Vai al contenuto

Rilievi, altopiani e dolomiti

    Lineamenti e forme del rilievo

    Uno sguardo d’insieme

    La Venezia Tridentina è l’unica regione italiana che è completamente compresa entro al grande sistema orografico alpino e pertanto deve essere considerata come una regione interna, mancando qualsiasi contatto diretto col mare.

    E un paese essenzialmente montuoso e si cercherebbe invano, in essa, una pianura nel vero senso della parola, per quanto non manchino zone pianeggianti e a quota inferiore a circa 300 m., come ad esempio l’abbastanza ampio fondovalle dell’Adige dalla stretta di Verona fino a Merano ; i monti però sono la vera, intima realtà di tutta la Regione ed anch’essi sono il risultato tangibile dei diversi cicli orogenetici che interessarono tutta la catena alpina, ossia dei due o più corrugamenti avvenuti nella più antica età della Terra, dell’orogenesi ercinica nel Paleozoico e soprattutto del ripiegamento alpino terziario, con gli ultimi riflessi nel Quaternario. Tutti questi grandi fenomeni orogenetici, mutando le condizioni chimico-fisiche dell’ambiente in cui si trovavano le rocce preesistenti, ne provocarono la completa ricristallizzazione. In tal modo le originarie rocce sedimentarie o quelle di natura profonda vennero trasformate negli svariati tipi di rocce metamorfiche, quali le filladi, i micascisti, gli gneis e i marmi, ossia calcari spiccatamente cristallini.

    Tutto ciò si verificò prevalentemente a profondità media nella crosta terrestre o, usando un termine più appropriato, in condizioni di « mesozona », e in minor quantità in zona profonda (catazona). In molti punti esistono potenti lembi di scisti cristallini meno metamorfici, costituiti soprattutto dalle filladi quarzifere, che sono stati metamorfosati in un ambiente piuttosto superficiale. Oltre ai fenomeni di metamorfosi, durante i vari cicli orogenetici, ebbero importanza anche quelli eruttivi; questi, ad esempio, dettero origine alla massa effusiva della piattaforma porfirica di Bolzano, nota come la più grande massa di rocce consolidatesi in superficie, nel Permiano, di tutta l’Europa. La grande potenza verticale dei porfidi di Bolzano è però dovuta alla sovrapposizione di più colate successive, spesso separate tra loro da orizzonti di tufi, conglomerati e arenarie, in cui si nota una differenziazione con rocce ricche di silice man mano che si passa dalle colate inferiori (e perciò prime cronologicamente) a quelle superiori. Contemporaneamente in ambiente subaereo o sottomarino (non si dimentichi l’immenso mare mediterraneo chiamato Tetide che, fra l’altro, copriva anche la regione alpina nel Mesozoico ed al principio del Terziario) era attiva l’azione di sedimentazione dovuta nel primo caso ai materiali erosi e deposti altrove dalle acque correnti e nel secondo dal lento accumularsi al fondo di resti di organismi vegetali o animali nel vasto mare.

    Tonalite con filoni e aspetto dei porfidi

    Terreni di un terzo tipo assai importanti, geologicamente differenziabili e che indubbiamente concorrono a determinare la notevole variabilità di aspetto e di suolo, sono quelli di origine intrusiva, cioè di natura magmatica profonda, ma che si sono consolidati all’interno della crosta terrestre e che sono stati portati a giorno e scoperti solo in epoca più tarda rispetto alla loro origine. Sono queste le imponenti masse di graniti e tonaliti della porzione sudoccidentale della Regione (Adamello) al confine con il limitrofo territorio bresciano ed i graniti più spiccatamente tipici della Cima d’Asta, estesi tra il solco inferiore dell’Avisio a nord e quello superiore del Brenta a sud, mentre il confine verso est è grossolanamente fissato dalla valle del Vanoi. In questo terzo gruppo di rocce debbono anche essere ricordate le frequenti manifestazioni di carattere filoniano e intrusivo di manifestazioni vulcaniche antiche (terziarie) che hanno dato origine ad interessanti giacimenti più o meno utilizzabili e a ben note località mineralogicamente assai interessanti.

    Invertebrati marini fossili del livello di San Cassiano nel Trias alpino dolomitico.

    Carta geolitologica.

    1. materiali alluvionali recenti;
    2. arenarie, argille, conglomerati;
    3. calcari, dolomie e marne;
    4. calcari cristallini e calcescisti;
    5. paragneis, micascisti, fìlladi quarzifere, scisti quarzifici e quarziti;
    6. graniti, granodioriti e dioriti, apliti e pegmatiti;
    7. porfidi quarziferi, porfiriti e loro tufi;
    8. basalti, melafiri e loro tufi;
    9. ortogneis, anfiboliti e serpentini.

    Questi in breve i processi che hanno concorso a formare le rocce costituenti le nostre montagne, rocce che sono venute poi e vengono ancor ora modellate, incise e plasmate dalla erosione in tutti i suoi vari aspetti, fin da quando le Alpi emersero

    dal mare definitivamente. Com’è caso frequente nei sistemi montani disposti ad arco, anche nelle Alpi il lato concavo, o interno, verso la pianura padana, è ripido, mentre è ampio e con minori pendenze quello convesso od esterno, e questo si può notare particolarmente considerando le catene il cui spartiacque principale forma il confine attuale italo-austriaco.

    In tutte le Alpi orientali, in cui sono compresi i rilievi della Venezia Tridentina, si possono distinguere tre zone longitudinali: quella interna costituita da rocce cristalline in parte metamorfiche, e due periferiche date da rocce calcaree, intercalate da quelle di tipo granitico. In particolare nella Venezia Tridentina si può osservare come le lunghe valli dell’Adige, dell’Isarco e della Rienza separano a grandi linee le catene delle Alpi Atesine, che segnano col loro spartiacque il confine italo-austriaco, dalle Alpi Retiche meridionali a sudovest, e dalle Dolomitiche, a sudest della confluenza Isarco-Adige. La linea vai Càffaro-vai di Ledro-val Lagarina-Valsugana, stacca la zona alpina propriamente detta, a nord, da quella meridionale avente in parte caratteristiche prealpine.

    La vetta del Similaun.

    Le catene di confine

    A partire dal Passo di Resia (1508 m.) e procedendo verso oriente si innalzano i gruppi delle Alpi Venoste e Passine. Alla Venezia Tridentina appartiene tutto il versante meridionale, ossia l’area limitata verso settentrione dallo spartiacque principale della catena, che costituisce il confine geografico e politico dell’Italia con l’Austria fino al Passo del Rombo (2483 m.) e forma un ampio arco concavo verso il Tirolo a nord, la vai Passiria ad est e la vai Venosta a sud e a ovest.

    Le Alpi Venoste si presentano come una lunga serie di rilievi compatti, dai profili stanchi e lunghe creste festonate e seghettate irregolarmente, con altitudini pressoché uniformi nella linea di cresta ed evidentissime tracce di modellamento glaciale nella fascia più elevata, modellamento che, in parecchi punti, è ancora in corso.

    Il pendio si presenta assai più ripido sul nostro versante che su quello austriaco, a causa della generale immersione delle stratificazioni rocciose verso nord-nordovest, per cui l’erosione segue a settentrione i piani di scistosità e di inclinazione, che vengono invece incisi perpendicolarmente a sud. Ed è appunto per questa diversità di risultato dell’azione degli agenti meteorici ed erosivi sui due versanti, dovuto alla particolare giacitura degli strati rocciosi, che la catena presenta una tale caratteristica asimmetria, ed ha una maggiore estensione nella Repubblica Austriaca.

    Dominatrice di tutto il gruppo è la Wild Spitze, di 3774 m., che si trova fuori dei nostri confini e si eleva superba in un mare di ghiaccio, mentre la Palla Bianca, di poco inferiore con i suoi 3736 m., appartiene al crinale alpino come del resto la vetta del Similàun di 3602 m. e l’Altissima di m. 3480; questa segna il nodo di unione con le Venoste e le Alpi Passirie. Ad essa si salda anche, a mezzo del Passo Gelato (2895 m.), la Giogaia di Tessa, che si sviluppa a ferro di cavallo intorno al rio di Tel quasi a cerniera tra i due gruppi montuosi. Numerose le valli che incidono il rilievo dirigendosi verso i nuclei centrali: sono le valli del rio Carlino e del Puni, del rio di Mazia, di Silandro e la lunga vai Se-nàles che salgono dalla alta vai dell’Adige (vai Venosta) verso la Palla Bianca, nonché la valle di Pian, che, staccandosi dalla vai Passiria, dirama verso l’Altissima. Lungo tutta la catena predominano le rocce cristalline di natura metamorfica, la cui struttura si deve agli intensi corrugamenti che interessarono le Alpi nel Terziario, e in particolare prevalgono gneis fortemente mineralizzati e ricchi di bio-tite e di plagioclasi nella parte più occidentale del gruppo (fino alla vai di Planòl), in cui si notano vasti affioramenti di gneis tonalitici ed occhiadini ed un lembo di dolomia triassica in prossimità, questo, del lago di Mezzo. Dalla Palla Bianca al Simi-làun prevalgono gli micascisti con miche o granati che cedono nuovamente il posto od accompagnano gli gneis e altre rocce per lo più paleomesozoiche verso nordest per giungere al torrente Passirio.

    Le catene che costituiscono le Alpi Breonie (Stubaier Alpen) presentano un andamento prevalente meridiano e sono poste a cavallo del confine nel tratto compreso tra il Passo del Rombo e quello del Brénnero (1375 m.), il più importante valico che superi il confine della nostra regione verso nord, formato da un’ampia sella, abbastanza allungata in direzione trasversale rispetto alla linea spartiacque tra le due importanti valli dell’Isarco (Adige) verso sud e della Sili (Inn-Danubio) verso nord. Litologicamente e morfologicamente la catena conserva caratteri quasi identici a quelli del tratto di monti già descritti; se ne diversifica in alcuni punti ad ovest del Brénnero, per la presenza di alte pareti verticali, di creste dentate, di ampie fascie detritiche basali determinate da cime dolomitiche che contrastano in modo vivo con il grigiore del paesaggio circostante. A questo proposito può ricordarsi per la sua imponenza, il Tribulaàn, di 3096 metri. Il nodo centrale delle Breonie è la Cima del Prete (3454 m.), da cui si staccano verso nord-ovest la catena principale del gruppo di Stubai, appartenente all’Austria, che ha la sua massima cima nello Zuckerhiltl o Pan di Zucchero (35il m.) e in direzione sud ed est i due rami che per i versanti sudorientali appartengono al bacino isarchese e che sono pur essi solcati da numerose valli ; le principali sono la vai Ridanna e la vai di Fleres, alla cui testata si eleva il bastione del Montarso.

    Veduta della val Aurina.

    Pure in direzione prevalentemente nord-sud si svolgono i Monti Sarentini situati a mezzogiorno del Passo del Brénnero e compresi tra le valli dell’Isarco, dell’Adige e del Passino. Formano un’area subcircolare con alture maggiori disposte ad ampio semicerchio, aperto verso sud, che poggia i suoi estremi sulle città di Merano, Bolzano e Bressanone. Non sono molto elevati, e la Punta Cervina, coi suoi 2781 m., li domina tutti, mentre il torrente Tàlvera ne incide profondamente lo zoccolo di base.

    Rocce dominanti a nord sono gli gneis, i micascisti e le filladi quarzifere intersecate, lungo una linea che da Merano si dirige a Mules, da affioramenti di graniti biotitici e tonalitici. Questi hanno la loro massima estensione in corrispondenza al loro centro d’eruzione a nord di Bressanone, si spingono fin oltre l’Adige, a Monte Croce, passando poco a sud di Punta Cervina e collegandosi direttamente verso est alle analoghe formazioni del gruppo delle Vedrette di Ries.

    La strada dello Stelvio.

    Le pendici meridionali dei Sarentini trapassano nell’altopiano porfirico di Bolzano, con le rocce ad esso caratteristiche: porfidi quarziferi ed arenarie più o meno grossolane e variamente colorate di età permiana.

    Ad est del Passo del Brénnero riprende l’alta e ben delineata catena del confine nel settore che può dirsi delle Alpi Aurine le Zillerthaler Alpen, che culminano con il Gran Pilastro (m. 3510) e superano quota 3000 con diverse altre cime: la Croda Alta (m. 3287), la Cima di Mèsule (m. 3479), il Sasso Nero (m. 3370), il Monte Lavello (m. 3378), la Punta di Valle (m. 3210), il Monte Fimo (m. 3250). Non dissimili per struttura geologica e per forme dal resto della catena di confine esse di sviluppano in direzione ovest-est, avendo come confini meridionali la valle Aurina e la Pusteria (da Brunico a Bressanone) e raggiungono con la Vetta d’Italia, di 2911 m., il punto più settentrionale dello Stato a 470 5′ e 30″ di latitudine nord.

    In corrispondenza al Picco dei Tre Signori le Alpi Aurine si collegano agli Alti Tauri, che si prolungano verso est per quasi 200 km. come una imponente barriera priva di passi che permettano un agevole transito nella direzione dei meridiani.

    Però della regione alto-atesina fan parte solo le loro estreme pendici occidentali, chiamate da qualche geografo Alpi Pusteresi, che chiudono il grande arco delle catene di confine giungendo fino alla Sella di Dobbiaco. Prendono il nome dalla vai Pusteria che ne costituisce il limite meridionale e sono anch’esse formate da rocce per lo più metamorfiche: scisti al Picco dei Tre Signori (3499 m.), calcescisti al Pizzo Rosso di Predói (3495 m.), scisti con miche e filladi a Cima Dura (3130 m.), gneis a Pizzo Palù (3061 m.), tonaliti nel gruppo delle Vedrette di Ries con il Collalto (3435 m.), gneis granitico-muscovitici di Anterselva nel Monte Costa (2687 m.) e gneis granitici in vai Casies.

    Gruppi cristallini occidentali

    Ad occidente dell’alta vai d’Adige e del Passo di Resia si erge il gruppo cristallino di Piz Sésvenna (3207 m.) che forma il confine tra il Trentino-Alto Adige e la Repubblica Svizzera, a cui il gruppo stesso appartiene per tutto il suo versante occidentale. La catena si svolge nella direzione dei meridiani ed è interrotta nella sua porzione meridionale da un solco profondo, costituito dalla valle di Monastero col passo « il Forno ». Il suo limite è costituito a sud dalla vai di Trafói e dal Passo dello Stelvio (m. 2757), un famoso e frequentatissimo valico che mette in comunicazione la vai Venosta con la Valtellina. Nel tratto settentrionale della catena predominano gneis a biotiti e plagioclasi e non mancano filoni basici, diabasi e porfiriti, anfi-boliti e scisti a orneblenda e biotite, mentre spicca la dolomia a Diplopore di Piz Lat (2808 m.) al punto d’incontro dei tre confini italo-svizzero-austriaco.

    Nella parte meridionale, a sud della vai Slingia, si nota una maggior quantità di gneis, frequentemente milonitizzati che con i micascisti a due miche e, al Passo dello Stelvio, ricchi di lame e lenti di quarzite, costituiscono le rocce predominanti della zona. A « le Greppie » vi è un vasto affioramento di gneis granitici a muscovite, e un altro ve ne è al Cavalluccio.

    Il Gruppo Ortles-Cevedale occupa l’area che si estende a sud dello Stelvio, ed è compreso tra le valli Venosta, d’Ultimo, di Sole e la Valtellina. E indubbiamente uno dei più vasti e imponenti plessi montuosi, che può gareggiare nelle forme e nella ricchezza di ghiacciai con le non lontane Alpi Venoste, con cui condivide una copertura di ghiaccio della fascia sommitale di eguale estensione e potenza, pur dovendo notare che i ghiacciai sono in prevalenza estesi sul versante orientale, quello della nostra regione, anziché su quello occidentale (lombardo). E in ciò il contrasto con le Venoste, ove il mondo dei ghiacciai si sviluppa piuttosto nel tratto del versante austriaco.

    Il Monte Vióz dalla val di Sole.

    La vetta del Monte Adamello.

    Lo spartiacque principale, quello cioè che divide il gruppo tra la nostra regione e quella lombarda, compie un ampio semicerchio, convesso ad est, che ha come estremi lo Stelvio e il Corno dei Tre Signori ; ma, se si osserva dall’alto l’insieme delle catene che si staccano dal Monte Cevedale, tutto il gruppo ricorda un’aquila ad ali spiegate di cui la testa è formata dal Monte Confinale (3370 m.) e il corpo dal massiccio del Monte Cevedale (3764 m.). L’ala sinistra della figura è costituita dall’Ortles (3899 m.), la destra dal Monte Vióz (3644 m.), dalla punta San Matteo (3684 m.) e dal corno dei Tre Signori (3359 m.); le zampe infine, sono date dalla Cima Vertana (3544 m.) la sinistra e dalla Cima Venezia (3385 m.) e dal Gioveretto (3498 m.) la destra.

    Il paragone testé portato consente di sottolineare l’estrema complessità e varietà di questo gruppo; inoltre dalle poche cime principali ricordate può dedursi l’andamento piuttosto elevato delle linee di cresta, orlate dalle bianche e luccicanti distese dei ghiacciai e verso i solchi vallivi più profondi dal rivestimento abbastanza fitto e continuo dei boschi.

    L’Ortles è costituito essenzialmente da dolomia principale e del Norico superiore con calcari marnosi neri del Retico, laminati e interstratificati alla dolomia stessa, rocce che conferiscono, col loro comportamento, una nota di particolare arditezza alla vetta principale e alle altre cime vicine, del Gran Zebrù (3859 m.) e del Monte Zebrù (3140 m.).

    Non è così per il Monte Cevedale, e le pendici che abbracciano l’Ortles a sud e a nord, in cui dominano in modo assoluto le rocce cristalline.

    Non è una zona molto semplice, dal punto di vista geologico e tettonico. Tutt’altro! Nel suo insieme è un’area a intenso corrugamento con strati verticali o perlomeno molto fortemente inclinati, e il geologo rilevatore trova un ulteriore ostacolo al suo lavoro nella vasta area coperta dai ghiacciai e nella gran quantità di morene antiche e recenti che con i materiali detritici di falda e le frane occultano in molti luoghi la roccia in posto.

    Il Monte Adamello e la Cima Presanella rispettivamente di 3554 e di 3556 ni. sono le due cime che dànno il nome al gruppo sudoccidentale della Regione, che forma il cosiddetto « massiccio intrusivo dell’Adamello » (Gruppo Adamello-Presanella). I suoi limiti sono abbastanza ben definibili nell’accezione più ampia che copre una vasta area tributaria, per la porzione trentina, del Sarca e del Chiese. Il gruppo si estende a sud della vai di Sole, che per il Passo del Tonale (1883 m.) comunica colla vai Camònica; il limite orientale del gruppo, che è affiancato ad est dal gruppo di Brenta, è ben individuato dalla valle del Sarca. Verso sud si spinge, staccandosi dal-l’Adamello, la catena montuosa che fa capo al Crozzon di Lares (3354 m.) e prosegue col Carè Alto (3462 m.) e la Cima Cop di Breguzzo (2997 m.): vista dall’alto, o su una carta geografica, essa assume la curiosa figura di un pesce. Nelle regioni elevate della Presanella, e in modo ancor più evidente in quelle dell’Adamello, domina il carattere dell’altopiano; è poi da notare come in tutto il gruppo le cime più basse siano disposte intorno ai due colossi principali lungo le linee che irradiano da essi, linee separate da valli profonde, di cui la vai di Genova è una delle più note per la sua selvaggia bellezza, ricca di cascate e di pascoli e disseminata di laghi, alcuni dei quali notevolmente estesi e profondi. Altra importante valle, che si interna nel lato meridionale del gruppo, è formata dal solco del corso superiore e medio del Chiese a monte del suo sbocco nel lago d’Idro: essa forma due note valli quella di Daone, inferiore, e quella più tipica di alta montagna, la vai di Fumo.

    La Cima Presanella.

    Il plutone dell’Adamello è un classico esempio di un apparato intrusivo, prevalentemente discordante con gli strati circostanti che si restringe verso il basso quasi a forma di imbuto. Il magma si è adattato ad una struttura geologica preesistente, formatasi durante l’orogenesi alpina per l’interferire di alcune direttrici tettoniche diversamente orientate tra loro: la conformazione ad imbuto dell’Adamello presenta perciò in un certo senso, un caso di struttura ereditata. Le rocce che costituiscono la massa intrusiva sono rappresentate da tonaliti a grana media, dette del tipo Adamello-Presanella e localizzate appunto sulla Presanella e tra l’Adamello e Monte Re di Castello, da graniti e granodioriti interposti tra le tonaliti or ora menzionate, e infine da tonaliti a grana minuta nella parte sudorientale del massiccio Monte Re di Castello.

    L’Altopiano porfirico di Bolzano

    Nel Permiano più tardo, si è avuta tutta una serie di manifestazioni dovute a sconvolgimenti della superficie terrestre la cui traccia evidente è costituita dalla piattaforma porfirica atesina che nel suo insieme occupa un’area di circa 4000 kmq. e raggiunge una potenza verticale che va dai 300-400 m. fino a 1400 m.

    E situata proprio al centro della regione intorno a Bolzano sulla sponda sinistra dell’Adige e si presenta come un vasto altopiano, quantunque percorrendo la tale valle si distinguano perfettamente le masse porfiriche, per il loro colore scuro e la fitta fessurazione verticale, dalle soprastanti masse calcareo dolomitiche del Trias medio.

    La val d’Adige si insinua nel tavolato porfirico.

    Le famose Cime di Lavaredo da ovest con le pareti più verticali che si conoscano.

    Il limite settentrionale si può far correre lungo una linea che unisce Merano alla vai Gardena, mentre il versante sinistro dell’Avisio-Travignolo ne costituisce il confine meridionale. Lungo la valle dell’Adige è ben netto il limite occidentale, mentre più complesso è quello orientale, per il modo in cui si compenetrano tra loro l’area porfirica ad est fino a Falcade poco al di là dello spartiacque dell’Adige (Avisio-Travignolo) e quella dolomitica del Piave (Cordévole) ; infatti vi si elevano i gruppi dolomitici del Catinaccio, del Latemàr e all’estremo sud, tra l’area porfirica e la Valsugana, il massiccio granitico di Cima d’Asta (2847 m.), che alcuni autori uniscono alla catena del Lagorài per formare il gruppo Cima d’Asta-Lagorài, compreso tra la Valsugana e la vai di Fiemme.

    Il plesso di Cima d’Asta si innalza con la massa granitica sulle filladi quarzifere della Valsugana e si estende da sud-ovest a nord-est in una lunga catena variamente ramificata a cui appartengono anche il Col della Croce (2443 m.), il Monte Tolva (2342 m.), il Passetto (2563 m.), il Cimón Rava (2434 m.), e la Cima Ravetta (2267 m.).

    Nel complesso quindi quest’area porfirica non costituisce un ben definito gruppo montuoso giacché interessa i lembi esterni, geologicamente più antichi e quindi in giacitura normale, sottostanti alla serie sedimentaria calcareo-dolomitica del Mesozoico e del Terziario. L’estensione da Bolzano a Lavis, lungo il corso medio dell’Adige o da Ponte all’Isarco lungo il fianco sinistro della vai Gardena e più oltre verso la valle di San Pellegrino e del Biois fino a Falcade e la lunga bastionata o « cuesta » che dal Passo di Rolle si spinge verso sud-ovest fino a Lavis, sono le direttrici principali e dànno idea della sua notevole estensione. Anche queste semplici indicazioni confermano che l’unità è data dalla natura geologica cioè della caratteristica natura di imbasamento di questi vasti espandimenti effusivi, prodotti da magmi fluidi, di imponenti eruzioni lineari. Altro elemento poi comune a questa piattaforma è quello morfologico, giacché la stessa origine di questa piattaforma ha escluso il carattere tipicamente aspro dei rilievi e delle forme.

    E questo un vasto complesso che solo per una certa comodità descrittiva può star riunito tutto insieme e che in realtà si deve considerare legato insieme con un più vasto sistema dolomitico, quello ampezzano e cioè appartenente alla alta regione veneta entro i limiti dei suoi bacini idrografici, di cui uno dei più importanti è quello del Piave coi suoi affluenti Ansièi, Boite, Maè e Cordévole, in parte o spesso tutti formati da dolomie. Così i vari sottogruppi su indicati col nome della vetta principale e più nota rappresentano quasi una corona di un più vasto complesso che domina l’alta valle del Piave e dei suoi tributari già ricordati; di questo complesso fanno parte alcuni dei gruppi dolomitici più noti. Così in vista delle Dolomiti di Sesto sta il gruppo delle tre celebri Cime di Lavaredo, che poi alla loro volta proseguono senza soluzione di continuità, se non quella di profonde valli, nelle Marmarole, nel Sorapiss-Croda Marcora.

    Dirupi di Larséc.

    Le Dolomiti

    Le Alpi Dolomitiche sono ben diverse anzitutto per origine e natura geologica dai gruppi cristallini fin’ora considerati e si sviluppano con un’infinita varietà di forme in cui figurano guglie slanciate, tozzi castelli e torrioni, mura esili, risultato del lavoro di miriadi di organismi costruttori (coralli e madrepore) o dal depositarsi delle conchiglie di una ricca fauna di molluschi e delle impalcature calcaree di alghe (diplopore) sul fondo del mare che nel Trias occupava questa zona.

    Uno scritto di Antonio Berti dal titolo Appunti per una storia alpinistica delle Dolomiti orientali, così comincia:

    « Probabilmente è esatto, e comunque è bello, aprire la storia delle Dolomiti con l’uomo dal quale esse derivano il nome: Dieudonné de Dolomieu, geologo francese, che nel 1788, a 38 anni, compì il primo viaggio tra le pallide montagne racchiuse tra Adige, Isarco e Rienza, e ne ritornò fissando per primo la distinzione tra dolomite e calcite e facendo conoscere nel mondo degli scienziati un paesaggio alpino particolarissimo.

    « La storia, continua Berti, si apre con un altro straordinario nome, che con la sua grandezza richiamò l’attenzione sulle Alpi tirolesi e atesine, se pure non specificatamente sulle Dolomiti: col nome di Goethe, che, due anni prima di Dolomieu e due anni dopo, attraversò tre volte (il secondo anno due volte) le valli dell’Isarco e dell’Adige, e si soffermò a Bolzano in vista delle Dolomiti, del Giardino delle Rose tutto raggiante di sole. Dopo essere già stato ammaliato dai ghiacciai d’occidente, “sentì” anche questo mondo rupestre, pur tanto diverso da quello, come poteva sentirlo una mente simile (“Mi sembra di essere come un fanciullo, che impari solo ora a vivere “).

    « Ma mentre contempliamo Goethe entusiasta di fronte alle Alpi orientali, un’altra figura sovrana sorge, dietro di lui, campeggiante lontana nel tempo. Già due secoli e mezzo prima, le Dolomiti irte di cuspidi erano apparse tra l’iride di colori del loro figlio più grande, di Tiziano, il cui spirito sempre aleggerà su quel cielo…

    ” diffusa

    anima erri tra i paterni monti… “.

    « Alzato il sipario con questi tre nomi augurali, un italiano, un francese, un germanico, meglio è dire tre cittadini del mondo (l’arte, la scienza, la poesia), ecco, solitario e severo, col suo lungo bastone, il primo alpinista che avanza.

    « Nel 1790 un botanico di Klagenfurt, della Compagnia di Gesù, il barone von Wulfen, professore di fisica, uno dei promotori della prima ascensione del Kleinglockner e del Grossglockner, pioniere dei pionieri, dunque, delle Alpi Orientali, lo svelatore delle Steiner Alpen, si addentrava in vai Braies, saliva all’alpe di Seria e sul modesto Lungkofel (il Monte Lungo di Braies) e quattro anni dopo ritornava in quella stessa valle e ascendeva ” il Geisl, il monte più alto delle Alpi di Braies “, che probabilmente è una cima del gruppo della Croda Rossa d’Ampezzo. Sono le due prime salite nelle Dolomiti orientali fissate con certezza dalla storia.

    « Qui sorge un più lontano ricordo : sessantaquattro anni prima, nei monti dell’Al-pago, alla soglia delle Dolomiti orientali, due italiani anch’essi botanici, Zanichelli e Stefanelli, sospinti dal fervore della ricerca scientifica, erano giunti fino in vetta al Cimon del Cavallo.

    «Trascorse un decennio. Nel 1802 un religioso agordino, don Giuseppe Terza cappellano di Pieve di Livinallongo, mentre con quattro altri valligiani, di cui due pur essi sacerdoti, tentava di ascendere la Marmolada (Dolomiti occidentali), scompariva inghiottito da un crepaccio. La notizia, corsa paurosamente per le valli, trattenne per molti anni da cimenti simili. Solo nel 1827 Valentino Stanig si avventurava fin sulla cima del Clapsavon nelle Alpi Carniche, presso il limite delle Dolomiti orientali e nel 1856 il sacerdote don Mugna con quattro compaesani ritentava la Marmolada raggiungendo ” una estrema cresta ” del monte ma non la cima.

    « Poche ma eminenti figure sono apparse nel primo cinquantennio del secolo passato tra le valli dolomitiche, ma esse sono bastate a richiamare l’attenzione sopra quel mondo meraviglioso, ancora sconosciuto. Sono nomi tutti di larga rinomanza: Humphry Davy, fisico inglese (1819); Alessandro von Humboldt, naturalista e geografo (1822); Maria Luisa ex-imperatrice di Francia (1828); James David Forbes, glaciologo e fisico scozzese (1873); barone Ferdinando von Richthofen, geologo tedesco (1856), che in vai di Fassa, salì le cime dei Monzoni. Nel 1835 l’apertura della rotabile Dobbiaco-Ampezzo favoriva la penetrazione nel cuore delle Dolomiti, cui prima si arrivava per una stretta cattiva carrareccia in fitto bosco ».

    La roccia che così si è venuta formando risulta essere un carbonato doppio di calcio e magnesio, detto appunto « dolomia », che sembra dovuto ad una originaria formazione di scogliere calcaree arricchite in magnesio presente nell’ambiente marino circostante. L’arricchimento in magnesio fu agevolato anche dal fatto che l’accrescersi delle colonie degli organismi costruttori era lento e sovente interrotto da intensi fenomeni vulcanici con colate di lava e depositi spesso ingenti di tufi, che un po’ alla volta l’azione delle onde marine sbrecciava e disponeva sul fondo in sedimenti ora grossolani, ora molto minuti.

    Il gruppo della Marmolada: da una stampa del 1860.

    Così l’alternanza di rocce sedimentarie dure con altre più facilmente erodibili ha imposto una ancor maggiore varietà morfologica ai rilievi dolomitici per cui ognuna di esse assume una fisionomia propria, una individualità molto più netta di quanto non si possa notare per le montagne di natura cristalline. Non mancano neppure dei veri e propri altopiani, che solo nei margini a picco presentano le caratteristiche del paesaggio dolomitico, una delle cui note è anche la presenza di notevoli quantità di detrito di falda ai piedi delle pareti rocciose. Tutto il sistema delle scogliere è frammentato in una quantità di piccoli gruppi isolati l’uno dall’altro da una fitta rete di solchi.

    E così Guido Rey (i) descrive da par suo l’incontro con queste magiche montagne.

    «Com’era diverso [quel mondo] da quello delle mie Alpi famigliari! La prima impressione fu di trovarmi altissimo: non ero che a tremila metri e tuttavia lo sguardo spaziava all’intorno in un cerchio perfetto, sotto una cupola di cielo tonda e vasta come quella che copre una pianura sconfinata: ma sotto quella cupola immensa i monti scomparivano; le cime si facevano ondulazioni lievi del terreno; le valli, piccole rughe, come in un rilievo topografico. Salivano dal basso in quell’ora alcuni vapori e resero più sensibile il contrasto, giacché quelle nubi leggere parvero opprimere le vette e farle più piccole assai che non fossero. Mi resi ragione dell’inganno dell’occhio avvezzo ad altre vedute: qui non erano vette che lottassero in mole ed in altezza colla vastità del cielo, che insorgessero prepotenti contro l’orizzonte e sbarrassero la via allo sguardo. Non erano, come nelle mie Alpi, le grandi ondate azzurre ammantate di candida spuma che salgono e scendono in un ritmo lento e solenne, ma un mare mosso, rotto da piccole ondette grigie ed aspre come l’Adriatico quando lo sferza maligno il vento di Bora. Non il largo respiro libero de’ miei monti piemontesi, ma un sussulto interrotto e represso come di singhiozzi.

    Gruppo Brenta dalla Paganella.

    Gruppo Brenta: il «Bimbo di Monaco».

    « Qui non la prospettiva delle moli eccelse che in lunga fila ordinata vanno sui gioghi, quasi fiancheggiando una via monumentale; non la simmetria de’ larghi solchi affluenti paralleli nella valle più grande, che ripartiscono nettamente i gruppi e segnano il corso dell’acque; ma un labirinto dai corridoi tortuosi, dalle strettoie oscure, dalle schiarite improvvise; un disordine di rupi, in cui si confondono, gettati qua e là dal caso, mucchi enormi e piccoli monticelli, vasti altipiani e vallette brevi, schegge che si protendono in alto e fosse che sprofondan nel suolo.

    « Tutte le fantasie de’ suoi deliri, tutti gli scherzi dei suoi capricci ha qui profuso la natura. Solo la classica forma del monte che da una larga base ascende armoniosa restringendosi fino al vertice acuto, la piramide simmetrica, non appartiene all’architettura di questo popolo di vette.

    « Qui la linea verticale domina in uno stile severo, terribile a vedersi.

    « Sulla larga faccia di calcare dolomitico che forma l’estremo lembo orientale dell’Alpi, il tempo ha scavato le sue rughe in una rete così intricata e fitta da rendere più che altrove sensibile l’estrema vecchiezza del nostro mondo.

    « Sotto il lavorìo delle pioggie e dei geli, dell’aria e del sole, la massa friabile e dolce si è disgregata, fenduta, dimagrita, consunta a tale estremo che del nucleo primitivo non sembrano essere rimaste che le forme elementari, indistruttibili. In questo punto la terra mostra nude e scarne le sue vertebre possenti.

    « Da quell’opera di distruzione i monti hanno assunto forme inattese, ornamenti strani, suggestivi del lavoro intelligente di un’ignota razza ribelle di Titani: argini poderosi incisi in tutta l’altezza da cunicoli verticali; bastioni squadrati e saldissimi che sorreggono immense terrazze; scaglioni giganteschi digradanti dal sommo alla base del monte come scalee che scendono da una acropoli; ampii ballatoi correnti lungo gli spalti di immani fortezze ; fronti di palazzi adorne da tutto un fregio regolare e bellissimo di fasce parallele; tetti spioventi dalle nervature in rilievo che ricordano le strane cupole di esotici templi; tetre moli, tonde e massiccie come il maschio di una rocca feudale, dalle mura impenetrabili e dalle bieche feritoie che minacciano; svelti pinnacoli gotici che sorreggon nell’aria la cuspide pia, così sottile che par debba tremar ai colpi del vento e sfasciarsi sotto lo schianto delle folgori.

    « Sono cittadelle smantellate, merlature dirute, minareti screpolati, tronchi di obelischi infranti, profili corrosi di sfingi, fusti solitari di colonne colossali, dieci volte più alte di quelle di Tebe, che reggono ancora il loro capitello di loto, sole superstiti del grande tempio crollato.

    « Dalle torricelle fantastiche del gruppo di Brenta, caro a’ miei amici Trentini, fino ai dossi immani del Sasso Lungo che prospettano l’Alto Adige, è tutta una architettura di sogno.

    « Talora l’intera pendice di un monte si è sfaldata ed ha aperto una voragine che vanno lentamente colmando massi e macerie e ricoprendo sabbie, magre erbe; talora il monte appare spaccato netto dal culmine alla base come da un poderoso fendente; ai piedi del colosso sgorgano dalla grande ferita lunghe e tristi colate di polvere biancastra.

    Gli Sfùlmini del Gruppo di Brenta.

    « Qua una chiostra di rupi annerite dal fumo cerchia una bocca enorme, senza fondo, come di un cratere spento; là una scheggia nuda e liscia squarcia il suolo tranquillo di un dosso erboso, sprigionandosi all’improvviso nell’aria con l’impeto di una vampa di fiamma. Sbarra tutta quanta la valle un dirupo gigantesco, una muraglia senza fine che sembra chiudere l’universo, ed ecco aprirsi nel muro una grande finestra e per entro lo squarcio apparire una prospettiva luminosa di cieli e di valli, di fiumi e di selve.

    « Bolge dantesche digradano, offrendo al passo i loro margini paurosi come per una discesa all’inferno, o s’aprono vallette verdi, murate da ogni parte, precluse dal mondo, piccoli paradisi di pace.

    « La roccia che costituisce quelle strane forme è varia al pari di esse nella sua apparenza esteriore: ora compatta, levigata e tersa come se per secoli l’acque di una cascata l’abbiano ripulita e consunta; ora rugosa come corteccia di tronco antico, o incrostata di madrepore come il fondo di un mare, o crivellata di buchi, attorta e contratta come scorie ; qua è una molle colata di fango rappreso, là una lastra di marmo.

    Il Sasso Lungo e l’Alpe di Siusi.

    « Ombre nette, crude, senza rilievo gettano l’un sull’altro i frastagli sottili delle coste quando il sole ne scruta il mistero, e rivelano gole recondite, abissi impensati; e su ogni dosso, su ogni scheggia è diffuso un colore grigio fulvo uniforme, insistente, a cui dànno solo risalto i bagliori salini delle colate di detriti ed il mareggiare umido delle fenditure profonde.

    « Nell’ora della quiete il paesaggio è privo di colore e di suoni come d’un astro in cui sia spenta la vita, chè la scarsezza dell’acque non alimentate da vaste ghiacciaie o da nevi perenni rende taciturne quelle altissime gole. Ma come rapido muta sotto il mutar della luce del cielo!

    « Come si fa dolce e argentino fra le nebbie, quando un tenue velo avvolge i piedi delle snelle torri e ne cela e discopre alternamente le belle forme evanescenti! Come muta d’un tratto quando, nel puro mattino, le nubi chiamate dal desìo del sole salgono dalle valli e si stendono placide tra i monti e lambiscon le coste e si adagiano in golfi quieti, e isolette rosee galleggiano sull’onde d’argento e sognano!

    « Come si fa solenne e grave quando s’addensan le nubi della bufera attorno al capo enorme delle cime e turbinano attorno alle scheggie! Allora si anima di una vita prodigiosa: sotto la corsa delle nubi le rupi sembrano muoversi, insorgere in una lotta impetuosa di mostri che si accavallano, si drizzan l’un contro l’altro, incurvano i dorsi, urtandosi, cadono, si risollevano, e schiacciati, feriti, ergono ancora la fronte minacciosa e protendono al cielo le zampe mozze, gli artigli spezzati.

    « Ma il fascino più grande, ignoto altrove nell’Alpi, il prodigio che il Tiziano vide cogli occhi suoi rinnovarsi ogni sera sulle natie vette del Cadore ed a cui forse attinse alcun segreto delle sue trionfali colorazioni, lo spettacolo scenico che questo teatro unico delle rupi dolomitiche appresta a’ suoi ammiratori, la funzione più solenne che questo tempio celebra pe’ suoi fedeli, è nell’ora del tramonto.

    « Tocche dagli ultimi raggi le vette, poc’anzi scialbe e mute splendono di repente sullo sfondo puro del cielo e cantano un inno sublime al sole. Le grigie mura si vestono di uno smalto di fine oro, lucente come di mosaico; polvere d’oro diventano le pallide colate di cenere; le nere gole si colmano d’ombre cerulee, di una tinta trasparente, liquida come una pennellata di acquarello posata da mano sicura fra gli smalti d’oro.

    « E una colorazione dolce e squillante d’oro e d’azzurro, di un’armonia così grande che colma l’occhio e l’animo di un gaudio perfetto. Chè queste rupi incolori hanno, al pari delle nubi e dell’acque, il potere prodigioso di attrarre, di riflettere, di accrescere i colori del cielo, di recare sulla terra agli uomini le visioni gloriose delle luci lontane.

    «Ma in brevi istanti crescono le vibrazioni a onde violenti; un’invisibile vampa sale lungo le mura, le colonne, e le torri; le lambe, le penetra, le affoca; e la pietra arde, si arroventa, gitta sprazzi e faville come un masso di metallo fuso, abbacinante. All’improvviso l’armonia è rotta come da un altissimo suono.

    « I monti rifulgono di propria luce! È uno splendore fantastico, uno scoppio formidabile che strappa grida di meraviglia, che soggioga l’orgoglio dell’uomo e ne piega la fronte ad inconsueti atti di adorazione e di preghiera.

    « Allora sembra divampare l’ultimo incendio che distrugga anche le vestigia delle immense rovine; ma nell’istante supremo sono apparse, come per incantesimo, nel loro primo splendore intatte e salde le forme mirabili delle torri antiche, dei palagi e dei templi; rivivono le mute castella, si armano gli spalti di corazze lucenti e scintillano di lance e di spade; guardano le cieche feritoie e le profonde grotte svelano i tesori. Nel fumo degli incendi, tra i bagliori sanguigni dell’ultima ora, sembra di udire il cozzo delle armi, le grida dei combattenti, il clangor delle trombe e squilli di campane e canti di gloria che proclamino la virtù antica e l’eterna bellezza di questa terra. E un’ora eroica; io credeva di assistere al fato estremo di una nobile stirpe avversata da un nume.

    «Ma qui il gioco della parola è vano; l’artificio pittorico non sa rendere che un pallido riflesso della visione prodigiosa.

    «L’incendio lassù si è spento; le rupi s’acquetano poco a poco in un muto color di viola, che illividisce lentamente come un metallo che si raffreddi nella frescura della sera; poi le vette si fondono col cielo e scompaion nell’ombre della notte».

    Il Gruppo dei Cir visto da Passo Gardena.

    Tra il confine italo-austriaco e la vai Badia a sud della vai Pusteria (Rienza) si trovano le Alpi di Sesto, i gruppi di Braies, della Croda Rossa (3139 m.), di Cima Dieci (3023 m.), della Varella (3034 m.) cui si riallaccia il gruppo di Sasso di Pùtia, posto tra la vai d’Isarco e la vai Badia col gruppo delle Odle (3027 m.) e della Gar-denaccia (2670 m.) che giunge fino alla vai Gardena. E altrettanto il gruppo di Braies forma un solo tutto con quello dell’Alpe di Fanes, che ben difficilmente può distaccarsi dal complesso che si erge lungo il versante destro della vai Badia, gruppi dai quali riesce possibile isolare quello delle Tofane solo quando si proceda ad una più particolare e minuta descrizione ed elencazione. Procedendo sempre da oriente ad occidente non vi è alcuna soluzione di continuità fino ai lembi più occidentali, di cui ben note sono le Odle, seghettate ed aspre quando si osservino da nord, che dominano con le Cime della Grande e della Piccola Fermeda la remota vai di Funes e costituiscono un vero avamposto verso la piattaforma porfirica e le masse cristalline e metamorfiche. A sud di questa più vasta bastionata esterna e più settentrionale, ne emerge una seconda, di cui l’elemento più facilmente isolabile è in primo luogo, sempre da est verso sudovest il grandioso bastione dolomitico del Sella, col Piz Boè di 3151 m., contornato dalle verdi distese a prati di Pralongià con i ben noti fossili della fauna di San Cassiano (Trias superiore). E uno dei gruppi più caratteristici delle Dolomiti a causa della sua forma massiccia, quasi quadrata, che per la compattezza della roccia risulta quasi privo di campanili e pinnacoli, e si presenta come un vastissimo altopiano desertico, tormentato nella parte sommitale da depressioni talora di natura carsica, sempre smantellato e in via di disfacimento sotto l’intensa azione meteorica, ove vento e acque e le variazioni della temperatura al disopra dei 2700 metri hanno impresso la loro orma profonda e hanno trasformato questo pianoro sommitale in un aspro lembo di deserto roccioso.

    Il Gruppo del Sella.

    Le Torri di Vajolét.

    Racchiusi tra la vai Gardena, le valli di Fassa e di Fiemme, d’Adige (tra Ora e Bolzano) e d’Isarco si levano, sui porfidi, altri ben noti gruppi dolomitici quali il Sasso Lungo, un’enorme rupe di 3181 m., tagliata a picco e nettamente divisa dalle catene circostanti da insellature profonde. Si può considerare come una scogliera corallina circondata alla base da arenarie e da porfidi. Fra le cime importanti, oltre a quella del Sasso Lungo, propriamente detta, vi sono la Punta delle Cinque Dita, che assomiglia ad un’immensa mano con le dita divaricate, la Punta di Grohman (3111 m.), la punta del Pian de Sass (3070 m.) e il Sasso Piatto (2955 m.), il cui nome tradisce la sua origine di scogliera che taluni affermano essere rimasta nella posizione originaria lungo tutto il versante di mezzogiorno, testimoniando così le spiegazioni che di queste montagne così caratteristiche e vive danno i geologi che numerosi le hanno studiate per scoprire il segreto della loro origine e delle loro trasformazioni.

    Più ad occidente il Gruppo dello Sciliar (Schlern, 2564 m.), notevole dal punto di vista geologico, per l’ordine mirabile con cui si trovano disposti gli strati e le formazioni di periodi diversi, ognuno con i suoi fossili caratteristici; ai suoi piedi la bella Alpe di Siusi, verde distesa che ripete un elemento sempre caratteristico del mondo dolomitico e cioè le ampie distese prative di base, cui spesso si può dare una interpretazione geologica in quanto segnano, di solito, il passaggio tra le arenarie inferiori del Trias e le scogliere coralline sovrastanti.

    Accanto ad esso il Gruppo del Catinaccio, una selva di sasso frastagliato in mille modi, intorno a cui sono intessute le leggende delle popolazioni di queste valli e che viene spesso chiamato col nome gentile di Rosengarten. Il punto culminante è costituito dal Catinaccio d’Antermòia, di 3004 m., dal quale si diramano tre catene: a sud il Catinaccio (2981 m.), ad est il largo bastione da cui si eleva la cima del Molignon (2720 m.), e al centro i dirupi del Larséc (2884 m.). Potrebbe esser quasi inutile ricordare che in questo gruppo dolomitico si trovano le celebri Torri di Vajolét. Per la verità esse non sono solo le celebri « tre sorelle » che G. Rey ha cantato nella poetica prosa di Alpinismo acrobatico. Alle torri più note, Winkler, Stabeler e Delago, che spiccano nel cielo di oriente di Bolzano e che ricordano accanto al nome del più puro eroe dell’alpinismo quelli di due delle prime «guide», si associano altre torri e pinnacoli. La fama di questi monti, insieme a quelli dei gruppi del Sasso Lungo, delle Tofane, delle Cime di Lavaredo non è solo nella caratteristica struttura, ma è legata alle prime esplorazioni, alle successive ardite conquiste delle prime vie classiche dell’alpinismo moderno, alla facilità di accesso, oltre che alle gentili espressioni letterarie di cui sono state oggetto (v. Cap. Vili).

    La parete sud della Marmolada.

    Il gruppo del Catinaccio si riallaccia con facile continuità, interrotta solo da una marcata depressione con il gruppo del Latemàr, che ripete in parte il motivo strutturale del Sella nella poco nota, ma egualmente interessante distesa dei Lastéi di Val-sorda, ampio altipiano di testata della piccola e poco importante valle omonima (destra dell’Avisio). D’altra parte anche l’elemento caratteristico della frastagliatura dolomitica non manca lungo il bordo settentrionale di questo gruppo, visibile da Carezza, culminante nella Cima del Palón (2846 m.). A questa seconda serie dei rilievi di natura dolomitica, appartenenti alla porzione orientale della nostra regione, ne va aggiunta una terza, che per la sua posizione vien quasi a costituire l’area centrale delle due precedenti, sviluppantesi con prevalente direzione meridiana sia pure intaccata lungo il bordo occidentale dalle formazioni della piattaforma porfirica: sono i gruppi della Marmolada e delle Pale di San Martino.

    L’Altopiano delle Pale di San Martino.

    Il Gruppo della Marmolada si trova a oriente della vai di Fassa, a mezzodì del gruppo di Sella e, ad esser rigorosi, ha usurpato il pomposo titolo di regina delle Dolomiti perchè non è costituito da dolomia, ma da un calcare coevo, poverissimo di magnesio. Tutt’intorno alla Marmolada vera e propria, la cui Punta Penìa tocca i 3342 m., si levano altre cime intorno ai 3000 m.: Pizzo Seràuta di 3035 m. ad est, il Monte Cirelle di 3154 m. e il Sasso di Valfredda di 2998 m. a sud, il roccioso bastione del Vernèl di 3198 m. ad occidente, separato dalla cima principale da una stretta forcella e valloni ghiacciati.

    Caratteristica è indubbiamente, sotto il profilo architettonico, la forma della porzione centrale del gruppo che degrada con pendenza abbastanza uniforme verso settentrione, mentre « salta » con un immenso paretene, grossolanamente allungato da oriente a occidente, verso sud. E la ben nota parete sud, la cui altezza massima supera in un poderoso sperone i 600 m. e la cui conformazione è da ricercarsi forse in un carreggiamento che avrebbe provocato la sovrapposizione di due serie analoghe di strati calcarei triassici, così da spiegare la notevole altezza, che fa della Marmolada « la regina » delle Dolomiti. Questo gruppo entro la nostra regione si prolunga con una più bassa catena verso occidente, verso la valle dell’Avisio, attraverso la catena dell’Ombretta, della Costabella (2737 m.), fino alla Vallaccia (2641 m.) che domina la valle dell’Avisio. Quasi inutile anche qui ricordare la stretta connessione con alcuni gruppi dolomitici fuori del territorio della regione nostra, tra cui di ovvia menzione il Civetta, poco lontano anche se ben separato dalla profonda valle del Cordévole.

    Pale di San Martino: la Cima e il Campanile di Focobón.

    Attraverso le Cime dell’Auta (Dolomiti del Veneto), il massiccio della Marmolada si salda con l’imponente gruppo delle Pale di San Martino che può definirsi « gruppo » nel vero senso della parola, essendo il risultato dell’aggregarsi di molte cime dalla forma bizzarra e fantastica, poste sopra un grosso piedestallo quadrangolare, sito tra le valli del Bióis, del Cordévole, del Mis e del Cismón e non già ordinate a catena. Nel mezzo del gruppo vi è un tavolato roccioso di circa 50 kmq. di un’altezza variabile tra i 2500 e i 2800 m., coi lati che strapiombano verticalmente e una serie di bizzarre ondulazioni lungo i fianchi, agli spigoli e nell’interno del corpo solcato da infossature e depressioni. La cima più elevata è quella della Vezzana (3191 m.), la cui tozza forma contrasta con l’arditezza e la sveltezza di linee del Cimón della Pala (3185 m.), il Cervino delle Dolomiti.

    « Ed ecco, — scrive Rey (2) — diradata la cortina della pineta al sommo del valico, drizzarsi subitamente di fronte una forma smisurata che non è nube e non par di sasso, rupe vaporosa e salsa, imminente e remotissima: un Cervino più scosceso, più sottile del mio. E quantunque io sappia che, accosto al vero Cervino, quello che ora mi sta davanti non gli giunge col capo alle ginocchia, tuttavia oggi, non so se per la magìa di questo cielo orientale che ha trasparenze e veli ignoti agli altri cieli dell’Alpi, o pel segreto delle proporzioni mirabili delle architetture dolomitiche, m’illudo che esso salga tanto alto quanto il suo eccelso rivale pennino.

    « E il Cimone e, dietro di esso, in una prospettiva magnifica, tutta l’alta città delle Pale si rivela al mio sguardo, gloriosa delle sue cupole, irta de’ suoi campanili, soffusa nel pomeriggio caldo di diafani vapori che la fanno idealmente vasta. Fiocchi di nuvolette bianche corrono tra le cime sventolando come stendardi al sommo delle torri o tese quasi velari sulle vie, e lente ombre salgono lungo le pareti come fumo di casolari; l’immensa città deserta sembra brulicare di vita e di festa e promette gioia a chi ardisca penetrare il mistero delle sue mura ».

    L’altopiano delle Pale si trova in posizione centrale rispetto alle cime maggiori che si dispongono lungo tre allineamenti abbraccianti l’altopiano medesimo. Ad oriente, lungo una linea che si dirige da sudovest a nordest si trovano il Monte Agnèr (2872 m.), la Croda Grande (2837 m.) e il Sasso dell’Ortiga (2631 m.), mentre con allineamento nordovest-sudest si levano la Cima di Sédole di 2406 m., la Cima Canali (2897 m.) e la Fradusta (2937 m.). Un’ultima catena si spinge da sud a nord con la Cima della Rosetta (2742 m.), la Cima Corona (2767 m.), il Cimón della Pala, la Cima della Vezzana, la Cima di Focobón (3054 m.) fino al Cimón della Stia (2391 m.), verdeggiante nei ripidi pendii erbosi sudorientali e precipite in scure paretine verso nord-ovest, data la facies di vulcanismo terziario, delle rocce da cui è costituito.

    Pale di San Martino: il Cimón della Pala.

    Rilievi della destra dell’Adige

    Si tratta di una serie di catene montuose poste tra la riva destra dell’Adige ed i gruppi cristallini occidentali (Ortles-Cevedale e l’Adamello-Presanella, dai quali sono divisi da una grande linea di frattura detta delle Giudicane.

    Nel complesso si tratta di una specie di altopiano lungo ed ondulato, a cui una serie di profonde incisioni, ad andamento parallelo alla linea delle Giudicane, ha dato una caratteristica a catene, che si prolungano fino alla pianura dimodoché, volendo si potrebbero comprendere in un’unica « Regione Benacense » o « delle Giudicane » sia questa parte della zona alpina sia la prealpina ad occidente dell’Adige. In generale non si hanno profili in graduale aumento di altitudine da sud verso nord ma a gradinate e terrazzi interrotti bruscamente.

    Il gruppo più settentrionale è quello della Val di Non, designato anche col nome meno noto di Alpi Anauniesi, che si eleva lentamente a semicerchio dal letto del torrente Noce e si prolunga fino al lago di Toblino nel gruppo Gazza-Paganella, il quale rappresenta l’estremo settentrionale delle pieghe giudicatesi e non è altro che un lungo e stretto altopiano, in media al disopra dei 1500 m., limitato da versanti molto ripidi. Vi sono affioramenti di porfido all’estremità nordoccidentale delle Alpi della vai di Non, ma per il resto le rocce dominanti sono dolomie e calcari dolomitici del Ladinico e del Norico, mentre prevalgono calcari triassici nel gruppo Gazza-Paganella, notevole per i suoi laghetti carsici e per i campi carreggiati e solcati che coprono 405 kmq. delle sue pendici orientali. Poche e non molto alte le cime degne di essere ricordate: il porfirico Monte Luco (2433 m.), il Monte Macaión (1866 m.), il Monte Roèn (2116 m.), la più nota Paganella (2125 m.) e il Monte Gazza (1990 m.).

    Di gran lunga più importante e meglio individuato è il Gruppo di Brenta, limitato a sud dalla valle del Sarca e compreso tra il gruppo precedentemente descritto e il massiccio intrusivo dell’Adamello. E senza dubbio uno dei complessi montuosi più belli e caratteristici della Venezia Tridentina, uno stupendo mondo dolomitico a contatto repentino e vivo contrasto delle superbe masse cristalline e ghiacciate della Presanella. Costituito prevalentemente da dolomia e calcari del Norico e del Retico viene diviso nettamente in tre porzioni da alcuni Passi. Il settore settentrionale è un capriccioso crinale sovrastato dal Monte Peller (2319 m.), dal Sasso Rosso (2655 m.), dalla Cima Sassora (2892 m.), dalla Cima Flavona (2905 m.) e dalla Pietra Grande (2936 m.). Quello centrale presenta una sfilata di torrioni imponenti: Cima Grosté (2897 m.), Cima Mandrón (3020 m.), Cima di Brenta (3150 m.), ecc. e quello meridionale su cui domina la più massiccia Cima Tosa (3178 m.), intorno alla quale irradia un frastagliato sistema di vette, di torri e di crestoni, di cui assai arduo sarebbe fare un elenco, ma il Crozzon di Brenta e il Campami Basso sono troppo noti per trascurarne la menzione.

    Il Monte Roèn

    In posizione ancor più meridionale, compreso tra le valli del Sarca, del Chiese e di Ledro, sta il Gruppo eli Monte Cadria, il cui punto culminante è Monte Cadria stesso che si leva a 2254 metri. Le sue diramazioni verso nord superano di poco i 2000 m. colle Cime Maroda (2159 m.), Spadolone (2052 m.), Gaverdina (2047 m.) e Altissimo (2127 m.). Vi affiorano la dolomia principale del Norico, calcari e dolomie del Retico (Trias), calcari talvolta eolitici del Lias, Dogger, Malm (Giurese), il biancone e la scaglia del Cretaceo in un ambiente tettonico quanto mai complesso, a strette ondulazioni rivelate dalla varietà di giacitura con cui si presentano gli strati, a faglie e scorrimenti.

    Il gruppo di Brenta.

    Il Campanile Basso.

    Il Campanile Basso: particolare della parte alta.

    Il gruppo è fiancheggiato dalla Catena Casale-Biaina che serve da congiunzione tra le sue pendici orientali e la valle del Sarca e presenta suppergiù le sue stesse caratteristiche litologiche e tettoniche. Questo gruppo prende il nome dai due monti che stanno alle estremità settentrionali e meridionali: Monte Casale (1631 m.) e Monte Biaina (1412 m.), il primo dei quali è la cima più alta della catena. Levatura e posizione intermedie ha il Monte Brento di 1545 metri.

    Forse meno complesso nella struttura tettonica ma non molto diverso dal punto di vista stratigrafico, è il gruppo di Bondone-Stivo, tra l’Adige ad est e il Sarca ad ovest limitato dai paralleli di Trento a settentrione e di Riva a mezzogiorno. Ha un’asse inclinato da nord a sud-sudovest ed è diviso in due parti dal Passo della Becca, a m. 1580. Nella parte nord si elevano il Palón (2091 m.), il Dosso d’Abramo (2101 m.), il Monte Cornicello (2180 m.), La Presa (1861 m.) e la Rosta (1837 m.), che racchiudono la vasta e verde spianata del Bondone, mentre a sud si ergono la Cima Alta (1915 m.) e il Monte Stivo (2045 m.).

    La zona periferica meridionale

    Solo una minima parte delle Prealpi bresciane appartiene alla Venezia Tridentina: si tratta cioè di quella regione a sud della valle di Ledro che è compresa tra la porzione settentrionale del lago di Garda e il tratto terminale del corso medio del Chiese a valle di Pieve di Bono, prima dello sbocco nel lago d’Idro. E ben chiaro che la delimitazione dei rilievi verso sud è del tutto convenzionale e costituita dal limite amministrativo; in realtà le alture si prolungano, abbassandosi sempre più verso la pianura o verso i lembi più esterni delle Alpi. I terreni sono formati quasi esclusivamente dalla dolomia principale del Norico a cui si uniscono gli scisti neri bituminosi ed i calcari scuri del Retico, attraversati in ogni direzione da una rete abbastanza fitta di faglie e molto spesso presentanti brecce tettoniche. Le alture precipitano sul lago di Garda e culminano col Monte Caplone di 1977 m., cui fanno corona il Monte Tremalzo (1975 m.), il Corno della Marogna (1954 m.), la Cima Tombèa (1947 m.), la Cima Spessa (1820 m.) e il Monte Lavino (1837 m.).

    Il gruppo Bondone-Stivo, precedentemente descritto, ha la sua naturale prosecuzione, verso sud, nel gruppo del Monte Baldo, con cui ha non poca affinità orografica e geologica. Posto fra la valle dell’Adige e il lago di Garda si sviluppa per una quarantina di chilometri in direzione da nord-nordest a sud-sudovest con una sfilata di cime separate da sellette definite anche « insenature » da R. Battaglia che ne determinano il caratteristico profilo seghettato. É di struttura abbastanza semplice nel versante occidentale, che scende quasi a picco sul Garda, ove prevalgono a nord calcari e dolomie stratificate a coralli del Lias (Giurese inferiore) e a sud calcari del Dogger (Giurese superiore); nel versante orientale presenta affioramenti di tutta una serie di orizzonti che va dal Norico all’Oligocene inclusi, non mancando formazioni basaltiche e tufacee. La catena è divisa in due sezioni dalla Bocca di Navene (1430 m.), chiamate « Baldo Trentino » e « Baldo Veronese»: la vetta principale della prima è il Monte Altissimo di Nago, di 2078 m., a settentrione del quale si erge il Monte Varanga (1776 m.), mentre la seconda culmina nella Cima Valdritta di 2218 m., seguita dal Monte Maggiore (2200 m.). Nel gruppo del Monte Baldo vi sono giacimenti di carbon fossile, ma esso è noto soprattutto per le numerose ed ottime cave di marmo scavate a poca altezza sul pendio tra Mori e Brentónico, e per le « terre » del Baldo impiegate come coloranti.

    Veduta di Recoaro Terme verso il Trentino.

    Come i due gruppi precedenti, e come del resto anche i seguenti, solo una parte minima dei Monti Lessini appartengono al Trentino. Nel suo insieme il gruppo confina a nordest con la Vallarsa e la valle del Leogra, a sud con la Pianura padana e ad ovest con la vai Lagarina. Osservando una carta geologica si possono riconoscere quattro settori aventi caratteristiche litologiche molto diverse, le quali presentano ovviamente tipi di morfologia differenti l’uno dall’altro. Da nord-ovest scende verso sud-est una vasta striscia di rilievi dolomitici triassici, che dalla vai d’Adige, in corrispondenza ad Ala e Santa Margherita, arriva a Castrazzano (nella valle dell’Agno, 506 km. a nord di Valdagno). Il nucleo principale di questo primo settore è dato dalla Cima Posta, di 2200 m., una massa quadrangolare attorno a cui si diramano: a nord-nordest la Catena del Baffelàn (1791 m.)-Cornetto (1903 m.) che si protende fino al Pian delle Fugazze e nella quale si può ricordare la Cima Carega (2208 m.); verso est-sudest un’altra catena annovera tra la sue cime il Monte Plische (1991 m.), la Cima Tre Croci (1942 m.) e il Monte Zevola (1975 m.); in direzione nord-ovest si spinge un’altra catena con la Cima Levante (2021 m.).

    A nord-est vi è l’isola Recoaro, la parte più antica di tutti i Lessini, in cui affiorano filladi quarzifere, conglomerati di quarzo, gessi ed arenarie variegate, rocce intrusive del tipo delle porfiriti e infine calcari, ecc. E questo un settore che copre un’area pari a circa la metà dell’intero gruppo dei Lessini, ed è particolarmente interessante per l’abbondanza di fenomeni carsici. Le cime maggiori non sono molto elevate, spingendosi sui 1700-1800 m. e tra queste si possono ricordare il Monte Sparvieri di 1798 m., il Monte Malera di 1772 m. e la Cima di Lobbia di 1672 metri.

    Ad oriente le formazioni sedimentarie sono in gran parte ricoperte da ampie colate basaltiche e da depositi di tufi: ricchissimi di fossili i tufi basaltici di alcune località divenute famose appunto per questo : Castelgomberto e Santa Trinità di Montecchio, Bolca, San Giovanni Jlarione, Ronca e Spileccio di Bolca. Tutto il gruppo, a parte le particolarità litologiche, è il più regolare di quanti non siano stati fin ora trattati ; poiché le varie catene, che si staccano dal nucleo principale degradano in modo uniforme spingendo ben addentro nella pianura i loro ultimi contrafforti di altezza variabile tra i 400 e i 500 metri.

    A nord-est di questo si eleva un gruppo di rilievi che prende il nome dal Pasubio (Scanuppia), compreso tra la valle della Férsina, il lago di Caldonazzo, la vai Centa e la valle dell’Astico verso nord ed est, la Pianura padana, i Lessini e la vai d’Adige a sud e ad ovest e che si può considerare formato da tre raggruppamenti montuosi: lo Scanuppio, il Finonchio-Toraro e il Pasubio.

    Il primo occupa la parte più settentrionale fin circa Folgaria e Lavarone, e raggiunge le quote massime con tre cime: il Becco della Ceriola (1935 m.), il Becco di Fila-donna (2150 m.) e il Cornetto (2052 m.), cui seguono, per importanza, le cime della Maranza, ossia la Marzola (1735 m.) ed il Chegùl (1472 m.); in tutti, pareti ripide e nude si alternano sovente ai facili pendii. Lo Scanuppia vero e proprio è formato prevalentemente da rocce dolomitiche e calcaree del Trias superiore e del Giurese inferiore mentre vasti affioramenti di filladi quarzifere, micacee e talcose si notano lungo la riva destra del lago di Caldonazzo e alla Maranza vi sono arenarie quarzose, calcari oolitico-dolomitici e marne del Permiano, marne e arenarie variegate del Werfen e infine calcari e dolomie. Il secondo annovera le cime del Monte Toraro (1899 m.), del Monte Maggio (1793 m.), del Finonchio (1603 m.), e del Cimone dei Laghi, che sono plasmate nelle dolomie e nei calcari del Trias superiore, del Giurese e del Cretaceo. Il terzo è la catena del Pasubio, la cui vetta — il Monte Pasubio — raggiunge i 2236 m. e scende ripida sulla Vallarsa, mentre si riallaccia a nord-est con il Col Santo (2114 m.) e verso sud-est con contrafforti di Monte Forni Alti (2026 m.), Monte Cògolo (1656 m.), Monte Priaforà (1654 m-) e Monte Sum-mano (1299 m.). Di composizione litologica simile al Finonchio se ne differenzia nei pressi di Pósina e di Santorso soprattutto per la presenza di ammassi intrusivi, per lo più di tipo laccolititico e delle loro apofìsi, costituite da porfiriti micacee e talvolta quarzifere. Intorno ad essi esistono altre rocce che troviamo in quella che è stata chiamata « isola di Recoaro » nei Lessini, a cui in fin dei conti, sotto questo punto di vista, appartengono le due aree citate.

    Veduta della val d’Adige verso Trento

    L’altopiano dei Sette Comuni si mostra nettamente separato dagli altri gruppi dall’ampia curva del Brenta che lo avvolge per metà del suo perimetro, delimitato, per il resto, dall’Àstico e dalla vai Centa. La sua forma è quella di un vasto altopiano quadrangolare racchiuso verso nord e verso sud da due orli rialzati. Il più settentrionale costituisce un vero e proprio acrocoro, che culmina nei 2341 m. di Cima Dodici e supera di poco quota 2000 con Cima Manderiolo (2051 m.), l’Ortigara (2105 m.), Cima Undici (2225 m.), Monte Colombarone (2102 m.) e poche altre vette. Molto più modesto è l’allineamento meridionale, con la Cima di Fonte (1519 m.), Cima Echar (1366 m.) e la Montagna Nuova (1327 m.), che verso sud sfuma nelle amene colline di Breganze, Pianezze, Maròstica e Bassano.

    Formato quasi esclusivamente da calcari del Giurese e del Cretaceo presenta una cintura periferica di dolomia triassica, interrotta a sud da formazioni sedimentarie e vulcaniche basiche di origine più recente, eocenico-oligocenica.

    Collina e pianura

    E ben facilmente intuibile, anche dalla descrizione delle pagine precedenti, che si può considerare una contraddizione parlare di « pianura », intesa nell’accezione più solitamente usata cioè col significato di una parte abbastanza vasta della superficie terrestre, pianeggiante e con quote piuttosto modeste sul livello del mare. Tuttavia qualche altro elemento può esser chiamato in causa per definire e caratterizzare alcune sia pur modeste aree per la loro superficie assoluta e complessiva, ma di importanza invece assai grande quando debbano mettersi in relazione con l’insediamento umano o comunque con l’attività dell’uomo. In tal senso non si può nemmeno negare una certa base di rispondenza ad un reale stato di fatto al criterio usato in sede statistica e soprattutto dal Catasto agrario, per il quale era stata adottata una ripartizione altimetrica di pianura, collina e montagna. Se da un punto di vista statistico tale ripartizione trova una sua giustificazione, altrettanto può dirsi anche tenendo conto di due elementi del paesaggio vero e proprio e cioè le forme del terreno e i caratteri della vegetazione spontanea nella sua distribuzione altimetrica. Senza voler qui richiamare quanto sarà detto, tenuto conto anche degli elementi climatici, è però sufficiente richiamarsi al fatto che quelle aree, che possono essere definite di pianura, presentano un quadro floristico differenziato da quelle altimetricamente sovrastanti, anche se modificazioni e variazioni sensibili della flora spontanea appaiono abbastanza differenziate nella fascia più bassa, per effetto di variazioni climatiche.

    In sostanza nella Venezia Tridentina può dirsi esistano delle modeste aree, che possono chiamarsi di pianura in corrispondenza di tratti di tre dei corsi d’acqua principali. La valle dell’Adige da Merano, a quota di circa 300 m. a Borghetto, cioè al confine con la provincia di Verona, ossia col Veneto amministrativo, su una lunghezza di circa 150 km., presenta un dislivello di poco superiore ai cento metri. Siamo quindi di fronte a una superficie piana non solo lungo il profilo longitudinale, ma anche, ed è quel che più importa, in sezioni trasversali, qualunque sia la larghezza della valle, misura questa assai variabile ed oscillante tra poche centinaia di metri e di frequente superiore ad un chilometro. L’esistenza di questa superficie piana è da ascriversi in sostanza all’azione di alluvionamento, cioè di trasporto e di deposito del grande fiume, ma è stata possibile tale azione anche a causa della preventiva azione dei ghiacciai quaternari e soprattutto dell’intenso rimaneggiamento e sistemazione delle alluvioni sia durante gli interglaciali del Quaternario sia nel periodo immediatamente successivo.

    Non così evidente è la duplice azione nella seconda valle, il cui fondo può essere considerato anch’esso un lembo di pianura e cioè la Valsugana, soprattutto nel tratto intermedio del settore trentino. Se non grande è il dislivello tra i laghi di Lévico e Caldonazzo (450 m.) e Primolano (252 m.) su circa 40 km. di lunghezza, il fondovalle della Valsugana, anche in questo tratto appare abbastanza tormentato e tutt’altro che uniforme con deboli terrazzamenti come quello della valle dell’Adige. Prevalenti sono le non grandi ondulazioni, determinate dalle numerose conoidi di deiezione allo sbocco delle maggiori convalli o anche di quelle medie, apparati che spesso hanno grandi dimensioni, come quelle di Novaledo, Roncegno, Grigno, ecc. Anche nella valle dell’Adige nella porzione che ci interessa sono frequenti gli apparati di conoidi, ma per la maggior larghezza del solco e per il rimaneggiamento che hanno subito alcune di esse gli apparati modificano di poco la morfologia del solco vallivo.

    Dintorni del lago di Canzolino

    Terza area, che si può definire di pianura è quella, assai minore come entità, retrostante alla foce del Sarca nel lago di Garda, che potrebbe esser denominata la pianura di Arco.

    Perfettamente analoga è pure la porzione terminale della valle del Chiese, da Storo a Ponte Càffaro. La prima è situata tra 70 e 100 m. sul mare, la seconda tra 265 e 400 m. ; ambedue sono di modesto sviluppo lineare (10-15 km.) e di altrettanto modesta larghezza così da assommare qualche decina di ettari di area ciascuna. Unica e sola differenza con le due zone precedenti va piuttosto ricercata nella origine diversa, in quanto queste due piccole zone di pianura sono di natura prettamente alluvionale e di deposito fluvialmente diverso, mentre per le altre, importanza più o meno grande ha avuto l’azione morfologica e di accumulo dei ghiacciai (depositi di rimaneggiamento). Certo a proposito della valutazione di tali aree, dal punto di vista del Catasto agrario, v’è da notare la differenza di apprezzamento fatta a tale proposito nelle fonti statistiche sia quelle dell’Istituto Centrale di statistica sia quelle da esse derivanti. Appare evidente tale diversità di apprezzamento da due soli dati in base ai quali nella provincia di Bolzano si avrebbero ben 65 kmq. di zona di pianura, valore assai più elevato di quello del fondo vai d’Adige da Merano alla stretta di Salorno. Nemmeno presa in considerazione è l’area di pianura nella provincia di Trento.

    Maggiore significato dal punto di vista altimetrico, oltre che dal tipo delle forme e dell’area può esser dato alle aree di collina. Sotto il profilo altimetrico resta anche per questo tipo di superficie estremamente difficile dare un’indicazione che abbia un certo significato, traducibile in un limite altimetrico. Dove si voglia cercare di stabilire attraverso il criterio altimetrico e climatico tale limite potrebbe esser considerato quello di un’isoipsa tra i 600 e gli 800 m., ma con scarti verso il basso e verso l’alto in particolari condizioni. Una certa indicazione in tal senso può anche essere ricercata nella natura della ricopertura della vegetazione spontanea e della associazione del Castanetum e in parte del Fagetum (v. Cap. V). Da tale impostazione risulta però che la fascia di collina costituisce più che altro un’area determinata dall’andamento dei solchi vallivi che separano i vari gruppi montuosi e, per la vai d’Adige, dalle fascie dei versanti al disopra del fondovalle pianeggiante (pianura) fino ai 600-800 metri. Solo nel Trentino può annotarsi una specie di collegamento di questa zona di collina tra una valle e l’altra. Così la conca di Trento si continua verso occidente, attraverso la depressione di Vezzano, con la parte inferiore del Sarca in quella zona più depressa a sud del massiccio del Brenta, mentre ad oriente si presenta collegata con l’area di fondovalle (pianura) della Valsugana. Aspetto più tipicamente collinare, nel significato più comune di questo termine, può essere attribuito alla porzione inferiore del corso del Noce, interposto tra il gruppo di Brenta a occidente e quello che si allunga sulla destra dell’Adige, da Bolzano a Mezza-corona. Appartenente alla zona di collina, altimetricamente parlando, sono vaste aree di modellamento glaciale entro le valli, sviluppate in dossi e terrazzi orografici, spesso ben estesi, favorevoli per lo più a certe colture (vite) e all’insediamento umano. Naturalmente, avendo già sottolineato che alla regione di collina si può dare un significato altimetrico, vi restano inglobate vaste zone di fondovalle che giustificano la consistenza attribuita a tale zone sia nel Trentino che nell’Alto Adige.

    Un certo interesse può avere il problema se a tale regione collinare corrispondano tipiche forme di rilievo e cioè se collina possa contrapporsi a montagna. Il contrasto con le aree di pianura e forse meglio sarebbe dire pianeggianti, può essere evidente. Anche quelle vaste porzioni dei solchi vallivi, attribuiti altimetricamente alla collina, manifestano un certo movimento e soprattutto rivelano la mancanza di alluvioni rimaneggiate e disposte a piani evidenti orizzontali. Alquanto più caratteristiche sono le forme a dossi e di tipico modellamento glaciale quaternario o postquaternario, come le alture porfiriche sulla destra (Caldaro) e sinistra (Montagna) dell’Adige; altrettanto caratteristiche le superfici a dolci pendenze della parte terminale della valle del Noce o gli ampi terrazzi orografici della bassa valle dell’Isarco e della vai Venosta inferiore. Così anche la media valle del Sarca presenta a tratti, ove il fiume ha minor pendenza del letto, un aspetto collinare o come si potrebbe anche dire di media montagna.

    Non è nemmeno detto che queste aree siano ben definite e che sotto ogni aspetto abbiano un preciso significato. Già non vi è un limite altimetrico inferiore ben definito, come si è già detto, a proposito della regione di collina. Maggiori incertezze poi sorgono quando alla zona di montagna si voglia attribuire un preciso significato morfologico. Le precipiti pareti dei gruppi che orlano la parte settentrionale del Garda, che scendono a picco fin sullo specchio del lago (m. 65 s. m.), i ripidi versanti della vai d’Adige che scendono fino al piano del fondovalle sono tipici esempi della mancanza del limite altimetrico inferiore della zona di montagna in questa come in altre regioni d’Italia e del mondo, cosicché si può parlare di « golfi di pianura agricola ».

    Fatto quindi quest’accenno pregiudiziale, che può avere anche per la nostra Regione un certo peso, appare abbastanza evidente l’appartenenza della Regione in gran parte alla « montagna », anche per i caratteri climatici e della ricopertura vegetale (cfr. Cap. V), montagna però dalle forme più varie. Vi è sì un denominatore comune : la « montagna » della Venezia Tridentina appartiene sempre a rilievi giovanili, cioè rilievi in cui sono in atto, processi erosivi nella fase di intenso lavoro con tutte le conseguenze che tale momento del modellamento terrestre comporta.

    Le catene che si susseguono lungo il confine, scistoso-cristalline in generale, di altezza media piuttosto elevata, separate dai gruppi vicini da solchi vallivi abbastanza profondi (vai Venosta, valli dell’Isarco e della Rienza), incise e tagliate trasversalmente spesso da valli secondarie, anch’esse piuttosto profonde, sono caratterizzate anzitutto dalle creste, che ne costituiscono la parte sommitale, di solito fortemente lavorate, giacché anche durante il periodo di maggior espansione dei ghiacciai sono rimaste emerse sopra le grandi lingue che riempivano le valli principali e le minori. Ancor oggi però le creste si elevano spesso al di sopra di ghiacciai più o meno estesi e poderosi; in genere le forme sono legate alla morfologia dei ghiacciai: valli a sezione longitudinale a soglie e contropendenze a sezione larga e con fianchi spesso verticali e fondo arrotondato e solo in modesta parte lavorato dalle acque incanalate, frequenti le valli laterali sospese sulla principale, così che possono notarsi ancora bellissime cascate o profonde gole di raccordo tra la valle secondaria e la principale con ripidi e saltellanti ruscelli. E ancora frequenti soglie rocciose, delizia dei geologi e degli ingegneri idroelettrici, che vi studiano e vi impiantano poderose dighe in ciò spesso aiutati dalla sicura tenuta della roccia nei confronti della permeabilità. E un mondo vario di forme, ma al tempo stesso simili tra loro, quasi a denunciare l’esistenza di fattori generali e non dipendenti da condizioni e accidenti locali.

    Altopiano di Siusi.

    A questo tipo di paesaggio si ricollega anche quello dei massicci granitici intrusivi di Cima d’Asta e dell’Adamello-Presanella particolarmente e quello di più varia natura dello Ortles-Cevedale. L’aspetto è molto simile tanto per le tracce della glaciazione quaternaria quanto per l’esistenza di ghiacciai, talvolta assai estesi e caratteristici, come l’immenso Pian di Neve dell’Adamello, che richiama alla vista e alla mente quello che doveva essere l’elemento dominante in tutto questo paese nel Quaternario. E dove i ghiacciai sono scomparsi del tutto per la modesta altitudine, come nel gruppo della Cima d’Asta, l’aspetto è egualmente caratteristico. Nel mondo grigio per il colore di rocce lievemente alterate in superficie si susseguono circhi e pianori ondulati (a dorso di cetaceo) con detrito in genere non molto abbondante e grossolano, a spigoli vivi, perchè formatosi di recente e accumuli morenici o resti di apparati ben riconoscibili spesso e molto evidenti. Tali le forme dominanti di questi gruppi delle valli spesso profonde (vai Daone, di Fumo, di Genova, vai Cia, ecc.) con versanti ripidi e talora quasi verticali, ove non sempre la vegetazione trova modo di insediarsi e di rivestire il terreno.

    A questo mondo delle rocce cristalline e granitiche può riallacciarsi, per la natura del terreno, quello dei terreni porfirici. Colate e tufi si alternano in quella che è stata chiamata la « piattaforma porfirica ». E in questo carattere di piattaforma sta anche l’elemento dominante dei rilievi porfirici. Spesso le linee piuttosto orizzontali traspaiono, soprattutto là dove le colate non sono state disturbate o non hanno subito troppo gli effetti dell’orogenesi alpina. Cosicché si parla di altopiani (Renon, Nova Levante, Nova Ponente, ecc.) e l’occhio può spaziare su vaste superfici boscose di abetaie fitte e scure, come capita a chi dal valico di La-vazè (a nord di Cavalese) volge lo sguardo verso Bolzano, nascosta nella conca di confluenza Adige-Isarco-Talvera. E anche dove l’orogenesi ha sollevato e piegato, talvolta spezzandolo il rigido tavolato porfirico, ne è scaturito un paesaggio caratteristico e pieno di fascino. Basta ricordare un esempio per tutti e cioè la media vai Travignolo, caratteristica valle di sinclinale porfirica con i bordi laterali rialzati sul fondovalle di oltre 1000-1200 metri con versanti di porfido che degradano in pendenze medie non rilevanti verso il fondo, modellati da un antico ghiacciaio e poi dalle acque, dal gelo e dalla neve (fenomeni periglaciali). Le creste che la delimitano precipitano, spezzandosi il tavolato, a settentrione sulla valle di San Pellegrino, ove le complicazioni tettoniche del centro eruttivo di Predazzo e dei Monzoni hanno interrotto bruscamente la linearità del paesaggio porfirico e altrettanto avviene lungo la cresta meridionale, la lunga giogaia (cuesta) di Lagorài, che dall’ardito Colbriccón (2603 m.) prosegue forse per un centinaio di chilometri fino nei pressi di Lavis in vai d’Adige, seguendo il bordo sudorientale della « piattaforma », la cui interruzione è connessa con i movimenti della massa intrusiva granitica di Cima d’Asta. Paesaggio tipico quello porfirico e per le forme e per il rivestimento arboreo; basti anche qui un solo esempio e cioè che le bellissime foreste di Paneveggio e i rinomati boschi della Magnifica Comunità di Fiemme o quelli non meno noti di Nova Levante e Nova Ponente, ecc., si sviluppano quasi esclusivamente su terreni porfirici, raggiungendo il loro naturale limite altimetrico.

    Crozzón di Brenta.

    Ultimo, ma solo in ordine descrittivo, è rimasto il mondo dei rilievi calcareo-dolomitici. Voler dare una descrizione di queste forme pare superfluo. Ricordarne la bellezza e il fascino, l’originalità e la estrema variabilità pare fatica inutile. E forse inutile è altresì accennare alle cause che hanno impresso a questi rilievi originalità e variabilità. Tuttavia non è inopportuno ricordare la più scarsa resistenza agli agenti atmosferici, perchè questi terreni sono esposti ad una duplice azione che si è svolta con estrema intensità: la demolizione per effetto di dissolvimento chimico e la notevole fratturazione strutturale. E tali azioni hanno cancellato quasi del tutto le tracce di quel modellamento glaciale, a cui anche questi terreni sono stati soggetti per effetto della glaciazione quaternaria, cosicché raro è trovare nel mondo delle Dolomiti forme tipiche di derivazione glaciale. Un altro fattore che traspare spesso nell’erosione di questi rilievi, come del resto anche in quelli di altra natura, è la relazione con le condizioni di giacitura. Basta il confronto tra il massiccio del Sella e il Gruppo del Catinaccio, tozzo monoblocco il primo a bancate quasi orizzontali con articolazione sia pure varia e mutevole delle sue immani pareti periferiche solo qua e là incise e smantellate; frastagliato e rotto in gruppi e sottogruppi il Catinaccio, perchè variamente tormentato e movimentato dall’azione orogenetica, che ha favorito la formazione di cime e di erode, di torri e di campanili isolati di originalità e bellezza straordinaria. Si afferma spesso che le Dolomiti, pur in questa originalità e varietà di forme, non sono vere montagne o non paragonabili per lo meno con quelle più imponenti e maestose dei gruppi cristallini. Sotto un certo aspetto può esser vero: le minori altezze assolute e relative o medie, la più facile accessibilità, almeno fino alla base delle ardite pareti, la mancanza di vasti ghiacciai può giustificare tale affermazione. E però altrettanto innegabile che la verticalità assoluta di pareti alte centinaia di metri, come quelle della Marmolada o del Crozzon dell’Altissimo in Brenta, la arditezza di vette come il Cimón della Pala, dal Passo di Rolle, e la Punta Grohman del

    Pale di San Martino: veduta del Sass Maór e della Madonna.

    Sasso Lungo dalla vai Gardena, gli strapiombi di spigoli verticali, lo slancio delle torri più celebri, quasi fiamme di roccia nel sole del tramonto o cavalieri di pietra delle leggende della regione dei Fanes e di Re Laurino, sono i caratteri naturali che dànno al rilievo dolomitico e calcareo una spiccata individualità.

    Vedi Anche:  Popolazione, mortalità, natalità e migrazione