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Evoluzione demografica

    Il popolamento e la sua evoluzione

    L’entità e il movimento naturale della popolazione

    Dopo aver esaminato l’ambiente dal punto di vista fisico, passiamo ora a considerare la popolazione che vi abita nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi, cercando di spiegare le loro cause, il loro sviluppo e la loro distribuzione nelle varie parti della regione. Cominciamo dal numero degli abitanti.

    La popolazione assoluta residente era al 4 novembre 1951 di 1.226.121 ab., corrispondenti appena al 2,5% di tutta la popolazione italiana. Il Friuli-Venezia Giulia figura così al 15°posto fra le regioni italiane, precedendo solo l’Umbria, il Trentino-Alto Adige, la Basilicata e la Valle d’Aosta. Ma come abbiamo già visto nel primo capitolo, tale popolazione è molto disugualmente ripartita fra le tre province, che hanno dimensioni e strutture economiche molto diverse. Infatti la provincia di Udine, che comprende oltre i nove decimi della superficie regionale, possiede il 64% di tutta la popolazione, mentre Trieste e Gorizia si ripartiscono rispettivamente il 24% e 1′ 11 % degli abitanti. In particolare Gorizia è la penultima provincia italiana per popolazione assoluta, poiché riesce a superare solo la Valle d’Aosta. Bisogna però fin d’ora rilevare che la popolazione effettivamente presente nella regione è inferiore a quella residente, per il notevole « deficit » migratorio, di cui diremo in sèguito.

    L’attuale regione ha, come si è visto, origini molto recenti, essendo stata configurata solo dopo il trattato di pace del 1947. Perciò non è facile ricostruire le sue vicende demografiche anteriormente a questo anno, poiché le circoscrizioni amministrative attuali non corrispondono più a quelle prebelliche. Bisogna poi tener conto anche della diversa origine delle tre province, in quanto quelle giuliane sono state istituite « ex novo » dopo la prima guerra mondiale, dalla fusione parziale o totale di varie unità amministrative austriache preesistenti, mentre quella di Udine si può far risalire addirittura alla Luogotenenza Veneta del Friuli, anche se ha subito in sèguito non trascurabili ritocchi territoriali, prima di assumere nel 1927 i suoi attuali confini. Essendo tuttavia necessario riconoscere almeno le tendenze demografiche più recenti, abbiamo preso come punto di partenza il censimento generale del 1936, mentre per la provincia udinese, che del resto possiede quasi i due terzi di tutta la popolazione regionale, abbiamo potuto seguire lo sviluppo demografico fin dal secolo XVI.

    La popolazione residente negli attuali limiti regionali assommava nel 1936, come si può vedere nella Tabella IV, a 1.109.150 ab., cosicché nei quindici anni trascorsi fra i due ultimi censimenti si è registrato un incremento del 10,5%, che è tuttavia un po’ inferiore a quello medio nazionale. Tale aumento è però dovuto in massima parte alla stasi bellica delle emigrazioni permanenti e all’afflusso postbellico dei profughi provenienti dai territori della Venezia Giulia ceduti alla Jugoslavia, che si sono stabiliti nella regione in numero di circa 65.000. Nel successivo periodo 1:951 -58 si è avuto invece un incremento dell’1,5%, pari ad appena un quinto di quello medio nazionale; se poi prendiamo in considerazione soltanto l’ultimo triennio, possiamo constatare addirittura un leggero, ma sintomatico regresso.

    Il movimento naturale della popolazione è caratterizzato infatti, assai più di quanto si verifichi nel resto del paese, da una progressiva diminuzione della natalità di fronte ad una stasi della mortalità, come risulta dalla Tabella VI. Nel 1958 l’indice regionale di natalità è stato dell’11,6 per mille, di fronte ad una media nazionale del 17,4 per mille, figurando al penultimo posto fra le regioni italiane, giacché sopravanza solo quello della Liguria. In sèguito all’invecchiamento della popolazione la mortalità è invece leggermente superiore alla media nazionale, per cui ne deriva una eccedenza dei nati sui morti di appena 1*1,8 per mille, che riesce a superare solo quella della Liguria e del Piemonte. Tale andamento demografico, che ha accentuato il suo ritmo nel periodo postbellico, ha cause molto complesse, derivando soprattutto dalla struttura prevalentemente industriale ed urbana delle province giuliane e dall’emigrazione temporanea su vasta scala che caratterizza l’economia friulana, ma può essere anche considerato come uno dei sintomi più evidenti dell’attuale depressione economica regionale. Passiamo ora a considerare singolarmente le tre province.

    Le prime notizie demografiche sulla Patria del Friuli risalgono al 1548 e attribuiscono a tutta la provincia veneta una popolazione di circa 199.000 anime. Da allora, come osserva il Fortunati, che ha compiuto interessanti studi sulla popolazione friulana dal secolo XVI ai giorni nostri, lo sviluppo demografico appare caratterizzato da un alternarsi di fasi di sviluppo e di stasi. In sintesi le fasi demografiche si possono così riassumere: dal 1548 al 1642 c’è un periodo di stasi, in cui la popolazione del Friuli veneto riesce di poco a superare i 200.000 ab.; dal 1642 al 1755 si ha invece una fase di forte incremento, in cui la popolazione aumenta di un

    buon 50%, superando le 300.000 unità; subentra quindi un nuovo periodo di stasi, che si prolunga fino al 1823, quando gli abitanti non superano i 350.000; nella successiva fase di sviluppo, che dura quasi un secolo, la popolazione friulana si raddoppia, raggiungendo i 750.000 ab., ma dopo il 1921 comincia a manifestarsi una nuova fase demografica di rallentamento, che tuttora perdura (vedi Tabella V). In quattro secoli dunque la popolazione friulana si è quadruplicata, mentre nello stesso periodo di tempo la popolazione italiana è aumentata press’a poco di tre volte e mezzo. In particolare nel corso del secolo XIX si è avuto un aumento di popolazione di circa il 65%, mentre il primo cinquantennio del nostro secolo si è chiuso con un saldo attivo del 23%, corrispondente ad appena la metà dell’incremento della popolazione italiana nello stesso periodo. La prima guerra mondiale arrecò gravi perdite umane al Friuli, impoverendo le sue energie demografiche, e sconvolse la sua già debole economia, creando le premesse di una lunga crisi demografica, che ha avuto il suo periodo più acuto fra il 1921 e il 1936, in cui è stata registrata una flessione del 5% degli abitanti. L’incremento successivo, registrato fra i due ultimi censimenti, è più apparente che reale, poiché è derivato specialmente dalla stasi migratoria e dall’afflusso postbellico dei profughi. Ma dopo il ristabilimento della normalità, a partire dal 1955 la popolazione è nuovamente in diminuzione e si prevede che questa tendenza possa durare ancora a lungo, se non muteranno radicalmente le condizioni economiche della provincia. L’indice di natalità è infatti disceso dal 21,4 per mille del 1946 al 12,4 per mille del 1958, malgrado la stazionarietà dell’indice dei matrimoni, cosicché l’eccedenza dei nati sui morti è passata nello stesso periodo dal 10 al 3 per mille, tanto che non riesce più a compensare il « deficit » migratorio.

    La popolazione attuale del Friuli è distribuita per il 57% in pianura, per il 26% in collina e solo per il 18% in montagna, ma il Fortunati ha messo in rilievo che dal secolo XVI al XIX la maggior parte degli abitanti del Friuli viveva proprio nelle regioni di montagna e di collina, che presentavano pure un maggiore incremento demografico rispetto alla pianura. Poi cominciò a verificarsi quell’acuto squilibrio fra la potenzialità demografica e quella economica che portò allo spopolamento della montagna e a un deciso incremento di popolazione nella pianura, dove cominciano a migliorare le condizioni agricole e si sviluppano le attività industriali. Così la popolazione di pianura, che nel 1852 rappresentava solo il 46% della popolazione friulana, costituisce dopo un secolo il 57% di detta popolazione, mentre la montagna è scesa nello stesso periodo dal 23% al 17% e la collina dal 30% al 25% (vedi Tabella VI). Così l’evoluzione della vita demografica ed economica friulana appare inquadrata in una successiva espansione della popolazione dalla montagna alla collina e alla pianura che ha permesso la sopravvivenza delle sue tradizioni linguistiche e folcloristiche. Bisogna considerare però che a partire dal 1870 entra in gioco, specialmente per la montagna, l’elemento perturbatore dell’emigrazione esterna, per cui gli spostamenti interni perdono sempre di più la loro importanza.

    La provincia di Gorizia, che nel 1936 aveva 200.152 ab., ha perduto per effetto del trattato di pace il 42% della sua popolazione. Tenendo conto delle attuali circoscrizioni amministrative, ha però registrato nel periodo 1936-51 un aumento del 16%, superiore a quello delle altre due province della regione, ma determinato soprattutto dall’afflusso dei profughi. Tale incremento è continuato anche nel periodo 1951-58 in misura del 3%, anche perchè questa provincia presenta un bilancio migratorio attivo, tanto che la popolazione presente supera quella residente.

    La provincia di Trieste, che nel 1936 aveva 360.607 ab., pur avendo perduto con il trattato di pace oltre otto decimi del suo territorio, ha mantenuto nei suoi limiti attuali il 77% della popolazione prebellica, concentrata per lo più nell’area urbana del capoluogo. Nonostante l’afflusso dei profughi, l’aumento verificatosi nelle attuali circoscrizioni amministrative fra il 1936 e il 1951 si è limitato al 9%, restando il più basso della regione. Ciò è dovuto alla bassa natalità (9,2 per mille nel 1958) e all’alta mortalità (10,8 per mille), tanto che si registra un decremento demografico, che pone la provincia al terz’ultimo posto fra le province italiane, poiché precede solo quelle di Alessandria e Vercelli. Tale fenomeno risale però già al periodo interbellico, ma allora era largamente compensato da una regolare immigrazione dall’interno. Nel periodo 1951-58 si è avuto un ulteriore incremento demografico del 4%, dovuto all’esodo degli Italiani dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste, ma con la cessazione di tale corrente si è iniziata a partire dal 1956 una fase discendente, che tuttora perdura.

    I fenomeni migratori

    Come già abbiamo avuto occasione di rilevare, una delle caratteristiche demografiche più significative della regione è il « deficit » migratorio, che si registra sia nel settore delle migrazioni permanenti che in quello delle migrazioni temporanee. E questo un fenomeno molto complesso e scarsamente documentato, che riguarda soprattutto il Friuli, le cui tradizioni migratorie risalgono già al Medio Evo, ma che recentemente ha investito anche la Venezia Giulia, e in particolar modo la città di Trieste.

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    Le cause sono eminentemente economiche e vanno ricercate nello squilibrio esistente fra la densità di popolazione e le risorse naturali. Le forze del lavoro sono quindi largamente superiori al livello di occupazione, cosicché i lavoratori disoccupati o sottoccupati sono costretti ad emigrare verso altre regioni interne, a maggiore capacità di assorbimento, o verso paesi stranieri, dove la manodopera invece scarseggia.

    Le correnti migratorie friulane provengono non solo dalle regioni agrarie più povere, come la fascia montana in generale e l’alta pianura, ma anche da quelle più ricche della collina e della bassa pianura, poiché mancano nel Friuli grandi centri industriali che possano attrarre ed assorbire l’esuberante manodopera agricola, a cui non resta altro che l’emigrazione a più largo raggio.

    La recente emigrazione giuliana è invece di tipo prevalentemente industriale, riguarda una manodopera specializzata o qualificata ed è dovuta sostanzialmente alla grave depressione economica derivata dalla nuova sistemazione politica della Venezia Giulia. Non sono però estranee altre cause, come l’andamento congiunturale di alcuni settori industriali e l’introduzione di nuove tecniche produttive che comportano un minore impiego di manodopera.

    Le emigrazioni permanenti verso l’esterno e verso l’interno non sono molto accentuate, ma risultano particolarmente gravi perchè riguardano soprattutto le nuove leve del lavoro, che hanno minore difficoltà di adattamento alla dura vita dell’emigrante, e coinvolgono anche elementi specializzati già occupati, che preferiscono ricercare altrove migliori condizioni di vita, cosicché ne deriva un preoccupante impoverimento qualitativo della manodopera regionale, che potrà avere una influenza negativa sugli sviluppi economici futuri. Bisogna però tener conto che queste correnti sono almeno parzialmente compensate dai rimpatri e dall’immigrazione interna, che avviene soprattutto nei settori del pubblico impiego e del commercio, attenuando le perdite demografiche.

    L’emigrazione verso l’estero dalla provincia di Udine fra il 1876 e il 1925.

    Ma più che l’emigrazione permanente, la grande valvola di sicurezza della pressione demografica friulana è l’emigrazione temporanea, particolarmente radicata nei piccoli proprietari rurali, che difficilmente si rassegnano ad abbandonare per sempre la loro casa e i loro campi, ma cercano anzi di migliorarli e di accrescerli con i guadagni effettuati altrove. Molto deboli sono, in questo caso, le correnti dell’immigrazione temporanea, per cui in tutti i censimenti finora eseguiti la popolazione presente della provincia di Udine risulta sempre molto inferiore a quella residente. Nel 1951 il «deficit» della popolazione presente era del 3,6% (vedi Tabella Vili), mentre le province giuliane presentavano invece un leggero saldo attivo. Va però considerato che quel censimento venne eseguito verso la fine dell’autunno, quando generalmente gli emigranti sono in massima parte già rientrati per la sospensione invernale dei lavori.

    Esaminiamo ora più da vicino le varie correnti migratorie, incominciando da quelle verso l’estero, che sono le più appariscenti e mancano naturalmente di contropartita. In Friuli tale fenomeno, favorito dalla posizione confinaria della regione, assunse grande importanza nel secolo scorso, in rapporto con il grande incremento demografico e con lo sviluppo delle vie di comunicazione. Durante la dominazione austriaca la principale corrente si indirizzò verso Trieste, che grazie ai suoi commerci si sviluppava come un fungo, ma anche dopo l’annessione all’Italia, fino allo scoppio della grande guerra, i Friulani continuarono a emigrare nelle vicine terre degli imperi centrali, dove venivano realizzate grandi opere ferroviarie, stradali ed edilizie. Le correnti transoceaniche non furono, in questa prima fase, molto rilevanti, e riguardavano dapprima il Brasile e l’Argentina e poi gli Stati Uniti. La quasi totalità degli emigranti era di sesso maschile, poiché si trattava per lo più di emigrazione temporanea e giovanile, mentre nel resto del paese ebbe già in questo periodo notevole importanza l’emigrazione permanente di interi nuclei familiari. La maggior parte dei partenti era costituita in un primo tempo da contadini-braccianti, ma verso la fine del secolo cominciano ad avere il sopravvento gli operai edili generici e, più tardi, gli operai qualificati e gli artigiani.

    I primi dati statistici disponibili risalgono al 1876 e si riferiscono ai passaporti rilasciati per l’estero a scopo di lavoro, ma talvolta gli emigranti partivano anche senza i regolari documenti per cui questi dati risultano certamente inferiori alla realtà. Nel quarantennio 1876-1915, come risulta dalla Tabella IX, furono rilasciati complessivamente a cittadini residenti nella provincia di Udine 1.408.000 passaporti, di cui però solo 105.000 per paesi transoceanici, che corrispondono in linea di massima all’aliquota dell’emigrazione permanente. Si ebbero quindi in media 35.200 partenze all’anno, di cui 2620 oltre oceano. Il flusso degli emigranti risulta però piuttosto irregolare, raggiungendo la punta massima di 56.000 unità nel 1899. L’emigrazione transoceanica culmina nel 1913, quando rappresenta quasi un quarto di tutta l’emigrazione. Rispetto alla popolazione legale registrata dai vari censimenti, gli emigranti verso l’estero rappresentano da un minimo del 4% nel 1881 ad un massimo dell’8,4% nel 1901.

    Dopo la stasi bellica la ripresa migratoria fu piuttosto lenta, per la elevatissima mortalità maschile durante la guerra e per il considerevole numero di invalidi per eventi bellici, non più in grado di affrontare la difficile vita dell’emigrante. Inoltre lo sforzo della ricostruzione interna impegnava tutte le energie disponibili, mentre d’altro canto i paesi immigratori cominciavano a porre limiti sempre più severi all’ingresso della manodopera straniera.

    Resiutta, centro slavo allo sbocco del canale di Resia nel Canale del Ferro.

    Nel 1920 il numero degli emigranti corrisponde ad appena la metà di quello prebellico, ma negli anni successivi il fenomeno riacquista la sua importanza, trovando nuovi sbocchi nell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Lussemburgo), mentre in America, dopo le restrizioni imposte dagli Stati Uniti, la principale meta diviene l’Argentina. Nel periodo 1919-25 la media dei passaporti rilasciati si aggira sulle 25.500 unità, di cui ben il 18% per paesi transoceanici. In questo periodo comincia anche a manifestarsi una debole emigrazione giuliana, dovuta all’esodo di elementi allogeni, in gran parte dipendenti dell’ex Impero Austro-Ungarico, che rientrano nei paesi d’origine o scelgono l’emigrazione transoceanica.

    Dopo il 1925, soprattutto in sèguito alla politica interna ed estera del Governo Italiano, il fenomeno migratorio verso l’estero cominciò lentamente a decrescere, aggravando però sensibilmente la situazione economica e sociale delle aree più povere della regione ed esaltando le correnti migratorie interne. La media dell’emigrazione transoceanica nel decennio 1921-30 s’aggira per tutta la regione sulle 3000 unità, mentre nel decennio seguente si riduce a sole 500. Dopo il 1935 incomincia a manifestarsi una modesta corrente migratoria verso le colonie.

    In sèguito a questa innaturale riduzione delle partenze, alla fine della seconda guerra mondiale la situazione demografica regionale si presentò fortemente inasprita per l’aggravato squilibrio fra la popolazione e la produzione e subì un grave peggioramento con l’afflusso dei profughi. L’emigrazione verso l’estero riprese allora su larga scala raggiungendo medie molto elevate. Nel periodo 1946-51 emigrarono per via marittima dalle province di Udine e Gorizia in media 5150 persone all’anno, dirette soprattutto verso il Canada e l’Australia e, secondariamente, verso il Venezuela e gli Stati Uniti. Il flusso si attenuò leggermente negli anni successivi, ma si mantiene però sempre superiore alle 4000 unità.

    Sauris, centro tedesco in Carnia.

    Con il 1954 cominciano poi le prime considerevoli partenze da Trieste, che per la prima volta nella sua storia compare con cifre rispettabili nell’emigrazione italiana. Infatti questa città marittima e mercantile non aveva mai posseduto una radicata coscienza migratoria, poiché anche in precedenti periodi di crisi l’alternativa del trasferimento all’estero per la ricerca di mercati di lavoro più dinamici non aveva mai suscitato l’interesse dei Triestini. Perciò l’attuale fenomeno, che ha dato nel periodo 1954-57 una massa di circa 15.000 emigranti transoceanici, corrispondenti al 5% della popolazione residente nel 1954, può prestarsi a varie considerazioni e costituisce un indice eloquente dei danni arrecati dalla guerra alle strutture economico-sociali triestine, caratterizzate da una diffusa disoccupazione e sottoccupazione.

    Diversamente da quella friulana, l’emigrazione triestina si è rivolta soprattutto all’Australia, che è in grado di assorbire manodopera specializzata per il suo sviluppo industriale. Possiamo pertanto valutare complessivamente a circa 70.000 il numero degli emigranti permanenti partiti dalla regione nel periodo dal 1946 al 1957, ma tale flusso ha però già raggiunto il suo acme ed è ora in una lenta fase discendente.

    Mancano invece elementi statistici. precisi sull’emigrazione temporanea, quasi esclusivamente friulana, che numericamente è di gran lunga più importante e porta discreti vantaggi economici alla regione. In questo dopoguerra sono riprese le direttrici tradizionali e al primo posto fra i paesi di destinazione risulta la Svizzera, seguita dalla Francia e dal Lussemburgo. In sèguito ad alcune gravi sciagure minerarie è invece quasi cessata l’emigrazione verso il Belgio, compensata però recentemente da quella verso la Germania occidentale. La maggior parte dei lavoratori emigranti appartiene all’industria edilizia, ma non mancano gli agricoltori, i minatori ed il personale addetto ai servizi alberghieri e domestici. Molto significativo è il fatto che alla data dell’ultimo censimento risultava temporaneamente assente all’estero il 4% della popolazione residente nella regione (vedi Tabella Vili), di cui 44.000 nella sola provincia di Udine, ma questi dati, come abbiamo già spiegato, sono molto inferiori alla realtà. A questo tipo d’emigrazione, che supera largamente le correnti temporanee verso l’interno, partecipano soprattutto i comuni della regione collinare subalpina e dell’alta pianura occidentale, in cui gli assenti all’estero rappresentavano in certi casi oltre il 10% della popolazione residente, con punte massime del 24,1% per Arba, del 23,8% per Fanna e del 18,9% per Grimacco.

    Migrazioni interne

    Passiamo ora ad esaminare le correnti permanenti di migrazione interna, che si sviluppano però in entrambe le direzioni, con una netta prevalenza delle nuove iscrizioni anagrafiche sulle cancellazioni. Dall’ultimo censimento risulta che il 13% dei nati nel Friuli-Venezia Giulia abitano in altre regioni italiane, per lo più nell’Italia settentrionale (9,4%), soprattutto in Lombardia (3,4%) e nel Veneto (2,7%), che sono le regioni più vicine. D’altra parte si ricava che il 18,7% della popolazione residente non è nata nella regione. Di questa però una quota rilevante proviene dagli ex territori italiani della Venezia Giulia (6,9%), ed è quindi di immigrazione recente, mentre una certa percentuale (2,5%) risulta nata all’estero, specialmente a Trieste e Gorizia. Fra gli immigrati dalle altre regioni italiane prevalgono nettamente i settentrionali (6%), di cui oltre i due terzi sono veneti, ma non è neppure trascurabile la quota dei nati nelle regioni centro-meridionali e insulari (3,2%). In particolare la provincia di Trieste presenta una delle più alte quote italiane di popolazione non nata nella provincia.

    Vedi Anche:  Usi, costumi, credenze e cultura del Friuli

    Timau, centro tedesco nell’alta valle del But, sotto il Passo di Monte Croce Carnico.

    Una speciale considerazione merita l’immigrazione dei profughi, che ha notevolmente alterato la fisionomia demografica della regione ed ha suscitato gravi problemi, sia per la massa delle persone immigrate, che per la brevità del periodo in cui tale flusso è avvenuto (1944-54). Secondo la più attendibile valutazione statistica i profughi giuliani e dalmati stabilitisi nel territorio nazionale ammontano a circa 150.000, di cui il 44% (circa 65.000) si sono trattenuti nel Friuli-Venezia Giulia, dove costituiscono il 5% della popolazione residente. La maggior parte di questi (circa 50.000) ha però preferito rimanere a Trieste, che è la prima città italiana incontrata sulla via dell’esilio, per rimanere più vicini alle terre che hanno dovuto abbandonare, in un ambiente sociale non molto dissimile da quello di provenienza. Nell’area urbana sono sorti nuovi quartieri edilizi riservati a questa categoria di persone, per cui sono pure stati costruiti nuovi centri residenziali sull’altipiano carsico, presso Villa Opicina, Prosecco e Sistiana, e nuovi centri pescherecci sulla costa, alla foce del Timavo e presso Muggia. Molti profughi vivono però ancora nei campi di raccolta e sono in attesa di una sistemazione economica. Si tratta per lo più di agricoltori, per cui sta provvedendo con i contributi statali l’Ente per le Tre Venezie con le opere di bonifica del Fossalòn (Bonifica della Vittoria), nella Bassa Friulana, e dei « magredi » dell’alta pianura occidentale (Consorzio Cellina-Meduna). Notevoli agglomerati di profughi si sono anche formati nelle aree urbane di Gorizia e di Monfalcone.

    Non va alfine trascurata l’emigrazione temporanea interna, che si svolge per lo più nell’àmbito regionale, ma valica spesso i confini amministrativi delle regioni più vicine, senza avere sensibili contropartite. E un’emigrazione tradizionale, in gran parte stagionale, che riguarda certi mestieri o commerci caratteristici e si svolge soprattutto dalla montagna verso i centri della pianura. Il flusso più rilevante riguarda naturalmente l’industria edilizia, che richiama periodicamente muratori, scalpellini e manovali nei centri urbani in espansione o li assorbe nelle costruzioni idroelettriche, stradali, ferroviarie, o nelle opere irrigue e di bonifica. Notevoli sono pure gli spostamenti del personale alberghiero per il turismo estivo, dei boscaioli, dei braccianti agricoli. Dalla vai Tramontina e dalla vai di Resia sciamano per tutta la regione gli stagnini-ombrellai, che una volta andavano anche più lontano, nel Veneto, nell’Emilia-Romagna e nell’Istria. Anche gli arrotini provengono per lo più dalla vai di Resia, mentre dalla vai Cellina scendono le venditrici di utensili domestici in legno, che i « sedoneri » (da « sedòns » = cucchiai) producono nei

    loro modesti laboratori domestici, ormai in decadenza per la concorrenza dei prodotti industriali. Fra i comuni che alla data dell’ultimo censimento avevano la maggiore percentuale di popolazione assente all’interno figurano appunto quelli delle zone prealpine, come Erto e Casso, Cimolàis, Tramonti di Sotto, Ragogna e Resia.

    La composizione della popolazione

    La progressiva riduzione della natalità e della mortalità e le perdite migratorie hanno determinato nella popolazione giulio-friulana un processo d’invecchiamento, comune del resto a molte regioni italiane.

    Secondo il censimento generale del 1951, l’unico disponibile per l’attuale regione, il gruppo di età da o a 10 anni rappresenta solo il 14,4% della popolazione, di fronte ad una media nazionale del 17,3%, largamente superata nel vicino Veneto. Inferiore alla media è pure il gruppo di età compreso fra i 10 e i 25 anni, che rappresenta il 23,3% nel Friuli-Venezia Giulia, ma il 26% in Italia. Le due medie riescono a pareggiarsi però già nel gruppo successivo, da 25 a 35 anni, anche per effetto delle correnti immigratorie, particolarmente sensibili a Trieste e a Gorizia, mentre per le classi anziane si nota una sempre più spiccata differenza a favore della media regionale, tanto che le persone in età superiore ai 65 anni rappresentano il 9,2% della popolazione giulio-friulana, laddove la media nazionale è appena dell’8,2%.

    Tarvisio, centro tedesco della Carinzia italiana.

    Trieste: la chiesa evangelica di rito augustano.

    Ci sono invero regioni italiane in cui questo processo è molto più accentuato, o per un maggiore flusso emigratorio o per una minore natalità; tuttavia il Friuli-Venezia Giulia presenta in modo molto evidente una sintomatologia di indebolimento della compagine demografica, che si ripercuote naturalmente sulle sue stesse strutture economiche.

    La situazione è però alquanto diversa nelle tre province. Nel Friuli infatti, tipica provincia rurale, i bambini al di sotto dei io anni raggiungono il 16,1% della popolazione e pure superiori alla media regionale sono le classi giovanili fino ai 35 anni; la flessione si manifesta nelle classi successive, maggiormente colpite dalle guerre e dall’emigrazione, ma nell’ultimo gruppo, sopra i 65 anni, la media friulana coincide press’a poco con quella regionale. Nelle province giuliane invece le classi giovanili sono meno rappresentate, cosicché prevalgono quelle anziane, soprattutto in quella urbana di Trieste, dove il gruppo d’età inferiore ai 10 anni si riduce appena al 6,9% della popolazione, mentre quello superiore ai 65 anni sale al 9,7%.

    Il rapporto statistico fra i due sessi presenta un andamento normale, essendo caratterizzato da un’eccedenza maschile per i nati vivi che poi scompare fra i 25 e i 35 anni per lasciare il posto ad un’eccedenza del sesso gentile. Nel 1951 infatti il gruppo d’età da o a 6 anni era costituito da 55.031 maschi e 52.680 femmine, ma nel gruppo superiore ai 65 anni le femmine erano 65.849 di fronte a 47.004 maschi. In complesso la popolazione regionale è composta per il 48,4% da maschi e per il 51,5% da femmine, con un rapporto statistico leggermente più favorevole alle donne di quello che non si verifichi sul piano nazionale, in conseguenza soprattutto delle perdite belliche e del « deficit » migratorio, che è prevalentemente maschile. Le donne eccedono sugli uomini soprattutto nelle grandi città e quindi non deve meravigliare che nella provincia di Trieste esse rappresentino il 52% della popolazione.

    La composizione familiare è in lenta diminuzione, come del resto accade in tutto il paese. Nel 1951 la media regionale era di 3,8 componenti per famiglia, pari quasi alla media nazionale. Mentre però nelle province industriali e urbane tale media è più bassa, riducendosi a 3,7 per Gorizia e a 3 per Trieste, nella provincia agricola di Udine sale a 4,3, sopravanzando lo stesso Veneto e dimostrando ancora una notevole efficienza della compagine familiare, malgrado che il sorgere e il diffondersi su larga scala della piccola proprietà fondiaria abbia certamente contribuito allo smembramento delle famiglie patriarcali.

    La popolazione attiva, ossia gli abitanti in età superiore ai 10 anni che alla data dell’ultimo censimento risultavano esercitare una professione, erano disoccupati o in attesa di prima occupazione, costituisce il 51,2% del totale dei residenti, mentre la media italiana è appena del 43,5%. Questa sensibile differenza è dovuta soprattutto alla maggiore occupazione femminile, che rappresenta il 26,7% della popolazione attiva, di fronte a una media nazionale del 25,5%. Infatti il 26,3% della popolazione femminile giulio-friulana si trova in condizioni professionali, in confronto al 21,7% del complesso nazionale. Più elevata è però anche l’occupazione maschile, che risulta pari al 77,3% della popolazione attiva di quel sesso, mentre la percentuale nazionale è appena del 66,2%, prova evidente di una precoce immissione delle leve giovanili nel campo del lavoro e della larga partecipazione dei vecchi alle attività agricole, a scapito naturalmente del rendimento medio. Per questi motivi la provincia di Udine presenta una popolazione attiva in leggera eccedenza sulle province giuliane, dove vi è in proporzione una maggiore popolazione scolastica e un maggior numero di pensionati delle attività secondarie e terziarie. La percentuale più bassa si riscontra però a Gorizia (48,3%) che fin dallo scorso secolo ha assunto la prerogativa di ospitare nelle sue case di cura e di soggiorno molte persone anziane, grazie al suo clima mite, alla sua vita tranquilla e alle agevolazioni fiscali di cui gode.

    Le condizioni culturali della popolazione

    La regione ha una popolazione in massima parte italiana, friulana e veneta, ma per la sua posizione geografica di confine e per le sue particolari vicende storiche, che abbiamo già esaminato, possiede anche alcune minoranze etnico-linguistiche, costituite da alcuni gruppi abbastanza compatti di Sloveni e da pochi nuclei di Tedeschi. Tutti gli alloglotti sono però bilingui e leali cittadini italiani.

    Trieste: la chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione.

    Gli Sloveni sono distribuiti in una fascia abbastanza ampia, ma poco densamente popolata, lungo il confine italo-iugoslavo, dal Carso triestino alla vai Canale. Sono dediti quasi esclusivamente alle attività rurali, ma hanno avuto in questo dopoguerra un notevole risveglio culturale, favorito dalla libertà di cui godono nello spirito della Costituzione della Repubblica Italiana. Tuttavia il loro numero, in sèguito ai mutamenti territoriali dovuti al trattato di pace, è molto inferiore a quello prebellico e va lentamente riducendosi sotto l’influsso culturale delle città italiane. Costituiscono una comunità abbastanza rilevante nella provincia di Trieste, dove, secondo le più recenti statistiche scolastiche, rappresentano circa il 10% della popolazione. Sono distribuiti per lo più nei centri rurali dell’altipiano carsico e rappresentano la quasi totalità della popolazione nei piccoli comuni di Monrupino e Sgònico e una buona maggioranza nei comuni di Duino-Aurisina e San Dorligo della Valle. Sono pure presenti nelle zone suburbane e nelle frazioni periferiche del comune di Trieste e nelle frazioni rurali del comune di Muggia. Dal 1954 sono tutelati dallo Statuto speciale per le minoranze dell’ex Territorio Libero di Trieste, allegato al Memorandum di Londra.

    Minore consistenza ha invece la comunità slovena rimasta nella provincia di Gorizia, soprattutto nel Carso monfalconese (comuni di Doberdò, Sagrado e Savogna), nel Collio (comuni di San Floriano e Dolegna) e alla periferia del capoluogo. Questi alloglotti, che dispongono, come nel Territorio di Trieste, di scuole nella loro lingua, rappresentano un po’ meno del 10% della popolazione provinciale, cosicché in tutta la Venezia Giulia ci sono attualmente circa 45.000 Sloveni, che costituiscono una delle più rilevanti minoranze etnico-politiche che vivono nello Stato Italiano.

    Vedi Anche:  Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone e Montefalcone

    Caratteri molto diversi rappresentano invece i gruppi slavi della provincia di Udine, la maggior parte dei quali sono cittadini italiani fin dal 1866 e sono ormai assimilati alla tradizione nazionale italiana, per quanto usino ancora nei rapporti familiari dei dialetti slavi. Il gruppo più compatto risiede nelle Prealpi Giulie, nelle valli dello Iudrio, del Natisone e del Torre, senza però arrivare mai alla pianura. Un interessante nucleo slavo, di probabile origine slovena, si trova poi nella vai di Resia, mentre altri Sloveni vivono nella vai Canale e nel Tarvisiano, annessi all’Italia nel 1919. Secondo il censimento del 1921 il loro numero complessivo era di circa 34.000 unità, ma da allora si è notevolmente ridotto, per un naturale processo di assimilazione con la popolazione friulana e veneta. Alcuni gruppi allogeni di origine commerciale risiedono poi fin dai tempi del porto franco a Trieste, come le comunità greca e serba, che hanno pure conservato le loro caratteristiche religiose.

    La regione ha una popolazione compattamente cattolica, con antiche tradizioni che risalgono ai tempi del patriarcato ecclesiastico di Aquileia. Solo a Trieste, per le sue particolari origini commerciali, sono presenti anche altre comunità religiose, come quella ebraica, la greco-ortodossa, la serbo-ortodossa, e vari gruppi evangelici di confessione anglicana, cristiano-avventista, metodista, valdese, augustana ed elvetica. Piccole comunità religiose evangeliche esistono anche a Gorizia e Udine.

    Il livello culturale della regione può considerarsi discreto, poiché, come si può vedere nella Tabella X, la percentuale degli analfabeti è una delle più basse d’Italia (4,1% nel 1951) e anche il numero degli alfabeti privi di titolo di studio è molto inferiore alla media nazionale (11%). Ci sono naturalmente notevoli differenze fra le tre province e le varie regioni naturali ed economiche. La percentuale di analfabeti è infatti un po’ più elevata nella provincia di Udine (4,9%), a struttura prevalentemente rurale, specialmente nei comuni della Bassa Friulana, in cui è diffuso l’insediamento sparso, ed in quello peschereccio di Marano, in cui si registra la più alta percentuale regionale (10%). Nelle province giuliane, invece, a struttura prevalentemente industriale e a diffuso insediamento urbano, l’analfabetismo è quasi trascurabile (2,8% a Gorizia e 2,4% a Trieste). Le punte massime si registrano per Gorizia nel comune peschereccio di Grado (8,9%) e per Trieste in quello di Muggia (8,2%), dedito all’agricoltura intensiva con insediamento sparso ed alla pesca. Percentuali superiori alla media regionale si registrano anche nel Collio e nella Bassa Monfalconese.

    Trieste: interno della chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione.

    Trieste: sinagoga ebraica.

    E interessante seguire il rapido regresso dell’analfabetismo nella provincia di Udine negli ultimi 80 anni, che è una decisiva testimonianza dello sviluppo economico e sociale della popolazione friulana. Nel 1871 infatti l’analfabetismo, diffusissimo in tutta la provincia, interessava il 73,1% della popolazione sopra i 10 anni, con punte del 90% per il distretto di San Pietro al Natisone e di 80% per quello di Pordenone. Ma trentanni dopo la percentuale risultava già quasi dimezzata (34,5% della popolazione sopra i 6 anni) e scendeva ancora sensibilmente nel 1911 (23,8%) e nel 1921 (11,8%). Negli ultimi trentanni si è registrato un ulteriore dimezzamento della percentuale di analfabeti, cosicché oggi il fenomeno riguarda quasi unicamente le classi più anziane. Infatti solo il 2,3% di analfabeti è in età fra i 6 e i 14 anni.

    La regione possiede numerose istituzioni scolastiche e culturali, fra cui in primo luogo l’Università degli Studi di Trieste, con circa 3000 studenti, che svolge una importante funzione europea di irradiazione e di intermediazione, a vantaggio non solo della cultura italiana, ma anche di quella di tutto il mondo occidentale.

    L’istruzione superiore a Trieste ebbe inizio con la Scuola Superiore di Commercio «Pasquale Revoltella », istituzione prettamente triestina, fondata nel 1871 con un lascito del barone, intraprendente e colto commerciante, da cui ebbe il nome. Dopo la prima guerra mondiale, la scuola riaprì i suoi battenti con il nome di Istituto di Scienze Economiche e Commerciali, a cui nel 1924 fu conferito il titolo di Università. Nel 1938-39 alla tradizionale Facoltà di Economia e Commercio venne affiancata quella di Giurisprudenza, con annesso corso di laurea in Scienze Politiche, e così gli iscritti superarono in quell’anno accademico per la prima volta

    il migliaio. Nel 1943-44 fu creata la Facoltà di Lettere e Filosofia, in un momento molto critico per la storia politica e nazionale della città, mentre neH’immediato dopoguerra vennero aperte anche le Facoltà di Ingegneria e di Scienze Fisiche e Matematiche, grazie alle quali il numero degli studenti superò di gran lunga le 2000 unità. Più recentemente sono state istituite le Facoltà di Farmacia e Magistero ed un Istituto Superiore di Lingue Moderne, annesso alla Facoltà di Economia e Commercio.

    Nel 1938 ebbe inizio la costruzione del monumentale complesso edilizio di Pendice Scoglietto, inaugurato nel 1950, attorno a cui sta sviluppandosi una vera e propria cittadella universitaria. All’Università di Trieste affluiscono naturalmente gli studenti da tutta la regione e non mancano gli stranieri, attratti dalla posizione geografica della città e dall’alto livello degli studi.

    Nella regione ci sono poi 12 ginnasi-licei, 7 licei scientifici, 12 istituti magistrali, 8 istituti tecnici, di cui 5 commerciali e per geometri, 2 industriali e 1 nautico, istituti femminili, 11 scuole tecniche, 4 istituti professionali, 4 istituti artistici, fra cui il Conservatorio musicale statale « G. Tartini» di Trieste, una cinquantina di scuole medie e una sessantina di scuole di avviamento professionale. Le scuole elementari, che sono oltre un migliaio, sono presenti in tutti i comuni, ma un centinaio di esse si limitano solo alle prime tre o quattro classi. L’istruzione è quasi esclusivamente statale, poiché la scuola privata non ha grande sviluppo nella regione. I principali centri scolastici sono Trieste, con 17 istituti superiori, di cui 2 con lingua d’insegnamento slovena, Udine con 8 istituti superiori, e Gorizia con 9 istituti superiori, di cui 2 con lingua d’insegnamento slovena. Più recentemente si è affermato anche Pordenone con 5 istituti che raccolgono gli studenti della «destra Tagliamento». A Cividale c’è il Convitto Nazionale «Paolo Diacono». In fase di espansione è l’istruzione tecnica, per cui stanno sorgendo nuovi istituti atti a soddisfare le nuove esigenze della popolazione scolastica e dell’economia regionale.

    Il Friuli-Venezia Giulia possiede anche insigni biblioteche e musei, la cui importanza non è solamente locale. La più antica è senz’altro la Biblioteca Guar-neriana di San Daniele del Friuli, fondata nel 1464 dal dotto umanista Guarnerio d’Artegna, ricca di circa 200 codici. La Biblioteca Civica di Trieste risale al 1797 e possiede importanti codici petrarcheschi. A Gorizia c’è una Biblioteca Governativa che accoglie tra l’altro l’Archivio Storico Morelliano, importante raccolta di documenti degli Stati provinciali di Gorizia. Tutti i documenti e le opere che illustrano la passata vita del Friuli sono invece raccolti nella Biblioteca Comunale di Udine.

    Per ciò che riguarda i musei, il primato spetta senza dubbio a Trieste, che possiede un Museo di Storia ed Arte, con annesso Orto Lapidario, il Museo di Storia Naturale, da cui dipendono l’Acquario Marino e l’Orto Botanico, il Museo del Mare, i Musei Storici dei Castelli di San Giusto e di Miramare, i Musei Artistici Revoltella e Sartorio, i Musei di Storia Patria e del Risorgimento. A Gorizia sono notevoli il Museo di Storia ed Arte che ha sede nel Castello e il Museo della Redenzione, ospitato nel Palazzo Attemis, mentre a Udine il patrimonio museistico è concentrato nel Castello, dove c’è anche una pregevole Pinacoteca. Una minore Pinacoteca di artisti regionali si trova a Pordenone. Di importanza nazionale sono poi i Musei Archeologici di Aquileia e di Cividale, mentre un discreto interesse riveste anche il Museo Carnico di Tolmezzo.

    Trieste: la nuova Università degli Studi.

    Le tradizioni secolari della cultura regionale si conservano però anche in una serie di istituzioni culturali specializzate, alcune delle quali hanno una risonanza nazionale. A Udine svolge la sua attività fin dal 1606 l’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, che pubblica annualmente i suoi Atti, a cui collaborano i più dotti ingegni del Friuli. Dal 1846 opera attivamente l’Associazione Agraria Friulana, che pubblica un Bollettino, mentre al 1870 risale la Stazione Sperimentale Agraria. Nel 1905 ha origine la Deputazione di Storia Patria per il Friuli, con sede a Cividale, che pubblica le Memorie Storiche Forogiuliesi e infine al 1919 risale la fondazione della gloriosa Società Filologica Friulana « G. I. Ascoli », che cura attualmente la pubblicazione delle riviste periodiche « Ce Fastu ?» e « Sot la nape ». Ma notevole è stata pure l’attività scientifica della Società Alpina Friulana e della Società Speleologica Friulana. A Trieste sorse nel 1810 la Società del Gabinetto di Minerva, che cura la pubblicazione dell’Archeografo Triestino, mentre al 1874 risale la Società Adriatica di Scienze Naturali, di cui è noto in tutto il mondo il Bollettino. Più recentemente si è affermata anche l’Accademia di Studi Economici e Sociali «Cenacolo Triestino».

    Trieste: una delle sale del Museo del Mare.

    La vita culturale è molto intensa specialmente a Trieste che alimenta con la cultura la sua fede nazionale. Le manifestazioni più importanti fanno capo all’Università, che ospita annualmente numerosi congressi nazionali e internazionali, mentre altre manifestazioni di rilievo vengono promosse da varie istituzioni locali, fra cui meritano di essere segnalate il Circolo di Cultura e delle Arti e la Società Dante Alighieri. La città possiede il bellissimo Teatro Verdi, eretto nel 1801, con una propria orchestra stabile, che presenta ogni anno un nutrito programma musicale, mentre per la prosa è sorto da alcuni anni il Teatro Nuovo, che ha pure una sua compagnia stabile. La minoranza linguistica dispone, grazie al Memorandum di Londra, del Teatro Nazionale Sloveno ed ha una propria vita culturale. A questo proposito non va dimenticata l’assidua opera svolta in tutta la Venezia Giulia a difesa della cultura italiana dalla Lega Nazionale, fondata nel 1885 a Rovereto allo scopo di promuovere l’istituzione e il mantenimento di scuole italiane entro i confini dellTmpero Austro-Ungarico, sul confine linguistico della nazione.

    Osservatorio astronomico di Trieste.