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Le bonifiche e la riforma agraria

    Bonifiche e riforma agraria

    Le bonifiche

    Le pianure costiere, racchiuse tra i monti e i tomboli marini, e quelle interne, di origine alluvionale e lacustre, con debolissima pendenza, furono sede naturale di acque stagnanti e di paludi malariche, rimaste tali attraverso i secoli finché non intervenne l’opera dell’uomo a controllare i fiumi e a creare vie di sbocco alle acque. E questa ormai, ai nostri giorni, un’opera compiuta in tutta la regione, alla quale si è giunti attraverso secoli di lavoro, attraverso sacrifici di generazioni di operai e di contadini, attraverso sforzi e tentativi spesso falliti, con impiego talora di enormi capitali. La conquista dei terreni paludosi e la loro trasformazione in fertili e salubri campi coltivati è così una delle pagine più dure dell’opera dell’uomo sul suolo toscano; solo poche centinaia di ettari restano oggi alle paludi e agli stagni, ben delimitati entro i loro limiti e bonificati ormai dalla piaga malarica.

    La Maremma

    Tipica terra di paludi e di febbri malariche, una delle più note, ovvero delle più malfamate d’Italia, era certamente fino a pochi decenni fa la Maremma costiera. Ma non era stato sempre così: anticamente in epoca etrusca e poi romana le condizioni dovevano essere relativamente buone se poterono fiorire, ove poi si estesero tutto intorno acquitrini malsani, città popolose e potenti, che occuparono tuttavia in generale posizioni di promontorio o di colle. Allora la Maremma era terra più ricca di altre parti della Toscana, non solo per lo sviluppo dell’arte mineraria, per i porti fiorenti che furono anche basi militari, ma anche per l’agricoltura in cui furono impiegate masse notevoli di schiavi ancora in epoca romana, e che alimentava una certa esportazione di grano. I resti di ville e di terme testimoniano una relativa salubrità della regione, ove tuttavia non mancavano certo aree paludose, probabilmente anche assai vaste, come provano alcune tracce di antichi lavori idraulici di scolo. La situazione peggiorò senza dubbio nel primo Medio Evo quando le città più importanti si ridussero a poveri villaggi e le forze naturali ebbero libero sfogo: i torrenti non più arginati e dilaganti spargevano le acque nelle pianure, mentre i cordoni litoranei ne ostacolavano lo sbocco al mare. Probabilmente si tentò più di una volta di frenare le inondazioni e gli impaludamenti, ma sarebbero occorse opere grandiose e continuate nel tempo che le continue lotte politiche impedirono, travagliando questa terra sino all’epoca moderna e portando via via all’abbandono di ogni opera difensiva.

    Si ricorda un primo tentativo di bonifica al principio dell’XI secolo ad opera dei monaci Benedettini, che vivevano in un monastero sui Monti dell’Uccellina. Ma i saccheggi e le devastazioni seguite alle lotte tra i Guelfi e i Ghibellini distrussero in breve i frutti, per altro non molto rilevanti, del lavoro compiuto. Poi l’invasione delle armi imperiali chiamate da Cosimo I a sterminio di Siena completò l’abbandono di ogni opera: le acque dilaganti invasero di nuovo plaghe conquistate alla vegetazione e molte colture furono abbandonate insieme alle abitazioni e ai castelli. Nel basso Medio Evo tra le parti più malsane doveva essere quella che poi divenne la palude di Castiglione. In due pergamene inedite esistenti nell’Archivio dell’Opera di Siena, tutte e due del 1286, si legge che i « maestri del sale periziavano che il lago di Castiglione, divenuto stagno di acqua dolce, non era più suscettibile di produrre sale ». Ma le condizioni dovevano essere assai cattive in tutta la fascia costiera : infatti nel 1322 si davano privilegi e possessi di terre a chi avesse fissato domicilio a Talamone, e nel 1420 si ordinava di ripopolare Orbetello, dove erano rimaste solamente ventisette persone, indizio certo che l’aria era divenuta ormai molto malsana.

    Aspetti del latifondo in Maremma.

    La pianura grossetana dopo le bonifiche e la riforma.

    Occorre risalire a tempi più recenti, cioè al Seicento, per trovare l’inizio di opere cospicue di bonifica: allora la dinastia medicea iniziò lo scavo di fossi e canali per lo scolo delle acque e per il risanamento delle campagne di Canapiglia e di Piombino, le cui paludi stagnanti furono in parte colmate con le torbide del fiume Cornia. Si cercò allora di favorire anche la immigrazione di contadini dal Bresciano e dal Modenese.

    La Maremma grossetana continuò comunque fino al secolo XVIII a presentare vaste plaghe paludose, campagne deserte per l’aria infetta, in gran parte coperte da folte macchie abitate da cinghiali, dove la scarsa e misera popolazione traeva l’unica risorsa dal pascolo invernale. Finalmente, con l’avvento della casa di Lorena, si iniziò l’opera di largo e completo risanamento. Il granduca Pietro Leopoldo I, a cui si deve la creazione della provincia di Grosseto, abolì innanzitutto ogni traccia di giurisdizione feudale, soppresse molti vincoli che inceppavano l’agricoltura e ordinò l’affrancamento di tutti quei privilegi e diritti d’uso che ostacolavano qualsiasi iniziativa. Per difendere la pianura dalle frequenti inondazioni provvide poi alla sistemazione ed al restauro dell’argine della sponda destra dell’Ombrone e, con l’intento di bonificare le terre paludose, fece eseguire molti altri lavori sotto la direzione del padre Ximenes: si scavarono fossi di scolo e si ripristinò un antico canale navigante, che staccandosi dall’Ombrone immetteva nel mare; si scavò anche un nuovo canale innalzando all’estremità di esso, vicino al mare, le cosiddette « cateratte Ximenes » per regolare le acque della palude.

    Gli avvenimenti politici della fine del Settecento e dei primi dell’Ottocento fecero sospendere ogni lavoro e solo nel 1826 il problema tornò ad occupare seriamente il governo di Leopoldo II, con il quale si iniziò un periodo di grande operosità nel campo delle bonifiche. In quei tempi fece molto rumore la teoria affacciata dal Giorgioni che le febbri malariche fossero prodotte dalla mescolanza delle acque dolci con quelle salate. In seguito il Fossombroni, anche senza contrastare tale principio, consigliò comunque di adottare il radicale rimedio delle colmate, come già aveva fatto in Valdichiana: le sue proposte comportavano la totale bonifica, a cominciare dal lago di Castiglione, « cadavere che bisognava seppellire perchè con le sue esalazioni non ammorbasse l’aria », nel quale, come nelle altre aree acquitrinose, si sarebbero fatti riversare, per mezzo di canali deviatori, le torbide trascinate dall’Ombrone in piena. L’area totale dei terreni da colmare ascendeva a circa 120 chilometri quadrati e la bonifica totale si sarebbe compiuta, secondo le previsioni del Fossombroni, in circa otto anni.

    All’ingegnere Alessandro Manetti fu dato l’incarico della compilazione dei progetti: attraverso questi la bonifica grossetana si avviò alla soluzione. A tale intento il granduca Leopoldo II emanò vari motu proprio a partire dal 1828, con i quali furono dettate le norme per la bonifica della pianura grossetana a nord e a sud dell’Ombrone, e di quella di Scarlino e di Piombino, e sotto l’impulso dei quali la bonifica continuò fino al 1859. I lavori si iniziarono con la costruzione di un canale diversivo staccato dall’Ombrone a monte di Grosseto, le cui acque entrarono nel mare dopo un percorso di 24 chilometri. Un secondo canale diversivo fu costruito con l’intento di riversare nel lago di Castiglione le torbide dell’Ombrone in piena e anche quelle del Bruna e del Solata. Esso fu aperto a valle della città, per quattro chilometri, sulle tracce dell’antico canale navigabile costruito dallo Ximenes e poi prolungato come l’altro, secondo le successive colmate; nel 1859 aveva raggiunto la lunghezza di dodici chilometri. Ma numerosi altri furono i canali costruiti indipendenti e collegati fra loro, come quelli di San Leopoldo, di San Rocco, della Molletta.

    Nel lago di Orbetello, dove si era iniziata la costruzione di fossi di scolo già alla fine del Settecento, fu inaugurata nel 1842 la diga che congiungeva direttamente la città con il Monte Argentario, per cui lo stagno rimase diviso in due parti comunicanti fra loro. Ma le condizioni del lago non migliorarono neppure dopo l’apertura del nuovo canale, che faceva comunicare le acque del lago con quelle del mare.

    Le troppo rosee previsioni del Fossombroni erano state temperate da quelle più prudenti del Manetti che, assunta la direzione dei lavori, aveva portato a ventidue anni il tempo necessario per compiere la bonifica; ma neppure le sue previsioni corrisposero ai fatti, chè le colmate richiesero in realtà un tempo assai maggiore del previsto.

    Vedi Anche:  Strutture agrarie e vita rurale

    Insieme alla bonifica del Grossetano si cominciò anche quella della pianura di Piombino, per cui furono utilizzate le torbide del fiume Cornia, condotto tra nuovi argini nella palude di Montegemoli. Altri lavori furono compiuti per bonificare il laghetto di Rimigliano, centro particolarmente malfamato di malaria, dove si riversavano le acque della Fossacalda. Nel 1859 un terzo della superficie della palude di Piombino era stato messo a coltura.

    Colli appoderati e pianure bonificate presso Campiglia Marittima.

    Simili alle condizioni della palude di Piombino erano quelle della palude di Scarlino, e perciò analoghi furono i mezzi per risanarla. Le acque più abbondanti erano quelle del Pecora, che furono condotte a colmare la parte occidentale della palude. La prima opera fu la chiusura dell’antico emissario per cui con larga foce comunicavano le acque dello stagno con quelle del mare. I corsi d’acqua furono ordinati, raccolti e condotti in colmata e poi, per mezzo di un altro emissario, portati al mare presso Portiglione. Vasti ristagni d’acqua erano anche intorno a Massa Marittima e per questi fu eseguito un cunicolo che scaricava nel torrente Sana le acque del bacino della Ghirlanda; fu poi eseguito un profondo affossamento per dare efficace scolo alle acque del Pozzaione.

    Malgrado tutti questi lavori, all’Unità d’Italia la bonifica della pianura grossetana era ancora ben lontana dal compiersi, sicché nel 1872 fu studiato un nuovo piano inteso ad utilizzare meglio le torbide deH’Ombrone in piena e degli altri fiumi. L’anno seguente fu chiuso il primo diversivo dell’Ombrone, opera grandiosa, con cui furono resi alla coltivazione 64 chilometri quadrati di terreno ed altri venti furono posti in via di colmazione. In seguito la bonifica idraulica si estese in tutta la zona maremmana dalla palude dell’Alberese al Chiarone: le paludi di Talamone, di Camporegio, della Tagliata, di Macchiatonda, del Chiarone, del lago di Buriano furono tutte essiccate con canali emissari, mentre i due laghetti di Nitti e San Floriano furono bonificati per colmate. Per completare la bonifica del lago di Orbetello furono scavati nel 1883 quattro canali, mediante i quali lo stagno comunicava col mare.

    Nuove case dell’Ente Maremma.

    Nuove case dell’Ente Maremma.

    Nel 1879 fu costruita la diga di sbarramento dell’Ombrone e le operazioni di colmata furono riprese con lena. Nel 1900 per essiccazione erano bonificati quattro chilometri quadrati e per colmata 67, ma ne rimanevano ancora venti. Un nuovo e più rapido sviluppo ebbero i lavori di bonifica a partire dal 1905, quando ne ebbe la direzione l’ing. Botto. Venne ampliato il diversivo a prescindere dalla portata e costruito un grandioso edificio di presa a Pontetura sull’Ombrone. La guerra interruppe questi lavori che ripresi a pace conclusa, poterono essere condotti a termine nel 1924. Allora venne riattivata l’immissione delle torbide nelle casse di colmata, mentre si dava inizio all’altro grandioso lavoro per scavare un nuovo alveo al fiume Bruna per uno sviluppo di dieci chilometri, con lo scopo di condurre le acque, che inondavano le terre da bonificare, nel porto-canale di Castiglione della Pescaia.

    Questi sono i principali lavori che hanno trasformato e restituito alla coltura un’estesa parte del territorio grossetano; ad essi sono da aggiungere altri minori, come quelli compiuti nella tenuta dell’Alberese, quelli della tenuta adiacente di Collecchio e quelli della palude di Talamone, prosciugata mediante macchine idrovore.

    Quando nel 1951 fu creato l’Ente Maremma per l’applicazione della riforma fondiaria, questa regione era ancora una delle aree agricole più povere d’Italia. « Era il latifondo del grano, delle mandrie selvagge, dei greggi transumanti. L’uomo era lontano ed estraneo alla terra di Maremma: si andava a mietere dal paese arroccato sul colle lontano, si scendeva dalla montagna a cercare pastura.

    « Passando, si incontravano poche grosse mezzadrie solitarie, e arrivando si trovava il buttero o il guardiano o il fattore a’sorvegliare dall’alto del suo cavallo.

    « Rare le colture specializzate, costituite per la quasi totalità da oliveti e da vigneti; quasi inesistenti le specializzazioni orticola e frutticola.

    « Il regime fondiario era caratterizzato da una notevole diffusione della grande proprietà. L’impresa agraria era prevalentemente di tipo capitalistico, mentre assai modesta era la diffusione della proprietà contadina la quale occupava circa un sesto della superficie produttiva del comprensorio.

    « Gli investimenti fondiari: case, strade, impianti arborei, ecc., erano generalmente molto scarsi, mentre le condizioni locali esigevano un forte impiego di capitali pubblici e privati.

    « L’allevamento del bestiame era prevalentemente estensivo: nelle grandi proprietà non appoderate i bovini erano spesso allevati allo stato brado o semibrado, mentre esisteva un notevole allevamento di ovini.

    « In ritardo, rispetto alla media nazionale, la meccanizzazione. Nel comprensorio si registrava un trattore ogni trecento ettari di seminativi, contro una media di un trattore ogni 163 nell’Italia Centrale e trentatrè ettari in quella Settentrionale.

    « Nonostante che la densità media fosse di 56 ab. per kmq. — notevolmente inferiore, perciò, a quella nazionale che si aggirava intorno ai 155 ab. — in molte zone si aveva un eccesso di manodopera rispetto alle possibilità di occupazione. L’occupazione media si aggirava intorno alle 150 giornate». («Maremma», 1960).

    A distanza di dieci anni, malgrado le critiche da molti avanzate in sede politica ed economica, si deve riconoscere che molto è stato fatto per mutare il volto di questa regione. Basti ricordare che nel comprensorio dell’Ente, che comprende anche la Maremma laziale, dove erano poco più di seicento latifondi, in gran parte incolti, si possono contare oggi circa ventimila piccoli proprietari, oltre seimila case nuove e più di venti « borghi di servizio ». Sono stati disboscati e dissodati trentatremila ettari e altrettanti disboscati sotto l’aspetto idraulico; circa sedicimila ettari sono stati spietrati con opere talora ingenti e costose. E stata inoltre costruita una nuova rete stradale, mentre si sono incrementati i seminativi e le colture arboree più adatte all’ambiente, specialmente quelle della vite e dell’olivo. L’irrigazione è stata estesa finora a oltre quindicimila ettari.

    Nuovi orizzonti di vita si aprono quindi per questa che era una delle più diseredate terre di Toscana e che oggi si avvia a divenire invece una delle plaghe agricole più ricche e meglio organizzate, con moderni ordinamenti colturali, vasta meccanizzazione e diffuse forme cooperativistiche.

    La bonifica di Alberese.

    La Valdichiana

    La Valdichiana, l’antico « granaio dell’Etruria », era probabilmente in epoca etnisca e romana a tratti fertile e popolata, prima che il disordine idrografico, con la decadenza medioevale, la rendesse acquitrinosa e malsana. Delle sue tristi condizioni dopo il Mille abbiamo parecchie testimonianze: il Fossombroni ricorda un documento relativo al Vescovo di Chiusi, il quale per sfuggire la malaria, voleva recarsi ad abitare nella vicina Montepulciano, più elevata; altri accenni troviamo in Dante, nel Boccaccio, nel Villani ed in altri scrittori toscani.

    Si è detto dell’inversione delle acque della valle che dal bacino del Tevere cominciarono ad affluire in quelle dell’Arno: già nel XIV secolo gli Aretini, abbassando la goletta di Chiani, quattro chilometri ad ovest della città, riuscirono a far riversare

    neirArno una quantità cospicua delie acque della pianura, con lo scopo di prosciugare la parte più vicina al centro urbano. Il comune di Arezzo, a cui appartenevano le terre della Valdichiana, fece costruire un fosso denominato fossatum novum communis Aretii, col quale si iniziò praticamente il sistema di scolo tuttora esistente. La Repubblica di Firenze, venuta in possesso del territorio all’inizio del Cinquecento, provvide poi a migliorare l’opera e a creare dei canali suppletivi per convogliare le acque verso l’Arno. Lo scarico in questo bacino delle acque della Valdichiana fu regolato dalla Chiusa dei Monaci costruita ancora prima del Mille, la quale subì alterne vicende di parziale distruzione e ricostruzione, in quanto si temette sempre che la sua mancanza mettesse in pericolo, in caso di grandi piogge, tutto il Valdarno.

    Solo col dominio granducale s’inizia però il periodo della bonifica in grande stile: un complesso sistema di canali, tra cui il Canale Maestro, fu costruito tra la metà e la fine del XVI secolo e portò al prosciugamento di un vasto tratto della valle. La divisione fra le due Chiane, toscana e romana, andò sempre gradatamente spostandosi verso sud, fino a che, nel 1782, fu costruito l’argine di separazione, per accordo tra la Toscana e lo Stato Pontificio (concordato del 1780), a due chilometri dall’orlo meridionale del lago di Chiusi: così tutta la Chiana, compresi i due laghetti di Montepulciano e di Chiusi, passò a far parte del bacino dell’Arno. AH’Arno furono condotte pure le acque del torrente Tresa, che prima sfociava nel lago Trasimeno.

    Vedi Anche:  Le colture, l'allevamento e le foreste

    Con l’avvento del Fossombroni alla direzione dei lavori, il problema della bonifica fu basato sul concetto di elevare tutta la pianura da Chiusi fino alla Chiusa dei Monaci « per mezzo di colmata in modo che si potesse in essa escavare un alveo con fondo d’uguale o poco maggiore pendenza della valle, capace di tradurre all’Arno tutte le acque ed in cui i torrenti si potessero versare senza andare soggetti ad ulteriori interrimenti e senza sussidio di troppo elevate arginature ». La Chiana doveva ridursi ad « ufficio di canale maestro recipiente di acque chiare » ed in essa non doveva immettere nessun corso d’acqua che prima non avesse deposto le sue torbide nei vari recinti di colmata. Più tardi il Fossombroni fece acquistare dall’amministrazione granducale il lago di Montepulciano per farvi scaricare le torbide di quei torrenti che anche oggi vi si riversano.

    Quando nel 1838 la direzione dei lavori fu affidata al Manetti, la bonifica della palude era ormai avanzata ed era scomparsa l’infezione malarica, ma i corsi d’acqua laterali erano ancora in uno stato preoccupante. Perciò egli propose che, pur continuando le colmate parziali, il piano di bonifica si dovesse condurre in base al principio della separazione delle acque chiare dalle torbide conducendo le prime nel canale maestro e le torbide, mediante la costruzione di due canali ai lati del canale maestro, all’ultimo tronco di questo, appositamente ampliato ed approfondito: la lunghezza complessiva di questi canali fu di 120 chilometri.

    Al momento dell’unificazione del regno restavano da eseguire ancora molte opere complementari e soprattutto si doveva provvedere alla conservazione di quanto era stato compiuto difendendolo dagli assalti della natura. Il prosciugamento della regione si completò, oltre che con lo scolo delle acque mediante il canale maestro e le altre opere di canalizzazione, con parziali colmate con le quali si rialzò considerevolmente in più punti il suolo, utilizzando i depositi dei numerosi ruscelli discendenti dalle colline di Montepulciano e di Cortona.

    Le chiuse delle Chiane presso Arezzo in una stampa del secolo scorso.

    Il lago di Bientina

    La bassa pianura compresa fra l’Arno ed il Serchio, quando non potè più riversare le proprie acque verso l’Arno, si trasformò in un grande lago, che prese il nome di Sesto o di Bientina. L’illustre storico toscano Emanuele Repetti ritiene che il lago sia esistito fin da prima dell’VIII secolo, ma non se ne hanno notizie precise fino a quel tempo. Probabilmente la regione fu soggetta ad un’opera di colonizzazione agricola da parte dei Romani, come ci attestano alcuni toponimi ed alcune tracce di antiche strade, ma con l’abbandono susseguente al decadere della potenza romana, le parti più depresse del suolo si cambiarono in paludi e le acque cominciarono a dilagare disordinatamente mentre intorno aH’Arno l’accumularsi di nuove alluvioni impediva il loro deflusso. Dopo il Mille il lago non costituiva fonte di preoccupazione per gli abitanti locali che anzi vi trovavano abbondante pesca. Nel 1182 vennero però eseguite, a spese del Comune di Lucca, alcune opere di bonifica per migliorare varie fasce marginali della palude. Nel 1549 Cosimo I dei Medici la racchiuse con 1’« argine grosso », ordinando la deviazione del corso dell’Arno che faceva gomito a Bientina. Ma le lagnanze della Repubblica di Lucca condussero ad un concordato con il Granduca, per cui venne permesso ai Lucchesi di scavare una fossa di scarico fra la palude e l’Arno detta « Serezza nuova ». Successivamente il governo toscano provvide ad aprire un nuovo emissario, denominato «Canale Imperiale», che fu eseguito dal 1757 al 1760. Ma essendo il funzionamento di questo canale subordinato alle piene dell’Arno, la pianura lucchese continuò a trovarsi in un deplorevole stato per la imperfezione e deficienza dei suoi scoli. Per frenare le acque dell’Arno in piena si rialzarono spesso le arginature e le cateratte degli emissari, ma sempre con poco successo.

    Il piano definitivo della bonifica del Bientina fu preparato dall’ing. Alessandro Manetti: si trattava di rendere il bacino indipendente da quello dell’Arno, con la costruzione di un nuovo grande canale collettore fino al mare, sottopassante l’Arno « in botte » e lungo circa 43 chilometri. I lavori, iniziati con solennità nel settembre 1854, si credettero compiuti all’unificazione del regno, ma quando si misero le acque del Bientina nel nuovo emissario le arginature in più punti cedettero e l’acqua invase le campagne adiacenti; i lavori per le riparazioni si protrassero ancora per parecchi anni. Il canale emissario fu così realmente compiuto solo nel 1863. In tal modo il bacino del Bientina, per l’estensione di quasi trecento chilometri quadrati, è stato sottratto artificialmente al bacino dell’Arno e non solo è stato eliminato il pericolo del riversarsi delle acque in piena, ma è stato anche completamente prosciugato l’antico « chiaro » e bonificata tutta la pianura adiacente, acquistando così all’agricoltura nuovi e fertili terreni. L’opera di bonifica però richiede costantemente le assidue cure dell’uomo per il suo mantenimento, per cui seguirono lavori ulteriori di colmata, di sollevamento con pompe idrovore delle acque e di ampliamento del collettore.

    La Valdinievole e il Padule di Fucecchio

    L’impaludamento della Valdinievole fu probabilmente determinato dal graduale sollevarsi del letto dell’Arno e dai deposito di una coltre di materiali alluvionali, i quali impedirono alle acque dei torrenti della montagna pesciatina il libero deflusso. Questo sembra essere avvenuto in epoca non molto lontana: pare attestarlo anche il fatto che nell’antichità non si parla dell’esistenza in questa regione di un lago o di una palude, che è invece ben documentata nel Medio Evo.

    Abbastanza note sono le vicende che negli ultimi secoli portarono in vari modi a trasformare le condizioni idrauliche della regione : fu in realtà un alternarsi di opere contraddittorie, un succedersi di provvedimenti rivolti talora a rialzare la soglia del canale di scolo per convertire la palude in un vero e proprio lago da pesca, talvolta a facilitare lo scolo per ottenere il prosciugamento guadagnando terreno all’agricoltura e rendendo salubre l’aria.

    Il ponte e il castello di Cappiano.

    Nella Valdinievole inferiore le acque delle tre Pescie, quella di Pescia, quella di Collodi e la Pescia nuova, vennero a formare una vasta palude detta il Padule di Fucecchio, quando il deflusso verso l’Arno si fece più difficile. Nel 1435 la Repubblica Fiorentina istituì i cosiddetti «Maestri del Lago Nuovo», cui fu affidato l’incarico di rialzare una pescaia sul fiume Guasciana presso il Ponte a Cappiano e di costruire lungo quel fiume un argine per creare un lago che desse a Firenze molto pesce. Questo ristagno fu detto prima « Lago Nuovo » e poi « Lago o Padule di Fucecchio ». E possibile che in un primo tempo esso si fondesse con quello di Bientina.

    L’area del lago che doveva comprendere anche la pianura di Santa Croce e di Castelfranco ed il territorio di Santa Maria a Monte, dove nel secolo XIV è noto vi erano molte paludi, pare si restringesse verso la fine del secolo successivo, ma le sue condizioni erano comunque nel Cinquecento molto cattive e la popolazione della bassa Valdinievole pare ne soffrisse molto. Nel 1515, a seguito delle pressioni popolari, donna Alfonsina dei Medici si propose di prosciugare il lago con la demolizione della pescaia; fece scavare un profondo fosso detto «della Madonna», ma non riuscì a molto perchè trovò ostacoli nella Mulina di Santa Croce per cui le acque non poterono scorrere in Arno. Pochi anni dopo Cosimo dei Medici rivolle il lago e nel 1549 « fece serrare con grosse mura il lago di Fucecchio rinchiudendovi dentro gli alberi e frutta ed ogni altra cosa che dentro a quello spazio si trovava, onde il lago si riempì e corrompendosi nell’acqua quel legname e cose che erano racchiuse, venne ad infettare l’aria quivi all’intorno, sicché gli abitatori dei luoghi circonvicini cominciarono a diventar gonfiati e gialli e in poco decadevano morti, onde si mossero a chieder misericorda al Duca. E poco dopo vi morirono più che due terzi delle genti circonvicine » (Petrocchi).

    Vedi Anche:  Le principali città della Toscana

    Dal 1740 al 1750 fu costruito un fosso di scolo che attraversava la pianura da levante a ponente detto «fosso maestro dell’Usciana »; al suo sbocco fu sistemata una cateratta per impedire alle acque del canale di invadere la pianura ed a quelle dell’Arno di risalire nell’Usciana in tempi di piena. Ma la causa prima della malaria sussisteva sempre perchè non si osava distruggere la pescaia di Ponte a Cappiano, per la rendita rilevante che veniva dal lago artificiale. Finalmente prevalse il progetto del prosciugamento: con editto del 4 settembre 1780 il Granduca Pietro Leopoldo ordinava la demolizione della diga che sbarrava l’emissario al Ponte a Cappiano, rendendo libera la navigazione del canale: si iniziava così l’opera di redenzione che doveva trasformare questa regione in una delle più fertili della Toscana. Le acque della Valdinievole furono tutte riunite nel canale maestro e convogliate nell’Arno dal Canale dell’Usciana, che non supera in qualche punto l’altitudine di 13 metri, inferiore al livello delle acque dell’Arno. Perciò quando l’Arno era in piena, il Canale dell’Usciana, che sbocca a 17 chilometri a valle di Fucecchio, non poteva più riversare le sue acque, che pertanto si estendevano nella depressione. Per ovviare a questo inconveniente e per ultimare la bonifica idraulica si costruirono due canali destinati a raccogliere le acque alte e quelle basse: il primo attraversava l’Arno in botte, l’altro immetteva direttamente nell’Arno dove oggi sbocca l’Usciana.

    Ma per ottenere il completo prosciugamento occorsero numerosi altri lavori compiuti solo in questo secolo: la costruzione dell’edificio a cateratte alla bocca di Usciana, l’ampliamento e la sistemazione dell’ultimo tratto del Canale Usciana, l’esecuzione del canale collettore delle acque basse da Ponte a Cappiano a Bocca di Usciana, e l’opera che si può considerare veramente fondamentale e decisiva, cioè l’apertura del nuovo emissario della palude (prolungamento del Canale Usciana) in sostituzione del canale maestro, dalla confluenza dei Canali Terzo e Capannone a Ponte a Cappiano, opera questa eseguita tra il 1931 e il 1933, che permette alla palude pratico e pronto prosciugamento.

    Le pianure litoranee settentrionali

    Fin dall’antichità, a causa delle copiose acque impaludanti, la costa tirrenica era certamente assai insalubre. Scrive, ad esempio, Plinio il Giovane in una sua lettera, in cui parla dei possedimenti che egli aveva nell’Etruria costiera: «et sane gravis et pestilens oratuscorum, quae per litus extenditur ». Il regime paludoso si estendeva anche nell’interno, lungo il corso dei fiumi: ne abbiamo per altro una pur generica testimonianza in un ben noto episodio della storia: narrano Polibio e Livio che Annibaie, dopo aver vinto alla Trebbia, indirizzatosi in Etruria, preferì alle strade più comode ma più lunghe, il passaggio più difficile per le paludi, ove l’Arno aveva in quei giorni inondato più del consueto. Le paludi dovevano essere assai estese, perchè Annibaie ne uscì con il suo esercito dopo quattro giorni e tre notti di marcia continua.

    In particolare le infelici condizioni idrauliche della pianura di Viareggio datano dalla più remota antichità. Generalmente si fanno risalire all’epoca dell’Impero Romano i primi lavori di bonifica, ma l’opera iniziata venne però interrotta con la decadenza e nell’alto Medio Evo. Verso il Mille infatti la regione pare fosse quasi interamente palustre. I documenti dal secolo XI in poi attestano ripetutamente la presenza di lagune, stagni, terre malsane ed abbandonate. Abbiamo notizia di lavori idraulici, anche se non proprio di bonifica, fatti già nel 1160.

    Quando la Repubblica Lucchese allargò i suoi domini verso il mare, fece ogni sforzo per migliorare le condizioni, bonificando tutta la pianura compresa tra il mare e i monti. I lavori cominciarono nel 1506 e terminarono due anni dopo con il prosciugamento di buona parte della palude, ma l’aria non tornò per questo salubre. Nel 1565 fu tentata la bonifica con la costruzione di un canale di scolo, però con scarsi risultati. Si continuò a fare altri lavori, arginature, si impiegarono molte macchine, ma l’opera fu poi di nuovo abbandonata.

    Sappiamo con sicurezza che all’inizio del secolo XVIII le condizioni della pianura erano ancora disgraziate. Nel 1714, separate le acque dolci dalle salse, fu costruita una chiusa all’imboccatura della Fossa Burlamacca; le cateratte mobili dette « zendrini » venivano chiuse perchè le acque elevate del mare non penetrassero nella palude di Massaciuccoli e aperte per lasciare libero scolo alle acque della palude in mare. Con questo ingegnoso lavoro, compiuto alla metà del Settecento, fu risanata l’aria a Viareggio, a Massaciùccoli, a Quiesa e nelle parti più basse della palude, ma rimanevano in tristi condizioni ancora i bacini di Motrone e di Perotto.

    Solo nei primi anni del secolo XIX, con la costruzione delle cateratte dei fossi Cinquale, Motrone e Tonfano, tutte le zone paludose furono risanate e ridotte a coltura, rimanendo palustri solo le immediate vicinanze del lago.

    Nel 1932 fu ripresa una decisa e completa azione per la quale una rilevante quantità di terreno è stata definitivamente e stabilmente restituita all’agricoltura.

    Per quanto riguarda la pianura pisana, molti documenti della seconda metà del secolo XII, ci danno notizia dei cosiddetti « guariganghi », attorno alla città, che altro non erano che terre stagnanti, paludi e fossi di scolo.

    Al tempo della dinastia Medicea la campagna pisana si era ridotta in stato sempre più deplorevole. Cosimo creò nel 1547 1’« Uffizio dei fossi», a cui affidò la direzione della condotta delle acque: riuscì a raddrizzare il corso dell’Arno, incanalando il fiume Osoli per bonificare il terreno vicino alle terme di San Giuliano e tagliando in più luoghi la terra per dare uscita alle acque.

    Da questo tempo comincia rescavazione di una serie di canali per prosciugare le pianure; a Ferdinando II Pisa deve tra l’altro il Fosso Reale. Anche la pianura livornese era un tempo soggetta alle alluvioni e dominata dalle paludi. Quando con il Granducato la città cominciò a diventare particolarmente importante, Ferdinando III bonificò i cosiddetti « marazzi » e la paludetta, procurando un innalzamento del terreno con rescavazione di fossi e rendendo il terreno stesso coltivabile per circa due chilometri quadrati.

    Leopoldo I di Lorena rinnovò i canali di scolo, tolse gli stagni della Fagionata, di Campo Alto, di Barbaricina ed altri. Fu chiuso il Canale Arnaccio, diversivo delle piene dell’Arno, perchè sconvolgeva gli scoli della pianura. Leopoldo II effettuò delle colmate con i depositi portati dalle acque del Torà, con cui già nel 1740 era stata bonificata la pianura delle Guasticce; così fu colmata la palude di Stagno. Nel 1847, sempre mediante le torbide del Torà, fu colmata la paludetta che si estendeva nella pianura di Pisa per oltre sette chilometri quadrati.

    Ma, nonostante questi vari lavori, nella seconda metà del secolo XIX, la pianura pisano-livornese aveva ancora parecchi tratti di terreno paludoso, come le paludi di Coltano, di Tómbolo e di Agnano, presso Livorno, e quelle formate dai fiumi Lana e Dallamone, cioè la palude di Stagno e il Maggiore; veri terreni palustri erano intorno a Vada e Colle Mezzana, tra il Vada e il Cécina. Ma entro il secolo XIX questi terreni furono quasi del tutto bonificati, mediante canali di scolo, per colmate e con macchine idrovore.

    Il delta dell’Arno si può considerare ormai un vero monumento di scienze idrauliche. Un’infinità di canali corrono paralleli e vanno tutti a sfociare nel mare tra Pisa e Livorno; alcuni di questi fossi sono essi pure più alti della pianura e quindi arginati. La vasta pianura pisana, specialmente verso il mare, si può considerare così una delle maggiori conquiste dell’uomo sul suolo toscano.