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L’economia agricola, la pesca, la caccia e le colture

    L’economia agricola

    Lineamenti generali

    Le varietà che la regione presenta nelle forme e nella natura del suolo, nelle condizioni umane e storiche, si riflette naturalmente nella vita economica, che offre perciò una notevole gamma di attività, raggruppate in modo da determinare paesaggi economici molto diversi. La struttura economica regionale è perciò molto complessa e apparentemente equilibrata, in quanto le attività agricole, industriali e commerciali assumono nel quadro regionale un rilievo non molto difforme, almeno per ciò che riguarda la distribuzione settoriale della popolazione attiva occupata. In realtà c’è una sostanziale differenza fra la grande provincia friulana, dove prevalgono ancora le attività agricole o collegate con l’agricoltura, e le minori province di Trieste e di Gorizia, ad economia essenzialmente industriale e commerciale.

    Quanti sono i lavoratori della terra? Secondo i dati del censimento demografico del 1951, non più del 28% della popolazione giulio-friulana risulta dedita all’agricoltura, ma questa percentuale raggiunge il 40% nella provincia di Udine, mentre scende al 18% in quella di Gorizia ed è al livello insignificante del 2% in quella di Trieste (vedi Tabella XVI). Naturalmente vi è una decisa tendenza alla fuga dalle campagne, favorita del resto dalla diffusione della meccanizzazione.

    Tuttavia, nonostante l’alta densità della popolazione rurale, la regione non offre condizioni ambientali molto favorevoli allo sviluppo agricolo, giacché oltre i due quinti del territorio sono rappresentati da montagna, circa un quinto da collina e gli stessi terreni pianeggianti sono in gran parte aridi o dissestati idraulicamente, per cui la loro utilizzazione richiede grandi fatiche e dà scarsi risultati.

    L’utilizzazione del suolo nel Friuli-Venezia Giulia.

    La superfìcie agraria e forestale, che costituisce appena ì’82% del territorio, è abbastanza equamente suddivisa fra i seminativi, i prati-pascoli e i boschi, ma anche in questo caso le tre province presentano situazioni alquanto diverse (vedi Tabella XII).

    Le colture erbacee avvicendate (seminativi) costituiscono il 29% della superficie regionale, ma mentre salgono al 39% nella provincia goriziana, si riducono solo ad un decimo in quella triestina. Le colture foraggere (prati-pascoli) occupano una

    superfìcie pari a quella delle precedenti, ma nella provincia di Gorizia si riducono al 12%, mentre in quella di Trieste salgono al 32%. Le colture legnose (vigneti e frutteti) occupano appena il 2% della superfìcie regionale, ma hanno una maggiore estensione nelle province orientali. Il bosco infine ricopre il 19% del territorio, con un’incidenza minima per la provincia isontina, dove non rappresenta neanche un decimo della superfìce. Quindi, volendo riassumere la situazione delle tre province, osserveremo che quella friulana, costituita per quasi la metà da montagna, presenta una maggiore estensione dei prati-pascoli, seguiti dai seminativi e dal bosco; in quella goriziana, in cui la pianura costituisce oltre i quattro quinti del territorio, i seminativi superano le colture foraggere e hanno speciale rilievo le colture legnose, mentre è scarsamente rappresentato il bosco; infine il territorio triestino, dove prevalgono le colline carsiche, è in massima parte rivestito da pascoli e da boschi, mentre le colture legnose hanno un peso di poco inferiore a quello dei seminativi. Considerando gli sviluppi dell’ultimo decennio si osserva in complesso che le coltivazioni erbacee tendono a diminuire a vantaggio delle coltivazioni legnose e foraggere, mentre il bosco segna qualche leggero progresso a scapito degli incolti produttivi.

    Uno degli aspetti più caratteristici dell’agricoltura giulio-friulana è il regime della proprietà fondiaria, caratterizzato da un fortissimo frazionamento, che in montagna arriva addirittura alla polverizzazione. Fanno eccezione le grandi proprietà silvo-pastorali, appartenenti in gran parte ad enti pubblici, e quelle delle zone di bonifica, dov’è avvenuto un notevole processo di concentrazione. Secondo stime abbastanza approssimate in pianura le aziende inferiori ai 20 ha. occupano i quattro quinti della superficie, quasi altrettanto in collina, ma solo il 30% in montagna, dove hanno massima estensione i pascoli e i boschi.

    L’utilizzazione del suolo nel Friuli-Venezia Giulia per province e confronto con la situazione italiana, secondo l’Annuario Statistico Italiano del 1958.

    Per quel che riguarda la conduzione risulta che circa i sette decimi delle aziende sono gestite dallo stesso proprietario, occupando però appena il 30% della superficie, un quarto sono in affitto semplice o misto e solo un ventesimo a mezzadria. La conduzione in proprio è assolutamente prevalente nella regione montana dove interessa la quasi totalità dei seminativi; rappresenta i due terzi della superficie collinare e meno della metà di quella di pianura. Nell’alta pianura ad oriente del Tagliamento è diffuso l’affitto misto, mentre nella bassa pianura e ad occidente del Tagliamento assume una certa importanza la mezzadria. Il salariato è quasi inesistente, poiché domina quasi incontrastato il piccolo e medio podere che consente il più largo assorbimento di manodopera e che non provoca forme preoccupanti di disoccupazione stagionale.

    La meccanizzazione agricola è abbastanza notevole in pianura, specialmente nelle aree di recente bonifica, mentre trova difficoltà ad estendersi in collina e in montagna. Nel 1958 erano attive 5000 trattrici, corrispondenti al 2,5% del parco nazionale, che servivano circa la metà dei seminativi. Il ritmo della meccanizzazione è molto intenso, giacché il numero delle trattrici si è più che quintuplicato nell’ultimo decennio, ma molto resta ancora da fare.

    Tramonti di sopra: frazionamento della proprietà.

    Centro di motoaratura della Bonifica Vittoria (Fossalòn).

    Una fondamentale caratteristica dell’agricoltura friulana è la grande diffusione delle istituzioni cooperative, che sono particolarmente sviluppate nei settori lattiero-caseario, vinicolo e bacologico, in cui contribuiscono alla riduzione dei costi di produzione, al miglioramento qualitativo dei prodotti e all’organizzazione commerciale.

    A questo punto sarebbe utile considerare il valore della produzione agraria giulio-friulana, allo scopo di individuare il suo reale peso nell’economia regionale e nazionale e di stabilire dei confronti con le altre regioni. Purtroppo i dati disponibili non sono molto esaurienti, ma li presentiamo comunque a scopo indicativo.

    Nel triennio 1955-57 il prodotto netto della produzione agricola, zootecnica e forestale del Friuli-Venezia Giulia è stato in media di 57 miliardi di lire, corrispondenti appena al 2% del valore della produzione nazionale. La nostra regione figura al penultimo posto fra le regioni italiane, precedendo solo la piccola Val d’Aosta, rimanendo quindi indietro rispetto ad altre regioni più piccole e meno popolate.

    E interessante constatare che l’ammontare dei proventi forniti dal settore zootecnico supera quello della produzione agricola e forestale, fatto eccezionale che si riscontra solo in Lombardia e in Val d’Aosta e denuncia l’indirizzo spiccatamente zootecnico dell’agricoltura regionale.

    Interesse anche maggiore riveste la conoscenza del valore della produzione per ettaro di superficie coltivata, da cui risulta non solo la povertà dell’agricoltura regionale, ma anche lo squilibrio esistente fra le tre province. La media regionale era rappresentata nel 1956 da 92.000 lire, cifra questa molto poco confortante in confronto alle 117.000 lire della media nazionale e alle 155.000 lire della media dell’Italia settentrionale. Gorizia guida però la graduatoria delle province con la cifra elevatissima di 202.000 lire, pari a quella della Lombardia, seguita da Udine con 87.000 lire e da Trieste con 61.000. Se si assumono solo i dati assoluti provinciali si riscontra che Udine occupa il diciassettesimo posto nella graduatoria delle 92 province italiane, Gorizia il novantesimo, mentre Trieste deve necessariamente occupare l’ultimo gradino della scala nazionale.

    La Bassa Friulana nella prima fase della bonifica agraria: primi dissodamenti e inizio delle colture legnose.

    Bonifiche e irrigazioni

    L’agricoltura regionale risente tuttora del grande ritardo con cui furono intraprese le opere di miglioramento delle condizioni idrologiche del suolo e di trasformazione fondiaria, che sono tutte molto recenti e ancora, in gran parte, in corso di esecuzione. Tale ritardo è dovuto essenzialmente alla posizione geografica e alle condizioni sociali, politiche ed economiche del Friuli, dapprima sotto l’agitato governo patriarcale e poi sotto il debole e conservatore governo veneto, che mantenne intatto l’oppressivo ordinamento feudale, cosicché non poterono svilupparsi le libere istituzioni comunali che altrove si resero benemerite nelle sistemazioni idrauliche.

    I primi interventi correttivi riguardano quasi esclusivamente la derivazione di rogge per il rifornimento idrico dei centri, l’alimentazione dei mulini e la fluitazione del legname, mentre le utilizzazioni irrigue erano saltuarie e limitate a zone molto ristrette. Però fin dal secolo XV incominciò l’elaborazione di progetti allo scopo di promuovere, come era avvenuto nel vicino Veneto e nella Lombardia, un’irrigazione totalitaria dell’alta pianura friulana, afflitta dalla eccessiva permeabilità dei terreni. Le prime opere idrauliche furono eseguite appena nella seconda metà del ’700, nell’Agro Aquileiese, sotto amministrazione austriaca, e furono tentativi di bonifica mediante opere di arginamento e canalizzazione delle acque. Solo alla fine del secolo scorso si costituirono i primi consorzi irrigui, nell’alta pianura friulana fra il Tagliamento e il Torre e nell’Agro Monfalconese, mentre all’inizio di questo secolo cominciarono a sorgere nella Bassa Friulana anche alcuni consorzi di bonifica. Ma la guerra arrestò tale fervore di iniziative e distrusse molte opere che già erano state costruite.

    « Magredi » prima della trasformazione presso Dandolo di Maniago.

    Una nuova fase di attività si aprì nel 1929 quando si costituì il grande consorzio di bonifica della Bassa Friulana, a cui si affiancarono più ad oriente altri minori consorzi. Ma la seconda guerra mondiale interruppe molte opere, che solo in questi ultimi anni hanno trovato compimento. Un nuovo consorzio di bonifica è sorto ad oriente del Torre, per la trasformazione irrigua dell’Agro Cormonese-Gradiscano, mentre dopo l’entrata in vigore della legge sulla montagna del 1952, anche la regione montana è interessata alle trasformazioni idrauliche, forestali ed agrarie, ed a questo scopo si sono recentemente costituiti i consorzi di bonifica montana Cellina-Meduna, Alto Tagliamento-Fella e Prealpi Giulie. Passiamo ora a considerare le principali trasformazioni agrarie attraverso l’opera dei consorzi di bonifica, che curano sia le opere irrigue che quelle di prosciugamento.

    Il più esteso consorzio irriguo della regione è quello denominato « Ledra-Tagliamento », costituito già nel 1876 dall’amministrazione provinciale di Udine e da 27 amministrazioni comunali interessate. Esso comprende una superficie di circa 55.000 ha., corrispondenti a quasi tutta la regione agraria del medio Friuli, che si estende fra il Tagliamento e il Torre, le colline dell’anfiteatro morenico e la linea delle risorgive.

    Riprendendo il vecchio progetto del conte Giulio Savorgnano (1592), il consorzio studiò la possibilità di derivare le acque del Ledra, affluente di sinistra del Tagliamento, che nasce presso Gemona e si immette nel suo collettore a monte del colle di Susàns. Venne pertanto costruito il Canale Ledra che cattura le acque del fiume presso Buia, ma, essendo queste insufficienti al fabbisogno di un così vasto comprensorio, si provvide ad immettervi anche quelle dello stesso Tagliamento, derivandole presso Ospedaletto. Il canale, che esce dalle colline dell’anfiteatro morenico fra San Daniele e Rive d’Arcano, scorre poi verso oriente, al margine settentrionale del comprensorio, lambendo la città di Udine. Il lotto principale dei lavori fu inaugurato nel 1881, quando le acque del Ledra arrivarono ad Udine, festosamente accolte dalla popolazione, ma ci vollero altri otto anni per il compimento dell’opera ed alcuni decenni prima che venisse eseguita la rete capillare di distribuzione delle acque e la sistemazione irrigua dei fondi. Alla fine del 1958 il consorzio provvedeva all’irrigazione di circa 16.000 ha., mediante una rete di canali distributori lunga 1800 km., al rifornimento idrico di oltre un centinaio di centri abitati e all’alimentazione di un’ottantina di impianti di forza motrice, per un totale di 2200 cavalli nominali. Per l’irrigazione della parte bassa del comprensorio sono stati pure scavati una quarantina di pozzi, che incidono la falda freatica sotterranea.

    Restano però ancora da irrigare più di due terzi della superficie consorziata, a cui si sta provvedendo con la trivellazione di numerosi altri pozzi, l’impermeabilizzazione dei canali esistenti e la diffusione del metodo irriguo per aspersione, che comporta un notevole risparmio di acque. Ma l’opera fondamentale per il completamento dei piani irrigui è un nuovo grande canale, denominato della « Libertà », ormai in fase di costruzione, che deriverà le acque del Tagliamento alla stretta di Pinzano e seguirà fino a Dignano il corso del fiume, per poi scorrere a sud di Udine, parallelo al Canale Ledra.

    Fabbricati rurali nella zona bonificata, presso Pordenone

    Un altro consorzio di bonifica a scopo prevalentemente irriguo è quello denominato « Cellina-Meduna », costituitosi nel 1930, che comprende l’alta pianura friulana ad occidente del Tagliamento, limitata a nord e ad ovest dalle Prealpi Carniche e a sud dalla zona delle risorgive, per una superfìcie complessiva di circa 44.000 ettari. Si tratta di terreni eccezionalmente aridi, costituiti dalle grandi conoidi alluvionali dei fiumi prealpini Cosa, Meduna, Còlvera e Cellina, che per la loro sterilità sono denominati « magredi ». L’aspetto più interessante dell’attività di questo consorzio è quello di aver associato alla trasformazione fondiaria irrigua le utilizzazioni idroelettriche, in modo da ripartire i costi delle opere fra l’agricoltura e l’industria. Infatti il regime eccezionalmente torrentizio dei fiumi prealpini ha reso necessaria la costruzione di grandi serbatoi montani, che costituiscono un enorme potenziale idroelettrico. La Società Adriatica di Elettricità ha pertanto provveduto allo sbarramento presso Barcis del torrente Cellina, che ha costituito un invaso di circa 20 milioni di metri cubi, mentre la Società Agricolo-Industriale Cellulosa Italiana di Torviscosa ha fatto altrettanto sul torrente Meduna, presso Ponte Radi, ottenendo un invaso di altri 22 milioni di metri cubi. Le stesse società hanno in costruzione altri serbatoi, che raddoppieranno l’attuale disponibilità idrica del consorzio.

    Il canale irriguo De Dottori tra Ronchi e Redipuglia (Gorizia).

    Appoderamento nei comprensori di bonifica (Fossaiòli).

    Alla fine del 1958 risultavano irrigati circa 12.000 ha., ma altri 15.000 potranno aggiungersi a questi, quando saranno ultimate le opere in corso, cosicché si ritiene che la produzione lorda vendibile potrà essere quadruplicata rispetto al 1930. Particolare importanza ha il fatto che circa 1500 ha. consorziati sono stati rilevati dall’Ente delle Tre Venezie, per l’appoderamento di agricoltori profughi dei territori della Venezia Giulia ceduti alla Jugoslavia. L’ente ha provveduto alla costituzione di un centinaio e mezzo di poderi interamente irrigui, nelle zone Tornielli di Roveredo, Villotte di San Quirino e Dàndolo di Maniago. E questo finora l’esempio più razionale e meglio riuscito di trasformazione dei desolati « magredi » friulani.

    Vedi Anche:  Evoluzione demografica

    Un terzo consorzio di bonifica a scopo irriguo si è costituito nel 1950 nell’Agro Cormonese-Gradiscano, con una superficie consorziata di circa 8000 ha., compresa fra i fiumi Iudrio, Torre e Isonzo e le colline del Collio. Le acque deH’Isonzo, derivate sùbito a valle di Gorizia, saranno convogliate in un canale di 5 km., che scorrerà parallelo all’Isonzo, gettandosi nel Torre presso Villesse. E anche prevista un’utilizzazione idroelettrica presso il Monte Fortin con lo sfruttamento di un salto di circa 14 metri.

    Un ultimo consorzio irriguo comprende i terreni magri dell’Agro Monfalconese, fra i fiumi Isonzo e Timavo, il Carso e la linea delle risorgive. Tale consorzio è il più antico della regione, poiché la sua costituzione risale al 1865. Le acque dell’Isonzo furono derivate presso Sagrado in un canale principale di 10 km., denominato « De Dottori », che scorre alla base dei rilievi carsici, attraversa Monfalcone e sbocca nel canale navigabile Valentinis. Le opere, iniziate nel 1894, furono completate nel 1905, ma andarono in completa rovina durante la prima guerra mondiale. Vennero in sèguito ripristinate secondo i piani originari e servono oggi all’irrigazione di circa 4000 ettari. Recentemente il Consorzio Acque dell’Agro Mon-falconese si è fuso con quello di bonifica del Bràncolo.

    Nucleo aziendale nella Bonifica Vittoria (Fossalòn).

    Si può così constatare che quasi tutti i terreni aridi della regione sono ormai irrigati o in corso di trasformazione irrigua. La lacuna più rilevante è costituita dall’area compresa fra il Torre e il Natisone, che attende ancora di esser dichiarata comprensorio irriguo.

    Il maggior consorzio di bonifica a scopo prevalentemente idrovoro è naturalmente quello della Bassa Friulana, costituitosi nel 1929 con l’associazione di tutti i minori consorzi che si erano già precedentemente formati fra i fiumi Tagliamento e Torre-Isonzo, la « Stradalta » e la laguna. La superficie consorziata si aggira sui 70.000 ha., che presentano però caratteri idrologici molto eterogenei.

    Fra la « Stradalta » e la linea delle risorgive troviamo infatti una prima zona asciutta (9000 ha.), in cui sono necessarie opere irrigue mediante lo sfruttamento della falda freatica esistente a pochi metri di profondità. Una seconda zona comprende invece la fascia delle risorgive (19.000 ha.), diffusamente impaludata per l’affioramento delle acque freatiche, che danno origine ad alcuni fiumi, come lo Stella e il Corno, ed a numerose rogge. Questa zona è stata bonificata solo per la metà della sua estensione e presenta certamente le maggiori difficoltà, poiché si rende necessario molto spesso il prosciugamento meccanico. Una terza zona (21.000 ha.) si estende fra la precedente e quella circumlagunare, ma qui l’esistenza di un piano di deflusso rende possibile la bonifica mediante scolo naturale, cosicché è già stata risanata per almeno i due terzi della sua estensione. Infine vi è la quarta zona, circumlagunare (21.000 ha.), che si protende fino alla laguna e al mare, ed è stata ormai quasi del tutto bonificata mediante l’installazione di una ventina di impianti idrovori.

    Un grande contributo al risanamento di tutto il comprensorio, ed in particolare della zona, delle risorgive, è venuto dalla costruzione del Canale Cormòr, lungo 16 km., inaugurato nel 1955. Tale canale raccoglie le acque del torrente Cormòr, che proviene dall’anfiteatro morenico tilaventino e interrompeva il suo alveo al limite superiore del comprensorio, cosicché durante le piene spagliava le sue acque nelle paludi di Mortegliano, aggravando le condizioni idrauliche di circa 10.000 ha. di terreno. Ora il canale svolge anche la funzione di collettore generale delle acque nel vasto bacino che attraversa.

    I risultati conseguiti finora dalla bonifica della Bassa Friulana sono estremamente positivi, giacché hanno prodotto un aumento di circa il 15% della produzione lorda vendibile rispetto al 1930, hanno permesso l’appoderamento di numerose famiglie coloniche ed hanno portato ad un generale miglioramento delle condizioni igienico-sociali della zona.

    Minori consorzi di bonifica idraulica operano nella bassa pianura fra l’Isonzo e il Timavo. Di questi il più importante è quello del Bràncolo (3300 ha.), nel basso Agro Monfalconese, costituito nel 1927, in cui la trasformazione fondiaria è già stata portata a termine nel 1938. L’opera principale è un canale collettore navigabile di 5 km., che riceve le acque scolanti dal bacino superiore, incide la falda freatica sulla linea di risorgenza e riceve le acque estratte meccanicamente nel bacino inferiore.

    Non ancora ultimate sono invece le opere idrauliche del vicino Consorzio del Lisèrt (3900 ha.), sia per le particolari difficoltà tecniche e gli elevati costi della bonifica, sia per la situazione venuta a crearsi nel periodo 1947-54, quando il comprensorio fu diviso a metà dal confine politico fra l’Italia e il Territorio Libero di Trieste. Il subcomprensorio orientale, con le risorgive e la foce del Timavo, venne completamente risanato ad opera dell’amministrazione militare anglo-americana ed ospita oggi il Villaggio del Pescatore, alcune aziende agricole e la nuova Cartiera del Timavo. Nel subcomprensorio occidentale sono state finora sistemate solo le aree finitime al centro urbano ed alle industrie monfalconesi, ma si prevede un prossimo completamento delle opere, con il ripristino delle antiche terme romane. Fra l’altro è progettato anche il prosciugamento dei laghetti carsici di Doberdò, Pietrarossa e Sàblici, che presentano caratteri palustri, mentre la loro superficie potrebbe venir utilmente destinata all’agricoltura.

    I piani di bonifica montana, che sono ormai entrati nella fase esecutiva, prevedono invece la difesa dall’erosione delle acque mediante opere di sistemazione idraulica e di rimboschimento, il miglioramento dei pascoli e della viabilità rurale, allo scopo di risollevare le condizioni economiche generali dei comprensori, valorizzando le risorse e le possibilità deH’ambiente. Potrà così un po’ alla volta cessare il doloroso esodo delle popolazioni montane, che la miseria costringe ancor oggi a battere le incerte vie dell’emigrazione in contrade straniere.

    In conclusione possiamo constatare che tutti i terreni idraulicamente dissestati della regione sono ormai in avanzata fase di bonifica, cosicché molto presto potrà essere corretta anche questa grave deficienza dell’ambiente naturale.

    Le colture

    L’agricoltura giulio-friulana s’impernia sostanzialmente sulle colture alimentari che forniscono i prodotti indispensabili al fabbisogno della popolazione, mentre scarseggiano le colture industriali, generalmente più redditizie, che richiedono diverse condizioni economiche e sociali (vedi Tabella XIII). I raccolti sono però soggetti a notevoli oscillazioni annue, sotto l’influenza delle alterne vicende climatiche.

    Le colture fondamentali sono quelle cerealicole, che occupano la metà della superficie destinata alle colture erbacee e rappresentano due terzi del valore della loro produzione.

    Il cereale più diffuso è il granturco, chiamato localmente formentòn, che supera largamente per superficie e per produzione il grano, perchè soddisfa meglio le necessità alimentari delle famiglie rurali, a cui fornisce la farina per confezionare la tradizionale « polenta ». Ma soprattutto esso si adatta meglio del grano ai terreni grossolani dell’alta pianura e della collina, può essere coltivato fino ai 1000-1200 m. di altitudine, dove non arriva il grano, e sopporta più agevolmente il clima alquanto piovoso del Friuli. La sua coltura occupa una superficie corrispondente a un terzo di tutti i seminativi, dando, grazie alle nuove varietà americane, una produzione annua di circa 2 milioni e mezzo di q., in continuo aumento, che si classifica al quarto posto fra le regioni italiane, dopo la Lombardia, il Veneto e il Piemonte e corrisponde al 7,5% della produzione nazionale. La resa unitaria s’aggira sui 35 q. per ettaro ed è superiore alla media italiana. In provincia di Udine, pur senza che la superficie coltivata abbia subito notevoli variazioni, la produzione risulta raddoppiata negli ultimi cinquant’anni e la resa unitaria è passata dai 18 q. del 1908 ai 37 del 1958. Accanto alle colture primaverili, che forniscono oltre i quattro quinti del raccolto, ci sono anche quelle estive da avvicendamento (cinquantino), che servono all’ali-mentazione del bestiame.

    La coltura del granturco nelle colline dell’anfiteatro morenico, presso San Daniele.

    Il grano invece occupa appena un quinto dell’area dei seminativi ed è essenzialmente una coltura di pianura, poiché si spinge al massimo fino ai 500-600 metri. La sua produzione, piuttosto incostante, supera generalmente il milione di quintali, con una resa che s’avvicina ai 30 q. per ettaro, ed è costituita esclusivamente da grano tenero, per lo più della varietà San Pastore. In provincia di Udine la superficie coltivata è aumentata di un buon 50% nell’ultimo cinquantennio e la produzione è passata dai 320.000 q. del 1908 ai 1.127.000 del 1958, tanto che ora è sufficiente al fabbisogno friulano.

    Vigneto di recente impianto nella zona bonificata dell’alta pianura pordenonese (Villotte di San Quirino).

    Vigneto specializzato con palificazione in cemento, presso Pordenone.

    La rimanente superficie destinata alla colture avvicendate è distribuita fra la patata, la barbabietola, il tabacco, alcune piante oleaginose (colza, ravizzone, girasole) ed i cereali minori. Discreta importanza hanno anche gli orti, che si addensano soprattutto attorno ai principali centri urbani.

    La patata, introdotta nella regione agli inizi del secolo scorso dall’amministrazione austriaca, è coltivata soprattutto in montagna, dove supera non di rado i 1000 m. d’altitudine, ma entra pure nei piani di rotazione della pianura. Dà una produzione di. quasi 1.000.000 di q. all’anno con una resa unitaria che riesce a superare i 100 quintali. Nel Friuli la superficie coltivata si è triplicata in cinquant’anni, la produzione è passata da 211.000 a 815.000 q. e la resa unitaria da 35 a 109 q. per ettaro. È largamente usata nell’alimentazione umana, ma anche come foraggio per il bestiame.

    Coltura di meli, presso Pordenone.

    La barbabietola si è diffusa solo alla fine del secolo scorso ed è coltivata esclusivamente nella bassa pianura, con particolare riguardo alle zone recentemente bonificate. La sua produzione, che s’aggira sugli 800.000 q., è destinata per il 90% allo zuccherificio e per il resto all’allevamento del bestiame. In provincia di Udine la produzione è aumentata di dieci volte nell’ultimo cinquantennio, raggiungendo nel 1958 i 570.000 q., con una resa per ettaro che è fra le più elevate del Paese.

    Il tabacco, coltivato fin dal 1921, è pure diffuso nella Bassa Friulana, ma dà una produzione annua piuttosto modesta e stazionaria, che s’aggira sui 15.000 q. ed è costituita per 1’8500 dalla qualità scura.

    Le piante oleaginose sono state introdotte solo di recente nella Bassa Friulana e hanno già dato ottimi risultati, tanto che la regione detiene ora il primato per la produzione di semi di colza, con circa la metà di tutta la produzione italiana, come pure per i semi di girasole, che rappresentano addirittura i due terzi della produzione nazionale. Si tratta però di raccolti ancora modesti, che nel 1955-56 hanno appena raggiunto in media i 50.000 quintali.

    Fra i cereali minori una certa importanza ha la segale, coltivata nella regione montana, specialmente nel Tarvisiano e nella vai Canale dove le condizioni climatiche sono particolarmente favorevoli e persistono le tradizioni alimentari tedesche. Meno rappresentati sono invece l’avena e l’orzo, mentre è del tutto scomparso il riso, che prima della bonifica veniva coltivato in alcune zone paludose della bassa pianura.

    L’orticoltura ha avuto un grande incremento nel recente dopoguerra, come del resto in tutto il Paese, tanto che rappresenta un sesto di tutto il reddito agrario regionale. Si è sviluppata soprattutto nelle zone di bonifica perilagunari, dove ha acquistato notevole importanza la coltura del pomodoro, che negli ultimi dieci anni ha raddoppiato la sua produzione. Discreto rilievo hanno anche le colture dei cavoli, cavolfiori, poponi, cocomeri e legumi, diffusi questi soprattutto nella regione collinare e montana, dove si spingono fino ai 1300-1400 metri. Nel territorio triestino si segnalano poi le colture specializzate floreali, che occupano una trentina di ettari.

    Coltura del ciliegio nel Collio (San Floriano).

    Fra le colture legnose (vedi Tabella XIV) primeggia la vite, che è diffusa in tutta la regione collinare e di pianura, ma in modo particolare nelle colline eoceniche centro-orientali da Tricésimo a Cormòns e nel Muggesano, dove la viticoltura è la base insostituibile dell’agricoltura e si producono vini molto pregiati ed assai ricercati dal consumatore locale. Prodotti di un certo pregio si hanno anche nei terreni sabbiosi litoranei, oggetto di recente bonifica. In montagna la vite si spinge sporadicamente fino ai 600 m. d’altitudine nelle valli prealpine e nelle basse vallate alpine, ma spesso non giunge a maturazione e dà comunque un prodotto molto scadente, tanto che la coltura viene un po’ alla volta abbandonata.

    La superficie vitata è molto estesa, giacché supera i 100.000 ha., ma si tratta per il 93% di coltura promiscua. I vigneti specializzati sono però in notevole espansione.

    La produzione annua di uva oscilla attorno al milione di quintali, che vengono quasi totalmente vinificati, con una resa media di 700.000 hi. di vino, molto inferiore al fabbisogno regionale. In provincia di Udine la produzione si è raddoppiata negli ultimi cinquantanni, pur senza incrementi di superficie. Nel periodo interbellico si ebbe però una grave crisi a causa dell’imperversare della fillossera, che venne debellata con l’introduzione dei vitigni americani.

    Fra i vini regionali si segnalano il Malvasia, il Picolìt, il Pinot, il Prosecco, il Ramandolo, il Ribolla di Rosazzo e del Collio, il Riesling, il Sauvignon, il Tocai friulano e il Verduzzo fra i bianchi, mentre dei rossi emergono invece il Cabernet, il Merlot, il Refosco di Rauscedo e di Faèdis e il Terrano del Carso.

    Vedi Anche:  Aspetti antropici, economici ed itinerari turistici

    Il vino friulano ha purtroppo costi di produzione piuttosto elevati, per la scarsa produttività dei vigneti, i particolari sistemi di coltura e soprattutto a causa delle avversità climatiche, che rendono necessari numerosi trattamenti anticrittogamici. Perciò si temono le conseguenze della crisi nazionale di sovrapproduzione.

    Grande incremento hanno avuto in questo dopoguerra le colture fruttifere, che hanno assunto caratteri nettamente industriali, come del resto è avvenuto in tutto il Paese. Il primato spetta al pesco, particolarmente diffuso nelle aree di bonifica (Monfalcone, Cervignano e Latisana), che negli ultimi anni ha dato una produzione media di 70.000 q., mentre il ciliegio, coltivato soprattutto nel Goriziano, è arrivato appena alla metà. Minore importanza hanno il melo (vai Natisone), il pero ed il susino, che si trovano per lo più nelle zone collinari e montane.

    Una pianta legnosa diffusa un po’ dovunque è il gelso, che è coltivato non solo per l’allevamento del baco da seta, ma anche per fornire sostegno alla vite e per la produzione di legno. E più frequente in collina e nell’alta pianura, che sono le zone più tradizionali della bachicoltura, ma è in forte regresso, per la crisi che questa attività attraversa già da lungo tempo.

    L’allevamento del bestiame

    L’allevamento del bestiame è largamente praticato nella regione, ma soprattutto in Friuli, dove dispone in pianura di abbondanti colture foraggere, grazie alla diffusione della rotazione agraria, e in montagna di estesi prati e pascoli che occupano oltre la metà della superfìcie territoriale montana.

    Il patrimonio zootecnico costituisce il fondamento dell’economia agricola friulana, sia in montagna, dove l’allevamento bovino rappresenta ancora il cespite prevalente dell’azienda agricola, che in collina e in pianura, dove i bovini, malgrado il crescente impiego dei mezzi meccanici, sono non solo uno strumento di lavoro, ma anche una fonte di immediato sfruttamento per il fabbisogno alimentare. Una conferma di questa funzione la si può ritrovare nella rapidità con cui è avvenuto il ripopolamento delle stalle dopo le due guerre mondiali, che le avevano quasi completamente svuotate. Basti pensare del resto che i prodotti dell’allevamento costituiscono circa la metà della produzione lorda vendibile dell’agricoltura regionale, per un valore complessivo che s’aggira sui 30 miliardi di lire e corrisponde press’a poco al 3% del valore della produzione zootecnica italiana.

    L’agricoltura giulio-friulana presenta un quadro zootecnico molto composito essendo caratterizzata dalla presenza di tutti gli allevamenti principali, che hanno però un peso economico molto diverso e seguono diverse tendenze evolutive. Gli ovini e i caprini sono poco numerosi, e per di più in regresso, come accade in tutte le economie agricole in fase di sviluppo. I bovini e i suini sono invece i veri pilastri deirallevamento, ma il loro numero, piuttosto stazionario, denuncia una certa staticità delle strutture agricole, forse più apparente che reale, perchè alla decadenza deH’allevamento in montagna si contrappone l’incremento zootecnico della pianura, dove anche le rese unitarie del bestiame sono in costante ascesa, grazie alla selezione genealogica, al miglioramento del regime dell’alimentazione e delle condizioni igieniche delle stalle. Bisogna poi considerare che la consistenza del bestiame, specialmente di quello bovino, è soggetta a variazioni quantitative annue abbastanza considerevoli in sèguito alle alterne vicende climatiche che influiscono sulla disponibilità di foraggi, la cui produzione si mantiene al limite del fabbisogno regionale. Di ciò si deve tener conto soprattutto quando si passa ad esaminare lo sviluppo degli allevamenti nel tempo, poiché la linea evolutiva ne risulta spesso alterata.

    Stalla razionale di bovini della razza Pezzata Rossa Friulana nella Bonifica Vittoria (Fossalòn).

    L’allevamento bovino ha avuto in media, nel periodo 1955-57, una consistenza di 261.000 capi, di cui i tre quinti erano costituiti da vacche lattifere. Nel 1958 tale numero è sceso a 251.000 e figura al nono posto fra le regioni italiane, rappresentando però appena il 2,9% del patrimonio bovino nazionale. Nell’ultimo decennio si nota in complesso una contrazione del 12%, mentre invece in campo nazionale si è avuto un incremento del 6%. La densità del bestiame, che è di circa 40 capi per kmq. di superficie agraria-forestale, non è molto elevata, perchè è inferiore di un terzo alla densità del Veneto e della metà a quella della Lombardia.

    In montagna la razza dominante è la Bruna alpina, a duplice attitudine (carne e latte), introdotta verso la fine del secolo scorso e usata per il ripopolamento delle stalle dopo la prima guerra mondiale. Nelle Prealpi Carniche persiste però ancora la Grigia alpina, più piccola e meno produttiva, che però s’adatta meglio all’aspra morfologia ed ai magri pascoli prealpini. Nella vai Canale-Tarvisiano e nelle Prealpi Giulie è ancora diffusa la Mòllthal, razza lattifera che domina nella vicina Carinzia. In pianura si è ormai affermata la Pezzata rossa friulana a triplice attitudine (carne, latte e lavoro), derivata dalla Simmenthal svizzera, che a partire dalla fine del secolo scorso ha soppiantato la razza Friulana. Ad occidente del Tagliamento è ancora rappresentata la Grigia di pianura, pure a triplice attitudine, mentre nella Bassa Friulana è diffusa anche la Pezzata nera da latte.

    Il 93% patrimonio bovino regionale si trova nella provincia di Udine, che è l’unica delle tre in cui si può seguire lo sviluppo dell’allevamento nell’ultimo secolo. I 139.000 capi del 1869 aumentano lentamente fino a divenire 195.000 nel 1908. Gli avvenimenti bellici non lasciarono nelle stalle che 42.000 bestie, corrispondenti a meno di un quinto della consistenza prebellica. Nel 1930, annata di eccezionale siccità, i capi censiti sono solo 208.000, ma poi l’incremento continua, favorito dalla politica autarchica. Dopo la nuova parentesi bellica la fase di sviluppo culmina nel 1951 con 271.000 capi, cioè il doppio del patrimonio del 1869, ma poi comincia la flessione che è tuttora in atto. Una evoluzione molto diversa presenta però questo allevamento in montagna, dove si registra fin dalla fine dello scorso secolo una costante contrazione. Mentre infatti nel 1881 i capi censiti in questa regione agraria erano 56.000 e rappresentavano il 31% del patrimonio zootecnico provinciale, nel 1908 si erano ridotti a 50.000 e nel 1930 a 46.000, corrispondenti ad appena il 21% del bestiame bovino friulano. Tale tendenza è collegata con il fenomeno dello spopolamento montano e si è accentuata in questo dopoguerra con l’intensificarsi dell’emigrazione e lo sviluppo del turismo.

    La produzione regionale di carni bovine è stata in media nel periodo 1955-57 di 135.000 q. all’anno, ma è scesa a soli 124.000 q. nel 1958, in sèguito alla contrazione dell’allevamento. Tale produzione non è sufficiente a coprire il fabbisogno locale, a cui contribuiscono le regioni vicine e l’importazione dalla Jugoslavia.

    La produzione lattiero-casearia, che è invece in crescente aumento e soddisfa il consumo regionale, ha raggiunto nel 1958 i 2.900.000 q. di latte, corrispondente al 4,2% della produzione nazionale, figurando così al quinto posto fra le regioni italiane dopo la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Veneto e il Piemonte. I tre quarti del latte vengono trasformati in burro e formaggi da oltre 650 latterie sociali, in cui sono organizzati i produttori. E questo un magnifico esempio di cooperativismo rurale, ma purtroppo il frazionamento della produzione è eccessivo, a scapito dei costi e della qualità. Le latterie della provincia di Udine, che nel 1872 erano solo 3, sono salite a 263 nel 1903, a 540 nel 1931 e a 638 nel 1957, mentre il numero dei soci passava dal centinaio iniziale ai 61.700 attuali. Il formaggio prodotto è di tipo Montasio, piuttosto magro e salato, che non incontra molto il gusto del consumatore cittadino. Una parte della produzione casearia proviene anche dalle malghe in cui il bestiame viene monticato nella stagione estiva, secondo le tradizionali consuetudini dell’alpeggio, di cui diremo in sèguito.

    I suini sono pure molto diffusi in tutta la regione, per lo più in piccoli allevamenti domestici associati all’agricoltura. Nel periodo 1955-57 il numero dei capi si è aggirato in media sugli 87.000, saliti nel 1958 a 92.500, pari al 2,3% del patrimonio suino nazionale. Tenendo però conto che nel 1949 sono stati allevati ben 128.000 capi, è evidente anche qui una notevole flessione, che va messa in rapporto non solo con l’andamento sfavorevole del mercato, ma anche con il miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie rurali che non si assoggettano più ai sacrifici che tale allevamento richiede. In compenso però migliorano le rese unitarie e si sviluppa la tendenza alla ricostituzione della razza Nera da carne.

    L’allevamento suino è praticato soprattutto in pianura e nella regione collinare, con particolare riguardo alla zona dell’anfiteatro morenico del Tagliamento, dove San Daniele è rinomata per i suoi famosi prosciutti. Solo il 10% dei capi è distribuito nella regione montana, dove l’allevamento era quasi sconosciuto alla metà del secolo scorso.

    Il patrimonio suino è quello che nel corso dell’ultimo secolo ha avuto il maggiore incremento. Infatti nella provincia di Udine vennero censiti nel 1869 appena 30.000 capi, che risultavano triplicati già alla vigilia dell’ultimo conflitto. Tale allevamento è relativamente sviluppato anche nella provincia di Trieste, dove pareggia quello bovino.

    Gli allevamenti ovino e caprino hanno ora certamente un’importanza trascurabile nell’economia regionale, ma non fu così nel passato, quando il loro numero pareggiava quello dei bovini e i loro prodotti erano indispensabili alla vita della popolazione. Lo sviluppo dell’industria tessile da un lato e le conquiste dell’agri-coltura e della selvicoltura dall’altro hanno portato questi allevamenti ad un rapido declino che ha avuto inizio alla fine del secolo scorso e continua tuttora inesorabilmente.

    Il patrimonio ovino regionale è stato in media nel periodo 1955-57 di 16.000 capi, scesi a 14.000 nel 1958. Per rendersi conto del ritmo accelerato con cui avviene la depecorazione, basti considerare che nel 1949 le pecore erano più di 45.000, cosicché il loro numero si è ridotto ad un terzo in soli dieci anni. Ma nel 1881 nel solo Friuli vi erano almeno 81.000 ovini, di cui il 72% nella regione di pianura e di collina, dove numerosi erano i greggi vaganti. Oggi invece sopravvivono solo piccoli allevamenti poderali concentrati soprattutto in montagna, dove risiedono i due terzi del bestiame, e nella magra pianura ad occidente del Tagliamento, senza però che si verifichi alcuna transumanza.

    La pecora friulana è derivata dall’antica razza bellunese di Lamòn e non c’è differenza fra il tipo alpino e quello di pianura. In montagna però l’allevamento è stallino dall’autunno alla primavera e brado d’estate, quando le pecore vengono riunite in greggi e condotte ai pascoli più elevati, mentre in pianura la pecora viene mantenuta a vita stallina tutto l’anno. Inoltre nei due ambienti differisce la destinazione del latte, che in montagna viene lasciato all’agnello, mentre in pianura viene munto e lavorato a formaggio. La tosa viene effettuata due volte all’anno, all’inizio della primavera e dell’autunno, e dà in media una resa di 3 kg. di lana sucida, cosicché la produzione nel triennio considerato è stata di 27.600 kg. all’anno, scesi a 20.800 nel 1958. La produzione regionale è ora inferiore a quella di tutte le regioni italiane, ad eccezione della Valle d’Aosta.

    La lana veniva fino a qualche tempo fa lavata, filata e lavorata a maglia dalla famiglia stessa dell’allevatore, ma oggi la si porta quasi totalmente alle filature artigianali e ai lanifici di Udine, Codròipo e Cisterna di Spilimbergo, dove viene spesso ceduta in cambio di matassine già filate, in miscela con fibre sintetiche. Rinomata è la lana delle pecore di Sauris, ridotte ora a sole tre centinaia. Le pelli di agnello alpino erano un tempo molto richieste dalle confezioni francesi di guanti per il pregio delle buone dimensioni, ma oggi vengono lavorate per lo più nelle concerie di Udine.

    L’allevamento caprino ha una consistenza inferiore a quello ovino, ma presenta una maggiore importanza economica per la più abbondante produzione di latte, per cui è praticato soprattutto dalle famiglie rurali più povere della regione montana e collinare, che non sono in grado di tenere una mucca. Il numero dei capi è stato in media nel triennio 1955-57 di 10.500 unità ed è salito a 12.000 nell’anno seguente, grazie ad una maggiore tolleranza delle autorità forestali, a cui compete la vigilanza su questo allevamento, universalmente riconosciuto dannoso per i boschi. Diversamente da ciò che è accaduto per le pecore, la riduzione delle capre non è stata infatti un fenomeno naturale, ma è frutto di una deliberata politica forestale attuata su piano nazionale fin dalla fine del secolo scorso. Nel 1869 vi erano nella provincia di Udine circa 30.000 capre, ma nel 1930 il loro numero era ormai ridotto ad un terzo. Solo in questo dopoguerra si ebbe una certa ripresa, in considerazione di particolari esigenze economiche e sociali, tanto che nel 1950 il patrimonio caprino raggiunse le 23.000 unità, ma poi riprese l’azione di contenimento.

    Bovini al pascolo nell’altipiano del Cansiglio.

    L’allevamento equino, nonostante l’incremento della motorizzazione e della meccanizzazione agricola, mantiene le sue modeste posizioni, stabilizzato ormai sul livello di circa 23.000 capi. I più diffusi sono i cavalli, in numero di circa 16.000, che hanno in Friuli antiche tradizioni, giacché di essi scrissero già Polibio e Strabone, ed ebbero grande importanza nel passato, quando servivano alle guerre, oltre che ai trasporti. Oggi contribuiscono ai lavori agricoli di pianura e danno una discreta produzione di carne. La razza Friulana è però ormai in decadenza ed oggi i cavalli vengono importati soprattutto dalla Jugoslavia. Degli equini minori sono diffusi gli asini, usati soprattutto in collina, mentre sono rari i muli e i bardotti. Degno di rilievo è il fatto che, diversamente dalle zone vicine, gli equini mancano quasi del tutto in montagna, dove i trasporti avvengono ancor oggi a dorso d’uomo, o meglio di donna, con la tipica gerla. Ciò si spiega principalmente con il grande frazionamento della proprietà e la scarsa disponibilità di foraggi, che rendono poco conveniente l’uso dell’animale da soma.

    Vedi Anche:  Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone e Montefalcone

    Grande rilievo ha infine l’allevamento degli animali da cortile, fra cui spicca quello del pollame, favorito dalla coltura del granoturco e dalla diffusione del piccolo e medio podere.

    Il baco da seta

    Un’attività tutt’altro che marginale in Friuli è l’allevamento del baco da seta, che risale già al secolo XVI ed ha avuto in passato periodi di grande floridezza. La conferma storica dell’antichità di questo allevamento si trova negli stessi Atti del Parlamento della Patria, dai quali si apprende che nel 1505 vennero inviati ambasciatori alla Serenissima per ottenere che non venisse applicato il minacciato dazio sulla seta friulana. Un grande impulso alla sericoltura, tanto sul piano agricolo che su quello industriale e commerciale, venne dato nella prima metà del ’700 dall’udinese Antonio Zanon, per cui la seta friulana divenne conosciuta e apprezzata in Italia e all’estero. Nel 1762 l’Accademia Agraria Friulana registrò una produzione di 384.000 kg. di bozzoli, molto notevole per quei tempi, senza contare che la bachi-coltura era anche largamente praticata nel Goriziano. Nel periodo 1910-14 la produzione media annua era salita a ben 2.200.000 kg. e nel dopoguerra l’ascesa continuò con ritmo impressionante, malgrado il tracollo dei prezzi. Già nel 1924 vennero superati i 4 milioni di kg. e nel 1930 la produzione si stabilizzò sui 5 milioni.

    Dopo la parentesi bellica, le condizioni del mercato favorirono in un primo tempo la ripresa, tanto che nel 1947 venne toccata la produzione massima di oltre 5 milioni e mezzo di chilogrammi. Ma poi si fece sentire la grande crisi mondiale della seta, latente già da molti anni per la concorrenza delle nuove fibre artificiali e sintetiche ed aggravata dalla invasione di tutti i mercati da parte delle sete giapponesi e cinesi, dai prezzi notoriamente molto bassi. Tale crisi ha determinato una forte contrazione della produzione italiana di bozzoli, che è scesa dal livello prebellico di oltre 30 milioni di kg. ai 7 milioni del 1958. Nelle zone agricole più povere del Veneto e del Friuli la bachicoltura ha mantenuto però ancora livelli molto elevati, proprio per il suo carattere di attività economica fondamentale e non accessoria e per la diffusa sottoccupazione agricola, che non riesce a trovare altri sbocchi. Così in Friuli la contrazione è stata proporzionalmente minore di quella di altre regioni italiane, tanto che nel 1958 la regione ha dato una produzione di bozzoli di 1.678.000 kg. pari al 23% del totale nazionale e inferiore solo a quella del Veneto.

    L’allevamento del baco viene praticato abbastanza diffusamente in tutta la regione collinare e dell’alta pianura, ma è particolarmente intenso nelle colline dell’anfi-teatro morenico, dove il gelso ha condizioni di sviluppo più favorevoli e maggiore è la densità della popolazione rurale. Il numero delle famiglie interessate a questa attività si aggira attualmente sulle 20.000, contro una media di oltre 50.000 nei periodi normali. La campagna bacologica comincia alla fine di aprile, di solito il giorno di San Marco, e dura una cinquantina di giorni. Prevale nettamente la produzione dei bozzoli bianchi di origine giapponese e la resa s’aggira sui 77 kg. per oncia di seme allevato. La produzione media per addetto all’agricoltura è la più elevata che si registri in Italia e ci conferma il notevole contributo recato dai bachi all’economia regionale, soprattutto in rapporto al basso reddito individuale dei lavoratori agricoli.

    Le utilizzazioni forestali

    Il bosco, di cui abbiamo già largamente parlato nel capitolo sulla vegetazione, riveste ora appena il 19% della superficie regionale, ma questa percentuale corrisponde press’a poco a quella nazionale. Il manto forestale è però molto irregolarmente distribuito nelle tre regioni agrarie, poiché ricopre oltre i due quinti della superficie montana, mentre occupa appena un sesto del territorio collinare ed è del tutto trascurabile in pianura.

    Le latifoglie rappresentano circa la metà delle foreste regionali, estendendosi in collina e nella bassa montagna; un buon terzo è costituito dalle resinose, che dominano nella montagna più elevata, e il rimanente da boschi misti di resinose e latifoglie, che formano una fascia di transizione fra le due formazioni vegetali precedenti. Oltre la metà dei boschi sono governati a fustaia, mentre il resto è diviso fra i cedui semplici e composti. Meritano di essere segnalati per l’ottimo governo i boschi demaniali del Cansiglio e del Tarvisiano.

    Le utilizzazioni forestali avvengono di solito nella stagione estiva; gli alberi abbattuti vengono avviati a valle mediante teleferiche o scivoli, detti « risine » o « lisse », formati dagli stessi tronchi scortecciati, opportunamente disposti lungo assi di massima pendenza. Una volta a valle, il legname viene caricato sugli autotreni per il trasporto a destinazione, poiché ormai non si pratica più la fluitazione, molto diffusa fino ad alcuni decenni fa.

    Il duro lavoro dei boschi occupa qualche migliaio di montanari, che vivono per alcuni mesi in rudimentali « casoni » o « baite » di legno, in condizioni di notevole disagio.

    La massa legnosa utilizzata varia molto di anno in anno, a seconda delle condizioni di mercato, dei turni di rotazione e delle esigenze dei proprietari, fra cui prevalgono i comuni.

    Nel periodo 1955-57 i boschi giulio-friulani hanno dato in media all’anno 320.000 me. di legname, proveniente per il 96% dalla provincia di Udine, ma la produzione è in sensibile diminuzione, a causa degli eccessivi tagli effettuati nel periodo bellico e neH’immediato dopoguerra per le necessità della ricostruzione.

    Nel 1958 le utilizzazioni sono scese a 255.000 me. di legname, corrispondente al 2,5% della produzione legnosa italiana, con una resa media di 1,7 me. per ettaro, leggermente inferiore a quella nazionale. I tre quinti del prodotto vengono ricavati dalle fustaie, che dànno naturalmente una resa più elevata, mentre circa la metà proviene dai boschi puri di latifoglie.

    La foresta demaniale di Tarvisio, con sullo sfondo il Gruppo del Màngart.

    La produzione legnosa è costituita prevalentemente dalla legna da ardere (145.000 me.), proveniente in massima parte dal bosco ceduo, ma non è indifferente la produzione di legname da lavoro (110.000 me.), mentre è cessato da tempo l’uso della legna per la produzione del carbone vegetale. Il Friuli-Venezia Giulia non riesce però a coprire il suo fabbisogno di legname ed è costretto ad importare dall’Austria e dalla Jugoslavia.

    Analizzando la produzione del 1958 si può osservare che la maggior parte dei tagli è stata effettuata nei boschi di proprietà privata (118.000 me.), da cui però si è ricavato un prodotto inferiore a quello ottenuto su superfìci più modeste nei boschi comunali (101.000 me.) e demaniali (35.000 me.). Il legname da lavoro, che proviene per più di due terzi dalle resinose (abeti, pini e larici) e per il resto dalle latifoglie (castagni, faggi, pioppi e querce), è costituito per lo più da tondame da sega (68.000 me.), che concorre al 4% della produzione nazionale. Fra gli altri assortimenti spiccano il pezzame per pasta da cellulosa (11.500 me.), che rappresenta il 9% della produzione italiana, la paleria grossa e minuta (17.000 me.), il travame asciato e il pezzame per tannino.

    La produzione legnosa vendibile si aggira sui 4 miliardi di lire annue, corrispondenti al 3,5% del reddito forestale italiano e al 10% del prodotto netto dell’agricoltura giulio-friulana.

    Le foreste hanno quindi una discreta importanza nell’economia agricola regionale, senza contare poi la loro insostituibile funzione idrogeologica. La prevedibile flessione produttiva dei prossimi anni sarà largamente compensata dai nuovi rimboschimenti e dalle opere di miglioramento, che permettono di guardare con una certa tranquillità al futuro.

    La pesca

    La pesca si pratica da tempo remotissimo nelle acque dell’alto Adriatico, che sono notoriamente pescose per la concomitanza di vari fattori naturali, quali l’ampiezza della piattaforma continentale, la presenza di lagune e di correnti e l’afflusso di una notevole quantità di acque dolci, ricche di elementi nutritivi. Dopo l’ultima guerra però le possibilità di pesca si sono fortemente ridotte, in sèguito alla perdita delle acque territoriali istriane e dalmate e al raddoppiamento delle acque territoriali iugoslave. D’altro canto con l’afflusso dei pescatori profughi è aumentato di molto il numero di coloro che esercitano la pesca nelle acque del golfo di Trieste, cosicché si va incontro ad un rapido impoverimento delle risorse ittiche. Il miglioramento dei rapporti italo-iugoslavi ha reso però possibile la stipulazione di accordi bilaterali sulla pesca, per cui è stata ampliata l’area utilizzabile nel golfo di Trieste e sono state ottenute delle zone di pesca nelle acque territoriali iugoslave. Il problema è però ben lungi dall’essere risolto, in quanto necessiterebbe un vero e proprio sfollamento di pescatori, attraverso l’organizzazione di flottiglie pescherecce d’alto mare.

    Le risorse ittiche principali sono costituite dalle diverse varietà del cosiddetto pesce azzurro, come i sardoni, gli sgombri e specialmente le sardelle, nonché i cefali, di cui è famosa la tratta invernale nei bacini artificiali di Panzano, presso Monfalcone. Discreta importanza ha pure la pesca dei crostacei (aragoste) e dei molluschi, fra cui sono pregiate le ostriche, che nel periodo prebellico venivano anche esportate verso l’estero. Da novembre a marzo viene praticata la pesca rivierasca dei molluschi e dei crostacei, mentre nel periodo estivo le imbarcazioni si spingono a maggiore distanza per la pesca del pesce azzurro mediante reti a saccaleva e con fonti luminose. I motopescherecci di maggiore potenza si spingono fin nelle acque del medio Adriatico.

    La qualità e la quantità del pesce pescato variano molto di anno in anno, nè sono molto attendibili le statistiche. La produzione sbarcata nella regione si aggira in media nel periodo 1955-58 sui 62.000 q. annui, equivalenti ad appena il 3,3% del pescato nazionale. Poco più dei due terzi è costituito da pesce azzurro, un po’ meno di un terzo da molluschi, mentre scarsamente rappresentati sono i crostacei.

    Quasi metà del pesce viene sbarcato nel compartimento marittimo di Trieste che, nonostante la perdita di Monfalcone e Grado, che ora formano un compartimento autonomo, e dei porti istriani, ha raddoppiato la sua produzione rispetto all’anteguerra divenendo un notevole centro peschereccio. Possiede infatti una flottiglia di circa 750 imbarcazioni (1957), di cui 360 unità a motore, con una stazza lorda complessiva di circa 2500 tonn., mentre nel 1938 aveva appena 235 imbarcazioni, di cui solo 85 motopescherecci. Gli addetti alla pesca sono oltre tre migliaia. Oltre al porto di Trieste, sono basi operative i porticcioli di Muggia, Bàrcola, Grigliano, Santa Croce, Sistiana, Duino e del Villaggio del Pescatore, sorto alla foce del Timavo.

    Trieste: nella Sacchetta i pescatori stendono ad asciugare le reti.

    Il porto peschereccio di Grado.

    Il compartimento marittimo di Monfalcone dà una produzione leggermente inferiore a quella triestina, anche perchè dispone di una flottiglia peschereccia meno rilevante e più antiquata. Grado è il primo e più tipico centro peschereccio regionale e si dedica contemporaneamente alla pesca marittima e lagunare.

    Minore è invece la produzione della provincia udinese che si affaccia al mare solo in una ristretta zona corrispondente alla laguna di Marano ed alla foce del Tagliamento. Marano è però vivace centro peschereccio e conserviero, in cui prevale ormai la pesca intensiva di valle, molto più redditizia e meno faticosa di quella marittima. Le valli, che non mancano neanche nella laguna gradese, traggono profitto dalla possibilità di disciplinare la temperatura e la salsedine dell’acqua, in modo da rispondere meglio alle necessità biologiche dei pesci nei loro diversi stadi di vita. Ma la vallicoltura ha subito una notevole riduzione in sèguito allo sviluppo delle opere di bonifica.

    Il consumo regionale dei prodotti ittici è largamente superiore alle disponibilità locali, per cui si verifica un attivo commercio di importazione dall’Istria, dal Veneto, e da altri porti nazionali ed esteri.

    Il porto peschereccio di Marano Lagunare.

    Muggia. Il vecchio “ mandracchio ” e il castello veneto (secolo XIV) danno una suggestiva impronta a questa cittadina istriana.

    Il nuovo Villaggio del Pescatore, alla foce del Timavo.

    La caccia

    L’importanza economica della caccia è ormai molto modesta, tanto più che questa attività è oggi considerata piuttosto uno « sport » che una fonte di guadagno.

    Le riserve di caccia, in numero di ioi, coprivano nel 1958 una superfìcie di 81.770 ha., corrispondenti al 12,7% della superficie agraria-forestale. Si tratta di una delle percentuali più elevate del Paese, inferiore solo a quella della Toscana, prova evidente che l’attività venatoria è ancora molto in onore nella regione, in cui persistono consuetudini e regolamenti di origine austriaca. La maggior parte delle riserve si trovano in pianura, specialmente nella « bassa » e nella fascia lagunare, ma non mancano alcune buone riserve anche in collina e in montagna.

    Lo stuolo dei cacciatori è abbastanza notevole, poiché nel 1958 sono state convalidate oltre 12.300 licenze, ossia una ogni 100 abitanti. Rispetto al vicino Veneto, l’uccellagione con reti e con appostamenti fissi è poco praticata.

    La selvaggina è invece in continua riduzione, nonostante l’attiva opera di ripopolamento che nel 1958 era svolta in 15 zone per complessivi 15.760 ettari. Lepri e pernici, fagiani e cotorni, caprioli e camosci sono ancora abbastanza diffusi, ma le recenti vicende belliche, il crescente bracconaggio, il continuo aumento del numero dei cacciatori e la loro scarsa disciplina hanno fortemente assottigliato la selvaggina nobile stanziale. Va anche rilevato che numerose riserve sono andate perdute con il trattato di pace, di cui 208 nella sola provincia di Gorizia, che era rinomata per il suo patrimonio venatorio. Ora la selvaggina rimasta nelle 35 riserve della provincia è inferiore di almeno la metà a quella contenuta nelle stesse riserve nel 1939, mentre risulta inferiore dell’80% al patrimonio del 1914.