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Aspetti antropici, economici ed itinerari turistici

    Aspetti antropici ed economici delle varie parti della regione, itinerari turistici

    La montagna friulana

    Non parleremo qui delle due massime unità storiche e tradizionali che costituiscono la regione attuale, Friuli e Venezia Giulia, perchè esse si identificano abbastanza bene con le province ed abbiamo quindi già detto a sufficienza delle loro peculiari caratteristiche antropiche ed economiche. Prenderemo invece in esame quelle minori regioni naturali e storico-tradizionali che abbiamo cercato di individuare nel VI capitolo. Cominceremo con la montagna friulana.

    Abbiamo suddiviso la fascia morfologica montana, appartenente al Friuli, in una regione alpina interna, dalle forme meno aspre per la presenza di un nucleo centrale scistoso-arenaceo, che corrisponde abbastanza bene alla regione storica della Carnia, e in una regione alpina esterna, per lo più calcareo-dolomitica, comprendente il Canal del Ferro e la Val Canale, le Prealpi Carniche e le Prealpi Giulie. Le Prealpi includono però anche la più ristretta regione prealpina vera e propria, ossia degli ellissoidi cretacei, e parte della regione subalpina marnoso-arenacea, che limita a sud il sistema alpino.

    La montagna friulana, che con i suoi 3336 kmq. costituisce il 42,5% della superficie regionale, è scarsamente abitata, per le difficoltà derivanti dalla morfologia, dall’altitudine, dal clima e dai terreni, che limitano lo sviluppo deH’agricoltura e delle industrie. Infatti circa il 25% della superficie è del tutto improduttiva, il 35% è ricoperto da boschi e solo il 40% è destinato alle attività agrarie, ma è costituito per oltre nove decimi da prati e pascoli.

    Carnia: la fienagione.

    Risiedono in questa regione 135.000 ab. (1951), corrispondenti ad appena l’n% della popolazione regionale, con una densità media di soli 40 ab. per kmq., meno quindi di un terzo della densità regionale, che vivono per lo più accentrati nei 255 centri segnalati dall’ultimo censimento. Aspetti comuni della vita montana sono le migrazioni temporanee e lo spopolamento, che possono essere considerati i sintomi tipici di una generale depressione economica. L’isolamento montano ha favorito la conservazione di antichi caratteri architettonici, linguistici e folcloristici, che sono di grande interesse perchè permettono di ricostruire meglio lo sviluppo antropogeografico delle varie vallate ed i loro reciproci rapporti.

    L’attività economica fondamentale è l’allevamento del bestiame, praticato mediante l’alpeggio estivo. Infatti i bovini, che costituiscono l’allevamento fondamentale, sono trattenuti nelle stalle annesse alle dimore permanenti solo durante la stagione invernale, in cui sono alimentati con il fieno raccolto d’estate nei prati di fondovalle e di monte, mentre il latte viene lavorato nei numerosi caseifìci cooperativi. All’inizio della primavera ogni famiglia porta il suo bestiame negli stàvoli o stalis, dimore

    temporanee di mezza montagna, in cui talvolta si trasferisce la stessa famiglia rurale che, oltre alla cura degli animali, provvede alla coltivazione di qualche buon appezzamento di terreno e alla fienagione. Alla fine della primavera, quando sono ormai esaurite le scorte di foraggio ed il pascolo degli stàvoli, il bestiame viene portato nelle malghe, che sono i pascoli più elevati, dove viene preso in consegna dai malghesi e restituito solo alla fine dell’estate, per una nuova sosta negli stàvoli, fino all’inizio deH’inverno.

    Le malghe o mont sono organizzazioni pastorali e industriali, in cui si effettua pure la lavorazione del latte. Constano di solito di due stazioni di sosta, una bassa e una più alta, per l’utilizzazione più razionale del pascolo. Il centro aziendale della malga è costituito dalla casera, attorno a cui si dispongono le stalle o lozis ed altri edifici minori. La sosta del bestiame è regolata dai patti di monticazione e da antiche consuetudini. Le malghe possono essere di proprietà comunale o privata e presentano pure varie forme di conduzione. Gli edifici richiedono però annualmente onerosi lavori di manutenzione, mentre i pascoli sono continuamente insidiati dall’erosione delle acque, dall’invasione di colate detritiche o dallo stesso bosco. L’alpeggio è ormai da molto tempo in crisi, per complessi motivi di ordine economico e sociale che vanno lentamente mutando la vita dei montanari. Ma per molti aspetti ciò è anche un bene, perchè facilita il rimboschimento, che rappresenta la migliore difesa del suolo dall’erosione delle acque. Anche la zona degli stàvoli è qua e là soggetta a trasformazioni, o per l’abbandono di quelli più disagevoli o per la loro trasformazione in sedi permanenti del bestiame.

    Malga Fleòns, nell’alta val Degano.

    Il bosco costituisce dopo l’allevamento del bestiame la maggior fonte di reddito della montagna, ma porta minore benefìcio all’economia familiare, perchè appartiene quasi esclusivamente alla grande proprietà comunale, privata o demaniale. Esso riveste soprattutto i versanti esposti a nord, mentre in quelli a solatìo costituisce una fascia intermedia fra i seminativi e i pascoli di alta montagna.

    L’agricoltura si limita alle zone più basse, meglio esposte e meno acclivi, e produce soprattutto granoturco, patate e fagioli, che assieme al formaggio costituirono per secoli l’alimentazione base del montanaro. Le proprietà sono estremamente frazionate e disperse, per cui questa attività risulta sempre meno conveniente dal lato economico.

    L’artigianato, che era nel passato una delle tipiche attività dei montanari, è ormai quasi completamente sparito, per la concorrenza dei prodotti industriali. Non esiste più l’antico artigianato tessile della lana, del lino e della canapa, mentre le lavorazioni del legno e del ferro sopravvivono a stento in qualche valle. L’industria moderna non è ancora arrivata, se si eccettua qualche industria del legno e della carta. L’utilizzazione delle stesse imponenti risorse idroelettriche, che è ormai molto bene avviata, porta scarsi benefici ai montanari, che hanno visto cessare in questo dopoguerra anche alcune attività minerarie, ormai divenute antieconomiche.

    Nuova fonte di redditi e nuovo stimolo di progresso economico e sociale è invece il turismo, che riguarda però solo alcune zone, meglio servite dalle vie di comunicazioni e meglio fornite di bellezze naturali.

    Dopo questo sguardo generale alla montagna friulana, passiamo all’esame delle singole regioni storico-tradizionali in cui si può suddividere.

    La Carnia

    La Carnia, di cui abbiamo già descritto il nome ed i limiti storici, comprende oggi tutto il bacino montano del Tagliamento a monte della confluenza del Fella, e parte del bacino del lago di Cavazzo. Tenendo conto che corrisponde press’a poco alla XXII regione del Catasto Agrario Italiano, le si può attribuire una superficie di 1220 kmq., suddivisa fra 28 comuni, che costituiscono i mandamenti amministrativi di Tolmezzo e di Ampezzo. E ancora viva però l’antica divisione storica del periodo patriarcale e veneto nei quattro canali di Socchieve o Ampezzo (Tagliamento), Gorto (Degano), San Pietro (But) e Incaroio (Chiarsò).

    La regione aveva alla data dell’ultimo censimento (1951) una popolazione residente di 61.230 ab., di cui però appena 56.713 risultavano effettivamente presenti, dato il forte contributo carnico all’emigrazione. Varie fonti storiche ci permettono di ricostruire a grandi linee lo sviluppo demografico regionale a partire dalla metà del secolo XVI. Per il 1548 il Beloch calcola una popolazione di circa 17.000 anime, mentre nel 1565 Valvasone di Maniago attribuisce alla Carnia già 23.000 abitanti. Siamo evidentemente alla fine di una fase di espansione demografica che dovette caratterizzare tutto il basso Medio Evo, comportando una notevole evoluzione delle strutture economiche e lasciando ampie tracce nel paesaggio. Poi per oltre due secoli la popolazione rimase stazionaria, soprattutto per la politica economica conservatrice della Repubblica Veneta ed il conseguente spopolamento. Il primo censimento fatto dalla Repubblica Veneta registrò nel 1766-70 una popolazione di circa 30.000 ab., ma secondo il Marinelli nel 1781 gli abitanti non erano più di 25.900. Certo una discreta espansione si ebbe nel periodo francese, sia per i nuovi provvedimenti economici che per il freno posto all’emigrazione dalla situazione politica europea. Secondo il Cecchetti nel 1802 la popolazione avrebbe raggiunto le 35.000 unità, mentre il Marinelli più realisticamente ne calcola per il 1804 appena 30.000. Durante tutto il secolo scorso si ebbe un moderato incremento, favorito dalle maggiori possibilità di emigrazione stagionale oltre le Alpi e nella pianura. Il primo censimento italiano (1871) registrò infatti 43.556 ab. con un aumento secolare approssimativo di circa il 50%. Da allora in ottant’anni lo sviluppo demografico ha avuto alterne vicende, registrando anche una fase di regresso fra il 1921 e il 1936, nel periodo cruciale dello spopolamento montano, ma totalizzando complessivamente un incremento del 13%, molto inferiore a quello corrispondente del Friuli.

    La densità di popolazione è leggermente superiore a quella della montagna friulana (50 ab. per kmq.), per le particolari condizioni geomorfologiche già messe in evidenza. Le zone di maggiore addensamento sono la bassa valle del Tagliamento, con le conche di Villa Santina (157) e Tolmezzo (129), le conche di Comegliàns (96) e di Sùtrio (83), gli slarghi di Arta (81), Ovaro (75) e Rigolato (70), ed anche l’altipiano di Làuco (72). Le densità minori si registrano invece nei comuni più elevati di Forni di Sotto (17), Forni Avoltri (19), Sauris (22), ecc. Gli abitanti assenti alla data dell’ultimo censimento corrispondevano al 7% di quelli residenti, ma tale percentuale è molto inferiore al numero reale degli emigranti temporanei.

    La popolazione carnica è compattamente friulana, ad eccezione delle oasi linguistiche tedesche di Sauris (Zare) e Timau (Tamau), dove vivono circa 2000 alloglotti. Ci sono anche alcune reliquie toponomastiche slave (Cuèl Sclavanesco, presso Vuèzzis, Rio Sclavòn, fra i due Forni, Sclavaneschis, presso Povolaro), che ricordano antiche immigrazioni, rapidamente assimilate. La Carnia presenta però una spiccata individualità linguistica, poiché la parlata friulana prende qui forme molto diverse, che ora tendono a livellarsi, per lo sviluppo di più ampi contatti fra le varie vallate. Il Gortani ha creduto di poter raggruppare i vari dialetti camici in quattro tipi principali, distinguendoli soprattutto secondo la pronuncia delle vocali lunghe. Come abbiamo già osservato nel IX capitolo, il tipo più diffuso è quello parlato nella valle inferiore del Tagliamento, fin sotto Ampezzo, e nei canali di San Pietro e d’Incaroio.

    Ma ormai a Tolmezzo predomina il friulano comune. Il secondo tipo è parlato nella parte inferiore della vai Degano, fino a Comegliàns, e nella Valcalda, il terzo nell’alta vai Degano e nella vai Pesarina e infine il quarto nei Forni Savorgnani.

    La casa rurale non presenta in Carnia un tipo omogeneo, perchè la regione fu soggetta a varie influenze esterne. Come abbiamo già visto neH’VIII capitolo, il tipo più estesamente diffuso è quello padronale della « casa carnica », mentre nell’alta valle del Tagliamento e nella conca di Sauris troviamo tipi rurali altocadorini, nella vai Degano un tipo affine a quello carinziano e nelle valli del Tagliamento e del But un tipo più recente.

    Nella Carnia ci sono in tutto 125 centri abitati, di cui però solo 12 superano il migliaio di abitanti. Domina su tutti Tolmezzo (4544 ab.) situato su un terrazzo fluviale allo sbocco della valle del But nel Tagliamento, nucleo storico ed amministrativo di tutta la Carnia. Degli altri, supera i 2000 ab. solo Paularo (2219 ab.), nel Canale d’Incaroio, sotto la Sella di Ligosullo. Troviamo in Carnia i centri più elevati della regione (Sauris di Sopra a m. 1400 e Collina a m. 1250), ma la maggior parte dei centri si trovano in una fascia altimetrica che arriva fino agli 800 m. con una distribuzione che corrisponde, grosso modo, al reticolato idrografico, come abbiamo già avuto occasione di dire altrove.

    Tolmezzo: piazza XX Settembre.

    Piano d’Arta, nella valle del But.

    L’economia tipicamente silvo-pastorale della Carnia risulta molto bene dalla ripartizione della superficie territoriale. Infatti il 32% è costituito da boschi e il 46% da prati e pascoli permanenti, mentre l’improduttivo raggiunge il 20%. La valle che presenta la più estesa area improduttiva è quella del Tagliamento (23%), mentre i valori minimi si riscontrano nel Canale d’Incaroio. Però alla data dell’ultimo censimento solo il 37% della popolazione attiva ha dichiarato di essere dedita ad attività agricole, contro un 44% di qualificazione industriale. Tale apparente contraddizione si spiega con il fatto che una buona parte dei dichiaranti sono emigranti che esercitano la loro attività fuori della Carnia. Bisogna poi tener conto che alle attività agricole sono dedite soprattutto le donne e i ragazzi in età scolastica.

    I seminativi, hanno una certa estensione solo nelle basse vallate del Tagliamento, Degano e But e sono costituiti per oltre la metà da granoturco, che arriva fino ai mille metri d’altitudine, e per un terzo da patate. Il frumento penetra solo nelle basse vallate, mentre la vite, economicamente produttiva, non oltrepassa la conca di Villa Santina (m. 350). La frutticoltura ha un carattere prettamente familiare e produce soprattutto mele, pere e susine. I prati stabili e i prati-pascoli si estendono fra i 600 e i 1200 m., mentre i prati di monte mai concimati, il cui foraggio viene portato a valle per l’alimentazione invernale, vanno dai 1000 ai 1800 m., ma in annate di scarsa produzione lo sfalcio può spingersi fino a 2000 metri.

    La conca di Comegliàns con la pieve di S. Giorgio e altri centri minori. Sullo sfondo il gruppo scistoso del Monte Crostis (m. 2250).

    Le malghe carniche sono oltre un centinaio, ma erano un tempo molto più numerose. Le zone migliori di pascolo sono quelle scistoso-arenacee, particolarmente estese nella vai Degano, nella vai Pesarina e nelle conca di Sauris, che sono le principali mete dell’alpeggio. I primi tentativi di caseificio cooperativo risalgono già alla fine dello scorso secolo (a Collina nel 1881), cosicché la tradizione è ormai consolidata. Prima della grande guerra il patrimonio zootecnico bovino era costituito dalla razza Carnica, affine a quella del versante austriaco, ma dopo la falcidia bellica venne ricostituito con la razza Bruna alpina, mediante importazione di capi dalla Svizzera e dalla Valtellina. L’allevamento dei suini e degli ovini-caprini non ha mai raggiunto grande importanza, avendo sempre conservato un carattere familiare.

    Nel settore forestale si segnalano per le loro proprietà di boschi i comuni delle valli del Tagliamento e d’Incaroio. Particolare interesse riveste poi il Consorzio dei Boschi Camici, la cui origine risale al 1583, quando la Repubblica Veneta bandì alcuni boschi per l’uso dei suoi arsenali. Il bando venne mantenuto dall’amministrazione austriaca, ma nel 1866 il Governo Italiano restituì ai comuni interessati, riuniti in consorzio, i 30 boschi banditi, per una superficie di circa 16 kmq., che erano stati molto ben curati durante il periodo austriaco. La fluitazione del legname, che venne praticata su larga scala fino all’inizio di questo secolo, faceva capo ai porti di Esemòn per la valle del Tagliamento, Luìncis per la vai Degano e Cedàrchis per la valle del But. Per la prima trasformazione del legname ci sono una cinquantina di segherie, distribuite in tutte le vallate.

    La Carnia è povera di risorse minerarie economicamente utilizzabili ed attualmente sono attive solo delle cave di marmo a Pièrabeck, Timau e Verzegnis. Nel passato ci fu però un’intensa attività mineraria, che diede anzi luogo alla creazione di alcuni centri, come Forni Avoltri, Forni di Sotto, Forni di Sopra e Timau. Fra i giacimenti metalliferi si possono segnalare alcuni filoni di rame più o meno argentiferi e misti a galena, al contatto fra i calcari paleozoici e gli scisti, lungo la Catena Carnica, con particolare diffusione nella Creta di Timau e nel Monte Avanza. Un giacimento di minerali ferrosi si trovava nel Monte di Verzegnis, nei calcari giurassici, mentre carboni fossili sono localizzati in giacimenti insignificanti nelle formazioni scistose della Vaicalda e in banchi lentiformi nelle formazioni triassiche delle Alpi Tolmezzine, presso Tolmezzo (Monte Dobis), Làuco, Ravèo e Ovaro. Non mancano poi depositi di gesso, argilla per laterizi e calcari da calce.

    Imponenti sono le risorse idroelettriche del bacino tilaventino, ma la loro utilizzazione, ad opera della S. A. D. E., è appena agli inizi. Attualmente è in esercizio l’impianto Lumièi-Alto Tagliamento, che dispone del serbatoio di Sauris e fa capo alla centrale di super-regolazione di Ampezzo, adatta a funzionare nel periodo invernale e durante le ore di massimo carico, quale integratrice degli impianti ad acqua fluente. E poi ormai in fase di avanzata costruzione l’impianto Medio Tagliamento, imperniato sulla centrale di Somplago, sul lago di Cavazzo, che si affiancherà a quella di Sovèrzene in qualità di centrale pilota dei sistemi idroelettrici del gruppo S. A. D. E.

    Nella Carnia non c’è stato uno sviluppo industriale moderno, ma anzi si sono quasi completamente spente le tradizionali forme di artigianato, che avevano una grande importanza fino al secolo scorso. Nel ’700 era sorto a Tolmezzo uno stabilimento tessile con mille telai, per lo più affidati a domicilio, che non ebbe però lunga durata. Un’attività artigianale caratteristica, sviluppatasi ora su un piano industriale, è la fabbricazione di orologi da torre iniziata nel 1725 a Pesàriis, mentre a Sùtrio e a Cercivento è ancora fiorente l’artigianato del mobile. L’industria più importante è oggi senza dubbio quella del legno e dei suoi vari prodotti, che si fonda sulla produzione dei boschi camici, ma anche sull’importazione. Oltre alle segherie ci sono alcune cartiere, sorte in questo secolo a Ovaro (1906) e a Tolmezzo (1934), che è il maggior centro industriale della Carnia, dove lavorano un centinaio di unità locali provviste di forza motrice, con una potenza installata di quasi 10.000 cavalli.

    Le principali vie di comunicazione sono costituite dalle strade statali carniche n. 52, da Stazione per la Carnia al Passo della Màuria, e 52 bis, da Tolmezzo al Passo di Monte Croce Càrnico. Notevole importanza ha però assunto recentemente anche

    la strada provinciale Villa Santina-Passo di Cima Sappada, mentre invece è in decadenza la ferrovia carnica (20 km.), da Stazione della Carnia a Villa Santina, che risale al 1910. Durante la prima guerra mondiale vennero pure costruite le tranvie del But, fino a Paluzza, e del Degano, fino a Comegliàns, le quali furono però ben presto abbandonate per gli eccessivi costi di manutenzione. Facciamo ora una rapida escursione in questa bella e interessante regione.

    Il viaggio non può cominciare che a Stazione per la Carnia, centro ferroviario (m. 261) sulla linea Pontebbana, da cui si stacca la breve ferrovia che conduce a Villa Santina. E uno dei pochi centri recenti della montagna friulana, poiché si sviluppò appena a partire dal 1876 nei piani di Portis, con l’apertura del tronco ferroviario Gemona-Carnia a cui si aggiunse nel 1910 il primo tronco della ferrovia carnica. Ebbe grande importanza militare e fu duramente provato durante la prima guerra mondiale.

    Oltre il Fella la Carnia ci accoglie con lo sguardo severo del Monte Amariana, dalla caratteristica cuspide triangolare, e con le povere case di Amaro. Dopo 12 km. siamo a Tolmezzo (m. 323), capoluogo della regione e suo massimo centro culturale ed economico, che possiede varie attività industriali, fra cui si scorge la grande cartiera del ponte Avòns. Nel duomo settecentesco c’è una pala d’altare di Francesco Fontebasso, mentre nella chiesa di Santa Caterina ce n’è una dell’Amalteo. Al Museo Carnico, inaugurato nel 1937, vi è un’interessante raccolta di etnografia e di arte paesana, in cui sono rappresentate tutte le vallate carniche. Tolmezzo ha dato i natali a numerosi uomini illustri, fra cui lo storico della Carnia Fabio Quintiliano Ermacora (1540), l’archeologo ed epigrafista padre Giuseppe Marchi (1795-1860) e i pittori Angelo e Domenico Schiavi (sec. XVIII), costruttori di un gran numero di chiese nel Friuli montano e collinare.

    Paluzza nella valle del But.

    Appena fuori di Tolmezzo infiliamo a destra la valle del But, importante fin dall’età antica per le comunicazioni transalpine, grazie alla possibilità di superare lo spartiacque per il Passo di Monte Croce (m. 1363). Lasciamo a destra su un cocuzzolo la chiesa di San Floriano che conserva con orgoglio un grande altare in legno dorato di Domenico da Tolmezzo (1497). A sinistra invece ci appaiono gli antichi centri di Terzo e di Zuglio (Iulium Carnicum), dove sono stati portati alla luce insigni ruderi romani.

    A Cedàrchis, vecchio porto del legname, pieghiamo nel Canale d’Incaroio per seguire la strada tortuosa che porta nella conca di Paularo. Ma prima di arrivarci, non bisogna trascurare di fermarsi un poco a Salino per godere gli spruzzi e la rombante voce della cascata del Chiarzò e la visione delle nude pareti del Sernio e delle Crete di Palasecca.

    Paularo (m. 648) ci accoglie con la faccia gaia di un centro turistico, mostrandoci le sue belle case carniche risalenti anche al XVI secolo. Attende pazientemente il compimento della strada che oltre la Sella di Ligosullo porterà a Treppo e a Paluzza, rompendo il suo attuale isolamento.

    Ridiscendiamo a Cedàrchis, per proseguire nel Canale di San Pietro verso Arta, il « Comune rustico » cantato dal Carducci. Le acque solfo-magnesiache della Fonte Pudia richiamano numerosi villeggianti, che possono usufruire di uno stabilimento idroterapico e di alcuni moderni alberghi, godendo pure la simpatica vista delle chiesette quattrocentesche dello Spirito Santo e di San Nicolò degli Alzeri. Veglia dall’alto, sull’altra sponda del But, la storica pieve di San Pietro, ricordata dal lontano 620, che nel giorno dell’Ascensione è mèta di un tradizionale pellegrinaggio a cui partecipano le rappresentanze di tutte le chiese della vallata. NeH’interno, segni del suo passato splendore sono tre altari di legno finemente intagliati, fra cui uno di Domenico da Tolmezzo (1483), le pitture della cripta di Giulio Urbano (1570), il gotico pulpito di pietra e l’argentea croce processionale del secolo XV.

    Proseguendo il nostro cammino, superiamo il torrente Randice, che serviva a dividere il canale in due quartieri, e sbocchiamo in una verde conca, dominata dalla bianca Creta di Timau, dove ci accoglie il ridente villaggio di Paluzza (1560 ab.), posto sopra un ampio terrazzo alluvionale, alla confluenza del torrente Pontaiba nel But. Più a monte la valle si restringe in una chiusa, detta di Enfratòrs (« fra le torri »), dove si possono ancora vedere i resti della Torre Moscarda, fatta erigere dai Patriarchi nel secolo XIII.

    Ad un nuovo slargo compare Timau (m. 862), l’oasi linguistica tedesca di antica origine medievale, che offre al turista la vista del celebre Fontanone, una delle più belle cascate della Carnia, che sgorga improvvisamente sulla linea di contatto fra i calcari devoniani e gli scisti carboniferi, una cinquantina di metri sopra il fondovalle. Nelle vicinanze vi è il santuario del Cristo, che dopo la grande guerra venne trasformato in Sacrario dei Caduti. Nell’interno una grande targa di bronzo porta scolpito il canto Stelutis Alpinis, a ricordo dei soldati le cui spoglie riposano nell’Ossario.

    Prato Cárnico, in val Pesarina.

    Una strada di ripidi tornanti porta quindi al Passo di Monte Croce (in tedesco Plòcken Pass), valico transitabile sul confine italo-austriaco, che si apre fra la Creta di Collinetta e il Pai Piccolo, sulla cui roccia è incisa un’iscrizione romana che ricorda i lavori compiuti nel 373 avanti Cristo. Al passo ogni anno, alla fine di settembre, si svolge una simpatica festa dell’amicizia fra il Friuli’e la Carinzia, con l’intervento di gruppi folcloristici.

    Raggiungiamo nuovamente Paluzza, dove attraversiamo il But per risalire la Val-calda. Oltre il ponte incontriamo Sùtrio, nota per i suoi mobilieri, e saliamo a Cerei-vento, per avere dopo qualche chilometro la sorpresa di Ravascletto (m. 957), incantevole villaggio solatìo, rinomato luogo di villeggiatura estiva e invernale. Ci sono alcuni buoni esemplari di vecchie case, ma meritano una visita anche la chiesa parrocchiale e la cappella dello Spirito Santo.

    Dalla Sella di Ravascletto si scende nella vai Degano, seguendo il corso del torrente Margò. Si arriva così a Comegliàns, centro stradale, sorto allo sbocco della Vaicalda e della vai Pesarina, importante per le sue segherie. Dall’alto di una rupe la pieve di San Giorgio domina tutta la conca, ma non privi d’interesse sono anche gli affreschi quattrocenteschi della chiesetta di San Nicolò. Sui terrazzi e sui dolci pendìi che declinano nella conca sono disposti a festone i centri minori di Maranzànis, Povolaro, Mieli, Tuàlis, Naiaretto, Calgaretto e Runchia, che costituiscono la più tipica associazione di centri della Carnia. Il nome di Comegliàns deriva certamente dal Comèlico, a cui porta la strada della vai Pesarina.

    Da Comegliàns percorriamo la vai Degano verso la sua testata. In un ampio slargo Rigolato (m. 750) ci dà il suo saluto di fervido centro turistico, mentre sulle pendici del gruppo scistoso del Crostis occhieggiano tra il verde i centri di Gracco, Vuèzzis e Givigliana. A Magnanìns c’è un serbatoio idroelettrico che alimenta una piccola centrale.

    Procedendo oltre superiamo il Degano a ponte Lans e il Rio Morareto sul ponte Coperto. Poi, mentre spuntano le cime più lontane della Catena Carnica, entriamo nella conca di Forni Avoltri, dove il Degano riceve da destra il Rio Acqualena.

    Ovaro, centro di terrazzo nella bassa val Degano.

    Forni Avoltri (m. 888) è un tipico centro doppio di ponte, il cui nome denuncia l’origine mineraria, legata ai giacimenti di ferro di Sappada. È un affollato luogo di soggiorno estivo, assieme alle frazioni di Piani di Luzza e di Collina, da cui si sale ai rifugi Marinelli e Lambertenghi-Romanin, punti di partenza per l’ascesa del Monte Cogliàns, il colosso delle Alpi Carniche. A Pièrabeck, alle falde del Monte Avanza, c’erano le miniere di piombo e zinco, mentre più recentemente è stata aperta una cava di marmo. Continuando la strada provinciale si può passare nel Cadore attraverso il Passo di Cima Sappada (m. 1292).

    Ritorniamo ora nuovamente a Comegliàns, per fare una puntata nella vai Pesa-rina o Canale di San Canciano, che è una delle aree più appartate della Carnia, in cui la fioritura artistica si accompagna alla sopravvivenza di antiche tradizioni ed usanze. Una sfilata di piccoli centri ci accoglie tra le conifere lungo una strada malandata che porta alla Forcella Lavardèt (m. 1542) e al Comèlico. Prato Càrnico conserva nella sua parrocchiale un altare in legno di Michele da Brunico (1534), una pregevole ancona della stessa epoca, dovuta ai Tolmezzini, la porta della sacristia, finemente intagliata e un bel fonte battesimale. Anche l’abbandonata pieve di San Canciano ha un discreto valore architettonico e presenta una finestrella romanica in forma di croce (secolo XIV), mentre a Sostasio, poco prima di Prato, c’è un altare in legno di Sebastiano Martini, e altri due ci sono a Osais; Prato possiede nella chiesa di San Leonardo gli affreschi del tolmezzino Pietro Fulutto (secolo XVI).

    A Pesàriis, vi era l’antica muda patriarcale e la pesa che ha dato il nome al paese. Qui ci attende per una visita l’antica fabbrica di orologi da torre, mentre l’arte dei bronzinari, un tempo molto attiva, è scomparsa da quando il focolare ha perduto le sue forme primitive. Dalle case di Pradibosco, ultimo agglomerato della vallata, si può salire al rifugio Fratelli Degasperi, che è la base delle escursioni alpinistiche nelle Dolomiti Pesarine.

    Passiamo ancora una volta per Comegliàns, per discendere nella bassa vai Degano, che ha ancora molte cose da mostrare al visitatore. Nello slargo di Ovaro si distendono sui poggi numerosi piccoli centri, su cui vigila l’antica pieve di San Maria di Gorto, la più antica di tutta la valle, che con i rintocchi della sua campana ricorda i Caduti in guerra.

    Ovaro (m. 530) è un vivace centro di terrazzo, sviluppatosi lungo la strada, ormai rinnovato dopo le recenti distruzioni belliche e ravvivato dalle iniziative turistiche. Possiede una cartiera, segherie, fornaci di laterizi e un tempo si avvantaggiava anche per l’attività della miniera di carbone di Cludinico, ormai abbandonata. Fra le cose artistiche più notevoli vi è a Mione la chiesetta quattrocentesca di Sant’Antonio Abate, con una pala in legno del secolo XVI e affreschi di Pietro Fulutto (1519). Viene poi notato per la sua imponenza il palazzo Micoli-Toscano, con il tetto coperto da embrici verdi, che sono una caratteristica della zona.

    A Villa Santina ritroviamo il Tagliamento, ma prima di risalire la sua valle verso il Passo della Màuria non dovrebbe mancare una visita ai suoi dintorni. Sopra un poggio solitario s’erge la vetusta pieve di Invillino, che custodisce un grande altare in legno di Domenico da Tolmezzo. Interessanti per i loro caratteri primitivi sono i paesi appartati dell’altipiano che si appoggia al Monte Arvenis: Trava, Avaglio, Làuco e Vinaio, nel quale ultimo si tiene la sera del Venerdì Santo una pittoresca rievocazione della Passione. Sulla destra del Degano, nella valle del Chiarsò, giace Ravèo, con il suo Santuario della Madonna, mentre oltre il Tagliamento si può visitare Verzegnis, con le interessanti opere idroelettriche in corso e la cava di marmo rosso.

    Ma è giunto il momento di risalire il Canale di Ampezzo, che è il più lungo di tutta la Carnia ed è oggi attraversato da una bella strada asfaltata che costituisce la via più rapida per raggiungere da Udine il Cadore.

    A Enemonzo ci attendono la bella chiesetta di San Rocco, la secentesca Casa Garzolini e i simpatici paesetti dei dintorni: Maiaso, Colza e Fresis, con la chiesetta di Santa Giuliana, affrescata da Giulio Urbano.

    A Socchieve si può visitare la chiesa di San Martino il cui coro venne affrescato da Gian Francesco da Tolmezzo (1493), il maggiore pittore carnico del Rinascimento.

    Ampezzo nella valle del Tagliamento con sullo sfondo il Monte Amariana.

    Ampezzo (m. 560), che sorge su un fertile ripiano allo sbocco della vallata del Lumièi, è il più antico centro carnico, dopo la romana Zuglio. Possiede qualche piccola industria del legno e dei laterizi e un discreto movimento turistico estivo. Fra gli edifìci più notevoli emerge sulla piazza il palazzo secentesco Beorchia-Nigris.

    Da Ampezzo si può accedere alla conca di Sauris attraverso una pittoresca strada di recente costruzione che serpeggia sopra burroni, scomparendo a tratti nelle gallerie che squarciano il monte. Alla Màina ci aspetta la fresca immagine del lago di Sauris con la deliziosa conca, in cui abita una popolazione di origine tedesca, che ha mantenuto il suo dialetto e i suoi usi e costumi. Colpiscono soprattutto le originali case dagli ampi ballatoi in legno dei villaggi, che sono i più elevati di tutta la montagna friulana.

    Da Ampezzo raggiungiamo il Passo della Morte, che deve il nome a un fatto d’armi avvenuto il 24 maggio 1848, quando un centinaio di intrepidi Fornesi e Cadorini, guidati da Pier Fortunato Calvi, respinsero forze austriache molto superiori.

    Ci avviciniamo ai Forni Savorgnani, così detti poiché dal 1326 dipesero dalla nobile famiglia dei conti Savorgnani, costituendo un territorio separato dal resto della Carnia, con proprie caratteristiche dialettali e folcloristiche. Il loro nome ricorda però anche un’antica attività mineraria, collegata a qualche modesto giacimento di rame e di ferro.

    L’alta valle del Tagliamento è una delle zone turistiche più attraenti della Carnia, per la fantastica cornice di ardite catene dolomitiche, fra cui emergono la Crìdola e i Monfalconi.

    Forni di Sotto (m. 766) è costituita dalle tre grosse borgate di Trèdolo, Baselia e Vico, che contano assieme circa 1500 abitanti.

    Fu completamente incendiata dai Tedeschi durante l’ultima guerra, ma è risorta mantenendo i vecchi caratteri architettonici. Notevole è la chiesetta di San Lorenzo, in cui si conservano affreschi di Gian Francesco da Tolmezzo. Una rara nota d’arte è però rappresentata anche dalla vecchia fontana che allieta l’umile piazzetta del borgo con la nobiltà della sua linea e la freschezza dell’acqua.

    Forni di Sopra (m. 910) si allunga sulla strada con le sue tre borgate di Vico, Cella e Andrazza, in cui vivono circa 2000 abitanti.

    La sua chiesa è dedicata a San Floriano che protegge dagli incendi e perciò è molto onorato in Carnia, dove ancor oggi abbondano le case di legno. Questa chiesa, che risale al secolo XV, è dichiarata monumento nazionale perchè conserva nel coro ottimi affreschi di Gian Francesco da Tolmezzo e una magnifica pala di Andrea Bellunello da San Vito, in cui il Santo titolare campeggia in veste di cavaliere medievale.

    Ormai non ci resta che salire i tornanti che portano al Passo della Màuria (m. 1298) per godere di lassù la vista del Cadore e riposare del nuovo albergo-rifugio fra il profumo degli abeti e dei larici.

    Il Canal del Ferro e la Val Canale

    Il Canal del Ferro, che abbiamo già presentato nel VI capitolo, comprende il bacino del Fella a valle di Pontebba, ma agli effetti statistici include verso la pianura anche il comune di Venzone. Per quanto sia ben differenziato su un piano naturale, storico e tradizionale dalla Val Canale, lo prenderemo in considerazione, per comodità di studio, assieme a questa. La regione così considerata corrisponde alla XXIII regione agraria che ha una superficie di 931 kmq., suddivisa fra 9 comuni, amministrativamente raggruppati, ad eccezione di Venzone, nel mandamento di Pontebba. La popolazione residente era nel 1951 di 26.649 ab. ma, diversamente dalla Carnia, risultava leggermente inferiore alla popolazione presente. Tale differenza si riscontra soprattutto nella Val Canale, in rapporto all’esistenza del valico internazionale di Tarvisio con i relativi servizi. In questa valle una recente immigrazione friulana ha riempito i vuoti lasciati dagli elementi allogeni che hanno usufruito dell’opzione.

    Dai dati disponibili l’incremento demografico risulta molto inferiore a quello della Carnia. Infatti nel secolo scorso gli abitanti sono passati dai 10.000 valutati dal Beloch per il 1802, ai 16.500 del 1901, con un aumento di circa il 65%. Tenendo conto che nel 1919 furono annessi circa 8000 ab. della Val Canale e del Tarvisiano, l’incremento dell’ultimo cinquantennio risulta quasi insensibile. Ciò è dovuto alla diversa natura geomorfologica dell’ambiente, che registra un 28% di superficie improduttiva, al maggiore sviluppo del bosco e alle cattive condizioni della viabilità nelle vallate laterali.

    La densità di popolazione è appena di 29 ab. per kmq., pari quindi ai tre quinti di quella carnica. Le zone di maggior addensamento sono nella bassa vallata del Fella (Venzone 66), nella conca di Moggio e nella vai d’Aupa, mentre assai poco popolati sono i canali laterali (Chiusaforte 22, Dogna 14) e la Val Canale (Malbor-ghetto-Vaibruna 13), dove si registrano alcune delle più basse densità regionali. L’emigrazione è abbastanza diffusa in alcuni comuni del Canal del Ferro, fra cui emerge quello di Resia, noto per la partenza stagionale degli arrotini, stagnari, ombrellai e commercianti girovaghi.

    La popolazione è in buona parte friulana o friulanizzata. Di origine slava sono gli abitanti della vai di Resia, dell’alta vai Uccea e di alcuni centri minori della Val Canale e del Tarvisiano, dove però, prima delle opzioni del 1939, prevalevano nettamente i Tedeschi. Numerosi sono però i toponimi di origine slava o tedesca. La casa rurale varia notevolmente fra il Canal del Ferro, in cui prevale il tipo recente dell’alto Tagliamento, e la Val Canale, dove domina il tipo carinziano. Molto significativa è la differenza architettonica fra i due diversi nuclei di Pontebba Vecchia e Pontebba Nuova, separati dal corso del torrente Pontebbana.

    Diversamente dalla Carnia, troviamo qui, accanto al tipico insediamento accentrato, che predomina soprattutto nella Val Canale, un insediamento sparso, in singole case (Resia 11%), ma soprattutto in modesti nuclei, chiamati localmente chiout (Dogna 69%, Chiusaforte 44%). E questo un fenomeno caratteristico dei canali laterali, dove la morfologia stessa e la distribuzione dei terreni coltivabili impongono il frazionamento. Mancano anzi in questi canali veri e propri centri di gravitazione, per cui essi, diversamente da quelli camici, non hanno potuto avere una propria vita autonoma, ma hanno sempre dovuto gravitare sulla valle principale.

    Nella regione considerata ci sono in tutto un trentina di centri, affiancati da circa 90 nuclei, di cui solo 5 superano il migliaio di abitanti. Non c’è però, come in Carnia, un centro che emerga nettamente sugli altri e che svolga un preciso ruolo di capoluogo regionale. Una considerevole attrazione è però esercitata da Pontebba (2372 ab. nel 1951), che è il centro maggiore, situato al limite fra il Canal del Ferro e la Val Canale. Segue per importanza Tarvisio (2255 ab.), grande nodo di comunicazioni in un’ampia conca incuneata fra l’Austria e la Jugoslavia, con funzioni di valico internazionale e di luogo di soggiorno estivo ed invernale. Superano i mille abitanti anche Venzone, Moggio e Cave del Predìl. I centri più elevati sono Aupa (m. 930) e Studena Alta (m. 806), nella vai Pontebbana, ma l’insediamento permanente non supera generalmente i 700 metri.

    Abbazia di San Gallo, a Moggio Udinese.

    L’economia di questa regione è prevalentemente forestale, ma una notevole importanza hanno anche l’allevamento del bestiame e alcune attività minerarie e industriali. Solo il 20% della popolazione attiva è dedita alle attività agricole, in misura quindi molto inferiore alla Carnia, mentre ben il 47% ha dichiarato di appartenere al settore industriale.

    L’agricoltura è molto ridotta per la ristrettezza della fascia scistoso-arenacea e può avere un certo sviluppo solo nella Val Canale, nella conca di Moggio e, naturalmente, nella piana di Venzone. Nei seminativi la patata prevale sul granoturco, mentre accanto ai legumi assumono un certo rilievo nella Val Canale i cereali minori che appartengono alla tradizione alimentare tedesca, ossia la segale, l’orzo e l’avena.

    Il frumento e la vite arrivano fino alla conca di Moggio, come pure alcuni piccoli frutteti familiari. Nel Canal del Ferro prevale la piccolissima proprietà, mentre nella Val Canale il frazionamento è meno accentuato per l’esistenza dell’istituto del maggiorasco, conservato fino all’annessione all’Italia.

    I prati e i pascoli costituiscono il 33% della superficie territoriale e la vita pastorale si svolge in una cinquantina di malghe, che hanno però una produttività notevolmente inferiore a quelle della Carnia. Le migliori sono quelle del Montasio, in vai Raccolana, da cui ha preso nome il formaggio prodotto in tutta la montagna friulana. Troviamo anche qualche esempio di villaggio estivo d’alta montagna, che manca invece del tutto in Carnia. Il patrimonio zootecnico bovino appartiene per

    lo più alla razza Mòllthal, dal caratteristico manto pezzato rosso, ma dopo il 1919 la ricostituzione è stata realizzata anche con la razza Valdostana. La prima latteria sociale fu aperta a Resiutta nel 1883, ma il movimento cooperativistico non ebbe uno sviluppo così rapido, come in Carnia, perchè lo spirito associativo, soprattutto nella Val Canale e nel Tarvisiano, è molto scarso, per cui la lavorazione del latte viene ancora oggi fatta, in molti casi, su base individuale.

    Il bosco occupa il 38% della superficie territoriale ed è molto esteso specialmente nel Tarvisiano e nella Val Canale, dove occupa pure alcune zone del fondovalle ed è costituito per oltre la metà da fustaie di resinose. Accanto all’abete rosso figurano l’abete bianco e il pino, nero, poco diffusi nella Carnia. Il pino nero e il pino silvestre sono largamente usati nel Canal del Ferro e nelle valli laterali per il rimboschimento di terreni nudi, a forte pendenza, mentre il faggio compare in tutta la zona, specialmente nel Tarvisiano dove si presenta predominante in faggete di alto fusto.

    Molto importanti sono le foreste demaniali di Tarvisio e di Fusine in Vairomana (250 kmq.) che nel 1557 l’Austria sottrasse ai Vescovi di Bamberga, assumendosene però l’amministrazione solo all’epoca di Maria Teresa. Tali foreste, che per la loro vicinanza al confine rivestivano pure un notevole interesse militare, passarono poi al demanio italiano, che provvide a riscattare o a disciplinare i diritti di servitù. In passato il legname veniva fluitato lungo il Fella fino ad Osoppo, ma ora si preferisce trasportarlo per ferrovia. Numerose sono nella Val Canale le segherie, che lavorano anche legname d’importazione.

    Chiusaforte in Val Canale.

    Le risorse minerarie sono oggi costituite essenzialmente dalla blenda e dalla galena che si ricavano dalle dolomie infraraibliane delle Alpi di Raccolana, nel centro minerario di Cave del Predìl. Furono però coltivati saltuariamente nel passato anche altri giacimenti, fra cui i banchi di ematite con minerali di manganese intercalati nei calcari siluriani del Monte Cucco di Ugovizza, le deboli intercalazioni di antracite del Monte Corona, a nord di Pontebba, e gli scisti bituminosi, intercalati nelle rocce dolomitiche del Monte Plauris, sopra Resiutta.

    Vedi Anche:  Fiumi e golfi

    Gessi e pietre da calce si ricavavano nei terreni triassici della conca di Moggio e argille presso Resiutta, Camporosso e Tarvisio, dove alimentavano alcune fornaci da laterizi.

    Le risorse idroelettriche sono solo parzialmente utilizzate, ad opera della Società Cave del Predìl, delle Acciaierie di Fusine e della Cartiera di Moggio, che sono le principali industrie esistenti. È in corso di realizzazione un importante piano per l’utilizzazione delle acque della vai Raccolana.

    La regione è percorsa da due grandi vie di comunicazione internazionale: la Ferrovia Pontebbana, elettrificata e in corso di potenziamento, e la strada statale n. 13-Pontebbana, che superano lo spartiacque alla bassa insellatura di Camporosso. Una minore strada congiunge Chiusaforte a Tarvisio attraverso la vai Raccolana e la Sella Nevea.

    Percorriamo ora rapidamente questa regione per osservare qua e là le cose più interessanti all’occhio del turista.

    Partiamo nuovamente dalla Stazione per la Carnia risalendo il tortuoso corso del Fella, lungo la strada statale Pontebbana. Il primo saluto ci viene dall’antica abbazia benedettina di Moggio che occupa la sommità di un poggio alla testata della vai d’Aupa. Il chiostro attuale, ricostruito nel 1548, non è elegante, ma riflette lo stile locale. In una colonna è murata un’importante iscrizione latina, riportata anche dal Mommsen, che testimonia l’esistenza nel luogo di un insediamento romano. La chiesa abbaziale di San Gallo, riedificata nel secolo XVIII, conserva nel coro due moderni affreschi di Leonardo Rigo (1893) che ricordano la donazione del castello di Moggio al Patriarca di Aquileia e la presunta visita di San Carlo Borromeo all’abbazia. Unico avanzo del cospicuo tesoro abbaziale è un pastorale di rame dorato con figure d’argento e smalti del secolo XIV. Nella piazza di Moggio di Sopra si può vedere ancora la colonna quadrangolare della berlina con l’iscrizione « Suplicio dei malfattori ».

    Trascuriamo la brulla vai d’Aupa, dominata dalla Creta Grauzaria, giacché la strada che porta alla Sella di Cereschiatis e di 11 a Pontebba non è proprio delle migliori. Riprendiamo invece la via del Canal del Ferro per fermarci, dopo qualche chilometro, ad ammirare sulla destra la Pissanda, una cascata di una ventina di metri, le cui acque cadendo hanno scavato nella roccia una bella conca verdeazzurra. A sinistra, presso il greto del fiume, lasciamo il paesetto di Ovedasso, famoso per la pece che la Serenissima traeva dalle sue foreste.

    Alla strada corre parallela la ferrovia, che spesso la interseca bloccando ogni tanto il traffico ai suoi passaggi a livello. Frequenti sono le gallerie, di cui quella dei Cinque Rivi, prima di arrivare a Resiutta, è la più lunga di tutta la linea (m. 774).

    A Resiutta alcuni rinvenimenti archeologici non lasciano dubbi sull’antichità dell’insediamento, sorto sul guado del torrente Resia; si può vedere ancora la casa che nel 1822 ospitò Silvio Pellico nel suo triste viaggio verso lo Spielberg. Prima deH’ultima guerra era attiva una miniera di scisti bituminosi, con forni di distillazione a monte dell’abitato.

    Pieghiamo nel canale di Resia, osservando a settentrione la mole tricuspidale del Canin e a mezzogiorno la catena dentellata del Musi. A Prato di Resia sarebbe bello arrivare il giorno della sagra, per assistere alle animate danze paesane. Le genti slave che abitano la valle sono note per il loro nomadismo, che le porta ad esercitare i loro tipici mestieri nelle più lontane contrade. Le piazze dei numerosi villaggi conservano ancora il vetusto tiglio che ricorda gli antichi consigli all’aperto. Oltre la Sella di Carnizza si può scendere a Uccea, nel bacino dell’Isonzo, ma qui il confine politico ci costringe a rifare il cammino percorso.

    Dopo Resiutta il Canal del Ferro si restringe e si rinserra e bisogna salire per parecchi chilometri prima di trovare un centro. Si arriva così a Chiusaforte, l’antica « Sciusa », che per la sua posizione strategica ebbe grande importanza nelle vicende belliche dei secoli passati. Qui possiamo prendere a destra la vai Raccolana, che dovrebbe beneficiare di un notevole programma idroelettrico, per salire alla Sella Nevea (m. 1142), dove ci attende per una sosta il rifugio Gilberti, base di partenza per le escursioni ai gruppi del Montasio e del Canin, che si fronteggiano ai due lati della valle. Da qui si può scendere per la valle del Rio del Lago verso Tarvisio, ma preferiamo ritornare sui nostri passi e proseguire nell’angusto solco del Fella.

    Pontebba Vecchia in Val Canale.

    A Dogna sbocca un’altra valle laterale, che dobbiamo escludere per le pessime condizioni della strada, senza però dimenticare di dare un fugace sguardo al Montasio, che fa capolino per qualche chilometro. Appressandoci a Pontebba, non dimentichiamo una sosta al cimitero di San Rocco, dove riposa il compositore friulano Arturo Zardini, celebre per le commosse note di Stelutis Alpinis.

    Pontebba Nuova in Val Canale.

    Pontebba (m. 568) è un importante centro commerciale e turistico. Il corso della Pontebbana, che fino al 1915 segnava il confine italo-austriaco, la divide in due parti: Pontebba Vecchia e Pontebba Nuova o Pontàfel o Pontèbe Todèschie. Il nome deriva evidentemente dal ponte, presso cui sorse, fin dai tempi preistorici, il primo nucleo abitato. Nell’agosto 1916 le artiglierie distrussero quasi completamente il paese, che ora si presenta rinnovato e accogliente. Nella chiesa parrocchiale si può ammirare l’altare in legno di Sigismondo Wolfango Haller, di stile gotico tedesco, sopravvissuto alle distruzioni belliche, che reca la data del 1517. E un complesso architettonico e decorativo che ricorda le cattedrali gotiche ed è unico del suo genere nel Friuli. Nel Palazzo del Comune sono conservati alcuni affreschi di Antonio Morocutti che illustrano il martirio e la rinascita del paese.

    Siamo ormai nell’ampia Val Canale, il cui gaio paesaggio si contrappone a quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Campi ubertosi, boschi rigogliosi e dovunque l’impronta dell’insediamento tedesco, che ci rammenta la vicina Carinzia.

    Ai Bagni di Lusnizza possiamo assaggiare le ristoratrici acque solforose, mentre a Malborghetto, che vanta origini italiane, è interessante una visita al forte, sotto il quale un leone di bronzo esalta l’eroismo del capitano Hensel, che nel 1809 lo difese per tre giorni combattendo contro le truppe francesi del viceré Eugenio.

    Ugovizza si trova sul cono di deiezione del selvaggio Rio Uqua; di fronte si può infilare la Vaibruna, per contemplare l’immane barriera del Montasio e dell’Iof Fuart, che la chiudono a mezzogiorno.

    Ormai siamo giunti al limite della regione naturale italiana, alla Sella di Camporosso (m. 817), per cui si può attraversare quasi senza accorgersene lo spartiacque ponto-adriatico. Ma oltre la Sella rientra anche in territorio italiano la magnifica conca di Tarvisio, che alla bellezza del suo paesaggio unisce le comodità di una moderna stazione climatica.

    Tarvisio (m. 752) sorge ben esposta a solatìo sui terrazzi fluvio-glaciali che degradano verso il torrente Slizza, un vivace centro turistico e confinario, con un intenso traffico stradale e ferroviario che fa capo al valico internazionale di Coccau. Sicuramente comprovata è la sua origine antichissima, attestata anche dai cippi funerari romani posti davanti al Municipio. Dall’inizio del ’400 è celebre per la lavorazione del ferro, simboleggiata dalle due chiavi incrociate sotto lo stemma del comune, di cui oggi sopravvive solo l’acciaieria della frazione di Fusine. Si suddivide in due borghi, di cui quello inferiore presenta la pittoresca chiesetta della Madonna di Loreto, eretta alla fine del ’600, che contiene pregevoli dipinti di scuola tedesca. Un cavalcavia ferroviario e un piccolo giardino pubblico separano il borgo inferiore dalla piazza del Mercato, con cui s’inizia il borgo superiore, più recente e più arioso, in cui si trovano gli alberghi. In mezzo alla piazza un’antica colonna triangolare porta scolpiti bassorilievi raffiguranti la Trinità, l’Annunciazione e la Crocifissione. La chiesa parrocchiale è cinta dal muraglione di un antico fortilizio, di cui sono superstiti due torricelle angolari del ’400, l’una rotonda e l’altra ottagonale. La chiesa, eretta nel secolo XV, è decorata con gusto tedesco e presenta altari barocchi non privi di eleganza.

    Una seggiovia porta al Priesnig e al Monte Lussari (m. 1790), su cui sorge il celebre Santuario eretto nel 1360 sul luogo dove, secondo la tradizione, venne scoperta la statua lignea della Madonna che tuttora si venera. La chiesa, aperta da maggio a ottobre, è da secoli mèta di pellegrinaggi. Accanto ad essa sorgono la canonica e vari edifici di ricovero e di ristoro.

    Da Tarvisio si può fare una puntata ai laghi di Fusine, in cui si specchia il gruppo del Màngart. Basta inoltrarsi nella Vairomana e, giunti al villaggio di Fusine, risalire il corso del Rio del Lago, per un’amena stradicciola in mezzo al bosco. A chi invece interessa l’economia locale, è consigliabile una visita alle miniere di piombo e di zinco di Cave del Predìl, che sono fra le maggiori d’Italia. Purtroppo al Passo del Predìl (m. 1156) il nuovo confine politico ci impedisce di discendere nella valle dell’Isonzo e di ritornare per quella via in pianura. Accontentiamoci di contemplare le acque limpide del lago di Raibl, che riflettono le Cinque Punte, la rocciosa Cima del Lago e il metallifero Monte Re.

    Le Prealpi Carniche

    Le Prealpi Carniche pur non costituendo una regione storica tradizionale, formano una regione naturale con caratteri antropici ed economici comuni, che corrisponde press’a poco alla XXIV regione agraria, con una superficie di 925 kmq., suddivisa fra 13 comuni, che appartengono amministrativamente ai mandamenti di Maniago e di Spilimbergo. Questa regione comprende le valli del Cellina e del Còlvera, che gravitano sul centro di sbocco di Maniago, la vai Meduna, che gravita invece su Spilimbergo, la valle dell’Arzino, che costituisce un’unità tradizionale ed ha una doppia gravitazione verso la Carnia, di cui un tempo faceva parte, e verso la pianura, e parte del bacino del lago di Cavazzo, che risente l’attrazione di Gemona.

    La regione aveva alla data dell’ultimo censimento una popolazione residente di 26.623 ab-, di cui però solo 22.045 erano presenti, poiché queste valli danno all’emigrazione il contributo maggiore di tutta la montagna friulana. Nel 1766-70 la popolazione si aggirava sulle 14.000 unità, ma un secolo dopo raggiungeva le 26.128, segnando un incremento dell’85%. Raggiunto il massimo livello nel 1921 con 30.298 ab., incominciò poi su larga scala il fenomeno dello spopolamento, che ha riportato oggi la popolazione a valori inferiori a quelli del 1871.

    La densità di popolazione è di 29 ab. per kmq., pari quindi a quella del Canal del Ferro-Vai Canale, ma in un ambiente di gran lunga più povero e meno ospitale, se si tien presente che ben il 33% della superficie territoriale è del tutto improduttiva. La popolazione si addensa soprattutto nella fascia marnoso-arenacea subalpina a contatto con la pianura (Forgària 109, Bordano 98, Clauzetto 64), mentre valori molto bassi si registrano invece nella fascia calcareo-dolomitica, dove nella vai Cellina e nella vai Meduna troviamo i comuni meno densamente popolati di tutta la regione (Barcis io, Cimolàis n, Tramonti di Sopra 13 e Clàut 14).

    La popolazione è compattamente friulana, ma risente del lungo processo di vene-tizzazione. La casa rurale è del comune tipo prealpino; solo nell’alta vai Cellina si riscontra un tipo affine all’alto Tagliamento, mentre qua e là si può trovare la « casa carnica ».

    L’insediamento non presenta aspetti omogenei. Mentre infatti è fortemente accentrato nei comuni del bacino di Cavazzo (Bordano 100%, Trasàghis 98%) e dell’alta vai Cellina (Cimolàis 96%), altrove, come nel Canal del Ferro, presenta la dispersione nei nuclei (Clauzetto 45%, Tramonti di Sopra 43%), o nelle case sparse, specie nella fascia marnoso-arenacea (Vito d’Asio 22%, Tramonti di Sotto e Clauzetto 20,5%).

    I centri sono complessivamente 42, affiancati da 135 nuclei. Solo tre di questi superano però il migliaio di abitanti e precisamente Alesso, presso il lago di Cavazzo, Clàut e Cimolàis, nell’alta vai Cellina. Il centro più elevato è Casso (m. 951), ma l’insediamento permanente non supera generalmente i 700 metri.

    L’economia è molto povera, di tipo pastorale e forestale. I seminativi sono costituiti prevalentemente da granoturco e da ‘legumi, mentre modesta importanza hanno la patata e la segale e mancano gli altri cereali. La frutticoltura e la viticoltura sono presenti solo nei comuni subalpini, ma un tempo erano molto più diffuse soprattutto attorno al lago di Cavazzo. Il prato artificiale occupa una zona molto limitata, mentre più estesi sono i prati ed i pascoli permanenti.

    Gli stàvoli sono molto diffusi nella valle del Vaiònt (Erto e Casso) e nella vai Cellina, dove sono denominati « poste » e si estendono in una fascia altimetrica molto più ampia della Carnia poiché molto spesso ospitano il bestiame anche durante la stagione estiva. Molto interessante è l’organizzazione collettiva dei prati-pascoli del Monte Prat, ceduti nel 1866-70 in enfiteusi agli abitanti del comune di Forgària.

    Il latte viene mandato per mezzo di una teleferica di quasi 2 km. alla latteria di Somp Cornino, dove viene lavorato.

    Le malghe sono circa una trentina, ma accolgono appena un terzo dei bovini del fondovalle, mentre invece molto numerosi vi affluiscono i caprini e gli ovini. Le costruzioni sono molto più scadenti di quelle carniche e il bestiame viene spesso tenuto in ricoveri all’aperto. Il patrimonio zootecnico bovino appartiene nella vai Cellina alla razza Grigia autoctona e nella restante zona alpina alla razza Bruna alpina, che venne diffusa nel primo dopoguerra; nelle Prealpi di Cavazzo prevale invece la razza Mòllthal. Nel passato era molto importante l’allevamento degli ovini e dei caprini, distribuiti in un grande numero di piccoli allevamenti familiari. Nelle numerose latterie sociali si produce il formaggio di tipo Montasio, ma in alcune private si preparano anche piccole quantità di formaggio « Asìn », leggermente salato.

    Le maggiori foreste si trovano nella vai Cellina e nella vai Tramontina, e sono costituite da faggi e abeti. Nell’altipiano del Cansiglio c’è un’importante foresta demaniale, con presenza di fustaie di faggio, che però rientra solo in parte nella provincia di Udine.

    Mancano del tutto le risorse del sottosuolo, se si eccettua qualche cava di pietra. Importanti sono però le risorse idroelettriche che sono state in gran parte già valorizzate con la costruzione delle grandi dighe del Vaiònt e di Barcis, nella vai Cellina, e di Ponte Radi, nella vai Meduna, ma altre importanti opere sono in corso. Le utilizzazioni idroelettriche hanno determinato il miglioramento delle vie di comunicazione, mentre i laghi artificiali cominciano a costituire una cospicua attrazione turistica. Mancano invece del tutto le industrie, nonostante che nel passato esistesse in questa zona un florido artigianato. La vai Cellina ha da tempo antichissimo diffusa la lavorazione del legno con la caratteristica fabbricazione di utensili da cucina e altri oggetti d’uso domestico. La lavorazione è familiare ed avviene durante l’inverno, mentre in primavera le donne lasciano i paesi con il loro carrettino, per la vendita al minuto in tutte le contrade dell’Italia settentrionale. Il legno usato è il noce e l’acero per gli zoccoli, l’abete e il larice per i mastelli, il carpino per le bocce e il faggio per tutti gli altri oggetti. Nel 1924 i pezzi lavorati in vai Cellina erano valutati a 2 milioni, ma dieci anni dopo il loro numero era già ridotto di un terzo. La crisi è precipitata dopo l’ultima guerra, soprattutto per la concorrenza degli oggetti in plastica, cosicché oggi questo artigianato sta scomparendo. Tramonti di Mezzo e Cornino avevano invece un importante artigianato del vimine, mentre Clauzetto e Cornino si distinguevano per la fabbricazione di rastrelli e manici per falci. A Clàut e a Cimolàis ci sono degli impianti per la distillazione dell’olio di mugo.

    Le comunicazioni sono piuttosto precarie in tutte le vallate, tranne che nella vai Cellina, la cui strada è stata statalizzata ed è in corso di sistemazione, poiché abbrevia notevolmente le distanze sulla direttrice Trieste-Cortina d’Ampezzo.

    Lo stato attuale delle comunicazioni stradali non ci permette di abbracciare in un unico itinerario tutte le vallate delle Prealpi Carniche. Risaliamole perciò ad una ad una per gustare le loro non trascurabili bellezze paesistiche.

    Cominciamo ad occidente dalla vai Cellina, che è la valle più importante, perchè mette in comunicazione il Friuli occidentale con la vai del Piave. Raggiungiamo da Maniago o da Montereale il ponte Rovèdis, da cui si può osservare la grande conoide di ghiaie, che il fiume ha trasportato in pianura, sparire nella lontana linea dell’orizzonte. In uno stretto canale, dalle pareti strapiombanti la strada corre tortuosa a mezza costa, sospesa su mensole o nascosta nelle numerose gallerie che traforano la montagna. Dopo 8 km. raggiungiamo la diga di presa del canale idroelettrico, presso cui sono sorte nel 1955 la moderna centrale in caverna, alimentata dal serbatoio di Barcis, e le graziose casette dei dipendenti della S. A. D. E.

    Il paesaggio acquista una fisionomia veramente dantesca alla confluenza del torrente Molassa dove nel profondo letto del fiume le acque scroscianti hanno scavato una serie di grandi marmitte. Qui la strada si dirama a destra per raggiungere il ridente paesino di Andrèis. E consigliabile seguirla per un centinaio di metri fino al Ponte Molassa, che è sospeso su una stretta e profondissima forra, in cui risuonano con cupo fragore le acque vorticose.

    Dopo l’ultima lunga galleria ci si offre allo sguardo l’incantevole panorama della verde conca di Barcis, con il suo bel lago, i suoi campi e i suoi prati, vigilati dalle cupole del Monte Raut e del Monte Cavallo. Prima di superare il ponte Antoi è opportuno fare una breve deviazione a sinistra per poter ammirare la superba diga che sbarra il passo al Cellina.

    Barcis (m. 409) sorge su un ripiano di alluvioni terrazzate. Dolci colline allargano il panorama a oriente verso la conca di Andrèis e la Forcella di Pala Barzana. Il paese, incendiato dai Tedeschi nel 1944, è poi rifiorito a nuova vita e, grazie alla novità del lago, è proteso nello sviluppo delle iniziative turistiche. Prima di lasciarlo non bisogna però dimenticare di contemplare l’armonia chiaroscurale del loggiato nel cinquecentesco Palazzo Centis, che si specchia ora sulle limpide acque del lago.

    Continuiamo a risalire la valle, che si rinserra nuovamente in uno stretto canale, in cui troviamo a salutarci solo le povere case di Contròn e di Cellino. I programmi idroelettrici della S. A. D. E. prevedono qui la realizzazione di un secondo serbatoio, per cui viene dilazionata la costruzione della nuova strada. Dopo aver superato l’esteso ghiaieto del torrente Ferròn, la valle ci riserva una nuova sorpresa: l’ampia piana alluvionale del Pinedo, in cui i torrenti Cimoliana, Settimana e Cellina hanno inciso una serie di terrazzi, rivestiti da prati e da qualche seminativo. Circonda la conca una severa cornice di montagne dolomitiche, fra cui emergono il Col Nudo,

    il Duranno e la Vacalizza, mentre ai suoi margini estremi si adagiano i villaggi di Clàut, ad oriente, e Cimolàis, ad occidente, noti per l’artigianato dei sedoneri, per le distillerie del mugolio e per il loro notevole sviluppo turistico.

    Barcis: il cinquecentesco Palazzo Centis.

    Clàut: il principale centro turistico della vai Cellina, con sullo sfondo il monte Vacalizza.

    Ci rechiamo prima a Clàut (m. 613), che è il più popoloso centro della valle e capoluogo di un estesissimo comune, che nella montagna friulana è inferiore per ampiezza solo a quello di Tarvisio. Prima di arrivarci bisogna attraversare il torrente Cimoliana presso il Porto di Pinedo, che ricorda con il suo nome l’antica fluitazione del legname, e il torrente Settimana, nella cui valle ci sono le acque solfo-ferro-magnesiache della Pussa, di grande efficacia terapeutica. A Clàut, costituito dalle tre borgate di Mariàe, Basoia e Masurìe, possiamo ammirare alcune vecchie case di tipo carnico, che sono veri gioielli di architettura rustica, e il moderno viale. Procedendo nella vai Clautana non è difficile raggiungere la pittoresca sorgente del Cellina e, con un po’ di più fatica, il caratteristico Lanàri Scur, spaziosa caverna aperta in una parete rocciosa in mezzo al bosco di Lèsis.

    Cimolàis (m. 652) è pure un ameno luogo di soggiorno, da cui si può raggiungere, risalendo la vai Cimoliana, il rifugio Pordenone, punto di partenza per le scalate al famoso Campanile di vai Montanaia (m. 2171), sulla cui vetta una campana attende gli arditi rocciatori.

    Oltre il Passo di Sant’Osvaldo siamo ormai nel bacino del Piave, ma amministrativamente nella provincia di Udine è compreso ancora il comune di Erto e Casso, che è il più remoto di tutta la montagna friulana. Ora ci accoglie il nuovo lago formato dall’alta diga del Vaiònt, di cui abbiamo già detto in precedenza. Passando per Erto non possiamo fare a meno di osservare il fiero cipiglio di quei montanari, che la tradizione fa discendere addirittura dagli antichi Cimbri, mentre più avanti possiamo soffermarci ad osservare in alto il paesino di Casso, con le sue case alte e strette, insidiate da una frana minacciosa.

    Cimolàis in val Cellina.

    Giungiamo così alla diga, meraviglioso capolavoro dell’ingegno umano, e possiamo percorrere la strada che corona la sua sommità, non senza un senso di sbigottimento e di commozione.

    Poi un’altra serie di gallerie ci dischiude la vista di Longarone e dell’ampia valle del Piave, ma sull’alto ponte di Colombèr, da cui possiamo ammirare ancora una volta la spettacolare diga, un cartello ci avvisa che stiamo per entrare nella provincia di Belluno.

    Spostandoci verso oriente risaliamo la breve valle del Còlvera, a cui si accede da Maniago, attraversando il celebre bus inciso dal torrente fra i Monti Iof e San Lorenzo. Ma poi la valle si allarga e si riveste di verdi prati alberati, fra cui si distendono i centri di Frisanco e di Poffabbro, da cui una malagevole strada conduce alla Forcella di Pala Barzana e alla conca di Andrèis.

    Più ad oriente la pianura è solcata dall’ampio letto ghiaioso del Meduna, la cui valle si apre fra Cavasso Nuovo e il colle di Solimbergo. Incontriamo subito Meduno, in posizione aperta e ridente, presso lo sbocco della valle, con la sua centrale elettrica. Poi una strada carrozzabile si inerpica alta sul torrente che si rinserra in uno stretto canale. Ma a Ponte Radi ecco la diga della S. A. I. C. I. e il lago, che occupa un’ampia conca terrazzata su cui si affacciano i paesini di Redona, Faidona e Chiè-volis, allo sbocco della valle laterale del Silisia. Superiamo il bivio per Canapone e Clauzetto e il ponte del Chiarzò, alla cui altezza cessano i calcari cretacei e cominciano i terreni dolomitici, rocciosi e scoscesi sul versante sud, ma ricoperti di prati e di bosco ceduo su quello opposto.

    Dopo la stretta della Clevata, dove si sta costruendo un altro sbarramento idro-elettrico, si entra nella verde e ampia conca di Tramonti, attraversata dal vasto letto ghiaioso del Meduna. Sulle pendici terrazzate sorgono Tramonti di Sotto (m. 366), Tramonti di Mezzo (m. 397) e, alla confluenza del torrente Viellia, Tramonti di Sopra (m. 426), che è il maggiore centro della valle, capoluogo comunale e luogo ameno di soggiorno estivo. La strada prosegue malagevole fino alla Forca di Monte Rest (m. 1052), da cui discende poi a Mediis, nella valle del Tagliamento. Lo sviluppo turistico della valle dipende appunto dalla sistemazione di questa strada, che è ormai in corso, e dal completamento delle opere idroelettriche che le forniranno il richiamo di altri due laghi, cosicché la «valle dei tre Tramonti» potrà essere ribattezzata la « valle dei tre laghi ».

    L’altipiano cretaceo del Monte Ciaurlèc separa la vai Meduna dalla piccola vai del Cosa, l’ultimo affluente di destra del Tagliamento. Vi si accede da Travesio, suo centro di sbocco, che conserva nella chiesa di San Pietro Apostolo un bel coro affrescato dall’Amalteo. Si procede dapprima verso est in un morbido paesaggio collinare, caratterizzato da un intenso insediamento sparso. Dopo Paludèa, sede del comune di Castelnuovo, si entra in una forra, volgendo a settentrione. Presso Muli-nàrs si possono visitare i Fontanoni del Cosa, che sono fra le più interessanti sorgive carsiche del Friuli. Tra verdi pendici boscose la strada risale quindi il Rio Molino, portandoci a Clauzetto (m. 553), graziosa località di villeggiatura, dove si dirama: volgendo a sinistra si va nella vai Meduna, mentre a destra si può passare agevolmente nella valle dell’Arzino.

    Per visitare la valle dell’Arzino bisogna portarsi a Pinzano, sulla ferrovia pedemontana, dove il Tagliamento si rinserra un’ultima volta fra le colline prima di sboccare definitivamente in pianura. La valle si apre larga fra le verdi colline terziarie di Flagogna e di Forgària a oriente e di Casiacco ad occidente. Sulle pendici del Monte Pala spuntano i ridenti villaggi di Vito d’Asio e di Anduìns, noto per le sue acque solfo-magnesiache, valorizzate da un discreto stabilimento balneare. Poi la valle si restringe in una pittoresca forra, fra il Monte Pala e il Monte Prat, e la strada corre sospesa a un centinaio di metri sul fondo in cui spumeggia il torrente. Ma dopo pochi chilometri torna a riaprirsi nella solatìa conca di Pielungo (m. 461), donde una carrozzabile, completando il giro del Monte Pala, giunge a Clauzetto e Vito d’Asio. La valle si prolunga quindi a nord prendendo il nome di Canale di San Francesco, dal villaggio omonimo, che è anche l’ultimo centro. La strada, ormai in pessime condizioni, s’inerpica ancora fino alla Sella Chianzutàn (m. 954), da cui discende a Verzegnis, nella valle del Tagliamento.

    Infine, prima di lasciare questa sezione prealpina, non si può fare a meno di visitare il lago di Cavazzo, che si trova ai limiti della Carnia, fra il Monte Piciàt e il Monte San Simeone. Vi si può accedere da Tolmezzo, passando il Tagliamento al ponte Avòns e raggiungendolo dall’alto, dopo aver attraversato il paese che gli dà il nome; oppure ci si può staccare dalla strada Pontebbana all’altezza di Gemona, toccando Braulìns e Trasàghis e scoprendolo così da sud. Comunque si gode di un magnifico scenario, poiché la depressione, che risale alle glaciazioni, presenta le tipiche forme di modellamento glaciale, con il profilo ad U, le rocce montonate e i cordoni morenici. E consigliabile compiere il periplo del lago, toccando i paesini di Somplago, dove c’è la famosa supercentrale elettrica della S. A. D. E., Alesso e Interneppo, presso cui c’è anche la possibilità di noleggiare una barchetta. Nelle acque increspate si riflette a monte la pittoresca pieve di Cesclàns (m. 341), costruita sui ruderi romani, che conserva una buona pala di Pomponio Amalteo (1536). Sul Monte Festa ci sono ancora i resti di importanti fortificazioni della prima guerra mondiale.

    Le Prealpi Giulie

    Le Prealpi Giulie, come le Carniche, costituiscono pure una regione naturale abbastanza ben individuata, denominata anche Montagna Orientale, che corrisponde alla XXV regione agraria, con una superficie di 283 kmq., suddivisa fra 9 comuni, che fanno parte dei mandamenti amministrativi di Tarcento e di Cividale. Comprende la valle del Torre, che gravita su Tarcento, e le valli del Natisone che gravitano su Cividale e costituiscono un’unità storica tradizionale risalente ai tempi medievali, quando esisteva la gastaldia di Antro e di Merso.

    La popolazione residente alla data dell’ultimo censimento era di 21.264 ab., di cui solo 18.270 presenti, perchè anche questa zona dà un discreto contributo all’emigrazione. Lo sviluppo demografico è stato molto modesto negli ultimi 80 anni e gli abitanti che erano 18.874 ne^ 1871 raggiunsero appena il numero massimo di 22.280 nel 1921. Come per le Prealpi Carniche, tale fenomeno è dovuto alla particolare depressione economica ed al conseguente spopolamento. Molto superiore alle Prealpi Carniche è però la densità di popolazione, che s’aggira sui 75 ab. per kmq. ed è la più elevata di tutta la montagna friulana, in relazione alle maggiori possibilità offerte all’agricoltura dai terreni marnoso-arenacei della fascia subalpina, in cui la regione rientra in massima parte. Infatti l’improduttivo rappresenta appena il 7% del territorio ed i seminativi raggiungono qui le percentuali più elevate. La popolazione si addensa non solo nelle vallate, ma anche sulle pendici collinari più elevate, grazie alla morfologia favorevole. I comuni più densamente popolati sono quelli di San Pietro al Natisone (129), Grimacco (106) e Drenchia (105), mentre i valori minimi si riscontrano nei comuni dell’alto Natisone (Taipana 43) e dell’alto Torre (Lusèvera 47).

    La popolazione è prevalentemente slava, tanto che la regione viene anche chiamata Slavia, ma essendo stata annessa all’Italia fin dal 1866 è ormai in avanzata fase di assimilazione, per quanto sia molto gelosa delle sue tradizioni culturali e dei propri usi e costumi. La casa rurale, che originariamente era di tipo slavo caporettano, si è ormai livellata sul tipo prealpino italiano.

    L’insediamento è fortemente accentrato solo nell’alto Torre (Lusèvera 93%) e nell’alto Natisone (Taipana 86%), per la prevalenza di terreni calcareo-dolomitici. Nelle valli del Natisone è caratteristica invece la dispersione in piccoli nuclei, come del resto abbiamo già rilevato nel Canal del Ferro e in buona parte delle Prealpi

    Tarcento: la riviera del Torre, con sullo sfondo la catena del Musi.

    Carniche. In alcuni comuni anzi l’insediamento nei nuclei prevale su quello dei centri, come a Grimacco (63%), Stregna (61%) e Drenchia (60%). Molto scarsa è invece la popolazione che vive nelle case sparse.

    I centri, in genere molto piccoli, sono in tutto 58, affiancati però da no nuclei, ma nessuno di essi riesce ad avvicinarsi al migliaio di abitanti. Il centro più importante è comunque San Pietro al Natisone (658 ab.), già San Pietro degli Slavi, che può essere considerato il capoluogo di tutta la Slavia. L’insediamento permanente si spinge fino agli 800-900 m., più in alto quindi che nelle Prealpi Carniche, con una punta massima di 954 m. per il centro di Monteaperta, nel comune di Taipana.

    L’economia è di tipo agricolo-pastorale, mentre minore importanza hanno i boschi. La superficie territoriale è costituita per il 56% da prati e pascoli, il 28% da boschi e l’8% da seminativi. Anche la popolazione, diversamente dalle altre regioni montane, ha una netta fisionomia agricola (61%), mentre minore è la percentuale degli addetti all’industria (23%).

    I seminativi, frequentemente arborati, sono particolarmente estesi nella bassa valle del Natisone (San Pietro 33%) e nelle valli laterali, mentre sono fortemente ridotti nell’alto Natisone e nell’alto Torre. Fra le colture prevale il granoturco, che a Raune supera i 1000 m., seguito dalla patata, dal frumento, dalla segale, dall’orzo, dagli ortaggi e dai legumi. Fra gli ortaggi particolarmente diffuse sono le rape e le carote, abbondantemente usate nell’alimentazione umana e del bestiame. La coltura della vite arriva fino ai 750 m., ma non è molto estesa, per la bassa qualità del prodotto, mentre invece assume grande importanza la frutticoltura, associata al vigneto nelle zone più basse ed al prato in quelle più elevate. Vengono prodotte buone qualità di mele, susine, pere, ciliegie e pesche, in quantità superiori a tutto il resto della montagna friulana. I maggiori centri di produzione sono Rodda, Vernassino, Puòie e Costa. Molto diffuso è il castagno, coltivato nelle varietà Obiachi, Canalucche, Ciuffe e Maroni. L’unità aziendale media è superiore a quella delle altre zone montane ed in alcune famiglie è ancora seguita la consuetudine del maggiorasco. Il prato artificiale, frutto della deforestazione e della successiva divisione dei beni comunali avvenuta verso la fine dello scorso secolo, è molto curato e dà una produzione superiore al resto della montagna friulana. Il fieno viene in parte esportato nella sottostante pianura.

    L’alpeggio si svolge da maggio a settembre, ma il personale addetto, oltre alla cura del bestiame, provvede anche alla fienagione nei prati di monte. La maggior parte del bestiame viene però tenuto tutto l’anno nelle stalle, poiché il letame è necessario per la concimazione dei seminativi. Manca qui la caratteristica zona degli stàvoli e non esistono neanche malghe vere e proprie, ad eccezione, di quelle del Gran Monte e del Monte Mia. I pascoli del Monte Mataiùr, chiamati in slavo planine, sono considerati i migliori della Slavia e sono frazionati in tanti piccoli appezzamenti individuali, limitati da muretti a secco e provvisti di modesti ricoveri che permettono ad ogni proprietario di custodire il proprio bestiame durante il pascolo estivo. L’insediamento temporaneo delle casère presenta pertanto forme molto diverse da quello di tipo latino del resto della montagna friulana. Il patrimonio zootecnico bovino apparteneva alla razza Mòllthal, ma poi sono avvenute notevoli infiltrazioni di razza Bruna alpina, che oggi è la prevalente. Le prime latterie razionali sorsero nella valle del Natisone verso il 1890, mentre prima il latte veniva lavorato in forme primitive di latterie turnarie. Ma alcune famiglie rurali mantengono ancora la lavorazione casalinga.

    Il bosco, governato per lo più a ceduo, è costituito prevalentemente da faggio e castagno, mentre come essenze secondarie troviamo il carpino e il rovere.

    Nel settore minerario la regione possiede solo alcune cave di materiali da costruzione, mentre le risorse idroelettriche sono ancora in attesa di valorizzazione. Anche l’artigianato ha un’importanza trascurabile. L’unica notevole via di comunicazione è l’antica strada commerciale del Pùlfero (strada statale n. 54) che ora si arresta al valico internazionale di Stupizza, da cui scende poi nella conca di Caporetto, in territorio iugoslavo.

    Incominciamo il nostro itinerario turistico nelle Prealpi Giulie a Tarcento, centro di sbocco della valle del Torre, che, come si è già visto, è abitata in prevalenza da genti slave. La valle si apre nelle colline terziarie di Sedìlis, Cisèriis, Sammardenchia e Zomeàis. Gioverà una sosta in quest’ultima località per ammirare la cascata di Crosis. Poi il Torre si rinserra fra i monti calcarei della Bernadia dalla cui cima, facilmente raggiungibile, rischiara le notti il Faro commemorativo della Divisione alpina « Iulia ».

    Grotte di Villanova di Lusèvera, nella vai del Torre: la sala Margherita.

    L’improvvisa severità del paesaggio ci colpisce, dopo aver goduto la vista amena delle colline di Tarcento. Quando si incontrano le rovine della chiesa di Sant’Osvaldo, è opportuno che gli amanti della speleologia facciano attenzione. Infatti la prima strada a destra porta a Villanova di Lusèvera, dove sotto il borgo di Zaiama, a circa 400 m. sul fianco destro del monte, si apre la famosa grotta Tasaiama o di Villanova, che è la più lunga di tutto il Friuli. Vi si può accedere da due bocche, a cui fanno capo due cavità distinte, lunghe rispettivamente 2491 e 4180 m., caratterizzate da sale, gallerie e pozzi che si ramificano a loro volta in un dedalo di vie sotterranee. Si possono osservare interessanti fenomeni di erosione, come le « marmitte dei giganti », e magnifiche stalattiti, che raggiungono la massima bellezza nella Sala del Paradiso.

    Ma ritorniamo sulla nostra strada, dove proseguendo di un centinaio di metri oltre al bivio possiamo scorgere sulla destra l’ingresso della grotta di Vedronza, formata da due interessanti gallerie che hanno uno sviluppo complessivo di circa 300 metri. Dopo un altro po’ ci accoglie, con repentino cambiamento di paesaggio, l’ampia conca di Vedronza (m. 323), a cui fa da sfondo il muraglione calcareo del Musi e del Gran Monte. Diamo un’occhiata alla centrale idroelettrica e contempliamo in alto Lusèvera, che domina la conca dal suo verde poggio.

    Poi proseguiamo verso nord e dopo Pradièlis, in uno scenario grandioso nella sua desolazione, ai piedi dell’aspra roccia dolomitica, ecco zampillare la sorgente del Torre. Lasciamo a sinistra il villaggio di Musi, già ricordato come polo italiano della piovosità, e imbocchiamo l’ampia vallata longitudinale fra il Musi e il Gran Monte che porta al Passo di Tanamèa (m. 792), da cui si scende nella vai Uccea e nel bacino isontino assai più agevolmente che per la Sella Carnizza dal Canal di Resia. Ma poco oltre Uccea ci blocca il confine politico.

    Spostandoci verso oriente arriviamo a Nimis, centro di sbocco della valle del Cornappo, affluente di sinistra del Torre. Questa modesta valle ha visto accresciuta la sua importanza dopo la seconda guerra mondiale, da quando è divenuta l’unico collegamento con il comune di Taipana, nell’alta valle del Natisone, tagliata dal confine politico.

    Attraversate le colline siamo sùbito a Torlano, da cui ci si addentra nella sezione calcarea, costeggiando il torrente che ha inciso uno stretto solco fra la Bernadia e il Monte Cladis. A sinistra nel vallone di Preoreach si apre la grotta omonima, lunga 300 m., che presenta nel primo tratto una sala a cupola terminante con un sifone. Sotto Villanova c’è poi la grotta di Viganti, che si apre con una grande caverna, in cui furono rinvenuti importanti depositi preistorici con i resti del-VUrsus spelaeus. Poi la valle si allarga nuovamente e la strada si dirama a sinistra per Monteaperta (m. 612) e a destra per Taipana e Platischis.

    Per visitare le valli del Natisone bisogna invece portarsi a Cividale, che è il loro naturale centro di gravitazione. Qui il viaggio diventa molto comodo, perchè possiamo servirci di una strada statale, che conduce ad un valico internazionale.

    Dopo aver toccato Sanguarzo, ci si infila nella chiusa formata dai Monti Purgès-simo e Madlessena e si arriva al ponte di San Quirino, dove il Natisone riceve il contributo dei suoi affluenti di sinistra. Sulla sponda opposta del fiume c’è Vernasso, che i cultori di scienze geologiche non dovrebbero trascurare, perchè nella cava di pietra si possono trovare bellissimi fossili del cretaceo superiore. Procediamo ora in una valle ampia e fertile, fiancheggiata da colline ricche di vegetazione, in cui il fiume scorre incassato in tenaci conglomerati. Si arriva così a San Pietro al Natisone (m. 195), chiamato fino al 1867 San Pietro degli Slavi, che si allunga su un ridente terrazzo fra il fiume e il colle Roba. Vi hanno sede un Istituto Magistrale Statale, un Istituto Professionale di Stato e due collegi-convitti che ospitano studenti di tutto il Friuli, cosicché non è esagerato attribuirgli il titolo di centro scolastico. All’uscita del paese fa d’uopo trattenersi un poco presso la gotica chiesetta di San Quirino (m. 1493), restaurata dopo la prima guerra mondiale, che è l’antico centro religioso della Slavia. Qui all’ombra dei sacri tigli si riuniva il 29 giugno di ogni anno l’arengo delle Banche di Antro e di Merso, piccolo parlamento che trattava gli interessi generali delle vallate. L’antichità dell’insediamento è testimoniata dai manufatti preistorici rinvenuti nelle vicinanze, che sono simili a quelli della necropoli di Santa Lucia di Tolmino.

    Poi la strada attraversa Sorzento e Ponteacco, ma prima di arrivare a Pilifero è quanto mai consigliabile una deviazione a Tarcetta, da cui si possono raggiungere San Silvestro d’Antro, già sede della Banca d’Antro, ossia del consiglio dei capi-famiglia della valle, e San Giovanni d’Antro, originale e suggestiva chiesetta adattata in una cavità naturale su uno scosceso dirupo. L’Antro, che fu certamente abitato fin dai tempi preistorici, si prolunga in una grotta, che ha inizio dietro l’altare e si può percorrere per buon tratto. Per la festa di Sant’Angelo, al 24 giugno, si svolge qui una tradizionale processione, che ricorda i riti delle catacombe.

    Al Pilifero la valle comincia a restringersi fra le cupole cretacee dei Monti Mia e Mataiùr. Attraverso una pittoresca gola arriviamo infine a Stupizza, dove ci colpisce l’enorme spaccatura della Bocca di Pradolino, fra i Monti Mia e Lubia. Solo pochi chilometri ci separano ormai dal confine, che ci impedisce di scendere nella grande conca isontina di Caporetto. Ritorniamo quindi al ponte San Quirino per visitare le valli minori dell’Alberone, del Còsizza e dell’Erbezzo in un morbido paesaggio collinare, che preannuncia quello del Collio, ricco di insediamenti sparsi, di vigneti e di frutteti.

    Vedi Anche:  Nome e vicende territoriali

    Passiamo per Àzzida, antico villaggio slavo nominato già nel 1175, che si trova alla confluenza dell’Alberone con l’Erbezzo. Nella valle dell’Alberone ci sono i centri di Savogna e Cepletischis, ma ormai non c’è più la possibilità di raggiungere d’inverno i campi di neve di Luìco, rimasti oltre il confine. Nella valle del Còsizza si può salire a Grimacco, Clodig, Drenchia e Prapòtniza, da cui si gode la vista della

    dorsale erbosa del Kòlovrat, che culmina nel Monte Cucco di Luìco. Nella valle dell’Erbezzo, infine, a Merso di Sopra, merita una visita la quattrocentesca chiesa di Sant’Antonio, presso cui si radunava la Banca di Merso, per trattare gli affari amministrativi delle convalli. Da San Leonardo si può salire al Santuario di Castel-monte (m. 655), raggiungibile anche dalla pianura, ma non è neanche disprezzabile un’escursione fino a Stregna, da cui si può poi proseguire costeggiando la profonda valle dello Iudrio.

    La collina

    Alla fascia altimetrica collinare appartengono i rilievi subalpini, marnoso-arenacei o alluvionali, parte dell’alta pianura pedemorenica, gli altipiani orientali e un lembo litoraneo dell’Istria gialla. Con i suoi 1522 kmq. essa rappresenta appena il 19% della superficie regionale, in cui tuttavia vive il 41% della popolazione (507.000 ab.), con una densità di circa 335 ab. per kmq. E ben vero che in questa fascia rientra anche la grande città di Trieste, che analizzeremo nel capitolo seguente, ma anche senza di essa risulta evidente la sua importanza economica, derivante da una ricca agricoltura, da alcune attività industriali e artigianali e dalla posizione commerciale intermedia fra la montagna e la pianura. Fa eccezione naturalmente il Carso, i cui caratteri fisici non sono favorevoli all’insediamento umano. In rapporto alle sue risorse, questa zona soffre però di un eccessivo popolamento ed alimenta perciò anch’essa cospicue correnti migratorie.

    La popolazione vive prevalentemente accentrata, ad eccezione di qualche plaga dell’anfiteatro morenico, del Collio e dei Monti di Muggia. I centri presentano caratteristici allineamenti pedemontani, lungo l’arco prealpino, o apicali e di pendio, nelle colline dell’anfiteatro, mentre nel Carso sono indirizzati lungo gli assi degli antichi fiumi. Nella zona sono molto diffusi i castelli, di origine medievale, di cui alcuni, ancora ben conservati, danno un aspetto suggestivo al paesaggio e potrebbero costituire una non trascurabile attrazione turistica.

    Gli abitanti sono prevalentemente friulani, un po’ venetizzati ad occidente del Tagliamento. Solo nel Collio e nel Carso prevalgono gli Slavi. La casa rurale non si differenzia generalmente da quella dell’alta pianura, presentando la tipica « corte » friulana. Tipi diversi compaiono però nel Carso e nel Muggesano.

    L’economia è di tipo eminentemente agricolo, giacché i due quinti della superficie territoriale sono costituiti da seminativi e colture legnose e altri due quinti dalle colture foraggere permanenti, che rendono possibile un notevole allevamento del bestiame. Scarsi sono i boschi e minimo l’improduttivo.    I terreni offrono però possibilità agrarie molto diverse, a seconda che siano prevalentemente calcarei, nel qual caso sono piuttosto poveri ed ospitano preferibilmente il bosco o il pascolo, oppure più vari e quindi più fertili e più adatti ai seminativi.

    L’agricoltura è dedita soprattutto alla coltivazione dei cereali, fra cui domina il granoturco, e della vite, che dà prodotti molto pregiati, specialmente nelle colline orientali. Una certa diffusione ha anche il gelso, che però è in rapido declino, a causa della crisi della bachicoltura. Nelle colline orientali è molto diffusa la frutticoltura. Le attività industriali, se si trascura il distretto triestino, non hanno grandi dimensioni e consistono soprattutto nelle lavorazioni tessili, alimentari, del legno e dei minerali non metallici. Questa regione, che appartiene per i quattro quinti al Friuli, si può suddividere in sei parti, abbastanza ben distinte, che ora esamineremo brevemente.

    Le colline occidentali

    La regione collinare comincia ad occidente con una serie di colline che s’allunga ad arco fra Livenza e Tagliamento, ma comprende anche una parte delle grandi e desolate conoidi alluvionali dei fiumi prealpini.

    Corrisponde circa alla XXVI regione catastale, che ha una superficie di 547 kmq., suddivisa fra 14 comuni, ed una popolazione residente di 54.709 ab., di cui però solo 48.782 erano presenti alla data dell’ultimo censimento. La densità di popolazione si aggira quindi sui 100 ab. per kmq., ma è maggiore sui rilievi marnoso-arenacei, mentre diminuisce nell’arida piana pedemontana. Negli ultimi vent’anni si è avuto un modesto incremento demografico, corrispondente al 12%. L’accentramento è molto forte con punte massime nei comuni di pianura (Aviano 99%, Budoia 98,5%), mentre in quelli misti sono anche presenti i nuclei, che in qualche caso possono acquistare un’importanza notevole, come nel comune di Castelnuovo, nella valle del Cosa (50,7%). Dei 54 centri solo tre superano i 2000 ab., situati tutti ai piedi dei primi rilievi subalpini, e precisamente Maniago (6251 ab.), Aviano e Fanna.

    L’economia è di tipo misto agricolo-industriale e anzi la popolazione industriale (45%) prevale su quella agricola (36%), tenendo conto del non indifferente contributo all’emigrazione.

    Nel settore agricolo sono da segnalare le opere di bonifica e irrigazione dei « magredi » perseguite dal Consorzio Cellina-Meduna, di cui abbiamo già detto in un capitolo precedente, a cui partecipa anche l’Ente Nazionale per le Tre Venezie, che ha qui tre zone d’intervento: Tornielli di Roveredo, Villotte di San Quirino e Dàndolo di Maniago, per una superficie complessiva di 1432 ettari. Tali zone erano disabitate e incolte, ricoperte da un secolare prato naturale permanente che forniva, in un unico taglio annuale, non più di 10-12 q. per ha. di magrissimo fieno. Dopo la recentissima trasformazione fondiaria, sono stati creati 140 poderi interamente irrigui, che sono stati affidati ad altrettante famiglie di profughi istriani. Sono state largamente introdotte le colture foraggere e la vite, cosicché si potrà raggiungere una produzione lorda finale decuplicata rispetto a quella precedente.

    Casa cinquecentesca ad Aviano.

    Nella zona ci sono alcune importanti centrali elettriche, alimentate dalle acque del Piave, del Cellina e del Meduna, mentre fra le industrie spiccano quelle metalmeccaniche di Maniago, con circa 2000 addetti e 2000 HP di forza motrice installata, quelle dei materiali da costruzione di Aviano e la fabbricazione dei mobili a Montereale.

    Le vie di comunicazione pedemontane sono costituite da una modesta strada e dalla linea ferroviaria Sacile-Pinzano, che rivestono però un’importanza limitata nei confronti alle nuove strade che attraversano la pianura fra Spilimbergo e Maniago e fra Pordenone e Maniago, su cui gravita il maggior traffico.

    Iniziamo il nostro viaggio a Càneva di Sacile, all’estremo limite occidentale della regione, per proseguire lungo l’antica strada pedemontana, su cui si allineano numerosi centri.

    A Càneva c’è un castello diroccato con una torre merlata, che accoglie nel suo recinto l’antica chiesa di San Salvatore, dell’XI secolo. La S. A. D. E. ha qui una centrale idroelettrica, che fa parte dell’impianto Piave-Santa Croce, ed una stazione di convergenza di alcuni importanti linee elettriche provenienti dai bacini del Piave e del Tagliamento.

    Castello di Polcenigo.

    A Ponte di Livenza una stradicciola porta in breve alla sorgente del fiume chiamata «La Santissima», presso cui vi è il Santuario della Ss. Trinità, che la leggenda attribuisce all’imperatore Teodosio, con una bella scultura di Domenico da Tolmezzo, del XV secolo. Per visitare l’altra sorgente, chiamata il Gorgazzo, bisogna invece raggiungere Polcenigo, dominata dall’antico castello comitale, e deviare a sinistra verso Coltura: qui le acque del Livenza ribollono con una meravigliosa tinta azzurra in un profondo bacino protetto da una volta rocciosa.

    Attraverso San Giovanni, Santa Lucia, Budoia e Dardago si arriva a Castello di Aviano (m. 146), dove merita una visita l’antica chiesetta di Santa Giuliana (secolo XI), che contiene importanti cimeli artistici, fra cui un oratorio di San Gregorio del secolo XIII. Dell’antico castello, edificato dalla Comunità di Aviano e concesso nel 967 dall’imperatore Ottone I ai Patriarchi di Aquileia, non ci sono che i ruderi.

    Aviano è un grosso centro di circa 3700 ab. che ha avuto non pochi vantaggi dallo sviluppo del vicino campo d’aviazione. E noto in tutta Italia per i suoi famosi danzerini, che si esibiscono in danze sbrigliate e in villotte d’occasione. Caratteristiche sono anche le sue feste nuziali, che assumono una vivacità particolare con costumi primaverili e decorazioni floreali. Da Aviano si può salire al Piano del Cavallo, vasto altipiano carsico che d’inverno si presta molto bene agli sports della neve.

    Maniago: la grande piazza Italia.

    Maniago: la fontana in piazza Italia.

    Passiamo quindi Marsure, Giàis e Malnisio, importanti per le loro centrali idro-elettriche, che sono le più antiche della regione, e siamo a Montereale Cellina, allo sbocco della pittoresca vallata prealpina. Tutti questi paesi alimentano un’interessante emigrazione di camerieri e personale alberghiero, sia verso l’interno che all’estero. Montereale (m. 317), antico centro comitale, conserva i ruderi del castello e antiche case con ornamenti e decorazioni.

    Oltre il ponte Rovèdis, da cui la vista spazia sull’ampio greto del Cellina, attraversato a valle dal lunghissimo ponte ferroviario della « Pedemontana », la strada percorre le pendici del Monte Iof e ci porta in breve a Maniago, il maggiore centro di questa regione collinare, situato allo sbocco della valle del Còlvera, che però svolge fin dal Medio Evo la funzione di centro di gravitazione della vicina vai Cellina e di tutta l’ampia conoide compresa fra il Cellina e il Còlvera. E noto in tutto il mondo per le sue famose coltellerie, che ancor oggi rappresentano la sua principale attività industriale. Nell’ampia piazza Italia possiede una caratteristica fontana a quattro scalinate, la loggia comunale, a tre arcate, ora trasformata in tempio votivo dedicato ai Caduti, il Palazzo dei Conti di Maniago, con un leone di San Marco e lo stemma dei conti, affrescati da Pomponio Amalteo, una chiesetta dedicata alla Vergine e, un po’ discosto, il magnifico Duomo in stile romanico-ogivale intitolato a San Mauro, riedificato nel 1488 sopra le rovine di un’altra antichissima chiesa. Nell’interno vi sono una bella fonte battesimale del Pilacorte e affreschi absidali dell’Amalteo raffiguranti la Storia della Croce. Sopra la cittadina ci sono i ruderi del Castello, ricordato fin dall’891.

    Oltre Maniago incontriamo altri due grandi centri pedemontani, Fanna (2300 ab.) e Cavasso Nuovo (1500 ab.), dove si può ammirare il bel Palazzo Comunale, già dei Conti Polcenigo, che conserva gli affreschi settecenteschi di Matteo Tiuzzi. Di lì potremo proseguire per Meduno, Toppo, Travesio, Usago, fino ad arrivare a Pinzano, seguendo la vecchia strada. Ma da Maniago una strada assai più comoda ci porta al colle di Sequàls, centro di diffusione dei musaicisti e dei terrazzieri, che nella chiesa di San Nicolò conserva una porta e una balaustra del coro scolpite dal Pilacorte, e di lì a Spilimbergo, dove il nostro viaggio ha termine in vista del Tagliamento.

    Le colline dell’anfiteatro morenico

    La più tipica regione collinare friulana è quella centrale, che per le sue caratteristiche morfologiche e gli aspetti del paesaggio viene chiamata a buon diritto la « Brianza del Friuli ».

    Corrisponde press’a poco alla XXVII regione catastale ed ha una superficie di 358 kmq., ripartita fra 17 comuni. Ha una notevole importanza demografica, poiché ospita una popolazione residente di 76.363 ab., con una densità di 213 ab. per kmq., che è una delle più elevate di tutta la regione; però rispetto al 1931 l’incremento demografico è stato solo del 13%. L’insediamento non è così fortemente accentrato, come nelle colline occidentali, per le migliori condizioni del suolo e le maggiori disponibilità idriche, tanto che nel comune di Moruzzo prevale, magari per poco, la popolazione sparsa. I centri, che sono circa una novantina, sono abbastanza grossi e ben popolati; quattro anzi superano i 2000 ab. e precisamente San Daniele (5345 ab.), Tricésimo, Fagagna e Osoppo.

    L’agricoltura è abbastanza ricca e ben sviluppata, ma potrebbe ulteriormente progredire con la formazione di laghetti collinari a scopo irriguo ed una maggiore diffusione delle colture legnose specializzate. La gelsicoltura è ancora molto diffusa e favorisce un intenso allevamento del baco da seta, che dà una buona parte della produzione friulana di bozzoli.

    Numerose e caratteristiche sono le attività industriali. Emerge su tutte il mobilificio di Tricésimo, che sta ormai assumendo importanza nazionale, seguito dall’industria serica, da quella dei laterizi, favorita dai frequenti depositi di argilla e dalle torbiere. San Daniele è rinomata per lo scarpettificio e il salumificio, Fagagna per la produzione di merletti e Martignacco per il biscottificio.

    Fin dall’antichità la regione è attraversata da importanti vie di comunicazione che scorrono però marginalmente, ai lati del grande anfiteatro collinare: la linea ferroviaria e la strada Pontebbana ad oriente; la ferrovia Gemona-Pinzano e la strada Gemona-San Daniele ad occidente. Ai piedi della cerchia esterna è stata recentemente rinnovata l’importante arteria Udine-Spilimbergo, che a Fagagna si dirama per San Daniele, ma molto fitta e in buone condizioni è anche la viabilità interna. Le caratteristiche tranvie che collegavano Udine a San Daniele e a Tricésimo sono state sostituite da moderni servizi automobilistici.

    Bella e ricca di arte e di folclore è questa regione, ma non è facile abbracciarla tutta con un unico itinerario, nè d’altronde lo spazio ci consentirebbe di parlare di tanti centri e di tanti pittoreschi castelli. Ci limitiamo a presentare solo i più notevoli.

    San Daniele: il palazzo del Comune e il Duomo. Questa cittadina dell’anfiteatro morenico fu un libero comune medievale, ricco di traffici e di commerci.

    Incominciamo da San Daniele, il centro maggiore e più tipico di questa regione, situato sul dorso di un verde colle nel settore occidentale della prima cerchia dell’anfiteatro morenico, in posizione dominante sull’antica strada commerciale del Tagliamento. Il centro ha origini molto antiche, ma il suo nome risale solo al secolo X, quando ad opera dei Longobardi fu costruita sull’alto del colle la chiesa dedicata al profeta Daniele, che è un pittoresco e movimentato complesso architettonico di varie epoche. La piazza presenta la fastosa facciata settecentesca del Duomo, il palazzetto del Monte di Pietà e il vecchio Palazzo Comunale, sede della Biblioteca Guarneriana, fondata nel 1466 dall’umanista Guarnerio d’Artegna, che conserva alcuni preziosi codici e documenti di alto valore, fra cui una Bibbia bizantina del secolo X, l’Inferno di Dante con il commento latino del Bambaglioli (1324), i Trionfi del Petrarca e numerose opere di autori latini e Padri della Chiesa. Il monumento più insigne è però la chiesa trecentesca di Sant’Antonio Abate che ha una caratteristica facciata gotica, con un ricco rosone traforato, il portale a strombatura e le snelle finestre a più lobi. L’interno è decorato da splendidi affreschi di Pellegrino di San Daniele (1496-1512) e conserva un magnifico polittico ligneo dovuto a Paolo di Amadeo e dipinto da Michele Bono (1440). Fra i cittadini illustri meritano di essere ricordati lo storico e letterato Giusto Fontanin (1666-1733) e il poeta e drammaturgo Teobaldo Ciconi (sec. XIX). Per il suo patrimonio artistico la cittadina è chiamata la « Siena del Friuli » ed è una delle mète preferite dal turismo domenicale, attratto anche dal placido laghetto che si trova nelle vicinanze e dall’ottima cucina.

    Tricésimo.

    Colloredo di Montalbano: il Castello.

    All’estremo opposto della prima cerchia collinare vi è Tricèsimo (3670 ab.), dove la strada Iulia Augusta toccava la trentesima pietra miliare da Aquileia (ad trice-simum lapidem). Fu poi gastaldia patriarcale e castello dei conti di Montegnacco e dei conti Valentinis. Diede natali allo scrittore e poeta Giuseppe Ellero (1866-1925), a cui Udine ha dedicato in piazza Patriarcato un monumento bronzeo. Nella piazza, sulla Canonica vi è un bell’affresco del secolo XV, mentre la chiesa parrocchiale, rifatta alla fine del ’700, conserva sul fianco destro un magnifico portale marmoreo di Bernardino da Bissone (secolo XV), il più mirabile lavoro di scultura lombarda che esista nel Friuli. Neirinterno si possono ammirare un secentesco fonte battesimale e pregevoli affreschi, e nel tesoro un calice e una croce processionale d’argento con sbalzi di buona fattura. « Bella è Tricèsimo, scrive l’Ermacora, e invitanti i suoi dintorni, sia che tra le macchie di un parco canoro d’uccelli si profilino le torri del castello Valentinis, o all’ombra dei grandi castagni sorrida la chiesetta di San Pietro, o tra le conifere invitino le ville signorili. Ma Tricèsimo è preferita anche per gli asparagi di cui sono feraci le sue campagne e per la selvaggina che le trattorie locali sanno preparare secondo l’arte infallibile dello spiedo ».

    Fra San Daniele e Tricèsimo vi è Colloredo di Montalbano, con il suo suggestivo castello che è il più interessante e uno dei meglio conservati del Friuli. Una triplice cinta di mura ne chiude i tre corpi distinti, di cui il più antico fu costruito nel 1302 da Guglielmo di Mels. Due torri danno alla facciata un aspetto solenne, mentre le sale interne conservano quadri e mobili di vario stile e l’archivio della famiglia dei castellani. « Fermi dinanzi al grande edificio, scrive sempre l’Ermacora, il nostro pensiero corre a Giovanni da Udine, che qui dipinse graziosi miti profani, a Ermes di Colloredo, cui la nostalgia della terra friulana suggeriva la satira della vita corte-gianesca, e a Ippolito Nievo, che qui trascorse giorni sereni e scrisse in parte Le confessioni di un ottuagenario. Godiamo il paesaggio dal cortile interno del castello: vi è tutto il Friuli, “ piccolo compendio dell’universo ” e tanto bello che un monarca fiammingo mandava qui i suoi pittori a studiarne la dolcezza della linea ».

    Castello di Villalta.

    Castello di Ragogna.

    Altri bei castelli si possono vedere a Villalta di Fagagna, Arcano, Caporiacco, Cassacco e Susàns.

    A Osoppo si impone una visita alla celebre fortezza, che sorge sopra un colle conglomeratico isolato nella larga piana del Tagliamento. Stazione preistorica, oppidum romano, castello medievale e fortificazione moderna: questo è il lungo curriculum di questa magnifica vedetta naturale di uno dei più importanti valichi alpini. Vi lasciò però le maggiori tracce la famiglia dei Savorgnani, che la ricevette in feudo nel 1328 dal patriarca Pagano della Torre e la dotò di un tempio dedicato a San Pietro. Nel 1514 Girolamo Savorgnan la difese eroicamente contro l’esercito austriaco dell’imperatore Massimiliano. Nel 1807 fu visitata da Napoleone che profuse molto denaro in opere di fortificazione, ma la pagina più bella della sua storia è certamente quella scritta nel 1848 dagli insorti friulani che resistettero per sei mesi agli Austriaci. Per questa strenua difesa il gonfalone del Comune venne insignito della medaglia d’oro al valor militare. Recentemente sul colle è stato allestito un Museo storico che ricorderà ai visitatori le sue epiche vicende.

    Le colline orientali

    Fra gli sbocchi in pianura del Tagliamento, dopo la chiusa di Venzone, e del Natisone, si estende una regione collinare e pedemontana analoga a quella già individuata nel Friuli occidentale, ma molto più ricca di centri e di attività economiche.

    Corrisponde press’a poco alla XXVIII regione catastale con una superficie di 454 kmq., ripartita fra 15 comuni, e una popolazione di 74.874 ab. con una densità media di 165 ab. per kmq., inferiore a quella delle colline centrali, ma superiore alla densità delle colline occidentali. Come in tutta la regione collinare l’incremento demografico degli ultimi vent’anni è stato inferiore alla media regionale, risultando circa del 12%. La distribuzione della popolazione è poco omogenea, perchè si passa dai 360 ab. del comune di Artegna, situato sulle grandi vie di comunicazione, ai 57 di quello adiacente di Montenàrs, in condizioni morfologiche quasi identiche, ma più appartato. L’insediamento non è molto accentuato, ma solo nei comuni tipicamente rurali di Montenàrs e di Prepotto prevale la popolazione sparsa. Fra gli 80 centri abitati ben 6 superano i 2000 ab., e precisamente Cividale (7074 ab.), Gemona (6772 ab.), Tarcento, Artegna, Nimis e Manzano.

    L’agricoltura è caratterizzata dalla grande diffusione delle colture legnose, con particolare riguardo ai vigneti, da cui si ottengono vini tipici come il Ramandolo e il Ribolla di Rosazzo.

    Questa regione possiede indubbiamente le più notevoli attività industriali di tutta la fascia collinare. Le industrie tessili sono rappresentate dal cotonificio di Gemona, dal cascamificio di Tarcento e da alcune superstiti filande. L’industria del legno è specializzata nella fabbricazione di sedie di ogni tipo, con centri principali a Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo, che costituiscono la cosiddetta « zona della sedia », la cui importanza trascende i limiti regionali. Cividale è un centro del cementificio, Gemona ha una cartiera, Bùttrio delle fonderie, Tarcento uno stabilimento per la lavorazione delle carni, e una fabbrica di estratti tannici. Vi sono poi alcune fornaci e alcune attività artigianali caratteristiche, come quella dei giocattolai di Gemona e degli sportai del Lungo Torre.

    Le comunicazioni sono il fattore principale della localizzazione delle industrie e in modo particolare quelle ferroviarie, costituite fra Tarcento e Gemona dalla linea pontebbana e fra Bùttrio e San Giovanni al Natisone dalla linea Udine-Gorizia, mentre una ferrovia in concessione privata collega direttamente Cividale a Udine. Una strada pedemontana attraversa tutti i principali centri da Gemona a Cividale, ma tre importanti strade statali permettono una rapida gravitazione economica di tutta la regione su Udine.

    Castello di Cassacco.

    Castello di Susàns.

    Il nostro itinerario può benissimo cominciare a Venzone (1702 ab.), antica cittadina che in realtà rientra molto meglio in questa regione che in quella del Canal del Ferro, in cui statisticamente risulta inserita.

    Sorse come fortezza a guardia del più importante sbocco alpino del Friuli, ma si sviluppò poi come importante centro comunale, rivaleggiando con Gemona per i proventi della « muda ». Più di qualsiasi altro centro del Friuli esso ha mantenuto la pittoresca fisionomia medievale, anche perchè non c’è stato uno sviluppo recente. E ancora cinto di fosse e di mura, in cui s’apre la superstite porta ogivale di Sanze-neto e s’alzano diroccati torrioni, che ridestano gli echi del canto in laude del ven-zonese Antonio Bidernuccio, difensore del Friuli alla Chiusa nel 1509, ed esaltano le gesta di Anastasia di Prampero che nel furore della mischia portava le munizioni ai combattenti. « Sintesi di tanta virtù civica, scrive l’Ermacora, è il Palazzo Comunale, uno dei più belli costruiti in Italia fra la fine del secolo XIV e il principio del secolo XV ». Al piano terreno si apre un’ampia loggia che conserva sulla parete di fondo le tracce di un grande affresco di Pomponio Amalteo. Il piano nobile è animato da graziose bifore che ricordano lo stile rinascimentale toscano, fra cui è scolpito l’antico stemma della comunità, costituito dall’antico ponte sulla Venzonassa sormontato dalla croce. Infine sull’angolo s’erge la torre dell’orologio, che esprime allo stesso tempo forza e bellezza. Il Duomo, gioiello d’architettura gotica, edificato da Giovanni Griglio e consacrato dal patriarca Bertrando nel 1338, riassume invece le tradizioni religiose della Terra di Venzone, come testimonia l’affresco trecentesco conservato sulla parete destra della cappella attigua al campanile. Nell’interno vi sono pregevoli sculture di Bernardino da Bissone e affreschi di Domenico da Tolmezzo e di Giulio Quaglia, oltre alle numerose pietre tombali con gli stemmi delle famiglie nobiliari venzonesi. Molto interessante è anche il tesoro del Duomo, che comprende fra l’altro due croci processionali d’argento del secolo XV. Nella vicina cappella di San Michele si conservano una ventina di mummie, esposte in macabra successione alla curiosità dei visitatori. Il fenomeno sembra dovuto all’azione di una muffa parassitarla, YHypha bombicina, la quale impedisce la decomposizione delle salme, favorendo in seguito l’essiccamento e la conservazione.

    Venzone: la chiesetta di San Giovanni, vista da una porta delle antiche mura.

    Venzone: duomo gotico del 1302. La cittadina fu nel Medio Evo un libero comune, rivale di Gemona nell’accaparramento dei traffici transalpini.

    Gemona: il vecchio centro, con la Torre del Castello e il Duomo, è addossato a uno sperone del Monte Glèmina.

    Passiamo per Ospedaletto, così nominata da un ospizio per pellegrini che vi sorgeva fin dal secolo XIII, e da qui saliamo a Gemona, attraverso ripide vie fiancheggiate da muri merlati, che conducono al castello. La cittadina sorge su un’ampia conoide di deiezione, addossata ad uno sperone roccioso del Monte Glèmina, in posizione dominante sull’antica via del Canal del Ferro. Nel periodo medievale fu una delle maggiori comunità della Patria del Friuli e conserva tuttora insigni monumenti che ricordano il suo passato splendore. Il Duomo di stile romanico-gotico è opera austera del gemonese Giovanni Griglio che ne iniziò la costruzione nel 1290 e scolpì sulla facciata una grande statua di San Cristoforo, alta sette metri. Il rosone centrale è dovuto invece a Mastro Buzeta, pure gemonese, che lo finì nel 1340. Il campanile, tutto di pietra squadrata e con la cuspide di cotto, è uno dei più massicci del Friuli. L’interno è maestoso per lo slancio degli archi gotici sorretti da otto colonne di marmo rosso; vi si possono ammirare la fonte battesimale, ricavata da un sarcofago romano, e la « Campana di Dante », che porta incisa la prima terzina della preghiera di San Bernardo alla Vergine. Il ricco tesoro comprende tra l’altro un ostensorio gotico cesellato da Nicolò Lionello.

    Altro magnifico edificio è il Palazzo del Comune, di belle forme rinascimentali, che presenta una loggia sorretta da tre agili arcate, sopra cui s’apre un balcone a trifora. Nelle chiese minori di San Giovanni Battista e di Santa Maria delle Grazie ci sono ottime pitture di Pomponio Amalteo e di Cima da Conegliano. Via il volto medievale della cittadina traspare anche dall’architettura di alcune case, del Santuario di Sant’Antonio e dell’annesso convento di Santa Maria degli Angeli. Dalla Torre del Castello si gode uno spettacolo veramente solenne a cui concorrono mirabilmente la natura e l’arte. In questa cittadina nacque il padre Basilio Brollo (1648-1704), che partì missionario in Cina e compose il primo vocabolario cineselatino.

    Gemona: il nuovo centro si adagia invece su un’ampia conoide fluviale: sullo sfondo il Monte Ghiampòn (m. 1709).

    Gemona divenne nel secolo XIII un libero comune ricco di traffici, sulla strada del Canal del Ferro. L’attuale palazzo comunale è però di stile rinascimentale e risale al 1502.

    Proseguendo la strada pedemontana arriviamo ad Artegna, antico paese situato su un colle coronato da pittoreschi edifìci tra cui dominano il castello e la trecentesca chiesetta di San Martino.

    Tarcento (4395 ab.), apprezzato centro collinare di soggiorno estivo, allo sbocco del Torre in pianura, ci accoglie con il saluto del fiume e l’aspetto gaio delle ville annidate sui poggi, in mezzo alla festa dei suoi vigneti e dei suoi frutteti. Buoni affreschi sono conservati nella chiesa parrocchiale, che dietro l’abside ha dedicato una cripta ai Caduti in guerra. Notevole interesse architettonico riveste il Palazzo del Comune, con la sua bella loggia ottagonale, costruito dai Frangipane nel secolo XVIII. Sul colle di Coia si possono osservare i ruderi del Cis’celàt », dove con l’incendio del pigliami si conclude la festa folcloristica dell’Epifania. A Tarcento ebbero i natali lo storico Gian Giuseppe Liruti (1683-1780) e lo scrittore Chino Ermacora, vessillifero in Italia e nel mondo della terra e delle genti del Friuli, che abbiamo più volte seguito in questo itinerario regionale. Nel primo anniversario della morte (1858), il Friuli volle ricordare il suo aedo dedicandogli, sul sagrato della trecentesca chiesa di Sant’Eufemia, a Segnacco, un’ara romana proveniente da Aquileia.

    Tarcento. Piazza della Libertà, con sullo sfondo il colle di Coia e il Cis’celcit.

    Dopo pochi chilometri siamo a Nimis, allo sbocco della valle del Cornappo, centro suddiviso in borgatelle sparse su ridenti ripiani, noto per la sua produzione vinicola, fra cui emerge il dolce « Ramandolo ». Ha origine da un castello romano, ricordato nel secolo V, e conserva nella chiesa di San Gervasio interessanti affreschi di varie epoche.

    Oltre il facile Passo di Monte Croce ci appare Attimis, sul torrente Malina, con sullo sfondo le rovine del teutonico castello di Partistagno. Lasciamo a sinistra l’antico campanile di Racchiuso e siamo a Faèdis, antico centro sul torrente Grivò, ricordato fin dal secolo XI, dominato dai ruderi dei castelli di Zucco e di Cucagna. Ed ecco apparire in lontananza il profilo severo della capitale longobarda del Friuli.

    Cividale è la romana Forum Iulii, che diede il nome a tutto il Friuli. Sorge sulle rive del Natisone, allo sbocco in pianura della valle per cui passava fin dall’antichità un’importante via commerciale. Possiede alcune industrie, fra cui emerge quella del cemento, ed è capolinea di una ferrovia in concessione privata che la collega ad Udine. Memore delle sue antiche tradizioni, è un vivace centro culturale e scolastico, sede fra l’altro del Convitto Nazionale « Paolo Diacono ».

    Tarcento centro collinare allo sbocco della valle del Torre; sullo sfondo i monti della Bernadia.

    Il patrimonio artistico cividalese è uno dei più ricchi di tutta la regione e costituisce una delle massime testimonianze dell’arte barbarica. Ma facciamoci accompagnare, in una rapida visita, dalla guida esperta di Giuseppe Marioni, direttore del Museo Archeologico Nazionale, a cui è annessa una importante Biblioteca.

    « Il caseggiato, raggruppato intorno alla massiccia mole del Duomo, che occupa la posizione più elevata, si unisce, sia verso settentrione che verso mezzogiorno, ai colli ricchi di pampini, sbarrando in tal modo la larga valle del Natisone. Vetuste, ricche, variopinte case, addossate alle chiese, ai palazzi, prospettano su vie strette, tortuose o s’adagiano sulle rocciose sponde del fiume, che divide la città. Il labirinto delle viuzze ha una sosta, uno sfogo nelle ampie piazze, nei crocevia pittoreschi, che nei giorni di mercato si popolano di venditori di ogni genere di merci.

    «Dell’epoca romana poche sono le vestigia rimasteci: lapidi onorarie, cippi marmorei, pavimenti musivi, embrici, anfore, frammenti di colonne, di capitelli, urne cinerarie, cose che si possono vedere nel Museo.

    Cividale. Palazzo del Comune, già palazzo dei Provveditori veneti.

    Cividale. Oratorio di Santa Maria in Valle.

    « L’epoca longobarda, che si inizia con la calata di Alboino nell’aprile del 568 e con la designazione di Gisulfo a primo duca della regione, segnò per Cividale una delle sue più fulgide epoche. Capitale d’un vasto ed agguerrito ducato, sede di una corte fastosa, vide inoltre i purpurei splendori del patriarcato aquileiese, quivi trapiantatosi nei primi decenni deH’VIII secolo per opera di Callisto, insigne prelato che dotò la città di cospicui monumenti, di cui ci resta solo l’artistico tegurio battesimale che unitamente all’ara del duca Ratchis, pure dell’VIII secolo, si trova nel Duomo. Non meno ammirabile è l’Oratorio di Santa Maria in Valle, conosciuto anche con il nome di Tempietto Longobardo, autentico gioiello, la cui origine, già molto discussa, pare debba assegnarsi fra l’VIII e il IX secolo.

    « Una ricca raccolta di materiale barbarico di primissimo ordine si trova nel Museo ed è frutto di scoperte fortuite e di scavi eseguiti in città: oggetti d’oro, come croci pettorali, monete, anelli, medaglie, gioielli in genere, lavori finissimi d’oreficeria, fibule bronzee di forme diverse, patere, armi, oggetti personali d’uso in bronzo, in avorio, in vetro, rinvenuti nelle tombe delle necropoli longobarde. Di eccezionale importanza è la suppellettile trovata nel sarcofago del duca Gisulfo (secolo VI), fra cui una grande croce in lamina d’oro con pietre preziose. Nel museo c’è pure la famosa “ pace ,, del duca Orso, in avorio, con la cornice in lamina d’argento lavorata ed ornata con pietre preziose.

    « E naturale quindi che in questo clima d’arte e di fede potessero fiorire a Cividale uomini come Paolo Vernefrido detto Diacono e San Paolino d’Aquileia, entrambi personaggi eminenti alla corte di Carlo Magno. Anche la signoria dei Franchi e il potere temporale dei patriarchi aquileiesi lasciarono gloriosi ricordi in città, ma solo ai primi tempi della Repubblica Veneta risale il monumentale Duomo iniziato nel 1453 in forme gotiche e ripreso nel ’500 in forme rinascimentali per opera di Bartolomeo delle Cisterne e di Pietro Lombardo. L’architettura del tempio, specie dell’interno, è semplicissima e richiama la nostra attenzione per l’euritmia e la snellezza delle sue linee. In esso, oltre al Battistero di Callisto, già menzionato, sono degni d’ammirazione la pala argentea dell’altar maggiore (secolo XII), un vecchio Crocifisso del ‘200, la tela Noli me tangere ultimo lavoro del nostro Pordenone, qualche quadro di Palma il Giovane e l’Annunciazione di Pomponio Amalteo. Il tesoro del Duomo possiede pure pezzi di prim’ordine, fra cui la famosa spada del patriarca Marquardo, usata ogni anno per l’Epifania durante la tradizionale Messa dello Spadone ».

    Altri monumenti dell’epoca veneziana sono il Palazzo Pretorio (secolo XVI), in piazza del Duomo, che un tempo ospitò i Provveditori della Repubblica di San Marco e il Palazzo Comunale, dalla loggia gotica (secolo XV).

    Tra i più insigni cittadini cividalesi si possono ricordare lo storico del Friuli Marcantonio Nicoletti (1536-1596), Giovanni Francesco De Rubeis (1680-1775), padre della storia ecclesiastica e civile del Patriarcato d’Aquileia, il filosofo e pedagogista Jacopo Steliini (1699-1770), il musicista Jacopo Tomadini (1820-1883), celebre compositore di musica sacra, e l’attrice drammatica Adelaide Ristori.

    Prima di lasciare Cividale sostiamo sul Ponte del Diavolo, sotto i cui archi il Natisone scorre profondo in mezzo a bizzarre erosioni, in uno scenario indimenticabile di bellezza e di poesia.

    Come sottrarci ora all’invito di salire al Santuario di Castelmonte? Il borgo prettamente medievale si presenta con la chiesa asserragliata dalle case, fra cui non mancano le osterie fornite di saporito salame e di frizzante vino del Collio, il cui luminoso panorama si scorge al di là della valle dello Iudrio.

    Ma la nostra visita non è finita. Ci attendono ancora Spessa con la villa Rubini, protetta da un bel parco, la Rocca Bernarda, dalle rosse torri seminascoste in mezzo al verdecupo dei cipressi, la Sdricca di Manzano, un fortilizio eretto a difesa delle incursioni turchesche, e verso mezzodì la storica Abbazia di Rosazzo, il castello di Gramogliano, la Casa dell’Armistizio di Sant’Andràt dello Iudrio, così detta per l’armistizio stipulatosi nel 1866, Dolegnano, San Giovanni al Natisone, Soleschiano, con le loro belle ville. A San Lorenzo, poco lungi, visiteremo la casa di Caterina Percoto, sulla cui facciata un’iscrizione ricorda ch’ella « qui aprì e chiuse gli occhi pensosi — qui scrisse i soavi racconti — nei quali — come in limpide acque — si specchia il dolce Friuli ». A Bolzano, che guarda con il puntuto campanile dall’opposta sponda del Natisone, vi è invece la casa dove abitò lo Zorutti, a cui il poeta più popolare del Friuli, come avverte un’epigrafe, « nelle brevi tregue dell’ansia cittadina — tendeva — come a suo porto — dalla serena natura e dalla rustica vita — attingendo — la sua vena più pura e più feconda ».

    Il Santuario di Castelmonte (Cividale).

    E per completare lo sguardo a questa interessante regione della collina orientale, niente di meglio che una bella escursione ai Ronchi di Buttrio, nota per la gioconda fiera dei vini, dove nella cornice dei cipressi e delle siepi sempreverdi si rincorrono le ville e i parchi.

    Il Collio

    Il Collio è una ricca regione agricola e forestale, gravitante tendenzialmente sul centro pedecollinare di Cormòns. Dopo il trattato di pace ci restano solo un lembo meridionale, discretamente rivestito da boschi, che corrisponde al comune di San Floriano, ed un lembo sud-occidentale, fiorente di vigneti e di frutteti, coincidente con il comune di Dolegna. L’insediamento non è molto denso (90 ab. per kmq.) e prevalentemente sparso; mentre però nel primo comune prevalgono i nuclei, nell’altro abbiamo la più alta percentuale regionale di abitanti nelle case sparse.

    Base di partenza per una breve visita è naturalmente Cormòns (5090 ab.), centro notevole per l’industria del legno e dei laterizi, le cui origini risalgono a tempi antichissimi. Fu per breve tempo sede dei patriarchi aquileiesi, a cui venne conteso dai Conti di Gorizia. Il Duomo settecentesco di Sant’Adalberto presenta una caratteristica facciata barocca, con due torri campanarie che denunciano gli influssi archi-tettonici transalpini.

    Il Collio, visto dal colle di Buttrio.

    Cormòns: la piazza della Libertà e il caratteristico Duomo.

    Da Cormòns per Brazzano girando attorno al colle di San Giorgio, si arriva nella valle dello Iudrio dove a Lonzano si può vedere la casa natale di Pietro Zorutti, con la chiesina vegliata dagli ombrosi tigli piantati dal poeta. A Dolegna passiamo il fiume e siamo in breve a Prepotto, da cui possiamo proseguire fino ad Albana per poi seguire la strada che scorre per molti chilometri parallelamente al confine politico. Ci accompagnano nel viaggio boschi di castagno, vigneti e prati.

    Un altro itinerario ci porta da Cormòns a Capriva, Mossa e Lucinico, per poi salire a San Floriano, in amena posizione, dove lo sguardo può spaziare sulle belle colline al di là del confine e osservare tra il verde i castelli di San Martino di Quisca, Dobra e Vipulzano. Una meravigliosa leggenda narra la gente del paese.

    « In certe notti serene, giù dal Collio, soffia un vento impetuoso. I boschi sui pendìi suonano come se i loro alberi fossero tante canne di un organo colossale, e la musica possente si diffonde tutt’intorno. Su in alto la luna guarda immobile, come una lampada d’argento appesa sotto un’immensa volta di cristallo. Le stelle sono pallide. A un tratto sembra di vedere nell’aria come un ondeggiare di veli leggeri; sono prima due o tre di queste forme indistinte, sono presto mille. Sembrano nebbia, ma in breve questa nebbia prende l’aspetto di graziose figure femminili, cinte di veli candidi e svolazzanti. Sono le fate del Collio. Le loro vesti sono tutte cosparse di brillanti che sfavillano al lume della luna. Le fate intessono una danza fantastica, piena d’una grazia che non si può dire. Esse si sono tutte prese per mano, e girano, girano, nella quieta luce dell’astro d’argento, in un grande cerchio, come se fossero un gran diadema da mettere sul capo bruno della Notte. Talvolta due mani si sciolgono, e il cerchio diventa un nastro fluttuante che s’annoda e si snoda in mille modi diversi. Ma ecco che da oltre l’Isonzo, lontano, una timida luce s’è levata che non è quella della luna; la luna, al vederla, impallidisce, e impallidiscono pure le fate. Come le loro vesti, esse diventano di momento in momento più diafane, trasparenti. La luce nuova è quella dell’alba. I brillanti si sciolgono e cadono sull’erba del prato. Quando il sole spunta, le fate sono scomparse, ma i loro brillanti liquefatti sfavillano sull’erba e sui fiori. Essi sono la rugiada ».

    Il Carso e il Muggesano

    Il Carso è un altipiano calcareo arido e pietroso che, come abbiamo già visto in precedenza, si estende all’estremo limite orientale della regione, fra Gorizia e Trieste. Sono rimasti nei confini nazionali solo il Carso monfalconese o di Doberdò e buona parte di quello triestino, per una superficie di circa 300 kmq. su cui vivono quasi 20.000 ab., accentrati in numerosi ma piccoli villaggi rurali. La densità della popolazione è modesta e va dai 117 ab. del comune di Duino-Aurisina ai 42 di quello di Sgònico, ma eccede largamente le possibilità economiche della regione. Solo due centri superano i 2000 ab. e precisamente Poggioreale del Carso (3324 ab.), che è ormai divenuto un grande sobborgo di Trieste, e Aurisina (2134 ab.), importante per l’industria marmifera.

    Vedi Anche:  L'economia agricola, la pesca, la caccia e le colture

    L’economia carsica si basa prevalentemente sull’allevamento bovino, poiché l’agricoltura è confinata per lo più nelle doline, dove si deposita la terra rossa. Fra i seminativi prevalgono le patate, il granoturco e le foraggere, ma non manca la vite che dà il vino « terrano ». Nel Carso triestino sono sviluppate le pinete di rimboschimento e abbondano le cave di pietra, fra cui sono particolarmente pregiate quelle di Aurisina e di Monrupino, che forniscono materiali ornamentali assimilabili ai marmi. Buona parte della popolazione attiva è però occupata nelle città di Trieste e di Monfalcone, senza tuttavia trascurare le attività rurali.

    Grande importanza ha il Carso triestino per le comunicazioni internazionali che fanno capo ai valichi stradali di Fernetti e Pese e a quello ferroviario di Poggioreale Campagna. Questa sezione carsica è poi attraversata in tutta la sua lunghezza dalla nuova strada camionale triestina, mentre per il Carso monfalconese passa l’importante strada del Vallone, che è la via più breve fra Trieste e Gorizia.

    Il Muggesano è invece una verde regione collinare marnoso-arenacea, che si estende per una trentina di kmq. alla radice della penisola istriana, di cui fa parte, con una popolazione molto densa, che supera i 10.000 abitanti. Prevale l’insediamento sparso, ma la sola cittadina di Muggia accentra circa 4000 abitanti. La fertilità del suolo ha favorito lo sviluppo di una ricca agricoltura intensiva, caratterizzata da orti, vigneti e frutteti. Lungo la costa ci sono alcune notevoli industrie navalmeccaniche e petrolifere e si pratica la pesca.

    Il Carso monfalconese.

    La principale arteria di comunicazione è la via Flavia (Trieste-Pola) facente capo al valico internazionale di Rabuiese, che è il più frequentato valico italo-iugoslavo.

    La visita al Carso monfalconese più che un itinerario turistico è un pellegrinaggio ai campi di battaglia della prima guerra mondiale e un omaggio alle migliaia di caduti italiani ed austriaci, che nelle sue pietraie sono sepolti.

    Màlchina: tipico centro del Carso triestino, con il pozzo e gli ombrosi tigli.

     

    Partiamo da Gorizia. Sorge davanti alla città il Calvario, sulla cui cima s’ergono tre croci, mentre un bianco obelisco di pietra calcarea tramanda il ricordo dei reparti che si sacrificarono nella dura conquista. Lassù cadde anche Scipio Slataper, il biondo eroe triestino, poeta del Carso.

    Scendendo dal Calvario, tutte le quote su cui corre il nuovo confine furono testimoni di cruenti combattimenti. Al bivio del ponte IX Agosto, che ricorda la data del primo ingresso delle truppe italiane nel 1916, prega per i Caduti una Madonnina: Santa Maria della Vittoria.

    Sulle basse pendici del Sabotino giganteggia il bianco Sacrario di Oslavia, che accoglie 75.000 salme: su un enorme corpo centrale si innestano tre minori, in modo da formare una grande croce. Nella penombra dell’interno migliaia di nomi sono scolpiti nel marmo, mentre un piccolo monumento ricorda fra di Essi le Medaglie d’oro.

    Ma incominciamo il vero itinerario carsico. Sul Monte San Michele, epicentro di titaniche lotte, è stato ripristinato il Museo Storico, mentre tutt’intorno sono ancora visibili le caverne, i ricoveri e gli osservatori. Cippi e iscrizioni commemorano gli eroici Caduti e i reparti che lasciarono migliaia di morti sul tragico monte, a cui è legato anche il ricordo del primo lancio di gas venefici.

    Aurisina: uno dei maggiori centri del Carso triestino, famoso per l’industria marmifera.

    La campana Chiara di Oslavia e il tempio Ossario in cui riposano 75.000 caduti della Grande Guerra.

    A Redipuglia, sul ciglione del Monte Sei Busi, il Carso interrompe la sua desolazione per diventare tomba ed ara. Una « scala santa » di ventitré gradoni, affiancata da cipressi, culmina con tre croci che, nel richiamo del Calvario, additano la resurrezione delle anime dopo il dolore. Lungo i gradoni sono allineati in grandi lastre di bronzo 40.000 nomi, ma almeno 60.000 sono le tombe senza nome. All’inizio della scala c’è la tomba monolitica del Duca d’Aosta, comandante della III Armata, idealmente ricongiunto con i suoi soldati.

    Poco sollievo reca alla vista il laghetto di Doberdò, impaludato per gran parte dell’anno, che rompe tuttavia la monotonia del paesaggio. Alle spalle della Rocca di Monfalcone si distende il laghetto di Pietrarossa, mentre sono ormai bonificati gli altri bacini di trapasso carsico della zona. A Iamiano si può osservare l’ampio solco di Brestovizza, formato da un antico affluente del Timavo.

    Con il Monte Ermada, celebre per i suoi campi di battaglia, siamo ormai nel Carso triestino, che è meno desolato di quello monfalconese, perchè presenta una morfologia più movimentata e una vegetazione più ricca ed è abbellito dal contatto con il mare.

    Seguiamo dapprima un itinerario interno, lungo l’antico solco del Timavo. Troveremo poveri villaggi rurali, dall’aspetto petrigno, con le case chiuse verso l’esterno, in un perenne atteggiamento di sfida e di sospetto, che ricorda i foschi periodi delle incursioni turchesche. Eppure la gente slava che vi abita sa anche essere gentile ed accoglie volentieri le festose brigate domenicali di gitanti che salgono dalla città. Elementi caratteristici di ogni paese sono il grande abbeveratoio che testimonia l’economia pastorale e il sacro tiglio della piazza, sotto cui si riunivano gli anziani per prendere le decisioni di interesse comune. Nei centri maggiori severi blocchi di pietra carsica ricordano i Caduti della Resistenza.

    Particolari attrazioni per il turista sono i castellieri preistorici che sopravvivono con i loro muraglioni in sfacelo sull’apice dei più importanti rilievi, come sul Monte San Leonardo e presso Slivia, e le grotte, fra cui emerge per la sua imponenza la Grotta Gigante, che alle domeniche accoglie centinaia di’visitatori con una fantasmagoria di luci in un paesaggio fiabesco di stalattiti e di stalagmiti.

    A Monrupino (m. 419) c’è l’antico « tabor », ossia il borgo fortificato, da cui si gode un vasto panorama su buona parte del Carso triestino e si può osservare l’andamento del nuovo confine politico. La chiesa, di fondazione antica, fu più volte riedificata e consacrata nel 1512. Interesse offre pure il sottostante abitato di Zolla, con le sue case di tipo arcaico, molte delle quali sono ricoperte di pietra.

    Redipuglia: Cimitero degli Invitti. La tomba del Duca d’Aosta, comandante della III Armata.

    Per dominare dall’alto ciglione carsico il magnifico golfo di Trieste, il turista ha a disposizione le vedette del Monte San Primo, accessibile da Santa Croce o da Prosecco, la Vedetta d’Italia, presso Prosecco e la Vedetta Alice, presso il valico di Trebiciano. Una visita merita anche la vai Rosandra, al limite meridionale del Carso triestino, vero paradiso dei rocciatori, in cui si preparò per i suoi ardimenti Emilio Comici. Base di appoggio per gli escursionisti è il rifugio Premuda, presso Bagnoli, da cui si può risalire facilmente la valle fino alla cascata della Rosandra e al paesino di Bottazzo, mentre con un po’ più di fatica si possono raggiungere la chiesetta di Santa Maria in Siàris e il Cippo Comici. La vista della valle si può però anche godere dall’alto, dai due belvederi di Moccò e di San Lorenzo, a cui portano buone strade.

    Bello è scendere a Trieste da Monte Spaccato, lungo la nuova strada camionale, per cogliere la città nell’aspetto operoso del suo Porto industriale e nella splendida cornice del Vallone e dei Monti di Muggia.

    Ma l’itinerario più breve e più suggestivo che porta da Monfalcone al capoluogo giuliano è quello costiero, stradale o ferroviario, in cui Trieste compare nell’incanto del suo golfo vera regina dell’Adriatico.

    Dopo Monfalcone la strada scorre dapprima fra le colline carsiche e la palude del Lisèrt, in via di risanamento. Superato il vecchio posto di confine fra l’Italia e il T. L. T., al bivio per Gorizia ci accoglie lo spettacolo incantevole delle sorgive del Timavo, che scaturiscono dalla viva roccia presso San Giovanni di Duino fra i salici e i cipressi. Accanto vi è la restaurata chiesetta gotica di San Giovanni, distrutta durante la grande guerra, dove vennero rinvenute alcune iscrizioni attestanti che in questa località, cantata da Virgilio e descritta da Livio, dovevano esistere alcuni templi in onore del Timavo, di Ercole e della Spes Augusta e un monumento al console C. Sempronio Tuditano, vincitore degli Istri. Più in alto, presso il monumento della III Armata, che porta il monito « Rispettate i campi della Gloria e della Morte », vi è la nuova chiesa di San Giovanni, a croce greca, preceduta da un campanile e da un portico. Su un masso che delimita la strada, sopra i versi di Virgilio che si riferiscono al Timavo, c’è il monumento bronzeo ai Lupi di Toscana.

    L’orrida val Rosandra.

    San Giovanni del Timavo: la nuova chiesa.

    Procedendo per la strada scorgiamo ben presto la mole robusta del Castello di Duino, « nido di fate a specchio dell’onde », dove s’ispirò per le sue elegìe il poeta Rilke. Fu sede di potenti e bellicosi feudatari, che forse già nell’XI secolo abitavano il Castello Vecchio, ora in rovina, su di uno scoglio proteso verso il mare, che la tradizione chiama « Scoglio di Dante », perchè fra quelle mura sarebbe stato ospitato il Sommo Poeta. Il Castello Nuovo, che ora appartiene ai prìncipi della Torre e Tasso, deve il nome ai rifacimenti successivi, ma è pure di origine antichissima, poiché nella muratura della Torre quadrata del cortile, di costruzione romana, fu rinvenuta una lapide che ricorda l’imperatore Diocleziano. I muraglioni di cinta e i bastioni sono in gran parte opera del secolo XV, mentre di stile palladiano è la loggia del cortile, con gli archi a bugno e i mascheroni nelle chiavi di volta. L’interno custodisce una ricca collezione di quadri e di cimeli artistici.

    A Sistiana ci attende invitante la bella insenatura, circondata da un anfiteatro di alture dalla vegetazione rigogliosa, ormai rinomata stazione balneare. Quindi la strada costiera, recentemente ampliata e rinnovata, scorre alta sul mare in uno dei più fantastici scenari naturali d’Italia, che ricordano la riviera ligure e quella amalfitana: a monte le brulle pendici del Carso su cui in primavera s’arrampicano le ginestre, che sembra vogliano raggiungere i pini piegati dalla bora, sul ciglione più alto; ubertosi vigneti degradano a terrazzi verso la costa, dove s’annidano piccoli rifugi di pescatori, ormai spaesati in mezzo ai nuovi impianti balneari. Sullo sfondo il bianco Castello di Miramare, nel verde intenso del suo parco: «nido d’amore costruito invano » dal biondo arciduca austriaco, che trovò nel Messico immatura fine. Più oltre il profilo azzurrino dell’Istria fino a Punta Salvore, in cui si indovinano i valloni di Capodistria e di Pirano, e i campanili veneti e le graziose cittadine italiane, disgiunte purtroppo dalla Madrepatria. Ma soprattutto il cupo azzurro dell’Adriatico, solcato da bianche vele o da veloci vaporini o dalle lente navi cariche dei prodotti del Levante e dell’Estremo Oriente, scambiati a Trieste con quelli della città operosa e del suo grande retroterra transalpino. E una visione incantevole che continua poi con nuovi motivi sulla riviera di Bàrcola, sotto lo sguardo sereno del Faro della Vittoria, nella cornice di colline punteggiate dalle case suburbane, sotto cui si allunga il grande porto commerciale, con i suoi moli e i suoi magazzini fervidi di attività.

    San Giovanni del Timavo: monumento ai Lupi di Toscana.

    Di fronte alla città, sull’altra sponda del Vallone, Muggia ricorda con il suo antico « mandracchio » e l’elegante Duomo gotico, che corona l’armoniosa piazzetta, il suo passato veneto, che risuona nella favella deii suoi abitanti. Alta sul colle, fra le rovine del romano Castrimi Muglae, sorge la piccola basilica dei Santi Ermacora e Fortunato, che conserva nell’interno l’originaria struttura romanica. E questo il Santuario di Muggia Vecchia, a cui salgono i fedeli nel giorno dell’Assunzione.

    Case di pescatori, cantieri navali, impianti balneari si succedono lungo l’arco sinuoso della costa, mentre sulle dolci pendici collinari si distendono i campi e i vigneti ben coltivati, fra cui si sperdono le case rurali. Ma il confine interrompe troppo presto questo itinerario festoso, lasciandoci scorgere dietro le sbarre ed i paletti il bel paesaggio istriano, che ci risveglia il ricordo doloroso delle mutilazioni subite e dei profughi dispersi per tutta Italia.

    Trieste: il castello di Miramare con i cannoni della «fatai Novara».

    Golfo di Trieste. La strada costiera con sullo sfondo la città di San Giusto.

    Trieste: la riviera di Bàrcola.

    Duino. Il Castello Nuovo domina da cinque secoli l’arco costiero del Golfo di Trieste. Sulle scoscese pendici calcaree si arrampica una fitta vegetazione mediterranea.

    Muggia. Tipico centro costiero istriano.

    La pianura

    La pianura è attualmente la fascia morfologica più importante della regione, sia da un punto di vista demografico che economico, grazie alle opere di bonifica e di irrigazione e allo sviluppo dell’industrializzazione. Essa costituisce solo il 38% della superficie regionale, ma ospita il 47% della popolazione (circa 584.000 ab.), con una densità che si avvicina ai 200 ab. per kmq.

    La popolazione è però molto diversamente distribuita, perchè è meno densa nell’alta pianura e nella zona lagunare, dove vive molto accentrata, mentre invece si infittisce nella zona delle risorgive e nella bassa pianura, dove l’accentramento si attenua ed è talvolta superato dall’insediamento sparso.

    Muggia: il Duomo.

    Nella pianura si trovano circa 500 centri abitati, cioè oltre la metà dei centri della regione, di cui 10 superano i 5000 ab., su un totale regionale di 15, e costituiscono i principali nuclei di gravitazione commerciale: vi figurano 4 delle 5 maggiori città, e precisamente Udine, Gorizia, Pordenone e Monfalcone, che esamineremo nel capitolo seguente, e inoltre le cittadine di Sacile, Cordenòns, San Vito al Tagliamento, Cormòns, Ronchi dei Legionari e Grado. Caratteristici sono gli allineamenti dei centri nella zona delle risorgive e lungo i terrazzi del Tagliamento. Gli abitanti sono compattamente italiani, friulani e veneti, salvo qualche modesta infiltrazione slava nella pianura isontina. La casa rurale presenta la « corte » friulana, che è però diffusa soprattutto nell’alta pianura.

    L’economia è prevalentemente rurale, specialmente nella pianura friulana, dove il 41% della popolazione attiva è dedita all’agricoltura.

    I terreni agrari variano più regolarmente che nella fascia collinare, poiché diventano più fertili e più umidi man mano che scendono verso il mare. L’alta pianura è molto più povera e più arida sulla destra del Tagliamento, dove si espandono le grandi conoidi del Cellina e del Meduna, che dànno luogo ai « magredi », costituiti da magre praterie. Non mancano però nelle aree meno sterili alcune colture cerealicole e leguminose, inframmezzate da filari di viti, che si avvalgono dell’irrigazione, promossa dal Consorzio Cellina-Meduna. Sulla riva sinistra del Tagliamento la coltre detritica è invece meno permeabile, perchè meno profonda, e i suoli sono assai più fertili per la maggiore varietà delle alluvioni portate dal ghiacciaio tilaventino e dai fiumi delle zone più interne del sistema alpino. Anche qui però l’agricoltura può dare buoni risultati solo con l’irrigazione, a cui provvede l’Organizzazione Ledra-Tagliamento. Il granoturco, che è la coltura dominante, è però continuamente soggetto al pericolo della siccità estiva. L’esistenza di alcuni notevoli centri urbani ha favorito l’estensione delle colture ortensi, che sono particolarmente intense attorno a Udine e Gorizia. Nella pianura isontina, fra il Torre e le colline carsiche, prevalgono gli orti, il vigneto e il frutteto, con particolare riguardo ai ciliegi, ma difetta ancora l’irrigazione, che potrà ulteriormente incrementare i redditi di questa zona, quando saranno attuati i piani del Consorzio dell’Agro Cormonese-Gradiscano.

    Nella bassa pianura, a sud della zona delle risorgive, in gran parte trasformata dalla bonifica, c’è una maggiore uniformità colturale. Accanto al granoturco, che rimane la coltura principale, è largamente diffuso il grano. I cereali sono avvicendati con le foraggere, che permettono un largo sviluppo deH’allevamento bovino, costituito per lo più dalla razza Pezzata rossa friulana, e con alcune colture industriali, quali la barbabietola da zucchero, il tabacco e le piante oleaginose. Non mancano i filari di gelso e i vigneti, che sulla riva sinistra del Tagliamento sono governati a festone, secondo l’antico sistema aquileiese, mentre grande incremento ha avuto recentemente la coltura del pesco. Specialmente a ovest del Tagliamento sono ancora frequenti le praterie umide e acquitrinose, circondate da pioppi, salici e ontani, mentre è quasi del tutto sparita l’antica vegetazione forestale che un tempo ricopriva tutta la bassa pianura fra Livenza e Isonzo. Nelle lagune di Marano e di Grado domina naturalmente l’economia peschereccia.

    Lo sviluppo agrario della pianura giulio-friulana è piuttosto recente ed è ancora in notevole ritardo rispetto a quello delle regioni occidentali, la cui valorizzazione incominciò già nel Medio Evo. Infatti per le particolari vicende storiche della regione, la campagna friulana fu fino al secolo scorso la mèta dei greggi transumanti, mentre i contadini preferivano l’emigrazione, come ancora oggi fanno in molte plaghe dell’alta pianura, ad un lavoro duro e malsicuro.

    Le maggiori attività industriali sono concentrate nei distretti di Pordenone, Udine, Gorizia e Monfalcone e sono per lo più industrie tessili, metalmeccaniche e alimentari. A Torviscosa c’è il grande complesso agricolo-industriale, di recente creazione, specializzato nella produzione della cellulosa, mentre altre industrie alimentari sono localizzate a Cervignano, Sesto al Règhena e nei maggiori centri della Bassa, industrie del legno a Sacile e Spilimbergo, industrie dei materiali da costruzione a Sacile e Cormòns, un’industria del cuoio a Zugliano e un calzaturificio a Gonàrs. In complesso però lo sviluppo industriale è ancora modesto e non è assolutamente in grado di assorbire l’eccedente manodopera agricola che anche qui è costretta a rivolgersi all’emigrazione verso l’estero, per quanto la percentuale degli emigranti sia inferiore a quella della montagna e della collina.

    Le vie di comunicazione hanno qui la loro maggiore densità. Dominano le direttrici longitudinali che collegano la pianura veneta al Carso e all’Istria, da Pordenone ad Udine e Gorizia e da Latisana a Monfalcone. Balza evidente l’importanza di alcuni nodi ferro-stradali, fra cui spiccano Udine, che è il massimo centro delle comunicazioni regionali, Sacile, Pordenone, Casarsa, Codròipo, Palmanova, Sagrado, Ronchi, Cervignano, San Giorgio di Nogaro e Latisana, situati aH’incrocio delle vie longitudinali con le maggiori vie trasversali, oggi in continuo sviluppo.

    Secondo il Catasto Agrario la pianura si suddivide in 7 regioni, e precisamente: la Media Pianura fra Tagliamento e Cellina, il Medio Friuli, la Media e Bassa Pianura del Friuli Occidentale, la Stradalta e Alto Distretto di San Vito al Tagliamento, la Bassa Friulana, l’Agro Cormonese-Gradiscano e l’Agro Monfalconese. La morfologia non ha però favorito la costituzione di spiccate unità geografiche, come abbiamo visto per la regione montana e quella collinare. Si può tutt’al più distinguere la pianura occidentale da quella orientale, separate dall’ampio letto del Tagliamento, che gravitano rispettivamente su Pordenone e su Udine, e la pianura isontina o goriziana, in cui un particolare cenno merita l’Agro Monfalconese o territorio di Monfalcone, che abbiamo già presentato come regione storica e tradizionale.

    Il territorio ha una superficie di 125 kmq., ripartita fra 8 comuni, che costituiscono il mandamento di Monfalcone, ed una popolazione residente di 51.000 ab., con l’elevata densità di 460 ab. per kmq. Rispetto al censimento del 1936 si è verificato un incremento demografico del 30%, veramente eccezionale rispetto alla pianura friulana, mentre se si vuol risalire a tempi più lontani, si osserverà che nell’ultimo sessantennio la popolazione si è più che triplicata. Tale fenomeno è dovuto essenzialmente al prodigioso sviluppo industriale di Monfalcone, che ha radicalmente trasformato l’economia rurale, ma anche alle opere di irrigazione e di bonifica, iniziate e portate a termine molto per tempo con indiscutibili benefici.

    L’insediamento è fortemente accentrato e gli indici di popolazione sparsa sono frutto della recente bonifica. Dei 20 centri 4 superano i 2000 ab. e precisamente, oltre a Monfalcone e Ronchi dei Legionari, anche Turriaco e Staranzano. Caratteristici sono gli allineamenti pedecarsici e lungo l’Isonzo. La popolazione è per lo più italiana e parla un dialetto veneto simile al triestino, chiamato « bisiacco ».

    Sacile, sul Livenza, divenne nel secolo XIII un vivace porto fluviale, a cui facevano capo le vallate delle Prealpi Carniche. L’antico Duomo lambito dal fiume.

    L’agricoltura si distingue rispetto alla vicina pianura friulana per una maggiore intensività, favorita dalla presenza del mercato di consumo monfalconese, di cui il territorio costituisce l’agro alimentario. Nella parte alta i seminativi sono frequentemente intercalati da filari di viti e di gelsi ed abbondano i pescheti. L’olivo era diffuso fino agli inizi dell’800, mentre il riso, coltivato nelle paludi della bassa, è sparito con la bonifica. Le trasformazioni agrarie hanno anche eliminato i numerosi greggi di pecore che venivano un tempo dal Carso a passare l’inverno.

    Centri industriali sono Monfalcone e Ronchi, ma sopravvive ancora la lavorazione artigianale dei vimini lungo l’Isonzo. Sul canale d’irrigazione De Dottori sono attive cinque centrali idroelettriche, mentre a Redipuglia è stata installata una grande stazione di trasformazione. Le pendici carsiche forniscono il calcare per usi edilizi e industriali.

    Sacile: piazza del Popolo, con la caratteristica sfilata di portici, di stile veneto.

    Castello di Zòppola, presso Pordenone.

    Grande importanza ha il Territorio nel sistema regionale delle comunicazioni. A Monfalcone convergono infatti le due linee ferroviarie e le due strade statali che dalla pianura friulana portano a Trieste, mentre a Ronchi dei Legionari verrà costruito il grande aeroporto giuliano.

    Incominciamo la nostra rapida visita alla pianura friulana da quel Friuli Occidentale che viene comunemente indicato come « Destra Tagliamento » o anche di là da Vaghe. Prendiamo la strada statale Pontebbana e poco oltre il confine regionale incontriamo subito Sacile (5340 ab.), importante centro commerciale e di lavorazione del legno e del carbonato di calcio, a cui fa capo la ferrovia pedemontana, in una ricca regione agricola famosa per i suoi vini e i suoi bozzoli.

    Il « Giardino della Serenissima » si distende fra i rami fluviali del Livenza, in una sinfonia di verde. Palazzi e ville di chiara impronta veneta si specchiano nelle acque silenti. È questo uno sfondo ideale per la « Sagra dei osèi » che accoglie ogni anno quel mercato canoro che da sei secoli richiama uccellatori di ogni contrada. Il Duomo, fondato nel secolo IX e ricostruito nel XV, presenta una facciata semplice e armonica, affiancata da un aguzzo campanile. Il ponte della Vittoria, uno dei nove ponti sul Livenza, ricorda un episodio degli ultimi giorni della grande guerra.

    A Fontanafredda raggiungiamo la linea delle risorgive e poi siamo subito nella città del Noncello, la bella Pordenone, di cui parleremo nel prossimo capitolo.

    Lasciamo a sinistra l’imponente castello di Zòppola, protetto da un parco secolare, e la borgatella di Cevraia, che nella sua chiesa modesta possiede la Beata Vergine dipinta dal Pordenone. Proseguiamo in mezzo ad una campagna ben coltivata fino a Casarsa della Delizia, nodo ferroviario, dove nell’antica parrocchiale potremo ammirare le Storie della Croce del Pordenone e nella nuova la Deposizione del-l’Amalteo.

    Prima di giungere al letto ghiaioso del Tagliamento spingiamoci a nord per Valvasone, il cui castello udì le ottave armoniose del conte Erasmo, fino all’inclita Spilimbergo (3695 ab.), la regina del musaico, che nel suo Duomo offre la migliore sintesi delle tradizioni artistiche della nobile terra friulana.

    « Nell’edificio romanico-gotico del secolo XIII, dice l’Ermacora, l’abside austera si armonizza con la torre massiccia, i fianchi s’accordano con la facciata, in cui tre rosoni diffondono la luce del tramonto, mentre la bellissima porta moresca scolpita da Zenone da Campione nel 1376 fa riscontro, sia pure superandola, alla porta occidentale, nel cui timpano permangono tracce di affreschi deliziosi. L’interno ci conquista per la sua maestà accresciuta dalle opere d’arte che custodisce. L’antica cappella maggiore è interamente affrescata, ma di affreschi, in parte riscoperti, abbondavano tutte le parti del Duomo, come del resto il Castello e la facciata delle case gotiche, che serbano tra le bifore tracce delle vivaci decorazioni. Tutta la cittadina rivive alla nostra mente in un quadro acceso di colori e scintillante di corazze, nei suoi assedi e nelle sue feste… Bellissimi sono gli altari, quasi tutti scolpiti dal Pilacorte tra la fine del secolo XV e il principio del secolo XVI. Notevoli le pale, ma le opere di maggior pregio sono le portelle dell’organo dipinte dal Pordenone nel 1524, che tutti i dipinti suoi nel Friuli sorpassano per novità e potenza d’invenzione…

    « Un cenno a sè meritano il magnifico coro in legno di Marco Cozzi, i sei antifonari del secolo XV, la pila dell’acqua santa di Iacopo da Spilimbergo, i due amboni e la vasca battesimale del Pilacorte, la cui bravura appare nella balaustrata, nei pilastri e nell’altare della cappella del Carmine.

    « Ma l’arte di questo infaticabile “ taiapiera ” ride anche nelle finestre e nelle porte del Castello (secolo XII) dove sostiamo ad ammirare, tra gli scarsi segni della passata

    bellezza, il fregio di una sala piena di festoni e di puttini: un dipinto di Giovanni da Udine, di colui che

    …del merlato Spilimbergo intorno udia sull’aura reverenti nomi di Vecellio e d’Irene, ambo immortali.

    Spilimbergo. Vista absidale del Duomo (sec. XIII).

    Il richiamo poetico del Prati ci ridesta il ricordo del Tasso, che confondeva il proprio pianto al pianto universale per la cruda morte di Irene: di questa pittrice della natura e del femminino friulano, sulla quale, maestro e amico, s’era chinato paternamente il sommo Tiziano ».

    Lasciamo i desolati « magredi » per ritornare a Casarsa, dove all’opposto orizzonte c’invita l’alto campanile del Santuario della Madonna di Rosa e a Prodolone la chiesa della Beata Vergine delle Grazie, ornata dei più movimentati affreschi dell’Amalteo. Siamo ormai in vista di San Vito al Tagliamento (5065 ab.), grosso centro agricolo e commerciale, che possiede pure qualche industria alimentare. Antica comunità del Patriarcato Aquileiese, diede i natali a Pomponio Amalteo, di cui conserva gli affreschi della chiesa di Santa Maria dei Battuti e le tele del Duomo, riedificato nel secolo XVIII. Più a sud merita una sosta il centro di Cordovado, che ha un castello e il bel Santuario della Madonna delle Grazie. Ma da Cordovado non dimentichiamo di fare una puntata a Sesto al Règhena dove attende di essere scoperta dai turisti l’antica Abbazia benedettina di Santa Maria di Sesto in Sylvis, fondata nel 762, che esercitò per secoli un ampio potere giurisdizionale sul territorio circostante. Dell’antica chiesa longobarda rimangono le absidi e la cripta. L’attuale basilica atre navate, con atrio e cupola quadrata, è ricoperta da importanti affreschi trecenteschi di scuola giottesca, di cui alcuni sono stati solo recentemente messi in luce. Posteriori di un secolo debbono invece ritenersi le grandi rappresentazioni del Paradiso e dell’Inferno, che si trovano nell’atrio, il cui soffitto a travatura scoperta e decorata fu rifatto nella seconda metà del ’400. Nella cripta vi è il sarcofago in marmo di Sant’Anastasia, pregevole opera bizantina del VII o VIII secolo.

    Cordovado. Santuario della Madonna delle Grazie e il Palazzo Cecchini.

    Abbazia di Sesto al Règhena.

    Ritornati a Casarsa, superiamo l’immenso ghiaieto del Tagliamento su un lungo ponte ed entriamo così nel Friuli orientale, di qua da Vaghe, dove più puro suona l’idioma ladino. Ci accoglie Codròipo, l’antica Quadruvium, all’incrocio di quattro strade, che convergono nella piazza principale. Qui nacque il celebre musicista Giovanni Battista Candotti (1809-76), che lasciò oltre 500 composizioni religiose, fra cui un grandioso Miserere. Nella chiesa parrocchiale troviamo il più bel Crocifisso in legno della regione, opera di Alessandro Vittoria (secolo XVI) e dono di Eugenio Beauharnais. I ricordi napoleonici ci richiamano nella vicina Passariano, che diede il nome durante il Regno Italico al dipartimento friulano, dove riposa nell’oblìo la secentesca Villa Manin, la più grande della regione, che appartenne a Lodovico Manin, ultimo doge veneto, ed ospitò Napoleone durante le trattative per la pace di Campoformido.

    Codròipo. Piazza Garibaldi e il Duomo.

    Una delle più antiche piante della città fortificata di Palmanova,

    Abbiamo ormai lasciato la strada statale, che prosegue monotona fino a Udine, senza presentare particolari attrattive, per correre in mezzo ai campi della Bassa Friulana verso il mare. La sinuosa Stradalta attraversa una serie interessante di centri, situati sulla linea delle risorgive: Bertiolo, Talmassòns, Castiòns di Strada, Gonàrs.

    Siamo già a Palmanova (4434 ab.), la città-fortezza dalla caratteristica pianta stellare a nove punte, che la Repubblica Veneta fondò nel 1593 per difendersi dai Turchi e dagli Imperiali, su progetto di Giulio Savorgnan.

    Capolavoro dell’ingegneria militare dell’epoca, è cinta da nove baluardi e dacortine protette da un profondo e largo fossato. Da tre porte massicce entrano altrettante strade, che convergono nella grande piazza esagonale dove si eleva presso un’altissima antenna il Duomo, opera di Baldassarre Longhena (1615). Questa città artificiale che potrebbe contenere una popolazione molto più numerosa di quella che vi risiede, è però divenuta il centro commerciale e amministrativo di una vasta regione circostante, ma ancor oggi serba immutato il suo aspetto di centro militare. La pagina più gloriosa della sua storia fu scritta nel 1848, quando gli insorti udinesi sostennero a lungo l’assedio austriaco. Durante la prima guerra mondiale fu più volte bombardata e l’incendio dei magazzini militari devastò buona parte dell’abitato.

    Per respingere le incursioni dei Turchi i Veneziani costruirono nel 1593 la fortezza di Palma, di cui si può vedere una delle tre porte disegnate dallo Sca-mozzi.

    Continuando il nostro itinerario incontriamo Strassoldo che, scrive l’Ermacora, « con i canali d’acqua e il verde intenso del parco ci richiama il paesaggio olandese, cui Cervignano, poco dopo, aggiunge la nota vivace delle vele che risalgono l’Ausa. Odor di salso nell’aria, benché la campagna si estenda a perdita d’occhio ».

    Cervignano (4851 ab.) è un vivace centro commerciale, con qualche industria alimentare, importante nodo di comunicazione sulla strada e sulla ferrovia che congiungono Mestre a Trieste, diramandosi per Palmanova-Udine e per Aquileia e Grado. Diede i natali al poeta Giovanni Biavi (1684-1755), che appartenne all’Accademia dell’Arcadia, e al famoso alpinista Giusto Gervasutti (1909-48), «Signore del Mont Blanc», al cui nome si intitola la scuola d’alpinismo italiana.

    Pieghiamo ora verso occidente, lungo la strada per Mestre, per visitare l’industre Torviscosa, centro nazionale della cellulosa, sorto vent’anni or sono al posto di quello vecchio di Torre di Zuino, secondo uno schema razionale predisposto dalla S. A. I. C. I. Più oltre troviamo il centro agricolo e commerciale di San Giorgio, congiunto da due chilometri di ferrovia a Porto Nogaro, sul fiume Corno, massimo porto fluviale della regione. Da San Giorgio per Carlino si può raggiungere Marano Lagunare, piccolo e solitario centro peschereccio che fu antica fortezza dei patriarchi aquileiesi e veneziani. Sussistono ancora i ruderi delle mura del Castello e la Torre patriarcale del secolo XV che conserva i busti dei provveditori veneti. Il 15 giugno, festa del patrono San Vito vi ha luogo una pittoresca processione lagunare.

    Da San Giorgio di Nogaro, attraversando belle campagne redente dalla bonifica, passiamo Muzzana del Turgnano, Palazzolo dello Stella e giungiamo finalmente a Latisana, sulla riva del Tagliamento, che qui segna il confine della regione.

    Latisana (4092 ab.) è un grosso centro agricolo e commerciale, già importante porto fluviale, noto per i suoi palazzi veneti, per la pala di Paolo Veronese che custodisce nella sua parrocchiale e per il vino esaltato da antiche canzoni popolari.

    Qui troviamo la nuova bella strada che conduce a Lignano Sabbia d’Oro, una delle più belle e più recenti spiagge adriatiche che, come abbiamo visto, ha avuto negli ultimi anni uno sviluppo veramente portentoso.

    Da Lignano possiamo raggiungere per via di mare Grado, attraversando la laguna di Marano in cui ancora si possono osservare i caratteristici casoni pescherecci di paglia.

    Grado (7807 ab.), che sorge su un’isola della laguna, collegata alla terraferma da un ponte girevole, è il massimo centro peschereccio regionale, ma è anche, come Lignano, una delle maggiori stazioni balneari adriatiche. All’epoca romana era uno dei porti d’Aquileia e poi, in seguito all’invasione dei Longobardi, divenne sede del Patriarca Aquileiese, che dopo lo Scisma dei Tre capitoli diede inizio alla serie dei patriarchi gradesi. Fu dapprima caposaldo marittimo del dominio bizantino e poi di quello veneto.

    Nella parte vecchia conserva un aspetto tipicamente veneto con le caratteristiche calli e i campielli. Di grande interesse è il Duomo che è con la vicina chiesa di Santa Maria delle Grazie la più antica chiesa delle Venezie e coevo delle chiese bizantine di Ravenna e di Parenzo. Fu fondato infatti nel secolo VI sul posto della chiesa di Sant’Eufemia, risalente al 454, dal patriarca Elia, che lo intitolò ai Santi Ermacora e Fortunato, e fu costruito da architetti ravennati e bizantini in gran parte con materiali romani. L’interno a pianta basilicale offre un magnifico pavimento musivo del VI secolo in cui predominano le forme geometriche e vi è la caratteristica decorazione vermicolare. Le navate sono divise da colonne di marmo africano, con capitelli multiformi. L’altare maggiore che un tempo era separato dall’iconostasi presenta una pala argentea trecentesca e un’ancona di 15 quadretti, su fondo dorato, del secolo successivo, mentre il catino absidale conserva un rozzo affresco dell’inizio del secolo XV. Dalla sagrestia si scende in un’aula con ricco pavimento musivo, dai colori vivaci.

    Marano Lagunare: la Torre con i busti dei provveditori veneti.

    Grado: il vecchio centro, con sullo sfondo la laguna,

    Grado: il Duomo e la Basilica di Santa Maria delle Grazie.

    A fianco del Duomo sorge il Battistero, a pianta ottagonale, coevo alla chiesa di Sant’Eufemia, restaurato e ridotto alla forma originaria. Assai più recente è il campanile, sulla cui cuspide ottagonale vi è la statua di San Michele, fatta a Venezia nel 1462, con evidente intenzione di imitare il campanile di San Marco.

    Nella chiesa di Santa Maria delle Grazie recenti restauri hanno eliminato tutte le deturpazioni e le alterazioni accumulatesi nel corso dei secoli, mettendo in rilievo i pregi artistici originari.

    Da Grado, seguendo l’itinerario della tradizionale processione della prima domenica di luglio, raggiungiamo l’isola di Barbana, che ospita un rinomato Santuario in cui si venera una statua lignea bizantina della Madonna, che, secondo la tradizione, nel 1582 una burrasca gettò sulla spiaggia. Ci dirigiamo quindi verso la foce del Natissa, per sbarcare alla pineta di Belvedere, ultima propaggine delle pinete adria-tiche, dove una chiesetta ricorda il leggendario approdo di San Marco.

    « Aquileia si annunzia con la torre possente eretta nove secoli fa con le pietre del suo anfiteatro. Ci accostiamo alla figlia di Roma lungo la strada che riconduceva le legioni vittoriose alle sue munitissime mura, benché nulla affiori di lei e nulla ci dica il suo respiro di un tempo, tranne le vestigia restituite dalla terra segnata con l’aratro latino nel 181 a. C. Eppure la città, il più ricco emporio romano dell’Italia settentrionale, si ricompone agli occhi nostri per quelle vestigia, emigrate in parte airestero, in parte salvate nel Museo Archeologico e nella Galleria lapidaria, anche negli ultimi anni, coi mezzi dell’Associazione Nazionale per Aquileia, ma nella maggior parte ancora sepolte. Statue, monumenti funerari, stele, cippi, urne cinerarie, fregi di palazzi e di templi, terracotte fra cui innumerevoli anfore, vetri, bronzi, ambre, ori, oggetti di bronzo e d’avorio, provenienti soprattutto dai corredi tombali, ci rendono ammirati e pensosi della grandezza e del decadimento della città, ch’era detta “splendidissima” e superata in Italia soltanto da Roma, da Capua e da Milano.

    «Visitiamo la Via Sacra, che ci svela il porto fluviale sul Natissa, con la banchina intatta, gli anelli da ormeggio, le strade d’accesso, le fondazioni dei magazzini, insieme con le mura e i torrioni improvvisati per arginare le offese dei barbari, alleati della malaria: due nemici ugualmente fatali di Aquileia. Leggiamo i frammenti marmorei collocati lungo la passeggiata archeologica: altrettante pagine di storia d’una eloquenza commovente, così come lo sono i resti del foro, che ci permettono di ricostruire lo scheletro della grande piazza romana e deH’arteria su cui guardavano gli edifici maggiori, quali la curia, la basilica e il tempio di Giove.

    « Ma la nostra commozione si accrescerà nella Basilica, legata al nome del patriarca Popone, che la fece costruire (1021-31) sopra l’aula cultuale dal vescovo Teodoro (secolo IV), di cui si conserva il pavimento musivo: una festa di simboli religiosi e marini quale nessun’altra chiesa paleocristiana possiede. Qui tutto ci eleva: le nude navate divise dalle grandi colonne, l’abside con le sue figure ieratiche, la tribuna scolpita da Bernardo da Bissone e il semplice altare, i sarcofaghi levigati e le pareti della cripta con i dipinti pregiotteschi, il capitello corinzio che funge da acquasantiera e la sedia del patriarca, il ciborio con l’altare dell’Eucaristia e il “Cristo della Trincea ”, di Edmondo Furlan, che sublima insieme l’agonia del Crocifisso e quella del soldato italiano.

    Aquileia: gli scavi più recenti.

    « Gli scavi intorno al campanile completano la visione: sopra le costruzioni romane, quelle cristiane bagnate dal sangue dei martiri, e sopra ancora gli stupendi mosaici di altre basiliche: in mezzo il campanile che squarcia tanta serena bellezza…

    « Ma Aquileia non è tutta qui. A tergo della Basilica dormono i primi morti della grande guerra. In un giardino sempreverde d’alloro e profumato di rose… vi sono la tomba dei dieci Militi Ignoti e il sarcofago di Giovanni Randaccio, le sculture dell’Angelo della Carità e della Pietà, che annunziano il premio serbato agli Eroi. In tale recinto aleggia la toccante tristezza di Aquileia, accresciuta dalla solitudine della pianura e dalla visione del Carso; e nessuna terra è motivo d’orgoglio come questa, in cui tre civiltà affondano le misteriose radici » (Ermacora).

    Da Aquileia risaliamo verso Cervignano per continuare verso oriente. Ancora una sosta a Villa Vicentina, per visitare la Villa Bonaparte, con il grande romantico parco dove la sorella di Napoleone, Elisa Baciocchi, cercava di scordare l’umiliazione dell’esilio. Ed eccoci ormai sulle rive dell’Isonzo, dove finisce il nostro itinerario attraverso la pianura friulana e comincia quello attraverso la pianura isontina.

    Aquileia: la Basilica. Il maestoso interno con il magnifico pavimento musivo del IV secolo.

    Superiamo l’Isonzo al ponte di Pieris ed entriamo così nell’Agro Monfalconese, dove possiamo osservare i sorprendenti risultati della bonifica del Bràncolo. Lasciamo a sinistra Turriaco e Begliano, che sono ormai divenuti grossi sobborghi operai di Monfalcone, e a destra San Canziano, dove sono stati recentemente portati alla luce importanti resti romani. Ed eccoci a Ronchi dei Legionari (7382 ab.), vivace cittadina industriale, il cui nome è legato all’impresa di Gabriele D’Annunzio che da qui mosse il 12 settembre 1919 con i suoi legionari alla volta di Fiume.

    Invece di proseguire per Monfalcone, che è ormai in vista con la sua Rocca e i suoi cantieri, volgiamo a sinistra verso Gorizia, passando per Redipuglia, dove rivediamo il Cimitero degli Invitti. A Sagrado superiamo nuovamente l’Isonzo, presso la presa del canale irriguo De Dottori, e siamo in breve a Gradisca (3960 ab.), industre cittadina a pianta regolare, fortificata nel secolo XV dai Veneziani    per precludere ai    Turchi    il    passaggio dell’Isonzo. Conquistata dagli Imperiali nel 1511, fu nel 1615-17 al centro della guerra austro-veneta detta appunto « gradiscana ». Fu poi per breve tempo sede di una contea principesca. Conserva ancora i resti della Fortezza, il Castello e pregevoli edifici come i Palazzi Torriani e De Fin e il Duomo.

    E qui il nostro rapido itinerario attraversato il Friuli-Venezia Giulia può praticamente concludersi, in vista dell’Isonzo e di Gorizia. Ci attendono ora per una visita più accurata le sue maggiori città.