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Usi, costumi, credenze e cultura del Friuli

    La vita popolare

    Usi e credenze popolari

    Il patrimonio folcloristico regionale è ricco soprattutto nel Friuli, dove si conserva ancora vivo negli ambienti rurali, specialmente nelle zone più appartate della montagna. Dicono i vecchi ancor oggi in Carnia: « Ogni vile la so usanze, ogni ciase il só costum » (Ogni villaggio ha la sua usanza, ogni casa il suo costume). Eppure anche in Friuli il progresso con la sua rapida marcia sta travolgendo inesorabilmente le poche costumanze superstiti, livellando e uniformando tutto. Quando, settantanni fa, un medico di Gemona, Valentino Ostermann, preso dal fervore per gli studi folcloristici o, come si diceva allora, demologici, scrisse la bella opera Vita in Friuli, usanze e credenze popolari erano ancora vive e vigorose. Oggi, dopo due guerre, la sempre maggiore diffusione deiristruzione, le comunicazioni più frequenti e il tono più dinamico della vita hanno dato un colpo mortale a quel « sapere popolare » che va morendo, perchè ormai la sua funzione è finita. E fortuna che alcuni studiosi appassionati, riuniti nella Società Filologica Friulana « G. I. Ascoli », abbiano dedicato e dedichino i loro sforzi a documentare, fin che c’è tempo, gli ultimi aspetti di questo mondo culturale del passato!

    Cominciamo dalle varie credenze e usanze relative ai momenti principali della vita dell’uomo: la nascita, il matrimonio, la morte.

    Durante la gravidanza, si deve fare attenzione alle cosiddette voglie. Guai se la gestante si tocca una parte del corpo, quando prova voglia di qualche cosa. Il figlio nascerà con una macchia nel punto preciso dove essa si è toccata. Quando si manifestano le doglie, bisogna badare che non vi siano matasse e gomitoli in casa. Se il parto presenta delle difficoltà, si mette sul letto un indumento usato del marito. Dopo il parto, appena la puerpera può uscir di casa, si reca in chiesa ad ascoltare una Messa, come rito di purificazione. Per il battesimo, un tempo, si usava portare il neonato in chiesa in un apposito cofanetto a vetri. Quanto alla scelta dei nomi, è da notare la predilezione nei contadini e nella gente più umile per i nomi complicati e insoliti. I poemi classici vengono saccheggiati a rischio di appioppare a una femminuccia un nome maschile terminante in « a » o viceversa.

    Più ricche e meglio conservate sono le usanze matrimoniali e le feste nuziali. In alcune regioni del Friuli le ragazze credono che la notte di Natale potranno vedere il volto deiruomo loro destinato, se lasceranno fuori dalla finestra un bicchiere con l’albume d’un uovo, oppure se riusciranno ad essere le prime ad alzarsi la mattina all’alba e ad andare a pettinarsi davanti ad uno specchio. Per fare la dichiarazione d’amore si ricorre anche al linguaggio dei fiori, spargendo la notte precedente il primo di maggio, davanti alla porta di casa della ragazza, erbe e fiori e altre sostanze aventi ognuna un significato simbolico ben definito. Questa costumanza è chiamata la s dámete, ed è riservata alle fanciulle per bene. Al contrario, invece, la purdte, a base di paglia, fieno e persino di letame, è una presa in giro di quelle meno degne o delle coppie che rompono il fidanzamento. Talvolta i giovani del paese congiungono con strisce di calce o carbone o cenere o altra sostanza adatta le porte di casa dei due ex fidanzati.

    Un altro uso molto pittoresco è il solenne trasporto del corredo dalla casa della fidanzata a quella del fidanzato, che avviene due giorni prima del matrimonio con un preciso cerimoniale. Il viaggio viene effettuato generalmente nelle ore serali con un carro tirato da buoi o, in montagna, con le gerle. Il carro ha il timone infiorato ed è condotto dal fratello o dal cugino più giovane dello sposo. Al momento della partenza del carro la sposa, che rimane a casa sua, spezza una verga e ne getta i frammenti dietro le spalle, per infrangere così ogni malìa. Arrivato il corredo nella casa dello sposo, viene preparato il letto nuziale, in cui lo sposo dorme, per inaugurarlo, la vigilia del matrimonio, in compagnia d’un amico.

    Ancora viva è l’usanza che il marito in chiesa abbia l’avvertenza di inginocchiarsi sopra un lembo della gonna della sposa, per affermare la sua potestà, mentre la sposa deve accomodarsi l’anello da sola, quasi ad affermare la sua indipendenza dalla volontà del marito. La festa nuziale assume una vivacità particolare ad Aviano, nel Friuli occidentale, mentre in Carnia una bella tradizione è il traghèt o stange, pedaggio che lo sposo deve pagare alla gioventù del paese della sposa, a titolo augurale per entrambi. Quando la giovane sposa mette piede nella casa dello sposo, la suocera usa offrirle pane, sale e vino, oppure la scopa, insegna dell’ordine e della pulizia.

    Se gli sposi sono vedovi o attempati si usa fare ancora la vigilia delle nozze la scampanata, in friulano batarele o sdrondenade o rialderade, battendo casseruole, piatti, secchi, latte di petrolio, ed altri arnesi.

    Molte sono le superstizioni popolari relative ai presagi di morte, come per esempio, la rottura di specchi o la caduta di quadri. Quando moriva un bambino, un tempo le campane nei villaggi suonavano a festa, perchè c’era un angelo di più in paradiso. Ed era una costumanza edificante. Ma circolavano anche molte storie paurose di apparizioni di morti alle quali alcuni prestano ancor fede. E poi credenza diffusa in tutto il Friuli che le anime dei morti tornino a visitare le loro case, nella notte del 2 novembre. Per questo i contadini lasciano le stalle aperte e i secchi pieni d’acqua. In Carnia si lasciano addirittura le tavole imbandite col pane, il cibo nei piatti, per lo più verdura cotta, e l’acqua nelle brocche.

    Interessante lato dell’anima popolare è la credenza, ancora abbastanza viva, nell’intervento del soprannaturale diabolico e magico nella vita d’ogni giorno. Si può dire anzi che il popolino consideri il diavolo e i vari spiriti malefici con una certa familiarità e bonomia. E molto nota la leggendaria beffa fatta al diavolo dagli abitanti di Cividale, che si erano assicurati la sua collaborazione per la costruzione dell’audace ponte sul Natisone, detto appunto « ponte del diavolo », con la promessa di mettere nelle sue mani l’anima del primo essere vivente che fosse passato sopra la nuova costruzione; ma ad opera compiuta fecero in modo che il primo a passare fosse un cane.

    Donne in costume carnico a Forni di Sopra.

     

    Un personaggio che s’incontra di frequente nelle fiabe e nelle leggende friulane è l’orcul (orco), spirito burlone più che malefico, usato anche, con discutibile saggezza, a scopo pedagogico. Si dice ai bambini disubbidienti: s’a/ ti sint a vai, al ven l’orcul (se ti sente piangere, viene l’orco). Ma l’occupazione più congeniale all’orco è quella di prendere in giro il puar cristiàn con burle di ogni genere. Ci sono numerosi racconti di queste apparizioni scherzose per tutto l’Ottocento. Faceva perdere l’orientamento a quelli che dovevano rientrare tardi la sera. Andava a svegliare a ore inverosimili i falciatori che si dovevano alzare presto la mattina. Si trasformava nei più svariati oggetti per poi recuperare, ridendo, la forma primitiva.

    Altra credenza molto diffusa fra il popolo è quella che esistano le streghe. Si tratta di donne per lo più vecchie e brutte, che in apparenza vivono come tutte le persone comuni, ma sono dotate di poteri speciali, che usano a fin di male. Ad esse bisogna nascondere le proprie intenzioni, rispondendo alle loro astute domande tutto il contrario della verità. In particolare devono essere protetti da esse i bambini. Quando sul finire dei temporali, mentre piove ancora, ricompare il sole, i camici dicono si petenin lis striis (si pettinano le streghe).

    I casolari abbandonati e diroccati sono generalmente, a detta dei contadini, infestati dagli spiriti. A maggior ragione i castelli, sede di luttuosi avvenimenti in epoche lontane. Il Cossàr, in un suo libro sul Castello di Gorizia, accenna al fantasma della « dama bianca » che ogni tanto vi fa le sue apparizioni. Si tratterebbe della moglie del conte Enrico IV (XV sec.), Caterina Garay, di origine ungherese, donna avidissima, che avrebbe fatto uccidere un messo di Aquileia, ospitato nel castello, per impadronirsi del sacco d’oro che recava con sè. Ma dopo aver nascosto l’oro nei sotterranei venne uccisa dal suo complice e la sua anima è destinata a non aver pace finché il tesoro non sarà stato scoperto e ricuperato. L’apparizione si verificherebbe ogni sette anni.

    Feste e tradizioni

    Passiamo ora rapidamente in rassegna le principali feste dell’anno, con le loro tradizioni. A Natale si usa introdurre in casa, tra suoni e canti, il ceppo natalizio, che viene messo sul focolare e accuratamente custodito fino al giorno dell’Epifania, quando la padrona di casa lo spegnerà con l’acqua benedetta. Bambini e ragazze biancovestite girano di casa in casa con la stella fissata ad un bastone, intonando pastorali e ricevendo in premio denaro o dolci.

    Per San Silvestro le ragazze da marito traggono i loro pronostici buttando sul fuoco una noce, offerta dal fidanzato: se la noce scricchiola, è indice di fedeltà e di felicità. La mattina del primo dell’anno si fa attenzione alla prima persona che si incontra, perchè incontrare un uomo adulto porta fortuna. In questo giorno in qualche paese del Friuli si celebra la festa dei coscritti.

    La sera che precede l’Epifania si accendono nelle campagne e sui monti i pignarùi, grandi roghi alimentati da canne di granoturco, stoppie e ramaglie. La tradizione, che si vuole legata agli antichissimi riti celtici in onore del Dio Beleno, ha un significato propiziatorio per il futuro raccolto, a seconda che il fumo si dirige verso i monti o verso la pianura, ma la gente dice anche che il fuoco serve per riscaldare i Re Magi. A Tarcento l’accensione del pignarùi sull’altura di Coia ha assunto particolare interesse turistico. Ma osserviamo la costumanza dove si è conservata più semplice e pura, come per esempio a Villalta di Chions. Nei giorni precedenti l’Epifania, quasi a conclusione dell’annata, si provvede a ripulire i campi e i fossi dalle sterpaglie e dai rovi che vengono accumulati in un punto convenuto, dove si pianta un palo alto cinque o sei metri e terminante in forma di croce, che viene poi accuratamente fasciato di paglia. Attorno vengono pressati gli sterpi, fino ad ottenere un compatto covone, che si chiama casèra; in alto rimane sporgente la croce, mentre alla base si dispone una corona di canne di granoturco che faciliteranno l’avvio del fuoco. Naturalmente è motivo di orgoglio erigere una casèra ben grande e compatta, affinchè il falò sia visto anche da molto lontano. Verso le ore quindici del giorno dell’Epifania tutti accorrono alla chiesa per la benedizione, portando acqua, sale e vari prodotti della terra. Prima di cena gli adulti e soprattutto i ragazzi percorrono i propri campi in lungo e in largo, gridando ripetutamente: «Pan e vini… Pan e vin /…», per implorare dal Cielo un buon raccolto. Ma è dopo cena, quando il buio è più fondo, che s’inizia il rito del fuoco. Con l’acqua benedetta nel pomeriggio, il più vecchio del gruppo asperge la casèra, mentre il più giovane appicca il fuoco con un bastone rivestito di paglia, che funge da fiaccola. Il fuoco divampa, mentre tutti intorno recitano litanie e intonano canti devoti, osservando la direzione delle fiamme, per trarne auspici. Quando il fuoco è spento, gli adulti con lunghe pertiche sollevano euforici la brage, augurando «tanti fagioli… tanto grano… tanta uva», ed estendendo poi gli auguri alla salute, ai figli, ai fidanzamenti dei presenti. Il palo quasi sempre sopravvive: talvolta quella lunga croce rimane da un anno all’altro a vegliare sulle campagne, ma non viene usata una seconda volta. Concluso il rito, i partecipanti rientrano a gruppi nelle case, dove le massaie hanno preparato focaccia di polpa di zucca gialla, farina e uova.

    Vedi Anche:  Suddivisioni territoriali del Friuli

    Altro rito pirico caratteristico dell’Epifania e di altre feste, di grande interesse per gli amanti del folclore, è l’usanza carnica di trai lis ddulis, ossia di lanciare, la sera precedente alla sagra paesana, da un’altura prossima all’abitato, rotelle di legno ardenti, forate nel centro. Si tratta di un rito propiziatorio che è così descritto da Caterina Percoto, nota scrittrice friulana dell’Ottocento: «La sera precedente a un dì solenne, alcuni giovinotti del villaggio ascendono la montagna, piantano a lor dinanzi un impalcato e, tagliate di legno resinoso delle rotelle in forma di stella, le conficcano ad un palo, indi danno lor fuoco e le girano, le girano finché sieno bene ardenti, poi battono d’un gran colpo il palo sulla panca, e le fanno scivolare giù a salti per la montagna consacrandole al nome delle giovinette del paese. Ai piedi del monte vi è un’altra turba di garzoni, che stan pronti con arma da fuoco per festeggiare a chi più può il nome della propria morosa ».

    Le località in cui si continua o si è da poco smessa l’usanza di questo lancio sono parecchie e precisamente: Tualis di Comegliàns (vigilia dell’Epifania), Come-gliàns (Epifania), Muina di Ovaro (stessa data), Timau (vigilia di San Giuseppe), Forni Avoltri, Prato Cárnico, Pontebba (vigilia di San Giovanni), Pesariis, Paularo (San Giovanni, San Pietro e Santa Ermacora), Solàrs di Ravascletto (vigilia di Sant’Anna), Piano d’Arta (vigilia della seconda domenica d’agosto), Rivo di Paluzza (vigilia della Madonna di settembre), Chialina di Ovaro (San Silvestro) e Ovaro. Come si vede, le date si sparpagliano seguendo criteri di convenienza, per non disturbare festeggiamenti di paesi o frazioni vicine o per abbinare questa festa di gioventù con la sagra del luogo. Però le date preferite si raggruppano intorno ai solstizi d’inverno e d’estate, cioè alla fine d’un ciclo e all’inizio d’uno nuovo, quando l’uomo sente maggiormente il bisogno di propiziarsi le forze occulte e difendersi dalle loro insidie.

    Lis cidulis sono dischi di legno di 10-15 cm- di diametro, dello spessore di 2-3, ricavati segando un tronco di faggio; i cidulàrs sono tutti gli scapoli del paese, dal diciottesimo anno di età, il più anziano dei quali viene considerato il capo, mentre festegir viene chiamato colui che sovrintende alla loro festa da ballo. Il lancio dei dischi incomincia verso le quindici e finisce circa alle diciannove. Il luogo scelto è uno spiazzo sul dosso della montagna su un pendio sgombro di alberi, dove si piazzano otto o dieci cidulàrs, provvisti di qualche fiasco di vino per ristorare la loro fatica. Un bel fuoco è acceso e mantenuto vivo fino a tarda sera, mentre nella fiamma, via via, si mettono i dischi ad arroventare; per ogni nome gridato viene levata dal fuoco una cidula e gettata. Dopo aver descritto una luminosa traiettoria, tra lo scoppio di mortaretti, cade sul prato sottostante, dove le ragazze aspettano trepidanti di sentire il proprio nome, abbinato a quello del ragazzo dei loro sogni. Cidulàrs di buoni polmoni scandiscono a voce chiara in un imbuto amplificatore i nomi di tutti i butas in cidula, con il tradizionale saluto « vada chesta i?i onor e sanitad di… » (vada questa in onore e salute di…). A Comegliàns la prima cidula viene dedicata al parroco, poi si nominano i cittadini più in vista, finché si arriva ai non sposati. Gli accostamenti sono studiati in modo da favorire possibili matrimoni o anche a scopo di burla. Segue poi il ballo, a cui ogni cidulàr accompagna la sua cidulàra.

    Sull’origine di questa tradizione ci sono diverse opinioni. Secondo il Vidossi l’uso dovrebbe essere di origine tedesca ed importato in Friuli in tempo relativamente recente, mentre il Leicht crede di riconoscere nelle cidulis la sopravvivenza di antichi usi celtici.

    Per Pasqua si usa bruciare l’olivo benedetto la domenica delle Palme e conservato per tutto l’anno, per allontanare il cattivo tempo. Nel Venerdì Santo in alcuni paesi non si fanno lavorare le bestie, mentre il Sabato Santo, all’annuncio della Resurrezione, si usa lavarsi gli occhi e il volto per purificare l’anima dai peccati.

    Nei tre giorni precedenti alla festa dell’Ascensione si fanno le processioni in tutte le campagne, per implorare un buon raccolto. Per la festa di Sant’Antonio comincia di solito in Carnia l’alpeggio, che termina per la Madonna di settembre.

    Il 13 dicembre, festa di Santa Lucia, è anche la festa dei bambini friulani a cui, secondo la tradizione udinese, la Santa porta doni e dolciumi. A Gorizia e a Trieste, invece, la stessa funzione è svolta da San Nicolò, che ricorre il 6 dicembre.

    A Trieste, dove si è verificato negli ultimi secoli un continuo rimescolamento di genti diverse, il patrimonio folcloristico locale si è più facilmente perduto o deformato, sotto l’influenza dei nuovi arrivati. Ciononostante sopravvivono ancora alcune simpatiche tradizioni, specie nei vecchi quartieri popolari e nei sobborghi.

    Durante le feste natalizie i ragazzi triestini, a gruppi di tre, vanno di casa in casa con un mozzicone di candela accesa simulando l’arrivo dei « Re Magi », a cantare una lunga filastrocca, in cambio di qualche elemosina o di qualche dolce.

    La vigilia di Natale si usa ancor oggi mangiare il pesce con le verze, mentre è ambizione delle donne del popolo fare con le proprie mani le fritole (frittelle), che un tempo venivano anche vendute agli angoli delle strade.

    La fine del Carnevale viene salutata da sfilate di carri, mentre il Mercoledì delle Ceneri a Servola e a San Giovanni si celebra il suo funerale. Un buffo fantoccio di stracci viene disteso su una lettiga e portato da due uomini col viso dipinto di nero. Il corteo è preceduto da un battistrada che con una grande bandiera sosta in ogni osteria, in cui si rinnovano le parodie di pianti e di lamenti, seguiti dall’immancabile questua. Le esequie hanno luogo dopo il calar del sole, con la cremazione del fantoccio.

    Fra le tradizioni pasquali vi è quella ancor viva della pulizia generale della casa, da farsi durante la Settimana Santa. Le massaie preparano le belle pinze dorate (focacce), i presnitz dalle volute rigonfie e, per i bambini, le titole dalla coda a treccia con il rosso uovo pasquale. Un tempo i ragazzi esponevano piccoli « sepolcri » nei siti più riposti delle vie di Cittavecchia e dei rioni periferici ed in ginocchio chiedevano « un soldo per il Santo Sepolcro ». Il giorno di Pasqua le donne del popolo portano ancora a far benedire, nella chiesa più vicina, un fagottino di tela in cui hanno racchiuso un campionario dei dolci da loro preparati.

    Una delle usanze forse più antiche è quella dei fuochi che vengono accesi la vigilia di San Giovanni, il 23 giugno, alla periferia della città, soprattutto nel sobborgo di San Giovanni.

    Molte sono le feste locali di qualche interesse folcloristico. Ricorderemo qui le più significative. A Cividale, il giorno dell’Epifania, si tiene nel Duomo la famosa Messa dello Spadone, rito ormai secolare che risale al secolo XIV. Il lungo spadone appuntito e a doppio taglio, porta incisa la data del 6 luglio 1366 e il nome del patriarca Marquardo. Il diacono, che porta in capo un elmo piumato, saluta tre volte il popolo sollevando ed abbassando la spada, per significare l’unità del potere politico e religioso del patriarca. Un rito analogo si svolge anche a Gorizia e Aquileia. Nel Duomo di Gemona invece, si celebra la Messa del Tallero, durante la quale il sindaco della città offre l’antica moneta all’autorità religiosa.

    La messa dello spadone a Gividale.

    A Tarcento sempre per l’Epifania, si tiene la festa dei pigliami, di cui abbiamo già detto. Alla primitiva usanza dei fuochi accesi sulle colline in segno di gioia, si è aggiunto in epoca recente un nuovo elemento: l’arrivo dei Re Magi e il loro incontro simbolico con la « gente di Furlanìa ». Il pomeriggio del 6 gennaio dal Palazzo Frangipane, sede municipale, esce un corteo, in costume del ’200, con alla testa Artico da Castello, detto Articone (vissuto dal 1240 al 1304) e la sua prima moglie Socadamùr, i quali, accompagnati da cortigiani ed armieri e seguiti dalla folla, si recano all’entrata del paese a ricevere i Re Magi, provenienti da Gemona, Cividale e Udine. I tre Re a cavallo si recano sulla piazza principale, dov’è preparato un palco con la riproduzione di una cucina friulana antica, e offrono i loro doni, insieme a quelli dei pastori, narrando in versi friulani le vicende del loro viaggio. Quindi Articone rivolge un saluto al popolo e conduce il corteo per la strada che porta a Coia, sul cui colle sorge il Cis’cielàt (castello), davanti al quale è pronto un grande pigliami di legna, frasche e paglia. Qui, in mezzo a canti friulani, viene acceso il fuoco e immediatamente da tutte le colline circostanti rispondono altri fuochi.

    Vedi Anche:  Densità e distribuzione della popolazione nelle città e nelle campagne

    La tradizionale processione delle Croci nel giorno dell’Ascensione a San Pietro di Gamia.

    A Zuglio Càrnico, per la festa dell’Ascensione, si tiene da tempo immemorabile la Processione delle Croci, dalle filiali alla Pieve matrice di San Pietro, che domina dal suo colle tutta la valle del But, a cui ha dato il nome. Le croci, ornate con i nastri policromi di seta che cinsero i fianchi delle spose nel dì delle nozze e che nello stesso giorno queste offersero alla Madonna, perchè vegli sulla casa e sui nascituri, si assiepano all’ingresso di San Pietro per l’omaggio rituale, ma prima di varcare la soglia le attende sul sagrato la « chiama », la cui austerità ricorda l’appello civile delle comunità poste a guardia dei passi di confine. Viene chiamata per prima la croce di Timau, che viene da più lontano, e poi tutte le altre. I crociferi rispondono « presente » e chinando le croci baciano ad uno ad uno la croce d’argento della Pieve. Quindi sfilano nel cimitero che ricinge la chiesa, affinchè anche i morti siano testimoni della loro fedeltà. Il parroco di Zuglio si rivolge ai quattro punti cardinali, invocando da Dio la benedizione delle campagne, e la cerimonia si conclude con la celebrazione della Messa.

    A Marano Lagunare si celebra il 15 giugno la festa del patrono San Vito. Alle ore 9 del mattino parte la processione dal piccolo porto peschereccio, tutto pavesato a festa. Su due grandi barche appaiate viene eretto un palco infiorato, su cui prende posto il clero con le reliquie dei Santi. Le barche, trascinate a forza di remi dalle reclute dell’anno, passano lungo il canale del porto, seguite da altre imbarcazioni, mentre molta folla le accompagna a piedi lungo gli argini del canale. La processione si arresta alla chiesetta del cimitero, dove si celebra la Messa. Il 15 agosto, ogni tre anni, si compie un’altra processione analoga con la statua della Vergine della Salute in ricordo di una terribile epidemia.

    La prima domenica di luglio si svolge a Grado la processione votiva tradizionale del « Perdon di Barbana », in ricordo di un voto fatto durante la peste del 1327. Un corteo di barche trasporta l’immagine della Madonna attraverso i canali della laguna fino al Santuario dell’Isola di Barbana, dove viene celebrata la Messa.

    Fra le più caratteristiche sagre paesane meritano di essere ricordate la « Sagra delle ciliege », che si svolge a Tarcento la prima domenica di luglio, la « Sagra del prosciutto », che ha luogo a San Daniele la quarta domenica di agosto, la « Sagra dei osei », che rallegra Sacile la prima domenica di settembre.

    A Udine sopravvive ancora la Fiera di « Santa Caterina », che trasforma per circa un mese in Parco di divertimenti la piazza Umberto I, detta popolarmente « Giardin Grande ». A Trieste invece si tiene in dicembre la chiassosa « Fiera di San Nicolò, » nel viale XX Settembre.

    Costumi, arredi e cucina caratteristici

    Il costume tradizionale popolare è caduto in disuso già da molto tempo e viene solo ripreso qua e là ad uso turistico. Un ricco campionario viene conservato nel Museo Carnico di Tolmezzo, mentre a Udine si sta allestendo un Museo Etnografico Friulano.

    Gli uomini portavano giacche di velluto, con i bottoni di madreperla sopra il panciotto; i calzoni corti arrivavano sotto il ginocchio, dov’erano raggiunti da calze di lana bianche, mentre il cappello era di feltro peloso, ornato di una fibbia d’osso.

    Il costume femminile, che più a lungo si è conservato, era costituito da una camicetta bianca, con sopra un bustino di raso giallo, senza maniche; la gonna verdastra era coperta dal grembiule bianco; sulle spalle un fazzoletto di pizzo veneziano ed in testa un altro fazzoletto, variamente colorato e variamente annodato.

    Il costume era completato da calze di lana bianche e da scarpette di stoffa con la punta all’insù (scarpèz) o da zoccoli (dàlminis). Si usavano grandi cerchi d’oro agli orecchi e rossi coralli al collo. Oggi però sopravvive solo il costume da lavoro, costituito da una robusta camicia di tela dalle lunghe maniche, con sopra un corpetto attillato per lasciar liberi i movimenti alle braccia, e la gonna lunga e ampia, così da potersi rimboccare e annodare facilmente, mentre sono sempre in uso le tradizionali calzature e il fazzoletto da testa. Ma la vita faticosa della donna, specie in Carnia, è simboleggiata dalla gerla, grande cesto con cui essa trasporta sulle spalle ogni sorta di carichi.

    La processione votiva che si tiene a Marano Lagunare il 15 giugno per la celebrazione del Patrono San Vito.

    Costumi della Carnia (Rigolato).

    Costumi diversi avevano però gli Siavi, fra cui particolarmente caratteristico era quello dei « mandrieri » del Carso. Gli uomini portavano un pittoresco berrettone di pelo di ghiro, dalla forma curiosa di una poltrona, detto scherzosamente dai triestini caregon, il panciotto a grossi bottoni di metallo e i calzoni molto corti. Le donne avevano sottane ampie, nere, con due o tre sottovesti inamidate, camicetta bianca, in testa un fazzoletto di colori chiari, di solito giallo pallido, annodato con grazia, un altro fazzoletto sulle spalle ed una cintura di nastro colorato.

    Molti sono poi gli arredi tipici del Friuli che ricordano la sobria e dura vita delle generazioni passate. Della casa friulana la parte più caratteristica è l’ampia cucina, con il grande focolare di mattoni o di pietra (larin) e la sovrapposta cappa (nape), da cui pende la catena che sostiene il paiolo della polenta. Sul focolare vi sono spesso gli alari di ferro battuto (ciavedàls), mentre tutto intorno corre una panca di legno. Sopra la cappa e alle pareti della cucina sono allineate le pentole di terraglia e le secchie di rame lucente, mentre i piatti sono collocati in una rastrelliera di legno (gràtule). L’arredamento è completato da un grande armadio di legno massiccio, di forma trapezoidale (la panàrie) e da varie cassapanche e sedie, più o meno finemente intagliate. Fra gli altri oggetti caratteristici si possono ricordare gli arcolai per tessere la lana, gli arconcelli per trasportare le secchie dell’acqua, i trespoli per mungere le mucche, i collari per gli animali, la zancola per fare il burro e i timbri per marcarlo, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo, tanto più che in montagna ogni valle ha i suoi oggetti caratteristici, provenienti generalmente dal vecchio artigianato locale.

    Costumi goriziani : i danzerini di Lucinico,

    La panàrie, il caratteristico armadio della cucina friulana.

    Faremo un breve cenno anche alle specialità alimentari. In tutto il Friuli si usano spesso come primo piatto i cialsòns, ravioli di pasta con ripieno di ricotta, erbe, pane grattugiato e uva passa, lessati e conditi con burro e ricotta affumicata. Un buon secondo è invece il cotechino accompagnato dalla brovade, confezionata con rape messe a fermentare fra le vinacce. Un dolce molto prelibato è la gubane, pizza di pasta sfoglia con ripieno di uva passa, noci e spezie, propria del Cividalese e del Goriziano.

    A Trieste e a Gorizia sopravvive ancora una cucina di tipo tedesco che ha come piatti più tipici la iota, minestrone di fagioli, patate e cappucci acidi bolliti con cotenne di maiale e costole affumicate, il gulash, che è uno spezzatino di carne molto drogato con pepe e con paprica rossa, i gnocchi fatti di pasta di patate e ripieni di susine o di marmellata, cotti neH’acqua e serviti caldi con una copertura di pane grattugiato e di burro liquefatto. Fra i dolci ci sono la pinza, specie di panettone pasquale, il presnitz e la putizza, simili alla gubana, ma con l’aggiunta di cioccolato in polvere, e soprattutto lo strudel, confezionato con pasta sfoglia e ripieno di mele, uva e pinoli. Nella regione esistono poi varie qualità di brodetti di pesce, fra cui i più noti sono il brodetto alla triestina e quello alla gradese.

    I dialetti e la letteratura dialettale

    Nella regione sono parlati i dialetti friulano e veneto, che non hanno però aree di diffusione molto ben definite e molto spesso coesistono, influenzandosi vicendevolmente.

    Il dialetto più antico è quello friulano, che un tempo era parlato dalle rive del Piave ai Monti di Muggia, come testimoniano i documenti medievali e buona parte della toponomastica, ma ha dovuto poi cedere molto terreno di fronte all’avanzata del veneto, favorita dalle vicende politiche ed economiche della regione.

    La gratula o rastrelliera in legno ove sono collocati i piatti.

    Il friulano è un linguaggio neolatino o romanzo, derivato dalla sovrapposizione della lingua latina su un substrato preromano, che si è conservato ed ha avuto una propria evoluzione grazie alle particolari condizioni di isolamento in cui si è venuta a trovare la regione alpina nell’alto Medio Evo e alla continua espansione demografica delle popolazioni montanare, che con le loro migrazioni verso la pianura hanno attenuato le conseguenze delle molteplici invasioni straniere.

    Secondo l’insigne glottologo G. I. Ascoli, il friulano appartiene alla famiglia linguistica ladina, che comprende pure i dialetti parlati nelle valli dei Grigioni, in Svizzera, e in alcune vallate dolomitiche dell’Alto Adige. Il ladino un tempo doveva essere parlato in una vasta area montana unitaria, dall’Adriatico al Reno, che col progresso delle comunicazioni e l’affermazione dei poteri politici della pianura venne poi progressivamente ridotta dalle infiltrazioni dei linguaggi veneti e lombardi, da sud, e tedeschi dal nord. Il Friuli costituisce quindi oggi l’isola più orientale, ma anche la maggiore per superficie e per popolazione, di questa passata unità linguistica ladina.

    Non è qui il caso di illustrare i caratteri fonetici lessicali e grammaticali del ladino, perchè ciò richiederebbe una lunga e complessa trattazione che esula dai limiti del nostro lavoro. Chi intende occuparsene, può consultare le opere specializzate dell’Ascoli, del Battisti e del Tagliavini. Si può solo ricordare che il ladino non ha nè gutturali, nè aspirate, ma possiede suoni suoi propri, di cui il più tipico è la palatalizzazione della c davanti ad a (ciaval « cavallo »), mentre da un punto di vista grammaticale il carattere più appariscente è la terminazione del plurale in -s. È opportuno anche rilevare che il friulano differisce dal ladino grigionese e dolomitico per alcune sue particolarità, come la dittongazione dell’o e latini quando precedono due consonanti (puarte « porta », siet « sette »), la conservazione di l di fronte a consonante (cialde « calda »), di d fra due vocali (viodi « vedere »), di qu iniziali e dopo consonante (quindis « quindici », cinquante « cinquanta »), la mancanza della sincope nelle parole che portano l’accento tonico sulla terzultima sillaba (sàbide « sabato », fémine « femmine »), ecc. Il friulano procede poi con molta autonomia nella I e III persona plurale e si allontana particolarmente dal grigionese e dal dolomitico nella flessione di molti verbi irregolari (iessi « essere », viodi « vedere », la « andare », ecc.). Nel lessico oltre ad una notevole indipendenza, compare anche qualche voce slava (raza « anitra »), specialmente nella varietà isontina.

    Vedi Anche:  Aspetti antropici, economici ed itinerari turistici

    I limiti attuali del friulano corrono press’a poco, in pianura lungo i fiumi Tagliamento e Isonzo, ad eccezione della fascia lagunare, che è sempre stata veneta, mentre in montagna, dove sono rimasti quasi inalterati, comprendono la Carnia, buona parte del Canal del Ferro, e le Prealpi Carniche, salvo qualche infiltrazione veneta nell’alta vai Cellina. Il veneto prevale invece nella pianura fra Livenza e Tagliamento, a diretto contatto con le province venete, nel Territorio di Monfal-cone, che fu un cuneo veneto in mezzo ai possessi austriaci e appartenne a Venezia fino alla caduta della Repubblica, e a Trieste, in seguito alla forte immigrazione di veneti, attratti dopo l’apertura del porto franco dallo straordinario sviluppo commerciale della città.

    Il caratteristico focolare friulano (larvi) con gli alari di ferro battuto.

    Nell’unità dialettale friulana si registrano però notevoli varietà locali, particolarmente spiccate nelle vallate alpine e prealpine, dove le condizioni orografiche hanno favorito la conservazione e lo sviluppo autonomo delle parlate montanare. Solo in Carnia il Gortani distingue almeno quattro tipi di dialetti, a seconda della pronuncia delle vocali lunghe. Il tipo più diffuso, parlato nella valle inferiore del Tagliamento fin sotto Ampezzo e nelle valli d’Incaroio e del But, esclusa l’oasi tedesca di Timau, è caratterizzato dalla dittongazione dell’e (fréd « freddo » diventa frèid) e dell’6 (póc « poco » diventa pouc).

    Gli altri tipi, di cui sarebbe troppo lungo indicare le particolarità, sono in genere più conservativi e permettono di individuare altre tre aree dialettali: la vai Degano fino a Comegliàns e la Vaicalda, la vai Pesarina e l’alta vai Degano, l’alta valle del Tagliamento a monte di Ampezzo.

    Differenze anche maggiori presentano le varietà della vai Meduna e della vai Cellina, nelle Prealpi Carniche, mentre ad oriente, in seguito alla lunga separazione politica dal resto del Friuli, una certa autonomia presenta anche il tipo goriziano.

    Una filatrice a Forni di Sotto.

    In pianura invece il linguaggio è abbastanza uniforme e si identifica con il tipo udinese, che ha avuto una maggiore evoluzione grammaticale e lessicale, ingentilendosi e semplificandosi, tanto da poter assumere facilmente una dignità letteraria.

    Anche nel cuore stesso del Friuli però la parlata ladina è in decadenza, perchè nei grossi centri si fa strada il veneto, che è più affine all’italiano. Una recente inchiesta compiuta nelle scuole elementari di Udine ha appurato che nel capoluogo friulano solo il 39% degli alunni parla abitualmente il friulano, mentre il 34% usa l’italiano e il 25% il veneto. Prendendo però in considerazione i genitori, più anziani e più conservatori, l’indice del friulano sale al 53%.

    La decadenza del dialetto è però contrastata dalle iniziative dei suoi cultori, riuniti nella Società Filologica Friulana, che organizzano corsi magistrali di lingua, letteratura e cultura friulana e manifestazioni culturali in friulano e propugnano addirittura l’introduzione dell’insegnamento del patrio idioma nelle scuole elementari. Non manca poi la stampa dialettale, ma la grafia è discussa e difficile, perchè esistono molte varietà locali e l’unificazione linguistica e grafica non presenta minori difficoltà di quelle che incontrò l’elaborazione del « volgare illustre » nei secoli XIII e XIV.

    Donne al telaio a Vergnacco,

    Molto interessante è la letteratura friulana, per la vivacità vernacola e l’aderenza al mondo paesano di cui è l’espressione. Il primo documento conosciuto del friulano risale al 1290, ma le prime composizioni letterarie, ballate e canzoni che ricordano la poesia provenzale, compaiono appena verso la metà del ’300.

    Dopo un secolo e mezzo di quasi assoluto silenzio, dovuto al prevalere della lingua nazionale in relazione con il movimento umanistico, fioriscono numerosi verseggiatori ladini, fra cui emergono Nicolò Morlupino e Geronimo Biancone. Ma solo nel secolo XVII troviamo in Ermes di Colloredo il primo vero poeta friulano. Uomo di corte e guerriero, egli ha lasciato « una poesia robusta, ma un po’ chiusa e aristocratica » (D’Aronco).

    Dopo la depressione settecentesca, Pietro Zorutti raggiunge « l’apice del Parnaso friulano, sotto il doppio aspetto del realismo scherzoso e della poesia naturalistica e sentimentale, pur viziata qua e là da residui berneschi, arcadici e preromantici » (Chiurlo). Dal 1821 al 1867 egli andò stampando sugli « Strolics » (Almanacchi) versi freschi e arguti che gli procurarono una vastissima popolarità e un posto non indifferente nella schiera dei poeti dialettali italiani.

    Contemporanea dello Zorutti, Caterina Percoto crea la prosa friulana d’arte, già accennata nel ’600 dal Colloredo. I suoi brevi racconti, una ventina in tutto, sono veri gioielli artistici, come quello intitolato « Lis striis di Germanie » (Le streghe di Germania), che ispirò al Carducci la famosa ballata « In Carnia ».

    I danzatori di Uccea, frazione del comune di Resia.

    I poeti e prosatori di questo secolo hanno esteso in ogni senso le esperienze del passato, raggiungendo non di rado buoni risultati, dimostrando sempre una notevole coscienza artistica che impedisce loro di cadere nel dilettantismo vernacolo.

    La più tipica tradizione poetica friulana è però rappresentata dalle « villotte », brevi composizioni anonime rimate di una o più quartine di ottonari, con cui il popolo tramanda di generazione in generazione i sentimenti universali dell’amore, del dolore, della gioia e della speranza, attingendo talvolta vette sublimi di poesia. Improntate dalla proverbiale laconicità del popolo friulano, esse sono fra i canti popolari italiani più concisi e più profondi. Diffìcilmente si possono esprimere con più efficacia le pene dell’amore come in questi quattro versi:

    Bella anche nella sua monotonia è la musica popolare friulana che presenta caratteri affini a tutta la musica popolare alpina, pur risentendo di un substrato slavo. L’elemento musicale non ha avuto sensibili sviluppi nel tempo, per il geloso spirito di conservazione delle genti friulane.

    Fra i più noti compositori di cori e villotte friulane merita di essere ricordato il pontebbano Arturo Zardini, che musicò fra l’altro quel sublime inno di amore e di dedizione alla Grande Patria del popolo friulano, che s’intitola « Stelutis Alpinis». Canta l’alpino caduto combattendo sui suoi monti:

    Se tu vens cassù tas cretis là che lor mi àn soteràt, al è un splas plen di stelutis : dal mio sane l’è stat bagnai.

    (Se tu vieni quassù su queste rocce là che loro mi hanno sotterrato, vi è uno spiazzo pieno di stelle alpine: dal mio sangue è stato bagnato.

    Par segnai une crosute je scolpide lì tal cret : fra ces stelis nas l’erbute, sot di lor jo duàr cuiet.

    Per segnale una piccola croce è scolpita lì sulla roccia: fra queste stelle nasce l’erbetta sotto di loro io avrò riposo).

    Molte sono anche le danze popolari friulane, fra cui le più famose sono la ziguzaine o furlana, che ricorda con il suo ritmo allegro la scapigliata monfer-rina, la stàiare (stiriana) e la resiana (della valle di Resia).

    Il veneto che si parla nel Friuli occidentale e meridionale non differisce sostanzialmente da quello usato oltre il Livenza, come dimostra nelle sue melanconiche liriche il poeta gradese Biagio Marin.

    Se savessis, fantaeinis, ce che son sospirs d’amór ! a si mur, si va sot tiere, e ancimò si sint dolor.

    (Se sapeste, giovanotti quel che sono i sospiri d’amore! si muore, si va sotterra, e ancora si sente dolore).

    Molto diverso è invece il veneto isontino e triestino, di diffusione più recente, che denuncia il suo substrato friulano e non poche interferenze lessicali slave e tedesche. Modeste sono però le sue manifestazioni letterarie anche perchè meno si presta a far vibrare le corde più elevate del sentimento, ma assai di più all’arguzia faceta e alla filosofia spicciola popolare. Meritano di essere ricordati Gilda Amoroso Steinbach, Felice Venezian, Morello Torrespini, ma soprattutto Virgilio Giotti, recentemente scomparso, che può considerarsi la massima espressione della poesia vernacola triestina.

    I dialetti slavi parlati nelle Prealpi Giulie e nel Carso, hanno ormai assimilato molti termini italiani e friulani, trasformandoli però secondo l’inflessione della morfologia slovena. Si distingue fra tutti il dialetto parlato nel Canale di Resia, che presenta la cosiddetta « armonia vocalica », affine a quella di alcune lingue agglutinanti, per cui si può supporre che i Resiani abbiano avuto, prima del loro insediamento, dei contatti con popolazioni turaniche, come gli Unni o gli Avari (Trinko).

    I dialetti tedeschi parlati nella regione sono di due tipi ben distinti: quello austro-bavarese diffuso nel Tarvisiano e nella Val Canale continua al di qua del confine le condizioni idiomatiche attuali della Carinzia, mentre nelle due minuscole isole linguistiche di Sauris e di Timau si osserva una forte autonomia rispetto ai dialetti transalpini. In base ai principali caratteri fonetici si può però affermare la loro derivazione dai dialetti della Carinzia o della Pusteria orientale, da cui si sono distaccati nella seconda metà del secolo XII. Profondi sono stati anche in questo caso gli influssi del friulano e dell’italiano, non solo nel lessico, ma anche nella sintassi e nella costruzione del periodo (Battisti).