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Il clima, la flora e la fauna

    Il clima e la vita vegetale ed animale

    I fattori del clima

    Poche regioni italiane presentano in uno spazio ristretto una così notevole varietà di climi come la Venezia Tridentina. Varie cause concorrono a determinare tale fatto; in particolare la posizione della regione, in piena zona temperata, la sua situazione rispetto al grande sistema delle Alpi, tale che, mentre da un lato spinge le sue pendici meridionali nella zona dei grandi laghi prealpini e all’orlo verso la Pianura padano-veneta, dall’altro raggiunge ed è limitata per circa 350 km. dallo spartiacque centrale della grande catena con quote di notevole altezza. Influiscono quindi sul clima: la struttura orografica con la sua plastica varia e movimentata esprimibile ad esempio nei 3700 m. circa di differenza tra la massima e la minima altitudine; il carattere di altopiano di alcuni bacini, l’andamento irregolare e con profondi dislivelli di altri e il loro orientamento; l’influenza dei ghiacciai, delle nevi, dei laghi e di fiumi; l’influsso del mare per qualche plaga, come ad esempio la Valsugana ed infine la copertura boschiva che riveste una buona metà del territorio.

    Richiamandoci pertanto a questa varietà di fattori, in particolare a quelli legati alle forme del terreno, si può ben affermare che la regione gode di un clima di montagna con attenuazioni sensibili però delle medie invernali.

    In una regione dalla plastica così varia non può essere agevole una ripartizione in distretti climatici; ammettendo però una certa variabilità in relazione appunto all’orografia, e tenendo quale base le variazioni causate dalla maggiore influenza del tipo climatico padano-mediterraneo con particolare riguardo alla umidità e alle minori variazioni della temperatura, possono distinguersi sostanzialmente tre distretti climatici: la valle dell’Adige fino a Merano con cui si collegano la regione benacense; le Giudicane, la Valsugana, il solco del Noce e dell’Avisio; la vai Venosta con le convalli ad essa afferenti; la valle dell’Isarco con la Pusteria, le quali attraverso le depressioni del Brénnero e di Dobbiaco risentono eccezionalmente gli influssi del più rigido e tipico clima dell’Europa centrale.

    Gli elementi del clima: la temperatura

    Carattere generale, cui già si è accennato, è l’attenuazione delle temperature invernali, cui si associa spesso anche l’abbassamento di quelle estive, soprattutto per i venti di ponente dominanti nella porzione settentrionale della Regione. Nella Tabella II sono riportati i valori medi mensili, stagionali e annui per alcune stazioni della Regione, in cui i dati vengono registrati per un periodo sufficientemente lungo, così da assumere un significato abbastanza sicuro. A titolo di esempio si può osservare che le più elevate temperature medie annue dell’Alto Adige si riscontrano a Merano e Bolzano con ii°,7 a un’altitudine di circa m. 300 s. m., mentre a Bressanone la media è di 8°,7 (altitudine m. 560) e nell’alta vai Venosta a 1300 m., tocca i 6°. Più basse sono invece le medie annue della Pusteria come dimostrano i dati di Riva di Tures e di Dobbiaco (3°,$), a causa delle basse medie mensili invernali.

    Diagrammi delle temperature massime, minime e medie mensili nelle seguenti località del Trentino-Alto Adige:

    i, Solda di Dentro, ni. 1845; 2, Corvara, m 1568; 3, Bressanone, m. 560; 4, Bolzano, m. 292.

    Si avvicinano ai valori medi massimi alto-atesini anche quelli del Trentino che per alcune località sono però un poco più alti: così a Riva la temperatura media annua tocca i 13°(altezza sul mare circa 70 m., ed influsso del lago di Garda), mentre lungo il corso dell’Adige a fondo piatto con scarsa differenza di quota da Ala a Merano (tra 200 e 300 m.) i valori medi annui sono assai vicini a quelli sopra indicati: Ala 11°,6 e Rovereto n°, nella stretta di Salorno si scende ancora di poco (tra 10° e 11°) e altrettanto può dirsi per le aree di fondovalle della Valsugana, dell’Avisio e del Noce. Anche la sola considerazione delle medie annue offre la possibilità di qualche osservazione sulla diminuzione della temperatura con l’altezza. E ben noto che il gradiente termico decresce secondo valori medi di un’ormai lungo periodo di osservazioni di o°,5Ó per ogni 100 m., pari a 1° ogni 178 metri.

    Diagrammi delle temperature massime, minime e medie mensili nelle seguenti località del Trentino-Alto Adige:

    1, Peio, m. 1580; 2, S. Martino di Castrozza, m. 1434; 3, Trento, m. 212; Riva di Tures, m. 890.

    La formazione di un mare di nuvole è talora in relazione a mutamenti in altezza della temperatura. Il mare di nuvole si addensa intorno alla Croda Rossa.

    I valori medi di abbassamento di un grado nel periodo stagionale per la Venezia Tridentina sono i seguenti:






      1° per m.

    Inverno

    223

    Primavera

    150

    Estate

    140

    Autunno

    190

    Certo anche più significativo è il confronto tra i valori medi del mese più caldo (in genere il luglio) e quello più freddo (di solito il gennaio) che possono sempre desumersi dalla relativa Tabella II. Non è difficile segnalare l’influsso dell’altitudine e delle acque del Garda, osservando che Riva ed Arco registrano 2°, 8 e 2°,2 per il gennaio e 230 e 23 2 per il luglio. Accanto a questi che figurano essere i valori più alti sia per il mese più caldo che per quello più freddo, si possono osservare valori più bassi. Così volendo confrontare qualche stazione con le due già citate si può tener presente che le medie di Trento non scendono al disotto di zero e così dicasi per Bolzano. Anche le massime di queste due località non superano le massime indicate per Riva e Arco, pur avvicinandosi più ad esse di quanto non avvenga per le medie minime del gennaio.

    Peio. Un mare di nubi visto dal Rifugio Viòz. Sullo sfondo le Dolomiti di Brenta.

    Non è detto con ciò che in talune località del solco dell’Adige non possano ritrovarsi temperature medie di luglio superiori a quelle di Riva o di Arco, ma resta comunque confermato: anzitutto che la conca benacense gode delle migliori condizioni termiche sia annue che mensili e in secondo luogo che non molto notevoli sono le differenze termiche medie con la valle dellAdige, malgrado le condizioni siano piuttosto diverse. Istruttivi sono anche altri due esempi, per quanto riguarda il comportamento in settori differenti : se dalle zone più basse si sale verso i iooo m., vedansi Predazzo e Vipiteno, si hanno valori medi del luglio intorno a 250 e circa —40 per il gennaio; ancor più sensibili le differenze tra Dobbiaco (m. 1252) —70,3 nel gennaio e i3°,3 in luglio, mentre sul Renón (1150 m. a Longomoso) i valori sono rispettivamente —3°,9 e ió°,4. A puro titolo indicativo si sottolineano i valori di Monteneve a 2366 m., località per la quale sono stati registrati valori di —9°,i (gennaio) e 7°,8 (luglio). Questi ed altri esempi che la tabella indicata consente di verificare permettono utili raffronti ed interessanti accostamenti e offrono altresì anche un’altra considerazione abbastanza significativa e cioè che il comportamento della escursione annua della temperatura, si mantiene entro limiti da poco più di 150 (Monteneve) a quasi 250 (Brunico 24°,7) con valori piuttosto vicini al massimo, ad esempio, per Trento (23°) e Bolzano (22°,5).

    In linea di massima a questo proposito si può osservare che l’escursione decresce con l’altezza e che l’altezza dell’isoterma di zero gradi ai primi di gennaio corre all’incirca sui 500 m., si sposta oltre 2000 m. in aprile, per salire a quasi 3600 m. ai primi di agosto e scendere in ottobre a 2500 m. circa. Si può altresì constatare che tale isoterma, che è indicativa per le precipitazioni sotto forma di neve, in quanto dipendono anche da essa, si mantiene per tre mesi circa al disotto dei 1000 m. e per tre mesi circa, a cavallo dell’agosto, resta al disopra dei 3000 metri. Un certo qual significato può avere tale fatto per i giorni di gelo che pertanto possono computarsi mediamente circa 20 a Trento e nessuno a Riva e a Merano.

    Un fenomeno di particolare interesse nelle vallate alpine è quello dell’inversione della temperatura, fatto che si manifesta con un aumento anziché con una diminuzione della temperatura con l’altezza. Pur non essendo il fenomeno molto frequente, tuttavia qualche volta non manca, con effetti assai gravi sulle coltivazioni, soprattutto se si accompagna ad assenza o a scarsezza di neve al suolo. Più frequentemente che altrove il fenomeno si verifica nella vai Pusterìa per le sue condizioni di valle piuttosto ampia ed a conche successive soprattutto nella parte centrale e piuttosto chiusa agli estremi orientali ed occidentale. Ne consegue un certo abbassamento delle temperature medie sia mensili che annue nelle valli longitudinali rispetto a quelle trasversali di tutto il sistema alpino. Altro confronto utile nella nostra Regione è quello tra le condizioni climatiche delle parti più elevate della montagna e quelle delle parti più basse delle valli, le quali presentano caratteri di continentalità del clima, mentre le fasce cacuminali dei monti, per le più lievi escursioni termiche, presentano piuttosto accostamenti con climi a carattere marittimo.

    Umidità, nebulosità, precipitazioni

    Non molto abbondanti e poco regolarmente raccolti sono i dati relativi all’umidità e alla nebulosità, mentre può dirsi cospicuo il numero delle stazioni in cui, per periodi anche abbastanza lunghi e sistematicamente, sono state effettuate, e lo sono tuttora, registrazioni delle precipitazioni. Si tratta di oltre 150 stazioni delle quali, almeno per un centinaio, le osservazioni sono utilizzabili ai fini di uno studio sulle caratteristiche del regime pluviometrico.

    Dai pochi dati disponibili sulla umidità, si rileva che la media annua oscilla intorno a 70% e che generalmente nei mesi invernali (gennaio) è più elevata che in quelli estivi. Un altro dato che risulta abbastanza sicuro è che l’aprile risulterebbe essere il mese più secco; l’esame dei valori delle singole stazioni offre qualche dubbio su tale affermazione, in quanto si notano frequenti variazioni locali, come ad esempio per Solda, ove il mese più secco sembra essere il giugno. Volendo richiamare qualche dato per i mesi invernali si può ricordare che Arco ha il 68% di umidità, Riva, Trento e Bolzano tra 73 e 78%, mentre Colle Isarco arriva all’81%. Tali valori sono ancora più significativi se si tiene conto che valori simili o di poco inferiori caratterizzano il clima della nostra Riviera e che il Cairo ha una media umidità relativa dell’inverno pari al 70%.

    Formazione di nebbia in val Aurina.

    Mare di nuvole dal bacino collettore del ghiacciaio di Nardis.

    Anche per la nebulosità media i dati non sono molto abbondanti e quindi non molto significativi, per quanto tale fenomeno non sia soggetto a variazioni locali molto sensibili. Si può anzitutto notare che mediamente la nebulosità rimane al di sotto dei cinque decimi di cielo coperto. L’esame dei valori medi mensili per una ventina di stazioni, variamente dislocate ed a quote diverse, mostra una variabilità anche più piccola e precisamente da 3,8 decimi di cielo coperto del febbraio a 5,3 del maggio. Il primo semestre dell’anno è quello che segna la maggiore variabilità, mentre nei mesi da giugno a dicembre i valori variano tra 5,4 decimi di cielo coperto con una media che è uguale a quella annuale di 4,5. Sotto tale profilo si può quindi dire che il clima della Regione è piuttosto favorevole, tanto più quando si tenga presente il fatto che i mesi di gennaio e febbraio sono quelli che presentano i valori più bassi (3,9 e 3,8) e che anche il mese di agosto si distingue per un valore medio abbastanza basso (4,1). Quanto ad una comparazione delle singole località sembra di poter indicare tra quelle a valori medi annui più bassi le stazioni di Solda (3,1), Corzes (3,6) in vai Venosta, Colle Isarco (3,8) e Arco (3,9), mentre i valori medi annui più elevati si avrebbero a Trento, Faedo e Vipiteno (5,2) e a Santa Maddalena di Vallelunga (5 decimi).

    Alla nebulosità si collega anche il fenomeno dell’esistenza di nebbie, per la verità non molto frequenti in questa regione, anche se in qualche località non sia del tutto esclusa la presenza di nebbia. I pochi dati esistenti sono più che altro indicativi: il valore annuo massimo è di poco meno di 60 giorni con nebbia, registrato a Faedo, scendendo a meno di 45 per San Lorenzo e Montemaria; il minimo sarebbe registrato ad Arco con 1,8 all’anno. Nella distribuzione del fenomeno durante l’anno si avrebbero due massimi coincidenti con la primavera e l’autunno, il che farebbe supporre che la formazione delle nebbie non è da collegarsi a fenomeni di inversione della temperatura, come talvolta è stato affermato, ma piuttosto dalla condensazione del vapor acqueo in zone depresse (valli, conche), ricche di pulviscolo atmosferico.

    Precipitazioni medie annue nel trentennio 1921-50. Dalla carta delle isoiete della precipitazione media annua del trentennio 1921-50 dell’Ufficio Idrografico del Magistrato alle Acque (Venezia).

    Certamente assai più importanti e meglio documentabili sono le precipitazioni in quanto da tempo ormai tale elemento del clima è soggetto ad un’accurata indagine e raccolta di dati in base ai quali le condizioni medie possono dirsi abbastanza conosciute. A titolo di indicazione generale sono riportati nella Tabella III i valori per alcune delle stazioni di cui si dispone: come è agevole rendersi conto si tratta solo di un piccolo numero, rispetto a quello totale, che come già si è detto sono circa 150 pur limitandoci a considerare solo quelle che presentano un periodo di osservazione continuativo abbastanza lungo, da 20 a 30 anni.

    Volendo rendersi conto sinteticamente e non attraverso l’analisi dei dati delle tabelle, il quadro generale delle condizioni di distribuzione delle precipitazioni appare abbastanza evidente dalla carta della fig. a pag. precedente, desunta dalla carta del Servizio Idrografico del Ministero L.L.P.P. Si osserva facilmente anzitutto che rispetto alla quantità totale di precipitazioni la Venezia Tridentina presenta, su un territorio non molto vasto, una variabilità abbastanza notevole tra i minimi che si aggirano intorno ai 500 mm. annui e massimi intorno a 1700 mm., che forse per qualche località non controllata possono anche salire un po’ più in alto. Confrontando tali valori con quelli dell’arco alpino interno la annotazione più evidente che ne consegue è il fatto che i minimi si accostano di molto a quelli di altre piccole conche interne delle Alpi piemontesi (ad es., la conca di Aosta), mentre i valori massimi, pur essendo rappresentati da quantità in via assoluta abbastanza notevoli, soprattutto per una regione di temperature medie non molto alte, rimangono tuttavia lontani da quelli di due metri e oltre di precipitazioni, quali si riscontrano nel settore orientale alpino, situato a non grande distanza in linea d’aria.

    Un’altra osservazione può essere agevolmente desunta, anche a titolo di primo orientamento, e cioè che minimi e massimi interessano per la verità aree non molto vaste: i primi si trovano limitati al fondovalle di alcuni dei maggiori solchi vallivi, così la vai Venosta o alcune valli laterali delle più grandi, la vai d’Ultimo, qualche convalle della Pusteria, del solco dell’Isarco, della vai di Sole, ecc. I massimi di precipitazione annua sembrano invece caratterizzare taluni massicci montuosi e il lato sudorientale della regione, cosicché sorprendente può riuscire a prima vista l’analogia tra la carta altimetrica e quella delle precipitazioni medie annue. La parte prevalente della Regione, pur facendo le debite riserve di dettaglio, può dirsi irrorata da quantità di precipitazioni intermedie tra i valori estremi, oscillanti cioè da 600-700 mm. a 1400-1500 millimetri.

    Precipitazioni medie mensili (in nero) e totali dei giorni di pioggia (in colore).

    Pertanto la nostra Regione può essere suddivisa sotto tale riguardo in due zone definibili una come esterna e l’altra interna. Alla zona esterna appartengono la regione delle Dolomiti e zone adiacenti come in parte almeno la catena del Lagorài, la zona della conca benacense e delle Giudicane, la valle dell’Adige all’incirca fino alla stretta di Salorno, la valle di Non e di Sole. A titolo di esempio possono ricordarsi i 1203 mm. di Arabba, i 1663 mm. di Passo Rolle, gli 880 mm., di Cavalese ecc. e altre località con una media piovosità di circa un metro di acqua. Per la conca benacense si hanno quantità di precipitazioni circa dello stesso ordine di grandezza con valori per Riva di 1120 e per Arco 1125 millimetri. Di pochissimo più scarse nella media annua, appaiono le precipitazioni della valle dell’Adige con valori molto vicini tra loro e che si abbassano alquanto per San Michele (1012 mm.), Trento (1026 mm.), per Rovereto e Ala (1030 mm.). Alquanto più elevate sono le precipitazioni nelle Giudicane inferiori (Roncone 1425 mm., Bagolino 1542 mm., Condino 1302 mm.) e nelle Giudicane superiori (Tione 1398 mm.), cosicché tutta questa zona appare abbastanza ricca di precipitazioni totali, così da poterla considerare di tipo intermedio tra le zone più aride e quelle più piovose, costituite da alcune valli e conche protette dall’influenza del mare. Tipica in particolare è la vai Venosta, ove si riscontrano i valori più bassi (Montemaria 685 mm., Glo-renza 505 mm., Prato allo Stelvio 550 mm., Silandro 489 mm., Naturno 509 mm., Merano 729 mm.), e la valle dell’Isarco con i suoi affluenti principali (Rienza), ove facile è osservare che la quantità annuale delle precipitazioni sta intorno a 850 mm., con oscillazioni dal minimo di Bressanone (677 mm.) ai massimi, di poco sopra il metro, della valle di Funes. Da queste poche indicazioni, ma soprattutto dai dati riportati e ancor più dalla osservazione della carta appare chiaramente che i minimi sono situati nelle valli più interne e che in particolar modo la vai Venosta si presenta come un’isola di scarsa piovosità, ove si riscontra la caduta di circa un terzo delle precipitazioni totali in confronto alle aeree periferiche e in particolare a quelle più rilevate del settore sudorientale.

    Se di un certo significato appaiono i valori medi della piovosità e tali da dare una indicazione utile anche a taluni fini pratici, occorre però sottolineare che le oscillazioni annue possono essere abbastanza sensibili e raggiungere valori percentuali medi pari a circa il 140% per gli anni più ricchi di pioggia e scendere a minimi del 66% per quelli più poveri. Nell’anno più ricco di precipitazioni per alcune località come Arco, Ala, San Michele si hanno valori nettamente superiori a quello medio con un massimo del 154% per San Michele all’Adige, mentre per le stazioni di Cavalese, Rovereto, Colle Isarco e Montemaria i valori restano inferiori a quello medio, registrando, come già detto, il valore minimo nella stazione di Montemaria (vai Venosta). Anche per gli anni più poveri di precipitazioni si nota una certa oscillazione nei valori: infatti per Rovereto, Arco, Bressanone, ecc., si hanno rispettivamente il 72%, il 74% e il 78%, mentre si scende al 51% per Colle Isarco con notevole distacco dal valore medio rispetto all’anno più povero di precipitazioni.

    Considerando anche solo questi valori citati a titolo di esempio si può affermare che le oscillazioni influiscono negativamente sullo sviluppo economico-agricolo della Regione. Non è facile trarre qualche indicazione relativamente alla distribuzione altimetrica delle precipitazioni ; comunque si può affermare che l’aumento di oltre il 50% spiega l’esistenza di pericolose piene soprattutto dell’Adige che hanno determinato poderosi lavori di arginatura del fiume e la realizzazione di costosi progetti di decapitazione delle piene, come quello alle acque del lago di Garda con galleria sottopassante il gruppo del Monte Baldo, nella zona settentrionale. Anche però nelle fasce altimetriche elevate le variazioni delle precipitazioni sono assai sensibili, sebbene i loro effetti non siano così pericolosi per la utilizzazione del suolo (bosco, prato-pascolo e pascolo) che vi è caratteristica.

    Un carattere che risulta abbastanza evidente dall’esame dei dati riportati è quello del regime annuo delle precipitazioni, quale risulta documentato dai dati analitici. Comunque un’osservazione già accennata e ampiamente documentata è l’esistenza di un minimo invernale che culmina con valori più bassi in gennaio (regime equinoziale). Il fenomeno è generale in tutta la Regione con una accentuazione verso valori assai bassi intorno a 100 mm. di acqua e anche meno per quelle valli interne, come la Venosta o la valle dell’Isarco, ove già si è detto esistere i minimi annui di precipitazioni.

    Diverso è invece il comportamento negli altri mesi, per i quali — anche limitando i riferimenti ai soli valori stagionali — appare abbastanza evidente, in prima approssimazione, la distinzione tra la zona esterna e quella interna, già sottolineata. In linea di massima è caratteristica nelle zone meridionali della Regione l’esistenza di due massimi di precipitazioni (regime continentale) : uno cade in maggio e un secondo in ottobre ; generalmente questo è più marcato, ma tale regola soffre qualche eccezione e soprattutto la differenza tra il massimo primaverile e quello iniziale dell’autunno non è molto marcato. Si osservino a tale proposito i valori di Tione, Riva sul lago di Garda, Ala e Rovereto in vai d’Adige, Malè e Fondo nella valle del Noce, Paneveggio e Cembra lungo il solco dell’Avisio. Non infrequentemente (regime di transizione) appare anche un terzo massimo, estivo, nel luglio che talora, ma solo eccezionalmente e con scarse differenze, supera gli altri due, come nelle stazioni di Predazzo, Cavalese e varie altre località. L’accentuazione di un solo massimo estivo del mese di luglio e talora di quello di agosto e l’attenuazione sempre più evidente di quelli di primavera e di autunno è la caratteristica del regime della zona interna, senza che, quindi, l’orientamento delle valli, la altimetria del fondovalle, il tipo morfologico della valle e l’altitudine delle stazioni esercitino una speciale influenza. A tal proposito si possono utilmente confrontare anche i valori medi della temperatura, che documentano un abbassamento abbastanza rapido della temperatura nell’autunno, carattere del clima padano-mediterraneo, mentre il massimo estivo delle precipitazioni è tipico del clima medio europeo.

    Il regime stagionale delle precipitazioni e la latitudine lungo il versante meridionale delle Alpi orientali.

    I e II, regime equinoziale; III e /V, regime di transizione; Ve V/, regime continentale. – Da 200 stazioni funzionanti nel trentacinquennio dal 1896-1915; 1921-1935 (da Dona).

    Ancora una osservazione può essere consentita sul regime pluviometrico : il minimo mensile cade costantemente per tutta la Regione nel gennaio-febbraio e in secondo luogo che rimane confermata l’esistenza dei due massimi più evidenti di maggio e ottobre con uno meno accentuato in luglio per la regione esterna ed un massimo più chiaramente localizzato in luglio per quella interna. Spiegazione possibile a tale differenza nei valori può esser trovata nel fatto che l’intensità unitaria delle precipitazioni rimane più o meno costante nel periodo più lungo dell’anno dall’aprile a ottobre-novembre, mentre muta in gennaio-febbraio.

    Un certo significato può avere l’esame del numero dei giorni di pioggia (cfr. Tabella III). Tenendo conto dei valori annui è abbastanza agevole rendersi conto che su una sessantina di stazioni, 23 sono caratterizzate da 91-100 giorni di pioggia annua, mentre 25 ne hanno meno, da 70 a 80 e solo 12 registrano oltre 101 giorni. E però da notare che solo cinque stazioni hanno valori pari o inferiori a 70 giorni (Glorenza, Mazia, Naturno, Cermes, Cembra) e quattro (Colle Isarco, Riva di Tures, Paneveggio, San Martino di Castrozza) superano i no giorni all’anno. Naturalmente questi valori medi annui hanno significato puramente indicativo, per quanto si possa anche riscontrare una certa corrispondenza tra le aree delle minime precipitazioni assolute e i minimi di media giornaliera (vai Venosta) e i massimi (alta vai Cismón). Meno chiare le indicazioni relative ai massimi: più frequentemente, quasi per la metà, il massimo corrisponde al mese di maggio, ma non mancano anche segnalazioni per i mesi di giugno, luglio e agosto con leggera prevalenza del luglio.

    Trento sotto la neve.

     

    Poco apprezzabile risulta anche una differenziazione altimetrica in tal senso, così come poco evidente appare anche una valutazione del diverso numero dei giorni di precipitazioni con il variare dell’altezza. Le stazioni poste al di sopra dei 2000 m. sono pochissime, ma anche quelle tra 1500 e 2000 m. sono sempre in numero ridotto. Di conseguenza le conclusioni delle variazioni di questi fenomeni con l’altezza restano ancora alquanto incerte ed approssimate.

    Di riflesso e in collegamento con questi valori medi sono quelli relativi alle manifestazioni temporalesche, accompagnate o meno da caduta di grandine. Dai dati raccolti (1926-1955) si desume il numero di 710 temporali a Trento, oltre a 13 senza precipitazioni, mentre per Bolzano il numero totale si riduce al disotto della metà (343), oltre a 12 senza precipitazioni. Da questi valori si deduce che il numero medio annuo di temporali è assai più elevato per la stazione di Trento (24,1) che per quella di Bolzano (15,3). Accanto a questi valori medi può avere un certo interesse il rispettivo numero di casi di grandinate con o senza temporali che risultano per Trento di 20 e per Bolzano di 17. Interessante può essere anche il fatto della registrazione di temporali lontani, il cui numero corrisponde a poco più del 10% (75) del numero totale per Trento e scende al disotto di tale valore (23 contro 343) nel caso di Bolzano.

    Nella illustrazione delle precipitazioni e dei loro caratteri non si è finora fatta differenza tra pioggia e neve. Ma è ben risaputo che tutta la Venezia Tridentina è interessata da questa bianca veste che ne ammanta i monti e spesso le valli, durante la stagione invernale.

    Durata del periodo continuo di innevamento (secondo Dona).

    Cartogramma dell’altezza media annua delle precipitazioni nevose.

    Senza volerci riferire a dati, che non sempre sono disponibili, perchè questo fenomeno è stato, ed è meno sistematicamente indagato in confronto alle piogge, si può affermare col Donà che l’altezza della neve — sia essa considerata nei suoi valori medi mensili che in quelli annui — dipende in primo luogo dall’altitudine, la quale, come di solito, influisce nel senso di accentuare le precipitazioni sotto qualsiasi forma esse si verifichino, così come accresce la parte di queste che cade sotto forma di neve.

    Le caratteristiche della durata del periodo di neve al suolo e l’altezza delle precipitazioni sotto forma di neve per la regione considerata e per alcune stazioni di contorno prossime però al Trentino sono illustrate nella fig. a pag. 164.

    Da essa si deducono i valori medi della durata della neve al suolo in copertura continua e la massima altezza del manto nevoso. La figura di pag. 165 dà invece l’altezza media annua delle precipitazioni sotto forma di neve. Dall’esame anche solo dei grafici, oltre che da quello dei dati delle stazioni considerate, tenendo conto che si tratta di valori medi di quasi 30 anni e di conseguenza abbastanza indicativi, si può dedurre l’esistenza di un regime nivometrico prealpino, caratteristico di tutto il bordo sudorientale del Trentino caratterizzato da un massimo di neve localizzato stabilmente in gennaio con altezza media di neve tra 130 e 150 cm. e un numero medio con precipitazioni nevose di 15-16 giorni. L’epoca di caduta di neve va dalla terza decade di ottobre alla prima o seconda decade di aprile con un mantello nevoso continuo della durata di 75-78 giorni, tra la seconda e terza decade di dicembre e la prima e seconda decade di marzo. Il massimo spessore della copertura media cade di solito nella seconda decade di febbraio (35-50 cm.), ma con anticipo alla fine di gennaio per le località più interne di questa fascia, come si verifica ad esempio per Caoria in valle del Vanoi (affluente del Cismón).

    Abeti ricoperti di neve.

    La neve si sta sciogliendo al Passo del Montozzo.

    Tale regime presenta una variante altimetrica caratteristica delle località più elevate e dei valichi, in cui si ha essenzialmente un’altezza media mensile in febbraio poco diversa da quella del gennaio (50-52,4 cm.), un totale medio di neve dell’inverno e un numero di giorni nevosi superiori. Ciò non denuncia in sostanza le caratteristiche del manto nevoso, cioè la lunghezza del periodo di innevamento e lo spessore, che sono, nonostante le maggiori quantità di neve ricevuta, piuttosto bassi. Si nota solo una diminuzione dell’altezza nella prima decade di febbraio; è probabile però che le differenze tra la fascia più alta e quella sottostante siano dovute a diversità di altezza e alla instabilità e variabilità del manto nevoso sui valichi e nelle parti più esposte al vento.

    Il secondo tipo di regime nivometrico è quello delle vallate alpine interne, caratterizzato da quantità di neve pressoché costanti nei tre mesi di dicembre, gennaio e febbraio, nei quali si condensano circa i tre quarti delle nevi invernali. In alcune località di valle però si osservano valori di una certa entità anche in novembre e marzo, così da poter distinguere altimetricamente un regime delle basse e uno delle alte valli. Al primo può assegnarsi Vipiteno (1000 metri circa), mentre Sant’Elena d’Ultimo e San Martino di Castrozza, così come Cortina d’Ampezzo, vanno ascritti al secondo tipo per l’attenuarsi degli scarti tra i valori medi. L’altezza media della neve dipende principalmente dalla posizione della stazione e dall’orientamento delle vallate e risulta quasi sempre inferiore ai 2 metri. Il numero di giorni di nevicate è di circa 20 giorni per le località più basse e di 30-35 per quelle più elevate.

    L’epoca di caduta di neve è più o meno lunga a seconda dell’altitudine con inizio nella seconda o terza decade di ottobre e fine nella prima di maggio. La durata della copertura di neve continua al suolo è variabile tra no e 150 giorni con inizio tra la metà di novembre e quella di dicembre e fine tra la metà di marzo e quella di aprile a seconda della quota. Anche il massimo di spessore del manto nevoso si osserva regolarmente tra la seconda decade di febbraio e la prima di marzo.

    Neve e ghiaccioli a Peitlerkofel (Sass du Putia).

    E da notare che un regime particolare presentano le aree più elevate, intendendosi per tali quelle al disopra dei 1800 metri. Le condizioni sono caratterizzate da un rilevante aumento di tutti i valori e in particolare di quelli primaverili. Le altezze medie della neve caduta superano i 3-4 m. all’inverno con un numero di 34-40 giorni di neve, che può cadere tra la fine di settembre e la prima decade di giugno con durata di neve al suolo permanente di 170-190, giorni dai primi di novembre agli ultimi di aprile. Gli spessori massimi si riscontrano mediamente nella prima decade di marzo con valori però superiori ad un metro per periodi abbastanza lunghi tra la prima decade di gennaio e l’ultima di aprile, cosicché si può affermare che alla fine di aprile la scomparsa del manto nevoso è rapidissima, anche a quote elevate e la sua persistenza fino a date più tarde non è continua, ma limitata alle aree meno esposte e più protette.

    I venti e i regimi del tempo

    Se abbondanti possono definirsi le osservazioni della temperatura e delle precipitazioni, nonché i dati di riferimento anche a taluni particolari aspetti di fenomeni come i temporali, non altrettanto può dirsi per le osservazioni sul vento, soprattutto per diverse quote, anche se potrebbe sembrare abbastanza agevole l’impianto e il funzionamento di stazioni anemometriche a quote diverse e a piccola distanza lineare tra loro. Il solo osservatorio di cui siano disponibili dati a diverse quote è quello di Trento. Un problema di carattere generale ha un certo interesse per questa Regione: i venti di caduta determinati dal contrasto di condizioni barometriche tra le aree mediterranee e più propriamente della Pianura padana e quelle delle aree di larghe depressioni vallive o di pianure dell’orlo esterno delle Alpi. Dalle diverse condizioni del tempo a nord e a sud delle Alpi derivano spesso periodiche correnti di conguaglio, che si manifestano al suolo ed entro le valli come venti di caduta ed assumono i caratteri del fòhn, indipendentemente dalla loro direzione.

    Meglio conosciuto e di solito più importante è il fòhn meridionale, la cui origine trovasi soprattutto nelle zone a più basse temperature dei gruppi montuosi e segue normalmente l’esistenza di minimi barometrici nella zona prealpina. Tali correnti d’aria si manifestano di conseguenza come vento caldo e asciutto solo in discesa e segue soprattutto le vallate dirette verso settentrione, così come dovesse trattarsi di veri e propri canali di scorrimento. D’altra parte l’esistenza di valli allungate da ovest verso est, come la Pusteria, rende impossibile il deflusso di masse fredde da nord verso sud, cosicché anche venti del settentrione, freddi, arrivano nelle zone più depresse delle valli interne e delle conche della Regione come venti di caduta. Di solito il fòhn meridionale è più frequente in inverno e primavera e perciò ha una notevole importanza nei confronti dello scioglimento delle nevi, così da giustificare l’affermazione che « il fòhn mangia tanta neve in una giornata quanta ne mangiano due settimane di sole ». E di conseguenza provoca spesso col disgelo grosse e improvvise piene; contribuisce però, quando si verifica nell’autunno, a far maturare le messi e l’uva, specialmente nelle fasce più elevate e verso il limite alti-metrico delle colture. Nell’autunno è però più frequente il fòhn settentrionale; esso di solito non comporta aumento della temperatura d’inverno e durante l’estate. Al meccanismo stagionale del fòhn fa riscontro quello giornaliero delle brezze quali venti caratteristici delle zone montuose in generale e della Venezia Tridentina in particolare. Sono essi venti locali di origine e meccanismo ben noti e che si mostrano tanto più regolari quanto più stabile è la situazione del tempo. Spirano di notte e nelle prime ore del mattino dalle sommità fortemente raffreddate alle valli ed in queste talora fin verso lo sbocco; nel pomeriggio soffiano in direzione contraria e sono noti con nomi locali diversi intesi in genere a sottolineare la provenienza dal monte o dalla valle. Corrispondenti ad essi sono i venti della sponda settentrionale del Garda; forse a causa della regolarità la brezza che dal lago spira verso terra è chiamata ora ed è così rinforzata specialmente nella sua corsa lungo i tratti di valle orientati da sud verso nord, basso bacino del Sarca, media porzione dell’Adige, da assumere carattere misto di brezza di monte, così che si fa sentire anche lontano dal lago e nella parte più interna della Regione. Più probabilmente però che un significato di regolarità il termine di ora deve richiamare il latino aura, così come il sover di alcune valli trentine (Cembra, ecc.) che indica venti di provenienza dall’alto (brezza di monte) si rifà a superus del latino.

    La vegetazione e la fauna

    Per la distribuzione della flora la Venezia Tridentina può essere suddivisa in due zone principali, che corrispondono a due grandi formazioni geologiche: quella in cui prevalgono rocce a componenti silicei, e quelle caratterizzate da calcari e da dolomie. La prima, come già si è detto, è formata da un tratto della catena principale delle Alpi, dal Passo di Resia, fino alle depressioni di San Càndido e ai vari gruppi che si succedono lungo lo spartiacque principale; devonsi altresì aggiungere i gruppi dell’Ortles, dell’Adamello, la Cima d’Asta e la formazione porfirica, cosicché questa zona comprende tutta la vai Venosta, parte delle Giudicane superiori e inferiori, dell’alta vai di Sole e dell’Avisio e il versante destro della Pusterìa. La seconda formazione comprende anch’essa zone che sono a cavallo dell’Adige, così parte delle basse Giudicane e del Monte Baldo e il gruppo di Brenta a occidente, i Lessini, le Alpi calcaree di Fiemme, le Dolomiti di Fassa e di Gardena.

    La zona silicola è caratterizzata da piante caratteristiche essenzialmente delle regioni settentrionali dell’Europa, dell’Asia e dell’America tra le quali si possono ricordare i Carex e le genziane (Gentiana nana e Gentiana prostrata). Posizione a parte occupano tutta una serie di altri tipi che rappresentano degli endemismi estesi dall’Engadina alla Stiria.

    Più varia e ricca è la flora della zona calcareo-dolomitica, ricca di specie endemiche, che pur non essendo esclusive della regione, contribuiscono però a formare una collana ricca e varia di specie.

    Alcune vallate del Trentino, aperte verso mezzogiorno, come quella del Chiese, del Sarca, dell’Adige e del Brenta, strette entro ripidi versanti e col fondovalle a modesta altitudine, ma spesso abbastanza sviluppato, come i bacini di Lavis, Mezzolombardo e Ora presentano particolari caratteri climatici e determinano condizioni floristiche di tipo mediterraneo, così da poterne riconoscere l’aspetto sia nella vegetazione arborea di alta statura sia in quella più minuta e meno appariscente, ma non meno importante. Così l’erica arborea e l’ulivo che rivestono le sponde del Benaco e del lago d’Idro fino a Riva e a Lodrone, i cipressi, l’alloro, l’opunzia, il rosmarino, i fichi e i capperi, che oltre ad ornare i versanti del Garda, si annidano, pendendo dalle roccette e dai muriccioli dei più riposti recessi solatìi fino alla conca di Bolzano e di Merano; anche se ridotti a scarsi esemplari dall’aspetto poco sviluppato testimoniano favorevoli condizioni climatiche attuali e più ancora ricordano quelle del passato quando un mare, sia pure a volte più freddo dell’attuale Mediterraneo, lambiva le pendici delle Alpi, almeno nella porzione più orientale della Pianura padana. Ma accanto a formazioni floristiche che ci ricordano e sono testimoni di un clima a miti inverni, esistono tracce sicure di un clima steppico con scarse precipitazioni. Così la Stipa, l’Achillea e altre ricordano tali condizioni e la loro associazione a specie più tipicamente montane e fredde costituiscono il carattere saliente della vegetazione delle valli più incassate e meridionali, dove accanto a ulivi e opunzie vivono rododendri, sassifraghe e primule.

    E infine frequenti e caratteristiche le associazioni lacustri e delle torbiere, relitti dell’espansione glaciale quaternaria. La distribuzione qualitativa delle specie denota e documenta non solo le variazioni climatiche nelle ultime vicende geologiche della Regione, ma altresì l’esistenza di piccole aree microclimatiche che assumono aspetti floristici anomali, dovuti a variazioni locali. Non solo sono note tali isole in relazione a « frigoriferi naturali » reperibili in varie località della Regione, dovuti spesso a conservazione di neve o di ghiaccio invernale per periodi più lunghi della durata media, ma frequenti sono tali isole soprattutto in relazione all’esposizione o ad aree che per la loro posizione orografica non godono mai, o solo per poche ore, il sole anche nella stagione più favorevole. Tali isole, che consentono proprio attraverso i caratteri e la composizione della flora, la individuazione delle aree microclimatiche, costituiscono uno degli elementi più interessanti nella distribuzione della flora.

    All’aspetto della distribuzione qualitativa delle specie si unisce nel quadro generale l’interesse per il modo come la flora si associa in formazioni vegetali, chiuse o aperte, determinate in particolare dal fattore dell’altitudine. Di qui ne è derivata una ripartizione di fasce altimetriche, abbastanza ben differenziate e individuabili nella loro composizione più tipica.

    La fascia inferiore, fino ad un’altezza che sta, mediamente, intorno agli 800-900 m., è rivestita da un’associazione di piante caratteristiche della tipica vegetazione mediterranea termofila e sempreverde con formazioni boschive, ormai però profondamente trasformate dall’uomo e sostituite da colture e da altre forme di utilizzazione del suolo. Tali associazioni vegetali, altimetricamente più basse, costituiscono il Lauretum (1), caratterizzato dalla flora corrispondente al clima temperato-caldo, distinguibile nella regione mediterranea in due sottosezioni con diverse caratteristiche termiche, che appare intorno al lago di Garda, anche nella parte settentrionale. L’area delle latifoglie corrisponde al Castanetum e al Fagetum, associazioni assai diffuse nelle vallate anche più interne, così da poter trovare una « buona corrispondenza fra estensione della zona fitoclimatica del Castanetum e diffusione nel bacino atesino delle querce termofile e del castagno » come afferma il Marchesoni. Tale area si estende infatti nel solco dell’Adige fino a Merano e si ricongiunge con il bacino medio e inferiore del Sarca attraverso la depressione di Vezzano e dei laghi di Santa Massenza e Toblino verso occidente, occupa la parte inferiore del bacino del Noce, mentre non si è mai estesa in quello dell’Avisio. Solo la porzione orientale, saldata anch’essa con il solco atesino, attraverso la sella di Pèrgine (valle del Férsina), è rappresentata dalla Valsugana, che al suo sbocco verso la pianura vede ricomparire il Lauretum. Ancor più sviluppata è, sempre però secondo le direttrici dei solchi idrografici maggiori o medi, l’area del Fagetum, anche se si debba richiamare che non vi è corrispondenza tra l’attuale distribuzione del faggio e l’associazione del Fagetum che caratterizza la flora delle Giudicane inferiori e superiori, del fondo-valle dell’Anaunia e di alcune convalli, della vai Venosta fino quasi a Malles e occupa buona parte del solco dell’Isarco fin verso la parte più interna. Ancora vaste aree a Fagetum sono quelle del bordo sudorientale della regione, tra la Valsugana e la pianura e tra il tratto superiore e medio del Brenta e la valle del Gismón. Senza voler dare una valutazione di area, quasi impossibile per le profonde alterazioni che l’uomo ha apportato, si può però affermare che quasi metà della regione rientra in queste formazioni finora ricordate.

    Prati di montagna con leggeri piumini di erioforo pendulo.

    Cosicché il resto è dominio del Picetum e dell’Alpinetum, cioè del bosco di conifere e della zona scoperta, priva di vegetazione arborea, sovrastante. Al disopra degli 800-900 m., appare il bosco a conifere, la più tipica associazione vegetale di tutta la Venezia Tridentina, bene sviluppata e distribuita con caratteristica continuità. Questi boschi, opportunamente curati e sorvegliati, verde distesa quasi continua, costituiscono uno dei cespiti economici principali. L’abete (bianco e rosso), il larice ed il pino cembro ne sono le specie principali e economicamente utili, mentre il pino mugo, che pure è distribuito quasi ovunque, è specie non utilizzata. In generale può dirsi che abete e larice non si differenziano dal punto di vista altimetrico: natura del suolo ed esposizione, oltre che talvolta e in misura molto ridotta, l’opera dell’uomo, ne determinano la localizzazione. Il pino cembro e il mugo invece sono solitamente caratteristici della fascia più elevata, verso il limite superiore del bosco inteso come formazione forestale chiusa. E ben vero che il limite del bosco non ha naturalmente né costanza né continuità. Tuttavia dove il suo sviluppo dipende solo da cause climatiche, alla loro volta dipendenti da fattori come la latitudine o la esposizione, esso mostra una altezza abbastanza uniforme, che può mediamente esser stabilita tra i 1800 e i 1900 metri. Ma gli scostamenti sono notevoli, così come ben visibili in molte vallate sono le interruzioni per cause varie. Prima tra esse la forma del terreno che determina variazioni molto notevoli dal valore medio sopra accennato con abbassamenti talora ragguardevoli di qualche centinaio di metri. Ma dove il clima, la morfologia e l’uomo concorrono, il bosco costituisce veramente una associazione chiusa, compatta, continua, così come quella del versante destro della media vai Venosta, del versante sinistro del tratto intermedio della Pusteria o dello stesso versante della vai Travignolo e della vai di Fiemme.

    L’ultimo larice (vai di Genova).

    Non sempre però il bosco verso l’alto si presenta in formazione chiusa, così da poterne identificare e localizzare il limite. Più spesso si sfrangia, si rompe con diradamento degli individui che lo costituiscono. E in tal caso si parla di due limiti, quello del bosco e quello degli alberi sparsi e questo è sempre superiore a quello con uno scostamento variabile e oscillante tra i 100 e i 200 m., come è facile rendersi conto osservando la distribuzione del bosco alle testate delle maggiori valli (del Sarca, di Sole, dell’Isarco, della Pusteria, di Fassa, ecc.) o delle loro grandi e piccole convalli. E spesso, in relazione più che altro all’esposizione, la fascia più alta è costituita dal pino cembro, noti quelli della Gardena, che si spingono in elementi isolati fin sopra i 2000 m., isolati ma in vista uno dell’altro, così da dare l’impressione di un mutuo appoggio ed assistenza e da costituire tipico elemento del paesaggio vivente. I boschi di conifere, più di quelli a latifoglie, anche perchè di questi sono rimaste solo poche tracce, costituiscono vere e proprie foreste di particolare notorietà e bellezza e, mercè le cure cui da decenni ormai sono circondati, di un rilevante reddito. Così la foresta di Paneveggio (vai Travignolo), un tempo demaniale e oggi sotto la oculata guida dei competenti organi forestali regionali, era nota per essere uno dei più bei boschi di montagna dell’ex Impero austroungarico; gli ampi boschi (oltre 20.000 ha.) della Magnifica Comunità di Fiemme che si estendono con impressionante continuità e compattezza lungo il versante sinistro del Travignolo-Avisio, dal rio Ceremana al rio Cadino. Cinque secoli di cure attente e continue, sempre all’altezza delle più perfezionate tecniche ne hanno elevato il pregio e il reddito. Foreste e boschi demaniali, comunali, di enti e di privati, sempre curati con vigile attenzione, si trovano in quasi tutte le maggiori e minori valli di tutto il Trentino e l’Alto Adige.

    Al disopra del limite del bosco la vegetazione continua nella zona denominata dai botanici Alpinetum: è un’area senza alberi, ricoperta da arbusti sempre più bassi e magri, ove predominano quasi assolutamente il pino mugo, il rododendro e il ginepro che si innalzano spesso fino a quote assai elevate (2200-2400 m.) o con tappeti erbosi di prati-pascoli e di pascolo a fiori variopinti e multicolori, il cui abito di solito più vivido di quelli delle quote inferiori è reso noto dalle più recenti indagini della fisiologia vegetale. La più alta fascia montana della Venezia Tridentina non è continua per l’interruzione delle valli e per la morfologia delle pareti dolomitiche che scendono talvolta precipiti fin sotto i 2000 m., ma i tappeti erbosi di alta quota occupano talora vaste distese a morbide ondulazioni, come le zone circostanti il massiccio del Sella e l’Alpe di Siusi, le distese di Campiglio, paradiso dei turisti solitari e degli alpinisti ancora amanti della solitudine. Chi ha visitato le montagne di questa Regione sa che non è il caso di parlare di un limite superiore della vegetazione.

    Bosco a Paneveggio.

    Solo in altissime testate di valli come nel Gruppo dell’Adamello-Presanella, su qualche gruppo dolomitico (Sella, Catinaccio, Marmolada) o in qualche tratto dei gruppi dello spartiacque il pascolo cede il posto alla roccia, al vero e proprio improduttivo a causa del clima o delle forme e natura del suolo. Le pareti verticali delle Dolomiti prive di humus, le coltri pendenti del detrito di falda arrestano e limitano le aree erbose e pascolive, frazionandole in lembi che rari pastori eli giovani bovini e di poche pecore o capre visitano nel breve periodo della stagione estiva.

    Le ampie distese dell’Alpinetum

    La vegetazione spontanea, nei suoi caratteri qualitativi e nella sua distribuzione altimetrica, conserva ancora un quadro naturale sia pure corretto e modificato ad opera dell’uomo, che tuttavia in qualche modo e con intenti di utilità interviene quasi ovunque. Il desiderio di lasciare intatte le condizioni naturali, di conservare i lineamenti floristici hanno più volte suggerito e guidato progetti di istituire parchi e zone protette. Non mancano aree ove il sottobosco e la vegetazione in genere sono meglio conservati per l’attenta vigilanza dei competenti e appassionati tecnici e ove più vivace è quindi la vita della flora; ma non esiste un vero e proprio « parco naturale ». Invece di recente è stato istituito un « giardino alpino » alla Viotte del Bondone, a 1538 m., realizzato già nel 1938 a cura del Museo di Storia naturale della Venezia Tridentina e di recente sistemato per interessamento degli organi regionali. Non è il solo delle Alpi e forse come data di nascita è l’ultimo; nelle 73 aiuole rupestri sono raccolte e sistemate, nel loro ambiente naturale di terreno e di clima, quelle specie più rare e inconsuete, cui già si è accennato, vicine a specie di ambienti analoghi, seppure di regioni molto lontane. Così dalla Campanula morettiana al Phyteuma comosum, dalle varie specie di Primula a quelle di Leontopodium alpinum, la nostra stella alpina, al Leontopodium nivale, la più piccola e lanosa stella alpina dell’Appennino ai Leontopodium himalaiani e siberiani; così dalle genziane alpine a quelle del Caucaso e del Tibet nel « giardino alpino » il visitatore potrà istituire utili ed interessanti confronti e lo studioso trovare ambiente adatto per la sperimentazione biologica e per la risoluzione di importanti problemi dell’economia montana.

    Un accenno può meritare, in connessione con la vegetazione, anche la fauna, giacché si può anzitutto affermare che la grossa fauna alpina è in questa Regione più abbondante che in altre Regioni italiane (Piemonte e Lombardia). Camosci e caprioli sono frequenti: stanziati più in alto i primi, nell’area tipica del bosco a conifere e pascolanti nei recessi più reconditi e tranquilli degli alti pascoli; più in basso i secondi che non rifuggono anche dalle medie altitudini ove trovano il bosco deciduo (700-800 m.). Tra i rosicanti quanto mai caratteristica la marmotta, confinata sopra i 2000 m., vigile e arguta osservatrice dei turisti di cui avverte il passaggio nelle montagne della vai Rendena, del Meranese e di varie altre località del Trentino occidentale. Abbondanti in tutta la Regione le lepri grigie e meno le bianche, delizia e cruccio dei numerosi cacciatori. Frequente lo scoiattolo elegante e giocoso e qualche altro roditore.

    Particolarmente raro, ma sempre segnalato, protetto e sorvegliato è l’orso, in alcuni comuni dell’alta vai di Sole e della vai di Genova. L’avifauna è anch’essa abbastanza abbondante sia quella stanziale, come il gallo cedrone e il francolino, sia quella di passo di cui alcune specie, come il lucherino e la peppola, svernano in Trentino, venendo dal settentrione. Rettili e anfibi contano qualche specie da menzionare: la vipera, anche se non frequente, ma in taluni casi pericolosa, la salamandra nera e il tritone alpestre. Nei numerosi laghi e abbondanti ruscelli e fiumi le trote di varie specie sono ancora presenti, come pure il salmerino nei laghi più alti e più freddi. Naturalmente situazione a parte sotto questo profilo ha il lago di Garda, la cui importanza per la pesca e anche per la cattura di uccelli di passo è di un certo rilievo.

    Alpinetum con vegetazione di piccole torbiere.

     

    Vedi Anche:  Distribuzione della popolazione e tipi d'insediamento