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I dialetti, le tradizioni e i caratteri antropologici

    Il popolo

    Caratteri antropologici

    La popolazione è numero: il popolo è razza, cultura, linguaggio, costume, spirito.

    Come in quasi tutte le altre regioni d’Italia, i caratteri etnici degli abitanti della nostra non sono nè omogenei nè fortemente individuati. Si riconosce agli Emiliani e Romagnoli un certo temperamento proprio, caratterizzato da passionalità, schiettezza persino rude, non eccessiva verbosità, tenacia sul lavoro, duttilità nell’appren-dere e nell’adattarsi a luoghi e occupazioni, ma ben poco di caratteri fisionomici veramente distintivi.

    La statura media è inferiore di un cm. a quella nazionale (m. 1,66 contro 1,67) ma varia fra estremi notevolmente distanti.

    I valori medi dominano nella pianura e nel pedemonte, mentre in montagna si notano contrasti fra le stature relativamente basse dell’alto Piacentino e della Romagna (nella collina forlivese meno di 1,63) e quelle relativamente alte del Frignano (da 1,67 a 1,69). Le stature oltre 1,71 superano il 25% nella pianura (Bologna 35%) e stanno fra il 15 e 25% nella montagna.

    Nella forma del cranio prevale una certa brachicefalia, sensibilmente maggiore che nelle altre regioni finitime dell’Italia centrale. Essa si accentua nella zona montuosa della Romagna (indice cefalico medio nell’Emilia di nordovest 84,79, in Romagna 85,47). Caratteristica la « scoppola », cioè l’appiattimento della nuca in Romagna. Notevole la robustezza del naso, specialmente nei centri pedemontani di mezzo (Bologna), mentre è tipica del Ferrarese, Lughese e Ravennate la diffusione dei platirrini.

    Ingresso nella grotta del Farneto, abitacolo di primitivi.

    Nel colorito dei capelli prevale il tipo bruno, specialmente in pianura. Il tipo nettamente biondo raggiunge appena il 9,30%. Sono capelli piuttosto lisci, salvo che in Romagna dove i ricciuti accostano il 18% (nella media della regione 16%).

    Gli è che sugli strati più lontani nel tempo già differenziati, come s’è visto nel precedente capitolo storico (terramaricoli e capannicoli, Liguri e Umbri) sono sopravvenute continue ondate etniche, talora non copiose per numero di individui, ma tutte con una propria influenza per mistioni di sangue e per successive supremazie politiche e culturali: gli Etruschi dal sudovest, i Galli dal nordovest, infiltrazioni liguri dal nordovest e venete dal nordest; e poi il fiotto degli Italici, romani o romanizzati, sopravvenuti nei lunghi secoli della Repubblica e dell’Impero; e poi i Germani (Ostrogoti, Longobardi, ecc.) delle « invasioni barbariche » e i ritornanti « Romani d’Oriente » (Greci o meglio ellenizzati).

    Le stratificazioni etniche si sono confuse su un fondo comune, in una massa comune, in modo che, in genere, sono assai dubbiosamente individuabili.

    Testimonianza della successione ed estensione di esse resta invece nella toponomastica, con forme che si possono far risalire fin forse agli Umbri, certo agli Etruschi, ai Romani e via via ai Bizantini, ai Germanici, all’età feudale, alla comunale sino agli influssi degli eventi storici più recenti.

    Dialetti

    Il carattere etnologico, quindi, che meglio — per non dire solo — caratterizza ed individua le popolazioni emiliane, è nella parlata.

    Sono dialetti gallo-italici, nei quali pertanto l’influenza dell’invasione gallica è rimasta preponderante nell’atteggiare attraverso la fonetica il patrimonio lessicale e grammaticale, che invece resta essenzialmente quello ereditato dalle popolazioni italiche e acquisito dalla Romanità: un modo di parlare il latino volgare, come lo è quello dei Lombardi e dei Piemontesi e, in sostanza, il francese letterario.

    L’influenza celtica si nota infatti specialmente per la forza dell’accento, che ha contratto e resi tronchi i vocaboli (elisioni di vocali finali, per esempio, nei nomi maschili, contrazioni addirittura dei finali degli infiniti, con la scomparsa dello stesso r come nel Piacentino e Parmense e di nuovo in Romagna), presenza — ma solo nei dialetti più nordoccidentali fino ai limiti del Parmense — delle vocali miste ò e il. A questa influenza pure si tende a far risalire la tipica nasalizzazione di certi dialetti romagnoli (Ravenna).

    Pertanto i dialetti emiliani-romagnoli si differenziano nettamente da quelli veneti, col dominio dei quali confinano, grosso modo, al Po, e da quelli toscani e marchigiani, la linea di separazione coi quali corre, approssimativamente, lungo il crinale appenninico e la sua diversione alla Punta di Gabicce.

    Molto più indecisa e imprecisa una linea di separazione che si voglia tracciare col dominio dei dialetti lombardi, piemontesi e liguri, pure gallo-italici.

    Tuttavia gli specialisti riconoscono che nel gruppo gallo-italico i dialetti emilianoromagnoli occupano un posto speciale e rivestono un carattere unitario, dovuto alla funzione coordinatrice esercitata fin dall’antichità dalla Via Emilia.

    Influenze lombarde si risentono nel nordovest, fino a Parma; ma i dialetti emiliani, d’altra parte, si trovano diffusi anche fuori della regione: in vai di Magra fino a Sarzana, nell’Oltrepò Pavese, nel Mantovano (dove la loro influenza si incunea largamente fra i dialetti più propriamente lombardi e i veneti) e, all’altro estremo, con influenze nei dialetti marchigiani del nord, almeno fino al Metauro.

    All’interno, poi, il tipo dialettale emiliano si differenzia per sfumature, specie nella fonetica, in una gamma di dialetti locali, per cui si è portati a distinguerli in due gruppi, di dialetti propriamente emiliani e dialetti romagnoli, oppure in tre o quattro sezioni: l’occidentale, parmense-piacentina, estesa all’Oltrepò pavese, influenzata dal lombardo; la centrale, reggiana-modenese-bolognese, caratterizzata fra l’altro da tipiche accentuate cadenze; la romagnola, con forme più aspre per la forza degli accenti tonici quindi la scomparsa di vocali intermedie e finali e con le tipiche nasaliz-zazioni già ricordate; la ferrarese con segni di transizione verso il Veneto, più sensibili nella metà settentrionale, quella meridionale essendo più influenzata dal romagnolo.

    Dovunque è poi notevole la differenza fra il dialetto del piano e quello del monte, differenza dipendente da motivi topografici che rendono meno suscettibili di innovazioni le popolazioni appenniniche.

    Tipi etruschi in un bronzetto del Museo Civico di Bologna.




    Letteratura dialettale

    Alcuni di codesti dialetti possiedono ormai una propria letteratura, scritta e stampata. Le peculiarità distintive di essi, anche da luogo a luogo vicini, mal consentono di generalizzarle in termini, per es., di una letteratura romagnola o emiliana. Nè alcuno dei dialetti locali ha raggiunto una tradizione scritta tale da costituirlo strumento di espressione letteraria comune per un territorio circostante più o meno ampio.

    Ciò viene impedito anche dalla incertezza della grafia, non essendosi affatto costituite norme universalmente accette per la trascrizione della parlata, neppure in luoghi, come Bologna, dove si hanno documenti dialettali scritti fin dall’inizio dell’età moderna.

    Infine è da osservare che l’evoluzione dei dialetti è proseguita spontanea, senza subire alcuna influenza della letteratura scritta. Al contrario di ciò che avviene per le lingue nazionali, la cui evoluzione è enormemente rallentata, suol dirsi anzi impedita dalla fissazione che ne fa appunto la letteratura, la documentazione scritta.

    Così, per es., il dialetto bolognese è caratterizzato da Dante col noto verso:

    a dicer sipa tra Savena e Reno.

    e adesso certamente non udrete mai dicer sipa (che doveva contrassegnare il bolognese, a quel tempo, come il provenzale era la lingua d’oc e il francese la lingua d’oil). E le prime cose scritte o, meglio, stampate che ci restano del bolognese ci appaiono pure — e non può esserne causa soltanto la particolare grafia — composte in un linguaggio ben diverso da quello d’oggi e a tratti quasi incomprensibile per noi.

    Nel caso specifico c’è però anche questo da osservare, che il bolognese scritto ha risentito e risente una forte influenza dell’italiano letterario. Caratteristica del bolognese, specialmente nei ceti elevati e nei rapporti coi « forestieri », è la traduzione quasi simultanea della frase dialettale pura in una frase italiana, sia pur pronunciata con la cadenza e coi « modi di dire » suoi particolari : « dìsel da vàira, dice davvero ? ». Questa singolare abitudine si è riflessa nel bolognese scritto, introducendovi costrutti e termini lessicali men genuini.

    Non consideriamo ora la così detta « letteratura popolare » trasmessa per tradizione orale e solo in tempi recenti trascritta dagli studiosi: ce ne occuperemo più oltre. A prescindere da questa, è certo il bolognese il dialetto che ha una più lunga e consistente tradizione letteraria.

    Frassinoro: Via Crucis vivente.

    Se ne conoscono centinaia di componenti già dei secoli XVI-XVII, molti ripubblicati nel secolo scorso. Ecloghe, favole pastorali, sonetti e odi d’occasione sono numerosissimi, ma di maggior mole le traduzioni (perfino della Divina Commedia e dei poemi cinquecenteschi) di cui ci si è dilettati nel Settecento e Ottocento. E perfino un trattato di medicina. Tuttavia il genere letterario, che ha avuto ed ha tuttora maggiore fortuna, è del teatro. Il teatro dialettale bolognese, che si riallaccia anche alla tradizione dei burattini, quindi della « commedia dell’arte », si presenta special-mente ora, dalla fine del secolo scorso ad oggi, con una produzione cospicua per quantità    e qualità. Per non far nomi di viventi,    basterà ricordare quello di    Alfredo

    Testoni. Questo nome stesso ci richiama a un altro genere preferito dal dialetto bolognese, quello della poesia giocosa.

    Si vorrebbe poter parlare di una letteratura dialettale romagnola. Ma se ciò è possibile per taluni caratteri generali che accomunano, specialmente in questi ultimi tempi, la produzione letteraria scritta in dialetti di Romagna, restano pur sempre nelle loro forme verbali non trascurabili diversità fra il ravennate, il forlivese, Timolese (per far soltanto esempi).

    Di questa produzione la più notevole è quella poetica, nella quale un profondo delicato sentimento trema e si effonde sotto l’apparenza del verso giocoso, quasi per un pudore istintivo. Così tanto    dove    sembra che il sopravvento    sia dell’ironico    e del comico, come nei sonetti    di Olindo Guerrini, ravennate, quanto dove più trasparente emerge il fondo sentimentale della più complessa e delicata versificazione di Aldo Spallicci, forlivese, vivente.

    Non mancano documenti di un teatro dialettale romagnolo (Ravenna).

    Ma, in genere, in tutta l’Emilia, anche nell’occidentale, poesia giocosa con sfondo sentimentale e teatro sono gli incentivi preminenti della letteratura dialettale. Così a Modena, come a Parma, a Ferrara e altrove, oggi, mentre del passato ci restano anche di questi dialetti, più che altro, quelle che ci appaiono esercitazioni dotte di traduzione dei capolavori poetici classici italiani.

    Di Modena, per es., una raccolta di Testi dialettali in cinque volumi cominciò a uscire nel 1891. Nel primo porta documenti fin del secolo XIV e numerose composizioni poetiche del Cinquecento. Gli altri comprendono canzoni, odi e special-mente sonetti, commedie, una traduzione della Secchia rapita, ecc., tutte cose pubblicate nel Seicento e Settecento e infine numerose composizioni poetiche dell’Ottocento.

    Anche di Parma si ha, ripubblicata nel 1912, una Commedia rusticale del secolo XVIII.

    Letteratura popolare abbiamo detta per distinguerla dalla letteratura dialettale concepita per essere scritta, quella trasmessa per tradizione orale. E il divario è anche nel rispettivo ambiente d’origine, che è di ceti colti e cittadini nel primo caso e di popolo minuto, anzi in genere rurale nel secondo. Sempre poco o molto artefatta la prima, molto più spontanea la seconda. Si tratta, in questa, di proverbi, favole, componimenti poetici narrativi, religiosi e più spesso umanamente sentimentali: laudi, invocazioni e contrasti d’amore, ma anche lai funebri.

    La caveja agli anèll, simbolo della Romagna




    Questi componimenti costituiscono spesso il testo delle caute (canzoni) e degli stornelli. E non sempre in dialetto, ma talora in curiose forme ibride, a loro volta interessantissime, di italiano deformato da inflessioni dialettali, « italiano maccheronico » lo diremo per intenderci.

    Su esempi illustri, ma anche in varie parti d’Emilia si sono fatte e pubblicate trascrizioni di tali documenti, preziosi per la storia della lingua e dei dialetti come per la conoscenza delle « tradizioni », cioè degli usi, costumi, credenze, superstizioni.

    Altre raccolte si sono fatte delle caritè, con le loro notazioni musicali, e ancor queste specialmente in Romagna dove vi si dedicò con passione anche un insigne musicista di questo secolo, Balilla Pratella. E rinverdite furono e sono portate in giro ormai per tutta Italia dalle « camerate » dei « canterini romagnoli ».

    In situazione intermedia fra la letteratura dialettale e quella popolare dovremmo mettere una forma di teatro particolare, quella già accennata dei « burattini », che ha stretti legami di influenze subite ed esercitate con la commedia dell’arte. E parecchi canovacci dei più famosi burattinai sono stati stampati. I burattini emiliani sono di legno, completi solo da torso in su e con le braccia, sorretti dal burattinaio, che vi infila l’indice nel corpo, il medio e il pollice nelle maniche, restando egli in piedi nascosto dalla base del palcoscenico. Agiscono le maschere tradizionali italiane, fra le quali la bolognese per eccellenza è il Dottor Balanzone. Ma altre di schietta origine locale non mancano, come Faggiolino e Sganapino del contado bolognese e Sandrone, con la moglie Polonia, di Modena.

    Vedi Anche:  La vita culturale: università, musei, gallerie e biblioteche

    Anche questa è una tradizione che sopravvive d’estate in qualche piazza periferica di Bologna e si acclimata ogni tanto nelle stazioni balneari romagnole, ma va perdendosi.

    Tradizioni popolari

    Ma veniamo a considerare le « tradizioni popolari » di costume. La più ricca messe di queste è stata raccolta in Romagna.

    Già nel 1778 Paolo Battarra in uno dei dialoghi della sua Pratica agraria trattava « Delle costumanze, vane osservanze e superstizioni dei contadini romagnoli ».

    Nel 1811 l’amministrazione del Regno Italico prendeva l’iniziativa, attribuita, al solito, a Napoleone, per una inchiesta « capillare », come oggi si direbbe, in tutti i Distretti e Comuni sulle costumanze, pregiudizi e superstizioni locali. Le relazioni riguardanti il Dipartimento del Rubicone sono state ritrovate nell’Archivio di Stato di Forlì e nella Biblioteca di Savignano.

    (Analoga inchiesta si svolse anche negli altri dipartimenti emiliani e qualcuna delle relazioni è stata pubblicata. Sarebbe interessante portare alla luce anche le altre).

    Seguono nel 1818 la raccolta del forlivese Michele Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, giudicata « la prima opera organica sulle tradizioni popolari di una regione italiana », e poi il Saggio di studi sui proverbi, i pregiudizi e la poesia popolare in Romagna di G. G. Bagli (1885-86).

    Questi ed altri scritti sono stati recentemente pubblicati nel volume Romagna Tradizionale, a cura del prof. Paolo Toschi, del quale è merito l’aver portato su un piano di alto rigore scientifico lo studio delle tradizioni popolari romagnole.

    Ma non si deve pur tralasciare di ripetere il nome di Aldo Spallicci, che, specialmente con la rivista La piè (che prese nome da un caratteristico alimento locale),

    dal 1919, ha promosso e facilitato la raccolta di innumerevoli contributi sulla letteratura e sull’arte popolaresca e sulle tradizioni, consuetudini, « curiosità » delle genti di Romagna.

    Raccogliere, sistematizzare, pubblicare codeste tradizioni è opera preziosa non tanto per dare soddisfazione a curiosità o a nostalgie, quanto perchè aiuta a ricostruire la storia del costume, la storia del concreto, quotidiano modo di vivere nella famiglia, nel lavoro, nelle relazioni sociali, nei rapporti col conoscere, col credere, con lo sperare. Nelle manifestazioni odierne s’intrecciano fili, che risalgono ad età lontane e lontanissime, a componenti razziali e culturali male altrimenti rilevabili. Anche sotto l’urto di fattori nuovi, portati da evoluzione interna, ma ancor più da influssi esterni. Ed è non solo importante, ma necessaria quell’opera, proprio appunto perchè la documentazione è quotidianamente sottoposta a un’usura, che ai giorni d’oggi diviene sempre più profonda e celere.

    Castell’Arquato: rievocazioni storiche: la presa di possesso da parte del Colleoni

    Anche se Toschi (Paolo) lamenti che ancora troppo di inorganico e non sempre scientificamente rigoroso sia nella serie delle opere dedicate alle tradizioni popolari di Romagna, resta il fatto che per nessun’altra parte dell’Emilia si presenta altrettanto ricca e in nessuna lungo un filone continuo, che, come si è visto, risale fino al Settecento. Se c’è molto da fare ancora su questo campo in Romagna, moltissimo, quasi tutto — si può dire — è da fare in quelle altre parti.

    Indicheremo nella nota bibliografica in fondo al presente volume alcune altre raccolte di notizie per il Bolognese, l’Appennino reggiano, ecc.

    Sarebbe indubbiamente gradito riferire qui una rassegna di queste tradizioni, almeno delle più originali e di quelle più vitali, più « dure a morire ».

    Ma troppo spazio occorrerebbe, anche per farla sommaria, di cui non possiamo disporre.

    Ci limiteremo a indicare alcune fra le più caratteristiche dell’ambiente, rimandando per qualcun’altra, che si presenta particolarmente originale in certi luoghi, ad annotazioni che ci verrà dato di fare nei capitoli descrittivi (XV-XVIII).

    Tutta una serie di tradizioni pittoresche si connette con le operazioni dell’agricoltura. Tradizioni che vanno obliterandosi o scomparendo per effetto  della crescente meccanizzazione, ma che la generazione di chi scrive ancora ricorda vitali.

    L’episodio centrale della vita agricola è tuttora, appunto per tradizione ormai più che per la sua importanza economica in confronto ad altri, la trebbiatura del frumento. Si praticava una volta sull’aia, con l’impiego dei bovini che trascinavano il « battitore » (batdùr) sui covoni sciolti e    sparsi sull’aia. (In tempo di guerra vi si è ricorso ancora, fra il 1943 e il 1945!).

    Processione della Madonna del Calanco nella strada di Dozza Imolese.

    « Il trebbiatore del grano — lo descriveva A. Rubbiani — componesi di un largo tavolato a trapezio intarsiato artisticamente di meandri lucenti di ferro, che i bovi reggono e trascinano inclinato per l’aia sulle paglie, reso più pesante da blocchi di macigno, e più efficace da una serie di denti gigliati di ferro che sfasciano le spiche ». A tanti secoli di distanza ben poco è diverso dal tribulum descritto da Varrone.

    Benedizione della Madonna del Calanco nel prato della Marcona.




    Ma ormai da settantanni e più è stato sostituito dalle macchine trebbiatrici, una volta mosse da motori a vapore, oggi a nafta. E sempre tuttavia questo il gran giorno, nel quale la più viva, chiassosa animazione regna sull’aia, fra le biche che si sfanno, le macchine che separano i chicchi dalla paglia e dalla pula, i sacchi di grano che si accumulano da una parte e i pagliai che si alzano dall’altra.

    Dopo la mietitura una vera festa contadinesca era la sgaréja, la segatura delle stoppie, cui conveniva tutto il vicinato, con scambio di cori, stornelli, danze finali sull’aia e… grandi bevute.

    Altra giornata d’intenso e caratteristico lavoro sull’aia era quella della sfogliatura del granoturco (sfuiaréja in Romagna) per preparare le pannocchie alla trebbiatura. Vi concorrevano i vicini, in una specie di sagra campestre, allietata da canti, frizzi …e vino.

    Poi era la volta della gramolatura della canapa, dopo che era stata nel macero: altra radunanza della famiglia coi vicini, che si concludeva con la raccolta delle fibre in manipoli e delle « cannarelle » in cataste, impiegate per accendere il fuoco.

    Infine dopo la vendemmia la pigiatura dell’uva, eseguita specialmente dai giovani e dalle ragazze, a piedi nudi, nei bigonci; la sola occasione nell’anno, in cui era possibile vedere gambe femminili al di sopra della caviglia!

    Tradizionale era anche la veglia nelle stalle, il solo locale caldo nell’inverno, quando la cucina era spenta o vi restava soltanto più a lungo il ciocco, il ceppo, a consumarsi lentamente.

    In montagna è la raccolta delle castagne, che si presenta con tradizioni caratteristiche. Si fa nella seconda metà di ottobre e quelle che non cadono da sè sono staccate a colpi di bastone. « A San Simone (28 ottobre) o la pertica o il bastone » dice il proverbio della montagna bolognese e modenese. Raccolte in panieri o sacchi le castagne sono portate a casa, dove si essiccano su graticci. Poi si fa la scortecciatura, praticata con diversi sistemi di battitura in sacchi sulla zocca (ceppo) o su un banco, direttamente o con la percussione di una stanga.

    Bertinoro: la colonna dell’ospitalità.

    Ed anche queste operazioni, come la raccolta delle fronde verdi, la loro sfogliatura e la confezione delle foglie in manocchi (mazzi) da conservare per l’inverno, sono motivo di radunanza di massaie, di vecchi e giovani, quasi sempre conclusa con suoni, canti e danze.

    A tradizioni antichissime, precristiane, si riallacciano indubbiamente talune manifestazioni religiose tuttora vitali, come la processione da santuari isolati a centri vicini, nella campagna, al principio della primavera, con senso propiziatorio, o — men diffusa — in autunno in segno di grazie.

    Non mancano, ora rinverdite a richiamo dei turisti, tradizioni di rappresentazioni religiose, come la Via Crucis vivente di Frassinoro, o storiche, come quella che rievoca la presa di possesso di Castell’Arquato da parte di Bartolomeo Colleoni.

    A questi aspetti, che caratterizzano l’ambiente agricolo, altri propri poi si determinano in ambienti diversi, come per es., in connessione con la vita silvopastorale della montagna, con quella dei pescatori lungo il litorale, con quella tutta speciale delle « valli da pesca » (ne parleremo a proposito di Comacchio) e così via.

    Ma che dire dell’usanza di « fare i fuochi a marzo » l’ultimo giorno di febbraio o ai primi di marzo nelle campagne e specialmente sulle prominenze della collina? e di quella di « segare la vecchia » sulla pubblica piazza a mezza quaresima, come in Romagna, o di « bruciare il vecchio » all’ultimo dell’anno come si faceva a Bologna ?

    Tradizionale ovunque l’ospitalità. Di questa la manifestazione più curiosa è forse la « colonna degli anelli » a Bertinoro (ricostruita nel 1926). A una certa altezza dalla base recava un doppio giro di anelli di ferro, ciascuno dei quali corrispondeva ad una famiglia del luogo. Il forestiero, che arrivava, attaccava la sua cavalcatura ad un anello e diveniva con ciò ospite della famiglia corrispondente.

    Un’altra colonna cui è legata una curiosa e simpatica tradizione è la « colonna degli smemorati » di Fiumalbo, nel Frignano. E un’antichissima colonna, forse romana, posta a sostenere il pulpito della chiesa parrocchiale. Chi trova un oggetto, l’appende ad essa o lo deposita sui gradini ai suoi piedi. Il sagrestano lo ritira e alla domenica dispone « alla colonna » tutto quel che ha raccolto. Così chi va alla Messa può vedere se l’orologio o l’ombrello o la sciarpa che ha smarrito si trovi fra gli oggetti esposti e ritirarlo, senza pratiche burocratiche nè « mancia competente ». E nessuno si sogna di prendere qualcosa che non sia suo. Dicono che una volta « alla colonna » sia stato messo un bambino perduto nel trambusto della fiera locale e puntualmente trovato dai genitori ansiosi.

    Arte popolare

    E parliamo infine dell’arte popolare; quale si manifesta nell’arredamento della casa, negli strumenti di lavoro, nelle vestimenta.

    Quella di Romagna è illustrata perspicuamente dalla documentazione raccolta nel Museo etnografico romagnolo di Forlì, l’unico della regione e uno dei più importanti d’Italia. Esso offre un quadro esauriente dell’arte popolaresca nell’ambito della pianura, della zona cioè nella quale assunse un’espressione tipica la vita multiforme dei contadini. I pescatori dell’Adriatico vi sono rappresentati scarsamente, e manca ogni testimonianza dei pastori, dei carbonai, dei carrettieri dell’Appennino, ma si sta provvedendo a colmare tali lacune.

    Museo etnografico di Forlì: salone del Plaustro.

    La sala più vasta del Museo è occupata dagli attrezzi rurali, tra i quali, al centro, troneggiano tre plaustri (carri agricoli a fondo piatto, con quattro ruote e timone per aggiogarvi i buoi). Pur nella loro sagoma austera e massiccia, sono tutta una festa di colori. Fiancate, piattaforma, mozzi, raggi delle ruote sono avvivati da roselline rosse e azzurre, da ramoscelli verdi e bianchi, da draghi e serpenti. Sui paradùr, cioè alle estremità anteriore e posteriore della piattaforma, risaltano le immagini propiziatrici di Sant’Antonio Abate con il pastorale e la mitra e della Madonna delle Grazie che spezza con le tenui mani i fulmini della collera divina. Nell’incavo del verricello che svolge e ravvolge le corde necessarie a legare il carico, c’è un San Giorgio, sul cavallo impennato, che conficca la lancia nella gola del drago.

    Fanno corona ai plaustri quattordici cavéje a due o a tre anelli concentrici, tutte di tipo diverso. La cavéja è un cavicchio di ferro battuto che s’infigge nel timone per trattenere il giogo. Nella parte superiore si allarga in forme piatte varie e sorregge, infilati in appositi buchi, uno o più anelli. Nel movimento del carro questi producono un caratteristico suono « canterino ». La cavéja dagli anèll o cavéja cantarèlla è diventata il simbolo della Romagna.

    Attorno sono, nel Museo, gli arnesi da lavoro, tuttora chiamati latinamente le «armi» (agli arum) : aratri in legno e in ferro, zappe, falci, forcali, pale, e poi lampade da stalla, lucerne per carrettieri, coperte da buoi, gramole per dirompere la canapa, telai a mano, frantoi, cesoie, staderoni, rocche, fusaie, spole.

    Un manichino ricostruisce il tipico costume dei contadini. In testa la galòza, ossia il berretto di feltro, giacca e pantaloni sotto il ginocchio (di bisòn, cioè di mezza lana tessuta nei telai domestici), panciotto, fascia rossa e gialla che ricade sul lato destro per sostenere i pantaloni, camicia di tela spina ricamata con cordoncino cremisi annodato a cravatta alle estremità, calze a righe bianche e rosse, scarponi di vacchetta.

    Manca invece un costume tipico della donna romagnola. E possibile tuttavia ammirare accanto a oggetti d’ornamento femminile vari tipi di corsetti di raso, gonne larghe e succinte: busti di velluto a fiori, candide camicie a manica lunga; sgargianti fazzoletti (cupét) che si portavano piegati diagonalmente sulle spalle e rannodati sul petto.

    Vedi Anche:  Il clima, le temperature, l'umidità e le precipitazioni

    Museo etnografico di Forlì: sala da pranzo

    Altre sale riproducono ambienti borghesi del Sei-Settecento e rurali dell’Ottocento, con le caratteristiche credenze (cantalìr), dalla patina nera, con gli sportelli istoriati e l’alzata a bocca di forno; casse dotali dai piedi a zampa di leone e adorne di fregi; madie, alte a cofano rialzato o basse, coi piedi a sghembo; ceramiche in gran numero a grossa invetriatura e con colori a fogliami (piatti, orcioli, scodelle, boccali, mezzine); scaldini traforati e policromi; e sopracoperte da letto singolari per lo splendore coloristico e il disegno geometrico tipico.

    Le ricostruzioni d’ambiente meglio riuscite sono la cucina e la camera da letto del contadino.

    Al centro della cucina, dalle travature affumicate, la tavola massiccia e coi piedi raccordati in basso da liste di legno è imbandita. Sulla tovaglia di canapa, tessuta ruvidamente (mantìl) sono disposti gotti, stoviglie, boccali panciuti a fregi blu e il cesto di vimini per il pane. Intorno alla tavola si allineano comode scranne impagliate con trecce di canna e foglia.

    Il focolare è addossato al muro. La cappa è vasta, sopra il banco si trovano la ventarda, gli alari, il treppiedi e la teggia su cui sfrigolando cuoce la sapida « piada » (la pie’ cui si è già accennato). A destra del focolare, appesa alla parete, la saliera e una tavoletta bucherellata per segnarvi con un cavicchio la spesa quotidiana. Non mancano naturalmente la madia col buratto, il tagliere, la gramola per battere ed assodare la pasta e il Lunéri di Smémbar, il tradizionale « Lunario della povera gente » tuttora annualmente pubblicato coi suoi rami ottocenteschi.

    Nella camera da letto il giaciglio è costituito da una grossolana lettiera a cassone, sormontata da un pagliericcio ripieno di foglie di granoturco. La coperta è di colore turchiniccio intessuta a losanghe. A un chiodo del muro, vicino alla Madonna col ramoscello di ulivo del giorno delle Palme, è appesa la schioppa, la doppietta. Sullo schienale dell’unica sedia è abbandonata la capar èia, il largo mantello in cui nei mesi freddi ci si drappeggiava. Nè è raro vederla ancora usata in luogo del tanto meno pittoresco, se pur più caldo cappotto.

    Ma anche a Bologna, pur con intento non dichiaratamente etnografico, una buona collezione di mobili borghesi e rustici, lavori in ferro battuto, intagli in legno, attrezzi agricoli, oggetti sacri, datanti dal XVI e XVIII secolo, è raccolta nella Galleria Davia Bargellini (Museo d’Arte Industriale).

    Infine non meno curiosa che interessante è la ricostruzione di un intero borgo medioevale (tipo secolo XIV) intorno all’antico castello restaurato di Grazzano Visconti, sulla via da Piacenza alla vai di Nure. La ricostruzione, voluta dal conte Giuseppe Visconti di Modrone all’inizio di questo secolo, è minuziosa in tutti i suoi particolari e si è spinta airobbligo fatto agli abitanti di indossare costumi del tempo, per lo meno in certi momenti dell’anno.

    Non faccia meraviglia che si parli qui, fra tante cose gravi o abitualmente trattate con tono grave, della culinaria.

    E anch’essa un’arte, che, come le arti figurative soddisfano il senso della vista e le musicali quello dell’udito, soddisfa uno dei cinque sensi, non si sa perchè considerato men nobile, il senso del gusto. Ed è arte tipicamente di origine popolaresca e tuttora essenzialmente popolaresca, ricca di tradizioni non perente.

    La vecchia Bologna non soltanto di « dotta » ha la fama, ma di « grassa », festaiola e buongustaia. Sono sue specialità le paste aH’uovo « fatte in casa » (i saporosi tortellini — in brodo e asciutti —, le tagliatelle, le lasagne).

    Amano i Bolognesi corroborarne l’eccellenza con nobiltà di tradizione antichissima. In un Libro della cucina manoscritto del Trecento, pubblicato nel 1863, è descritta la confezione delle lasagne: « Togli farina bona, bianca, distempera in acqua tepida et fa che sia spessa; poi la stendi sottilmente, et lassa sciugare: debbianzi cocere nel brodo del capone, o d’altra carne grassa: poi metti nel piattello col cascio grasso grattato, a suolo a suolo, come ti piace ».

    Dalle lasagne sarebbero poi derivate le tagliatelle, ma quando non si sa. Nel Seicento erano già di uso comune.

    I tortelli invece sono ricordati fin dai secoli XII e XIII, nei quali vigeva la consuetudine di fare ai prelati e ai monasteri offerta « tortellorum ad Natale et ovorum a Pascha ».

    Il passaggio però da quegli antichi tortelli ai minuscoli e saporosi tortellini dovette avvenire poco più tardi, giacché in altro Libro di cucina trecentesco ve n’è una ricetta molto simile all’odierna, col suo ripieno: « toy lo caxo che tu ay et pestalo con la lonza et mitige le specie et l’ova dentro tanto che basta et mena insieme ogni cosa et fay battuto et po’ fay i tortellini pizenini in fogli di pasta zalla ».

    I sapidi pasti che proseguono con le portate di carne e le verdure e le ottime frutta, si annaffiano col rosso Lambrusco o con l’Albana secca. Locali caratteristici, nella città vecchia, sui colli, nelle vallecole fra i colli, godono di notorietà nazionale con una cucina ancor più raffinata, ma in genere sempre piuttosto greve.

    Più o men lodevole sia, il fatto resta che l’attrattiva che fa sostare il forestiero di passaggio a Bologna, più ancora forse che i pur ammirevoli monumenti, è quella della caratteristica, « grassa » cucina. Ma in tutta la regione, del resto, è diffuso l’amore della buona tavola e del buon bicchiere. E ogni parte ha le sue specialità.

    Il corteo della Castellana a Grazzano Visconti (Piacenza).

    Diffusi i tortellini anche in Romagna, dove però — e non saprei il perchè della differenza se non forse in un’origine simultanea ma autonoma — si chiamano « cappelletti ».

    Più grandi i tortelloni, con ripieno di ricotta, uova, formaggio e prezzemolo tritato, a Bologna e in Romagna, con la varietà dei « tortelli alla piacentina » (con ripieno di ricotta e spinaci), degli « anolini alla parmigiana » (piccoli ravioli con ripieno di pane grattato, formaggio grana grattugiato, uova e sugo di carne). Poi gnocchi di patate, conditi con sugo di carne e abbondante formaggio grattugiato; minestra di passatelli (cilindretti di pasta all’uovo e latte passati per un diaframma bucherellato) e papparelle romagnole (sorta di fettucce tagliate larghe nella « sfoglia ») accanto al pasticcio di maccheroni tipicamente ferrarese, a strati con rigaglie di pollo, besciamella, funghi o altro.

    Piatto unico, che accompagna o talvolta sostituisce le portate ordinarie, è in Romagna la piada (così chiama anche il Pascoli in vari luoghi della sua poesia la dialettale pié), sorta di pizza fatta di farina bianca impastata con olio o strutto e sale, tagliata a losanghe e fritta. Ma c’è anche la pié sul testo, stesa cioè sul convesso di una specie di largo piatto in terracotta sospeso orizzontalmente sulla brace (ora anche su lastre di ferro), indubbiamente di origine ancor più antica, riallacciandosi alle prime confezioni di farina con acqua cotte al contatto di una pietra scaldata.

    Per i piatti di portata nessuna è trascurata delle innumeri maniere di confezionare le abbondanti e pregiate carni di bovini, suini, ovini, di pollo, tacchino, anitra, faraona, che il numeroso e curato allevamento locale porge. Nessuna peraltro propriamente tipica, anche se si indicano una cotoletta alla bolognese o alla parmigiana. Poi ci sono le frittate con o senza formaggio e verdura; e le tante maniere di confezionare piatti con quest’ultime: piselli al prosciutto, asparagi, tartufi, cardi alla parmigiana (con abbondante formaggio).

    Diffuso e frequente poi l’uso degli insaccati di carni suine, fra i quali veramente tipici sono la mortadella di Bologna, il salame di Felino (Parma), il culatello (prosciutto) di Parma, la bondiola di Piacenza, lo zampone di Modena, la salama di Ferrara, fortemente drogata e irrorata di vino vecchio, i ciccioli di Bologna e i grascioli di Romagna (compressi residui della preparazione dello strutto), i cotechini, le salcicce, ecc. E aggiungiamo pure il polpettone di Reggio (salame d’oca).

    Anche il pesce viene sulle mense, tradizionalmente dappertutto almeno il venerdì. E pesce che viene dalle spiagge adriatiche (sogliola, storione, cefalo, scampi e cala-maretti, ecc.), ma ora anche di fuorivia. Veramente tipica e propria del Ferrarese, donde si propaga in tutta la regione, è l’anguilla, consumata fresca e marinata.

    Di formaggi si fa pure largo consumo, specialmente del « grana », tipico del Parmigiano e del Reggiano, ma anche di altri abbastanza caratteristici come il pecorino, che viene dalla montagna, e i formaggi freschi ricercati come « formaggi dei contadini » perchè da questi portati sul mercato.

    Nella pasticceria si notano il pan speziato o certosino di Bologna, la persicata e il pampepato di Ferrara, i bussolani di Piacenza, i zuccherini di Romagna.

    Il tutto sempre accompagnato da buone bevute di vino. Altra serie di specialità se pure ormai non sempre genuine: il rosso Lambrusco detto per eccellenza di Sor-bara, prodotto tipico del Modenese; il Sangiovese di Romagna; la Cagnina di Cesena, e fra i bianchi, il bianco di Scandiano, l’Albana dei colli di Romagna e, men pregiato, il Trebbiano della pianura.

    Cultura fisica

    La ginnastica e i diporti atletici non hanno avuto molta presa, da noi, fino ai primi anni di questo secolo. Non nelle classi disagiate perchè, fossero di città o di campagna, troppo già avevano da fare esercizio fisico in lavori faticosi e diuturni. E quando si faceva a pugni o a coltellate non era per fare della boxe o della scherma. Non nelle classi agiate per le quali curare lo sviluppo della prestanza fisica sembrava disdicevole alla dignità del grado. Non parliamo dell’equitazione (che oggi è uno sport) perchè una volta andare a cavallo era semplicemente l’unico modo di muoversi individualmente da un luogo all’altro, dalla città alla campagna, da un centro all’altro.

    Soltanto i militari curavano la propria educazione fisica, con un certo empirismo, e più che altro con estenuanti marce o cavalcate, esercizi sulle armi e movimenti di assieme. Nè il mestiere del soldato era molto diffuso nè apprezzato, eccettochè durante la parentesi napoleonica. Tanto più che in larga misura papi e prìncipi nei corpi armati di stanza nella regione tenevano al proprio soldo elementi stranieri (e stranieri non erano allora soltanto gli svizzeri o i francesi, ma anche i sudditi degli altri Stati italiani).

    Di contro, l’ufficialità preferiva prendere posto negli eserciti imperiali o francesi, almeno per tutto il Settecento.

    Comunque, un mestiere e non uno sport e l’educazione fisica essenzialmente preparazione al mestiere, non esercizio sportivo.

    Non esercizi sportivi diffusi, dunque, nel popolo se non si pensa a forme embrionali, come « fare alle braccia » (forma rudimentale di lotta), fare « a chi arriva prima » (forma rudimentale di corsa). Tuttavia qualche altro giuoco atletico tradizionale si praticava, come in occasione di festività o fiere (e quasi sempre coincidevano), la salita dell’« albero di cuccagna», un’alta pertica, per di più unta, in cima alla quale era il premio, un canestro con pollame, vino e simili.

    Lo Sferisterio per il giuoco del pallone a Rimini nell’attuale stato di abbandono.

    Popolare e diffuso anche il giuoco delle bocce, cui non disdegnavano (e non disdegnano) partecipare persone dei ceti più elevati.

    Veramente atletico e riservato pertanto a pochi campioni era poi il « giuoco del pallone », praticato con bracciali rotondi irti di punte e un pallone di cuoio non conciato del diametro di circa cm. io.

    Esso si svolgeva fra contrapposte coppie (il battitore e la spalla) o terzetti (battitore, spalla e terzino). I giuocatori indossavano un costume settecentesco, tutto bianco, con pantaloncini chiusi sotto il ginocchio sulle calze lunghe, giacca chiusa fino al collo, con una delle maniche — quella del braccio che portava il bracciale — tagliata poco sopra il gomito. Una sciarpa di seta rossa o blu alla cintola contrassegnava i partiti contrapposti.

    Il campo di giuoco era rettangolare, diviso per metà da una bassa rete trasversale e limitato ad uno dei lati lunghi da un alto muro e all’altro da una riga di gesso o una funicella. Il battitore scendeva da un trampolino e col bracciale coglieva il pallone inviatogli da un « mandarino » che l’attendeva a piè fermo di fronte.

    Bologna: Palazzo dello Sport

    Il pallone scagliato dal bracciale, diritto, mirava al termine del campo di giuoco oppure era appoggiato al muro. Nella squadra opposta entrava in azione la spalla, che cercava di respingerlo. Segnava un punto la squadra che riusciva a mandare il pallone al di là della linea di fondo opposta, senza farlo passare oltre il limite laterale del campo prima di essa.

    Vedi Anche:  nome e confini

    Naturalmente se ciò riusciva al battitore con una sola « volata » era già valido. E le grandi volate restavano memorabili (a Bologna erano segnate da lapidi con nome e data nel punto in cui il pallone aveva battuto o sul fastigio del portico che chiudeva lo sferisterio per le pochissime che l’avevano superato).

    Un punto segnava anche la squadra il cui pallone, pur cadendo entro il campo di giuoco non veniva respinto dall’avversaria o, se respinto, incappava nella rete a mezzo campo. Il pallone inoltre poteva essere ribattuto « di prima » direttamente o « di seconda » dopo un solo sbalzo, ma non più.

    Caratteristico era anche il punteggio, annunziato con voce stentorea dal « banditore » (che fungeva pure da arbitro) situato a metà campo sul lato lungo opposto al muro : quindici, trenta, quaranta. Il punto successivo dava vinto un « giuoco » dopo del quale si invertivano le posizioni delle squadre.

    La partita finiva quando una delle due squadre riusciva a totalizzare un numero convenuto di giuochi (dieci, dodici, perfino quindici). Come si vede c’è qualcosa che ricorda il tennis, ma occorrevano ai giuocatori, oltre ad analoghe mobilità e prontezza, un impiego di forza fisica ben maggiore ed uno speciale occhio esercitato per cogliere il pesante pallone sulle punte del bracciale evitando di scagliarlo di lato.

    Un bellissimo giuoco, ma fatto per un’aristocrazia di atleti, e che perciò ha finito per perdersi. Lo Sferisterio di Bologna coi suoi colonnati neoclassici è stato uno degli ultimi a chiudere i battenti, pochi anni avanti la seconda guerra mondiale.

    Piuttosto si è diffuso, quasi un surrogato di minori pretese, il giuoco del tamburello.

    Un altro sport tradizionale ha resistito a lungo e resiste pur ristretto a poche località, ed è quello delle corse dei cavalli, fra noi esclusivamente — da molto tempo — al trotto. Una volta quasi tutte le città, anche piccole, avevano i loro ippodromi. Li ricordo a Reggio, a Modena, a Bologna, a Faenza, a Cesena. Oggi soltanto Bologna e Cesena organizzano stagioni di corse. E diventato uno sport troppo costoso, sia per l’allevamento, sia per l’organizzazione delle corse (e relativi premi!).

    Nei ceti più elevati, a prescindere dalla scherma, una volta praticata dai giovani nobili, non senza lo scopo di trovarsi preparati a eventuali duelli, lo sport diffuso quasi universalmente era ed è la caccia.

    La caccia si praticava e si pratica tuttora in movimento e da fermo. Lasciamo di considerare i tempi antichi, prima che si diffondesse l’uso del fucile. La caccia mobile si esercita con questo, con o senza l’aiuto del cane, che scova e punta la selvaggina (quaglie, pernici, lepri…), indirizzandola in posizione acconcia per il tiratore.

    La caccia da fermo viene praticata pure col fucile o con le reti. Col fucile il cacciatore attende la selvaggina in luogo dove è solita passare o adunarsi, nascosto in un capanno di frasche o addirittura di legno, sempre mascherato da frasche. Convien distinguere la caccia agli uccelli di passo, come lo storno, il tordo, la tortora, che vengono specialmente attesi al loro passaggio per la montagna. Nella caccia alle allodole il cacciatore attende, in un riparo improvvisato, che i volatili vengano attirati dal fischietto, da lui stesso modulato, e dalla civetta, posta su un lungo palo, oppure (o insieme) da uno specchietto, che ruota meccanicamente (una volta lo si faceva girare tirando un filo, come una trottola).

    Tanto nella caccia «al capanno» quanto e ancor più in quella con le reti ci si serve di « richiami », cioè di uccelli in gabbia o legati, che col loro cinguettio attirano gli altri.

    Per la caccia con le reti si predispone un roccolo o paretaio. Il roccolo è un boschetto, più o meno artificiale, intorno ad una « piazza » centrale, in cui è situato il casotto dei cacciatori. Le reti sono intorno al boschetto, di guisa che gli uccelli, prima attirati dai richiami verso la piazza, fuggendo vi incappano.

    La forma del paretaio è invece piuttosto rettangolare. Il casotto mascherato da alberi è su uno dei lati brevi ; la piazza, davanti, è occupata da arbusti in modo tale che le reti, mosse da un congegno comandato dal casotto, la possono rapidamente coprire, rinserrando gli uccelli, che vi si sono posati.

    Talora roccolo e paretaio sono combinati in una sola attrezzatura. Il casotto è spesso in muratura, con lunghe e strette finestre orizzontali, dalle quali i cacciatori sorvegliano l’arrivo della preda.

    La caccia va sempre più popolarizzandosi anche fra i contadini, che conservano la doppietta ormai non più per difesa, ma per essa. Ed è forse questo che fa sembrare ai cacciatori che la selvaggina sia diminuita in modo impressionante. Comunque un’attenta protezione è messa in opera dalle autorità, sia con la limitazione della caccia nel tempo (apertura e chiusura della « stagione venatoria ») sia con quella delle « riserve » chiuse, concesse a società o privati a particolari condizioni.

    Nel complesso, d’altra parte, il carattere essenzialmente sportivo della caccia odierna, da noi, viene confermato dalla modestia dei risultati che se ne possono conseguire. Si tratta, in genere, di piccoli volatili (i più grossi sono le starne e i pochi colombacci) e, al massimo, lepri. Niente, da noi, che rassomigli alla caccia grossa di altri tempi, se non in limitatissime e gelosamente conservate riserve (cervidi e cinghiali nel bosco della Mèsola).

    La maggior soddisfazione, da questo punto di vista, dà la caccia agli acquatici nelle « valli » del basso Ferrarese. Se ne parlerà di proposito nel capitolo dedicato a questa subregione.

    Numerosi sono anche i pescatori sportivi. Ma di questi pure si farà cenno in altro luogo, trattandosi» della pesca. Il quadro fatto riguarda il passato e le sue propaggini nel presente.

    Ma se fino a tutto il secolo scorso lo sport era scarsamente conosciuto e praticato, possiamo ben dire che in poco più di cinquant’anni ci siamo largamente rifatti.

    Il primo degli sport odierni a presentarsi e svilupparsi, con un ritmo di crescente e travolgente popolarità, è stato il ciclismo. Le prime corse erano riservate ad una élite di giovani audaci di buona famiglia, negli ultimi decenni dell’Ottocento. Ma gli « arrotini impazziti » ebbero presto largo sèguito. Lasciati al museo gli alti cicli a una ruota, con una piccola dietro, le biciclette sono divenute il mezzo di trasporto più diffuso nei ceti popolari. Nei primi decenni del secolo e poi dopo la prima guerra mondiale esse hanno sempre più invaso le strade. Lunghe teorie se ne snodano nelle ore in cui gli operai vanno al lavoro o ne ritornano e verso e dai mercati.

    La diffusione del mezzo eccita e diffonde la gara. Si organizzano le corse su pista, ma specialmente quelle su strada incontrano la maggiore popolarità. L’Emilia, con le altre regioni della pianura padana, è in Italia la patria del ciclismo su strada. E tuttora, nonostante il propagarsi di altri sport, questo è il più diffuso e veramente popolare. Troppi nomi di campioni nostrani, fino ai Baldini, ai Ronchini, ai Pam-bianco di oggi, e di gare tipiche (Giri dell’Emilia e di Romagna, tappe emiliane del Giro d’Italia, ecc.) sarebbero da fare, fra il 1900 e il 1959, senza correre il rischio di tralasciarne alcuni dei più significativi. E gare, oggi, di professionisti e dilettanti di varie categorie, in tutte le parti della regione e in quasi tutte le località di un certo sviluppo, e tutte seguite con interesse, con passione, da folle e folle lungo i percorsi, e strabocchevoli ai luoghi di partenza e alle mete.

    Accanto al ciclismo, ma venuto un po’ più tardi, ha acquistato il secondo posto in popolarità il giuoco del calcio. Uno sport di pochi fin verso il 1910, ma oggi non v’è città o cittadina in Emilia-Romagna che non abbia il suo squadrone o la sua squadretta e squadrone e squadrette nella stessa città, nella lunga gerarchia dell’organizzazione ufficiale del giuoco, dalle divisioni nazionali A, B, C, alla « promozione », alle divisioni minori, regionali, e giù giù fino alle squadre improvvisate di ragazzini, ovunque trovino un cortile o un prato liberi e un pallone, magari di pezza.

    La popolarità di uno sport è misurata dalle folle di spettatori e dal grado di « tifo » che le eccita, ma la sua importanza reale come sport, la sua efficacia formativa ed educativa, sono proprio connesse al suo grado di penetrazione nelle masse. Perciò il ciclismo, che tende a diventare sport di specialisti, perde di importanza, in questo senso, a confronto del calcio. Per intendere l’importanza del quale non bisogna pensare ai campioni compensati con stipendi e premi sbalorditivi, nè alle folle rigurgitanti dentro gli stadi, ma proprio alle squadrette di paese, di rione, di scuola, le cento, le mille che sono paghe di svolgere il giuoco per il giuoco, i vivai dei futuri campioni, senza dubbio, ma già di per se stesse palestre di un esercizio fisico vario, all’aria aperta, di socialità (per lo spirito di squadra), di agonismo.

    Comunque non si può tralasciare di annotare qui almeno tre nomi degli squadroni emiliani più famosi, dal Bologna più volte campione d’Italia e dalla Spai di Ferrara, che lo fiancheggia ora nella massima divisione, al Modena che a lungo ha loro disputato il primato regionale.

    Meno hanno attecchito, da noi, altri giuochi atletici del pallone più violenti e pesanti, come la palla ovale (rugby) e, di recentissima importazione, il baseball americano. Però non ne mancano i cultori, la cui sportività si potrebbe dire in ragione inversa della popolarità di cui godono.

    Si è venuto a diffondere invece il giuoco della palla-canestro, il quale consente anche una specializzazione femminile.

    Il dilettantismo più puro impera, in genere, negli sport atletici, come la marcia (poco frequente da noi), la corsa a piedi nelle varie specialità dai 100 m. alla maratona, il salto in alto e in lungo, il getto del peso, del disco e del giavellotto.

    Numerose sono le società sportive, nelle quali vengono praticati, con passione ed efficacia anche senza l’applauso dei grandi pubblici (a Bologna, Forlì, ecc.). E sono pur quelle, in genere, che curano la ginnastica artistica.

    Ovviamente sono poi i centri balneari quelli in cui si esercita diffuso lo sport del nuoto, ma anche in città interne dotate di piscine idonee. Meno popolari, anche « al mare », il canottaggio e la vela.

    Di sport atletici richiedenti una particolare prestanza e specializzazione, quindi un indirizzo verso il professionismo, da noi non molta fortuna ha avuto la lotta, più la boxe, nella quale si annovera qualche notevole campione emiliano, come il Cavicchi.

    Sport di elezione ma che vanno diffondendosi sono quelli della neve e del ghiaccio, lo sci innanzitutto, per il quale anche in regione esistono terreni invernali adatti e frequentati, specie nell’alto Appennino modenese e bolognese.

    Veduta dell’aeroautodromo di Modena

    Dopo questi faremo menzione di altri sport, per così dire, aristocratici. Il tennis è il più diffuso di questi e ha dato alcuni campioni notevoli, come il bolognese Vanni Canepele.

    La scherma ha pure i suoi cultori, nelle maggiori città.

    Infine l’equitazione sempre più si restringe, di fronte all’incalzare della pratica sportiva e non sportiva dell’automobilismo e del motorismo. Quest’ultimo specialmente sta passando nel novero degli sport popolari, pur non avendo raggiunto il travolgente ritmo di diffusione, che ha avuto il ciclismo nei suoi primi decenni.

    L’automobilismo — tralasciando di considerare l’enorme incremento del numero di macchine e la congestione del traffico che determina — come sport agonistico ha in questi ultimi decenni avuto uno sviluppo particolare nella regione. Modena e Bologna sono centri di fabbricazione di macchine speciali da corsa (le Ferrari, le Maserati, le Osca). A Modena c’è un « aeroautodromo » adatto per il collaudo di esse ed anche per qualche    gara che non comporti eccessive velocità. A Imola pure un circuito attrezzato per prove di macchine e specialmente per gare motociclistiche.

    E tutto un fervore di vita, una esplosione di vitalità nell’ampio settore degli sport nell’Emilia-Romagna, che così per sommi capi abbiamo tentato di tratteggiare. Ma, se quello che si vuol conoscere è  la vita vera di un paese, anche questa è vita da tenere in conto. E come!