendendo consistenza i focolai della Resistenza nazionale, duramente controbattuti dai Tedeschi occupanti.

    Soltanto nell’aprile 1945 le truppe alleate (fra le quali i gruppi di combattimento italiani « Cremona » e « Friuli » e unità partigiane) riprendevano la spinta in avanti, questa volta irresistibile e rapida. Il 21 aprile era occupata Bologna e il 24 Ferrara: i Tedeschi erano sospinti oltre Po, ove li attendeva la resa pattuita fra i due alti comandi opposti.

    Quella dal 1945 ad oggi non è ancor storia, ma cronaca vissuta. Il primo compito che le spettava di assolvere era quello della ricostruzione. Molte e gravissime le distruzioni nelle città grandi e piccole rimaste così a lungo esposte all’offesa aerea, scardinata, praticamente, tutta la rete ferroviaria, fatti saltare dai Tedeschi in ritirata anche tutti, o quasi, i ponti stradali, devastata la montagna nei suoi boschi, nelle sue povere colture e sin nelle sue case rurali, decimato il patrimonio zootecnico.

    Questi gli aspetti materiali di una distruzione che forse non trovava riscontro, per tanta intensità ed estensione, in alcun’altra delle regioni d’Italia.

    In pari tempo urgevano i problemi sociali, quelli vecchi, che si presentavano acuiti, e quelli nuovi derivanti dai profughi, dai « sinistrati » senza tetto, dagli smobilitati in cerca di occupazione, dalle industrie smantellate, dagli inaspriti rapporti fra classi sociali, dal differenziarsi dei Partiti politici…

    Non ci sarà dato taccia di iperbole, se impiegheremo il termine « prodigioso » per caratterizzare la ripresa che in pochi anni ha portato l’assetto della regione non alle condizioni di un optimum ideale (del resto indefinibile), ma certo a condizioni uguali e per molti aspetti migliori di quelle che si potevano constatare neirimmediato anteguerra. Prodigio che è stato un po’ di tutta Italia, ma forse più accentuato in questa regione dove più vasta era stata la distruzione. Prodigio al quale hanno concorso sì, provvidenze di governo nazionale ed anche, specie nei primi tempi, soccorsi stranieri, ma prodigio prima di tutto dovuto alla caparbia volontà di un popolo tutto, anche se esteriormente potè e può apparire irreducibilmente scontento e rissoso.