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Utilizzazione del suolo ed economia agraria e forestale

    Utilizzazione del suolo ed economia agraria e forestale

    Già nelle considerazioni sull’assetto socio-economico della popolazione è stato fatto un fugace accenno, parlando della sua distribuzione secondo i principali rami di attività economica, al continuo e forte decremento degli addetti all’agricoltura. Nel decennio fra i due ultimi censimenti il calo è stato sensibilissimo, anche se inquadrato nel fenomeno generale che ha coinvolto tutte le regioni italiane, oscillante tra la diminuzione massima del 46,8% nella Liguria e quella minima del 10,7% nella Puglia.

    Pur restando le forme di economia essenzialmente ancorate alla vita rurale, per lo più scarsamente evoluta, la popolazione agricola delle due regioni ha perduto in questo periodo ben 174.000 unità (Abruzzo -41,3%, Molise -31,6%), con i più sensibili decrementi nelle province di Pescara (-47,6%) e dell’Aquila (-45,4%). Queste cifre, rilevate nelle due province più dissimili fra loro, portano a individuare le radici del fenomeno in un duplice ordine di fatti contrastanti che conducono allo stesso epilogo: da una parte la creazione di nuove e più remunerative fonti di lavoro e di reddito mediante l’industrializzazione e la valorizzazione turistica, dall’altra lo scarsissimo dinamismo economico di tante plaghe montane e collinari, con il conseguente, massiccio esodo delle forze di lavoro quasi esclusivamente basate sull’agricoltura e la pastorizia.

    Così la deruralizzazione sta prendendo campo in regioni immutate per secoli, cambiando i tradizionali rapporti fra le varie attività, sulle quali domina incontrastata quella agricolo-pastorale : fra il 1951 e il 1961 la percentuale della popolazione agricola è passata dal 60,4 al 41,5% nell’Abruzzo, dal 75,7 al 62,8 nel Molise, mentre contemporaneamente si è manifestato un certo aumento negli addetti agli altri rami di attività. Ciò non toglie che la provincia di Campobasso conservi tuttora uno dei più alti indici di ruralità, il terzo in Italia subito dopo Benevento e Brindisi, mentre il più basso nelle due regioni è quello di Pescara (30%), unica provincia in cui la popolazione industriale (38%) ha ormai la prevalenza.

    L’assetto e i problemi dell’agricoltura nel passato.

    Già nella prima metà del secolo scorso nell’agricoltura abruzzese e molisana si ravvisavano quei difetti e quelle manchevolezze che per la maggior parte, di fronte a una moderna concezione economica, hanno assunto oggi un vero e proprio aspetto patologico. Già da allora veniva messo in chiara luce il grave, progressivo deterioramento dell’economia dovuto non solo alle vaste deforestazioni, ma anche « alle ingordigie di raccoglier poco e cattivo frumento sulle montagne » (Del Re). Da ciò derivava un costante depauperamento delle zone più elevate, nelle quali l’agricoltura si basava sullo sfruttamento di campicelli a scarsissimo reddito, mentre la crisi investiva anche i territori potenzialmente più ricchi — le colline subappenniniche e le grandi conche — danneggiati a regolari intervalli dal disordine idrologico, dovuto alla mancata sistemazione dei corsi d’acqua montani, e dalle frane.

    L’incuria regnava sovrana. I grandi fondivalle e la fascia litoranea erano quasi deserti per gli acquitrini, e la più fertile conca, quella di Sulmona, nella quale le possibilità d’irrigazione erano aumentate col restauro dell’antico canale di Corfinio, soffriva della insufficiente arginatura dei fiumi. Nella conca del Fùcino, chiamata allora di Celano, le acque del lago, pur in costante decremento da molti anni, invadevano spesso i terreni rivieraschi con esondazioni talora rovinose; e fu proprio a causa di una di queste, avvenuta nel 1785, che gli abitanti della zona, abbandonati i terreni bassi poco sicuri, iniziarono il diboscamento e la messa a coltura delle pendici del bacino. Nei tratti più alpestri, come nella valle dell’Aterno, specialmente fra L’Aquila e Montereale, erano ben manifesti i segni dell’eccesso delle colture montane su vaste superfici malamente diboscate.

    Le terre — pur vigendo dal 1806 la legge sull’eversione della feudalità — oltre a poche migliaia di ricchi possidenti, appartenevano ancora in gran parte al demanio, ai comuni, agli enti religiosi e, raramente coltivate dai proprietari, erano spartite fra i contadini con varie forme di conduzione. L’affitto predominava nell’Abruzzo aquilano e nel Molise, con contratti variabili da due a sei anni, mentre nel Teramano era già in vigore la colonia parziaria — talora anche perpetua — fatta eccezione per i vigneti e gli oliveti che, come pure nel Chietino, erano coltivati direttamente dai proprietari o concessi con speciali contratti. Nell’Abruzzo Citeriore la divisione dei demani aveva già notevolmente aumentato il numero delle proprietà, pur essendo assai scarsi i coltivatori diretti, che preferivano affidare i terreni ai contadini, abitualmente suddivisi in « socci » e « coloni ». I primi abitavano sui fondi variamente coltivati, con l’obbligo di dare ogni anno una parte dei loro prodotti (metà del mosto, due terzi delle olive, ecc.), mentre i coloni avevano soltanto il fitto delle terre a seminativo nudo, pagato con quantitativi di grano proporzionali alla produzione. I terreni dei comuni e delle Opere pie erano lavorati per lo più da contadini inamovibili, detti « azionari », che pagavano un terratico proporzionale all’estensione dei campi seminati, con diritto di subaffitto. Nel Molise erano molto numerosi (circa 24.000) i « mercenari », braccianti miserabili che per 6-7 mesi all’anno si recavano nella Capitanata o nella Terra di Lavoro a dissodare i campi, a mietere, a tagliare legna e a far carboni.

    La semina avveniva spesso su terreni non appropriati alla qualità del prodotto, su declivi troppo erti con esposizione talora sfavorevole, e le colture, senza alcuna recinzione, erano messe in pericolo dagli animali. Le rotazioni agrarie, molte volte pressoché inesistenti, erano praticate di regola col riposo a maggese ogni tre anni — nel Molise — o con l’avvicendamento del consueto grano con granoturco, orzo o avena. Perciò i terreni soffrivano di un progressivo isterilimento, non certo compensato da sufficienti concimazioni — effettuate sovente con il solo sterco dei greggi erranti — e aggravato dalla poca cura nell’estirpazione delle erbe infestanti. E di questo ne soffriva più che altro la produzione del grano, di gran lunga la più importante nella regione ma insufficiente, sia nell’Abruzzo aquilano che nel Teramano, tanto da dover essere integrata, anche per la panificazione, dal granoturco. Una maggior copia ne era prodotta nell’Abruzzo Citeriore, dove i quantitativi di grano eccedenti il consumo interno (un quinto all’incirca) venivano esportati a Napoli e nei paesi al di là dell’Adriatico. Pressappoco dal 1815 è iniziata un po’ dovunque la grande diffusione della coltura della patata — fino ad allora molto scarsa — soprattutto nelle zone interne e montuose; particolarmente pregiato era il prodotto della conca di Sulmona.

     

     

     

     

    Alla grande estensione di queste colture povere si può aggiungere una ben limitata utilizzazione del suolo per gli altri prodotti. I migliori oliveti si trovavano sulle colline marittime, da Penne al distretto di Vasto, a un’ampia zona attorno a Larino, e, nell’interno, nelle conche di Sulmona e di Capestrano e fra Paterno e Celano, sulla sponda del Fùcino. Alquanto differente fra una zona e l’altra era la produzione di olio: nel Teramano, dove le olive venivano colte, la produzione era buona e abbondante e dava luogo a un sensibile commercio di esportazione, mentre nel Vastese le olive abbacchiate davano un prodotto molto scadente. Come pure scadente era in tutta la regione il vino, anche se i vigneti erano abbastanza estesi nell’Abruzzo marittimo, soprattutto nel Chietino dove allora era stato introdotto il vitigno « Montepulciano ». In quel periodo si registrava un po’ dovunque un sensibile aumento degli alberi da frutta, specie in prossimità dei centri abitati; erano celebri i fichi dottati del Teramano, esportati perfino a Trieste e in Dalmazia. Attorno agli abitati erano abbastanza diffuse anche le « civaie », cioè le colture dei legumi, più che altro fagioli e fave e, in montagna, lenticchie (particolarmente buone, quelle coltivate alle falde del Matese). In molte contrade dell’Abruzzo Ulteriore si potevano trovare limitati appezzamenti coltivati a lino da seme, mentre la tradizionale coltura dello zafferano, scomparsa nel Teramano, si raccoglieva in ristrette aree nei bacini chiusi dell’altipiano aquilano (Navelli, Caporciano, San Demetrio ne’ Vestini) e intorno a Magliano dei Marsi. Poco sfruttate le bassure, per lo più acquitrinose: soltanto fra Pescara e Francavilla si potevano trovare pochi orti, mentre le colture di riso, un tempo abbondanti lungo il litorale aprutino e nel basso Trigno, erano ormai ridottissime a causa di una legge limitativa che tendeva a preservare quelle zone dai miasmi ; oltre a questo, sul litorale si trovava spontanea la liquirizia che alimentava le fabbriche di Giulianova e di Silvi.

    Questa era la situazione dell’agricoltura nelle due regioni circa un secolo e mezzo fa, e ritengo superflua qualsiasi altra considerazione sulle conseguenze umane ed economiche che da tale stato derivavano. Non credo però che ci sia qualcuno che in questa breve descrizione dei tempi passati non trovi purtroppo molte affinità con l’epoca attuale. E i rimedi tardano ancora a venire.

    Il regime fondiario e le forme di conduzione.

    Col decreto sull’eversione della feudalità del 1806 e con l’abolizione della inalienabilità dei beni ecclesiastici iniziò in tutto il Mezzogiorno quel processo di spartizione delle terre che se all’inizio non ebbe molto effetto a causa della parziale e distorta applicazione delle leggi e della materiale impossibilità di acquisto di terreni da parte di molti, ha portato in seguito a radicali cambiamenti, sia nel paesaggio che nell’economia della regione. Si può dire anzi che questo processo si sia spinto, nella maggior parte dei territori, al di là di un’armonica parcellazione dei terreni, fino al fenomeno opposto dell’eccessiva frammentazione, spesso addirittura polverizzazione, delle proprietà. Fenomeno che soprattutto sui terreni di montagna a mediocre fertilità è certamente più preoccupante dello stesso latifondo.

    La spinta iniziale verso l’evolversi della frammentazione fondiaria, che in un primo periodo non poteva che essere giudicata positivamente, fu data senza dubbio dalle conseguenze della grande emigrazione transoceanica, cioè dalla riduzione delle forze di lavoro e dalle continue, e talora cospicue, rimesse di denaro da parte degli emigrati. Già fra il 1807, anno della costituzione del Catasto per le province abruzzesi, e il 1907 l’estensione media della proprietà fondiaria si era dimezzata (da circa 7 ha. a 3,3), e possiamo ragionevolmente arguire che ciò sia avvenuto più che altro negli anni a cavallo dei due secoli, proprio in connessione con la fase di maggiore emigrazione. Si sa che in vent’anni, dal 1885 al 1905, i passaggi di proprietà per compravendita furono, soltanto nel Molise, più di 160.000. E gli anni che precedettero la prima guerra mondiale segnarono il disfacimento della media proprietà per la profonda crisi di quella classe di possidenti che vivevano basandosi sull’affitto delle terre, spinti dalla deficienza di capitali e dal rialzo dei salari per la costante diminuzione della mano d’opera, a indebitarsi e, successivamente, a vendere gran parte dei loro beni rustici. Il risultato fu allora un benefico rivolgimento sociale, con il grave colpo subito dalla ricca borghesia terriera, sostituita in breve volger di tempo dalla nuova classe dei piccoli coltivatori diretti, e con la conseguente emancipazione di larghe masse contadine. Soltanto nell’Abruzzo marittimo, e soprattutto nel Teramano, il sistema di conduzione a mezzadria, che allora poteva essere considerato evoluto, e il minore esodo di mano d’opera, limitarono la crisi dei proprietari terrieri e il conseguente smembramento delle proprietà.

    Su un quadro sociale così profondamente cambiato, le leggi fasciste limitative dei movimenti migratori sia verso l’interno che verso l’estero portarono un profondo turbamento. La permanenza obbligatoria in loco delle sempre crescenti forze di lavoro non permise il loro naturale deflusso, generando un’eccessiva congestione demografica su piccole aziende che a malapena potevano soddisfare le pure esigenze vitali della famiglia. La situazione si aggravò in seguito alla parallela frammentazione familiare, alla quale ancora oggi si può imputare una gran parte di colpa nella polverizzazione delle proprietà. Fenomeno quanto mai diffuso in ogni regione, caratteristico della società contemporanea, esso trova le proprie radici nell’ormai abituale disfacimento della famiglia patriarcale, base della popolazione rurale di un tempo. L’abbandono di questa antica forma di convivenza sociale ha portato e porta automaticamente alla frammentazione progressiva delle particelle fondiarie in seguito alle spartizioni ereditarie. E i danni che ne derivano sono cospicui, considerato, come scrive F. Orlando, « che le divisioni testamentarie non hanno alcun rispetto per le esigenze colturali nè è stato possibile l’avvento, sia pure fra fratelli, di forme cooperativistiche del tutto estranee al sentimento esclusivistico che della proprietà ha il contadino molisano », e ancor più quello abruzzese.

    Così l’assetto sociale e le possibilità economiche della classe dei piccoli proprietari, che avrebbe dovuto costituire il nerbo vitale per l’economia agricola delle due regioni, va progressivamente deteriorandosi con andamento irreversibile. Attualmente, se si escludono dal computo le grandi superfici delle proprietà demaniali e

    comunali — foreste e pascoli — l’estensione media delle proprietà agricole può essere stimata non superiore ai due ettari e mezzo.

    Dal censimento generale dell’agricoltura possono essere tratti i dati ufficiali più recenti, che rivelano appieno la gravità del fenomeno. Nell’Abruzzo quasi un quarto delle aziende — 40.023 su un totale di 162.479 — non raggiungono l’estensione di un ettaro, nel Molise la percentuale è alquanto inferiore: 16%, cioè 10.083 su 63.306. In ambedue le regioni il maggior numero di aziende — 37,2% in Abruzzo, 32% nel Molise — è compreso in un’ampiezza oscillante fra 1 e 3 ettari. Come nota l’Ortolani, « le condizioni della proprietà non mostrano differenze notevoli fra le varie subregioni geografiche: si può notare tuttavia che nell’alto Abruzzo si accentua il divario tra la polverizzazione della superficie lavorabile da una parte e la compattezza delle grandi aree da pascolo e da bosco (tenute dai comuni di montagna o dal demanio statale) dall’altra. Soltanto nel Teramano le solide proprietà di 10-50 ha. assumono una particolare rilevanza ». Ed effettivamente, in un raffronto fra le due province più dissimili come struttura agraria, cioè quelle dell’Aquila e di Teramo, vediamo evidenti tali differenze: se nella prima le aziende fra 5 e 20 ha. sono soltanto il 10,3% del totale, nella seconda le vediamo raggiungere il 32,6%. La situazione della montagna è quindi maggiormente precaria anche sotto questo punto di vista, tanto più se consideriamo l’estrema frammentazione anche in seno alle singole aziende, troppo spesso suddivise in numerosi, piccoli appezzamenti di terreno posti anche a notevole distanza l’uno dall’altro. Basterebbe citare le minuscole placche di humus, vere e proprie oasi colturali di alta montagna, disperse sulle scabre superfici calcaree, spesso al limite altimetrico delle colture. E riguardo a tale argomento ritengo opportuno riportare un brano del Gambi che, pur se riferito alla regione molisana dell’alto Trigno, può bene adattarsi anche altrove: «Una fra le cose di maggior risalto, nel quadro, è la mancata continuità superficiale fra zona e zona di uguale configurazione; è un segno della volontà umana per domare e far sue le condizioni naturali. Ma la natura qui non si lascia vincere facilmente, e ha reagito. La instabilità della popolazione nelle forme di vita è stata, in fondo, oggi come ieri, la sua rivendicazione. Si pensi: instabile in molti agri il coltivatore, il quale ora si porta in un campo, qui, ed ora in un altro campo là, a notevoli distanze e a diversa quota fra loro, e di ambedue ha bisogno, poiché uno gli dà produzioni di cui l’altro è meno idoneo o quasi sterile. Come l’antico pastore, instabile il recente coltivatore della zona più alta, fra diversi, minuscoli campi, già molto elevati e i pascoli, ove vive fra maggio e ottobre una mandra di cui egli non si può privare ».

     

     

     

     

     

     

     

     

    Il versante meridionale del Monte Campo, presso Capracotta, con le più alte colture di cereali (farro) miste ad aree di pascolo magro. Si notino le fasce cordonate di pietre a guisa di muretto, dovute allo spietramentro.

     

    L’area occupata dalle diverse aziende, considerate secondo la loro estensione, ci dà un aspetto del regime fondiario alquanto diverso dal precedente. Se quello ci ha posto di fronte a seri problemi di carattere sociale, questo invece serve a darci una prima idea dell’utilizzazione del suolo. Infatti si può notare anzitutto la grande area occupata dalle aziende con ampiezza superiore ai 50 ha., molto più estesa in Abruzzo (42%; nella provincia dell’Aquila 68%) che nel Molise (24,5%), dove i boschi e i pascoli sono molto più ridotti mentre le colture, conseguentemente alla morfologia meno accidentata e alla minore altitudine media della regione, occupano più vaste porzioni di territorio. In contrapposto le aziende fino a 5 ha., che sono il limite vitale dell’economia agricola di gran parte della popolazione, occupano nelle due regioni poco più di un quarto della superficie complessiva.

    Per ora a tali deficienze e sproporzioni ben pochi rimedi sono stati apportati. « Pure quella forma di ricomposizione spontanea — scrive la Simoncelli — individuata dall’indagine condotta sulle proprietà abbandonate dagli emigrati, le cui terre a titolo diverso vengono spesso affidate ai compaesani del fondo limitrofo, non consente, infatti, di prevedere un autentico rinnovamento quale sarebbe necessario si realizzasse ». Urge un programma di ricomposizione fondiaria, di cui abbiamo unico e probante esempio nel Fùcino, ma la realizzazione è tutt’altro che facile perchè ogni piano si trova a contrasto con gli interessi particolaristici e l’innato individualismo della popolazione rurale.

    La piccola proprietà si accoppia molto spesso alla conduzione diretta, che è il sistema prevalente, praticato nell’89% nelle aziende molisane e nell’82% di quelle abruzzesi, e corrisponde al 67 e al 40,3% delle rispettive superfici. Conferma, questa, delle differenze fondamentali nell’utilizzazione del suolo nelle due regioni, avvalorata anche dalla minima incidenza del numero delle aziende con salariati (3,4%) e della loro diversa importanza riguardo all’estensione totale (43,7% in Abruzzo, 23,5% nel Molise). Da ciò si ricava che se le aziende a conduzione diretta corrispondono ai terreni agricoli, quelle con salariati non possono che essere per lo più in rapporto con i boschi e i pascoli. Come risulta dall’esame dell’ampiezza delle aziende, così anche considerando i diversi sistemi di conduzione si notano differenze fondamentali fra l’Abruzzo montano e quello marittimo. E le più marcate sono indubbiamente fra le province dell’Aquila e di Teramo. Nella prima, la stragrande maggioranza delle aziende (ben il 95,7%) risulta a conduzione diretta, ma in contrapposto è alquanto mediocre l’area da esse occupata, che raggiunge soltanto il 30% — con una media irrisoria di 2,7 ha. per azienda — mentre l’esigua percentuale del 2,7% delle grandi proprietà (che spesso si identificano con le aziende) a conduzione con salariati riguarda più di due terzi della superficie totale. Nella provincia di Teramo l’organizzazione dell’azienda agraria subisce un’indubbia influenza dalle contigue Marche, con una notevole incidenza della colonia parziaria appoderata (mezzadria), ancora predominante se non come numero — 37% contro il 58% delle aziende a conduzione diretta — come superficie occupata (43%). L’ampiezza media di 7,7 ha. per azienda a mezzadria — pressoché immutata fin dal secolo scorso — testimonia anche senza commenti la tenue base economica e ci fa comprendere la crisi di questo sistema di conduzione, malgrado che esso resti per ora il meno negativo, sia per la razionalità e l’intensità delle colture, sia per il profitto che si può trarre dai terreni. E in effetti il vistoso spopolamento che colpisce da molti anni anche le colline del Teramano ne è una precisa conferma. A sud della Pescara la mezzadria decresce notevolmente, con una certa diffusione in aree limitate e discontinue, come quelle a vigneto specializzato del Chietino e quelle a più solida base zootecnica del Lancianese.

     

     

     

     

    Questi sono i cardini su cui si basa l’organizzazione dell’azienda agricola abruzzo-molisana: moltissime piccole aziende a conduzione diretta estremamente frazionate e in via di ulteriore polverizzazione, poche grandi aziende — più che altro foreste e pascoli — gestite in linea di massima dai comuni con un limitato impiego di mano d’opera salariale, un buon numero di poderi a mezzadria, decrescenti come densità dal Tronto al Trigno, nei quali si nota allo stadio iniziale quella crisi che ha ormai pienamente interessato tale sistema di conduzione in regioni più evolute. Altre forme, quali la colonia parziaria non appoderata e il fitto, sono da giudicarsi estremamente sporadiche, e quindi senza alcuna influenza sull’economia regionale; particolari contratti di affitto sono in uso, specialmente sui monti della Màrsica, per lo sfruttamento di boschi e di pascoli.

    Bonifiche e irrigazione. La riforma fondiaria.

    Già è stato accennato alle condizioni del litorale e dei grandi fondivalle subappenninici dalla seconda metà del Settecento all’inizio del secolo scorso, tratteggiate con chiarezza nelle opere del Galanti e del Del Re. L’allagamento periodico delle bassure da parte dei corsi d’acqua insufficientemente arginati e il permanere per tutto l’anno di zone acquitrinose rendevano malsane e spopolate vaste aree, senza che il decrepito regime feudale potesse intervenire a modificare la situazione. E malgrado l’interesse dei Borboni per il problema, ben poco fu fatto prima dell’unificazione: si ha notizia di uno studio per la sistemazione della piana di Venafro durante il periodo napoleonico, di una vasta opera di rimboschimento nei bacini del Sangro e dell’Aventino a valle di Palena, del prosciugamento — peraltro non condotto completamente a termine entro il 1860 — della piana di San Vittorino (alta conca aquilana) e degli stagni di Pescara.

    Così in una relazione presentata nel 1865 al Ministero dell’Agricoltura l’Abruzzo e Molise, entro i limiti amministrativi di allora, risultava occupato da ben 940 kmq. di paludi e di stagni prosciugabili (fra questi erano compresi i 140 kmq. del Lago Fùcino), dei quali soltanto 92 erano in corso di bonifica; assolutamente irrisoria era l’area dei terreni già bonificati (21 kmq.). E anche in seguito, fino a tutto il primo ventennio del nostro secolo, i lavori furono condotti sporadicamente, con sistemi non idonei e risultati poco apprezzabili, più che altro in connessione con la costruzione delle ferrovie e delle strade. Fa eccezione la grandiosa opera di prosciugamento del Fùcino — della quale parleremo compiutamente in seguito — portata a termine nel 1875. E la legge Baccarini del 1882, che enunciava un concetto più compiuto e razionale di bonifica — unendo inscindibilmente l’azione di prosciugamento delle paludi a quelle di sistemazione del bacino idrografico e di colonizzazione — ebbe nella regione ben scarsa applicazione. Ancora nel 1924 la malaria infestava vastissimi territori, soprattutto nel Molise dov’era diffusa su un’area di 1690 kmq. (38% della superficie totale), e in quell’epoca la bonifica risultava condotta a termine in aree limitatissime, quali il Vallone del Ponte presso la stazione di Vasto, una parte della piana di Venafro e il Pantano Basso, sulla sinistra della foce del Biferno. A queste zone poco dopo se ne aggiunsero varie altre, fra cui quelle litoranee di Martinsicuro, Giulianova e Pescara e quelle interne dell’altipiano torbifero di Campotosto, di Capestrano e di Bussi. Con la nuova legge del 1928 sulla bonifica integrale — che rielaborava e perfezionava la vecchia legge Baccarini — le zone da bonificare furono suddivise in comprensori e si costituirono i consorzi di bonifica e di trasformazione fondiaria. Tuttavia i risultati si rivelarono non adeguati agli sforzi, vòlti più che altro alla sistemazione idraulica con nuove arginature ai corsi d’acqua e la costruzione di canali di scolo, specialmente nella fascia litoranea.

    Vedi Anche:  Vie di comunicazione commercio e turismo

    Paesaggio agrario della piana di Venafro, la cui sistemazione ha avuto inizio nel periodo napoleonico.

     

    Dall’immediato dopoguerra gli interventi, dovuti essenzialmente alla Cassa per il Mezzogiorno, si ampliarono in un’azione rivolta non solo alla difesa dei territori dalle acque, ma anche alla loro messa a coltura intensiva mediante l’irrigazione e alla loro spartizione con la riforma fondiaria. In alcune zone i mutamenti sono stati sensibili: si può portare come esempio la Val Pescara, il cui comprensorio, all’inizio dell’intervento della Cassa (1950), era completamente sprovvisto di impianti irrigui, mentre oggi l’irrigazione può essere praticata su oltre 4000 ettari. E utili opere sono state compiute nella conca peligna e lungo i bassi corsi dell’Aterno a valle di San Demetrio ne’ Vestini, dell’Aventino, del Sangro e dei fiumi molisani. Nella conca di Sulmona, dove la pratica dell’irrigazione ha tradizioni antichissime, il fatto che i terreni irrigati in modo continuativo siano ben 5800 ha., oltre a un migliaio che ricevono l’acqua saltuariamente, farebbe pensare a una più elevata produttività della zona. Ma ad essa nuoce molto l’irrazionale utilizzazione delle acque per la mancanza di una qualsiasi adeguata sistemazione dei terreni — nei quali troppo spesso il metodo di irrigazione a scorrimento diviene in pratica a sommersione — e per le notevolissime perdite (fra il 20 e il 50%) che si verificano sia nella rete di adduzione sia in quella di distribuzione, costituita per lo più da mediocri canaletti in terra battuta. Fra Tèrmoli e Campomarino, dopo la sistemazione dei corsi d’acqua, sono state impiantate pompe idrovore per difendere i vigneti e gli orti del litorale. Nella fascia costiera del Biferno sono stati messi a coltura e spartiti più di iooo ha. di terreno, per i quali è stato costruito di recente il borgo di servizio di Nuova Cliternia; e la diga di Ponte Liscione sul Biferno, in stato di avanzata costruzione, servirà presto a formare un altro importante bacino idrico che estenderà grandemente l’area irrigua della zona di Larino e del litorale. Così sarà messo riparo a quella che i molisani ritengono la più recente delle ingiustizie: il vasto lago di Occhito (ben 12 kmq.), formato da uno sbarramento nell’alta valle del Fortore. Appartenente per metà al Molise, del quale costituisce per una diecina di chilometri il confine con la Puglia, esso si avvale di un cospicuo bacino imbrifero (oltre 1000 kmq.) in buona parte molisano, ma la regione non ne ricava alcun vantaggio dato che le acque vengono incanalate — anche attraverso un tratto in galleria — per l’irrigazione del Tavoliere.

    Colture irrigue intensive nella piana di Sulmona. Nello sfondo, la nuda Montagna del Morrone.

    Nei comprensori non si agisce soltanto con lo scopo delle sistemazioni idrauliche e delle irrigazioni nei territori più bassi ; in montagna gli interventi sono vòlti — come è il caso del comprensorio di bonifica montano dell’alto Sangro — anche al rimboschimento e alla sistemazione dei pascoli, che spesso hanno subito un processo di degradazione.

    Ma uno degli esempi più vistosi, e non solo nella regione, che riguarda sia un radicale mutamento dell’ambiente naturale sia la particolare evoluzione sociale ed economica della popolazione in una vasta area montana, è la conca del Fùcino. Il grande lago che la riempiva — di gran lunga il più vasto dell’Italia peninsulare — fonte di vita per le antichissime genti fino dalla preistoria, costituì un problema di difficile soluzione già dai tempi di Cesare. Infatti le sue piene, talvolta rovinose perchè le acque non avevano una via di smaltimento superficiale, costringevano gli abitanti a una vita precaria nelle loro sedi rivierasche. Tale precarietà e la considerazione delle ripercussioni benefiche che avrebbe avuto la messa a coltura di un’area così vasta, spinsero l’imperatore Claudio ad accingersi per primo alla grande impresa del prosciugamento. All’uopo fu scavato nelle rocce del Monte Salviano un emissario sotterraneo che, attraverso i Campi Palentini, portasse le acque al Liri, presso l’attuale Capistrello. La grandiosa opera, inaugurata nell’estate del 52 con una naumachia, ebbe in seguito alcune modifiche, con un ulteriore approfondimento dell’emissario. Non si può precisare per quanto tempo esso sia rimasto in piena efficienza; sappiamo di alcuni lavori di miglioramento dovuti a Traiano ed ad Adriano e conserviamo scritti nei quali si parla della grande ricchezza di queste terre, che diventarono ben presto sede di floride colonie agricole. Nel medioevo l’emissario, abbandonato a se stesso, cessò di funzionare, e le acque infide invasero nuovamente la conca. Malgrado i tentativi fatti sotto Federico II, Alfonso I, Ferdinando IV e Giuseppe Bonaparte, si dovette attendere la metà del secolo scorso per vedere iniziare i lavori non più allo stadio sperimentale ma con regolare concessione da parte del governo.

    Campi irrigati nella valle dell’Aterno, presso Fossa, dominati dal dosso calcareo isolato del Monte Cerro.

     

     

     

    Laghetto collinare fra San Martino in Pènsilis e Ururi.

     

    Nel 1852 fu costituita una società per azioni nella quale il duca Alessandro Tor-lonia sottoscrisse per la metà dell’ingente capitale. Ma le gravi difficoltà tecniche e burocratiche portarono quasi al fallimento l’impresa, fino a che il Torlonia, con notevole atto di coraggio, si addossò ogni responsabilità acquistando l’altra metà delle azioni e chiedendo come contropartita la proprietà delle terre che sarebbero state prosciugate. L’emissario Torlonia, lungo ben 6342 m., fu scavato seguendo l’andamento di quello claudiano, con la differenza di una maggiore dimensione e di una presa d’acqua più bassa, che avrebbe permesso il completo prosciugamento. Le basi dell’apparato di bonifica sono due: l’Incile e il Bacinetto. Il primo è l’inizio dell’emissario sotterraneo che ci appare fra la folta vegetazione come un imponente edificio a chiuse sormontato da una grande statua della Madonna. Il secondo è il bacino di ritenuta, chiuso da una diga a forma ellittica sulla quale si sviluppa una strada lunga quasi 18 km.; può contenere fino a 55 milioni di metri cubi d’acqua, nel caso che vi sia l’esigenza di lavori di restauro o di modifica dell’emissario. Fra i due si sviluppa rettilineo il lungo canale collettore in direzione ovest-est, tagliato perpendicolarmente da numerosi canali distanti l’uno dall’altro un chilometro. Ai margini del bacino fu tracciato il Canale Allacciante, detto anche « Grande Cinta », nel quale confluiscono i corsi d’acqua che prima alimentavano il lago. La gigantesca impresa del prosciugamento fu portata a termine nel 1875, ma i lavori di bonifica all’interno proseguirono per oltre un decennio. L’alveo prosciugato fu diviso in 497 appezzamenti di 25 ha. ciascuno e fu distribuito a numerosissimi coloni giunti non solo dalle montagne abruzzesi, ma anche dalle Marche, dalla Romagna e dal

     

     

     

     

     

     

    Veneto. Soltanto 2500 ha. furono ceduti come compenso ai comuni rivieraschi ed a privati.

    Il prosciugamento del Fùcino ebbe una grande influenza sulle attività e sul tenore di vita della popolazione: fu molto sviluppata la viabilità, le colture furono distribuite razionalmente, fu valorizzato l’allevamento ovino; la meccanizzazione, sconosciuta fino ad allora, fece la sua comparsa con le trebbiatrici a vapore. Unico effetto negativo, oltre alla perdita dell’ampio lago che avrebbe certamente in seguito richiamato forti correnti turistiche, è stata una certa variazione nel clima, non più mitigato dalle acque; ne è prova evidente la scomparsa degli olivi che abbellivano un tempo le ultime pendici esposte a mezzogiorno. Nei primi anni del nostro secolo proseguì l’opera di appoderamento, di miglioramento delle colture e di costruzione delle abitazioni rurali, in verità più simili a baracche che a case. A quest’epoca risalgono i primi tentativi di coltivazione della barbabietola da zucchero, che si rivelò poi così redditizia da stimolare la costruzione del grande zuccherificio di Avezzano finanziato da una società italo-tedesca. Ma la popolazione cresceva a dismisura, e lo sviluppo economico subì una stasi e una successiva involuzione per il progressivo smembramento delle particelle fondiarie; si giunse così in breve a un generale impoverimento dei sempre più numerosi agricoltori, a causa dei magri redditi ricavati ormai dalle minuscole unità poderali. Il disastroso terremoto del 1915, la prima guerra mondiale, la noncuranza del governo fascista per sì pressanti problemi sociali ed infine le rovine dell’ultima guerra, portarono la regione ad essere una delle più depresse dell’Appennino centrale.

    Nel 1951 fu istituito l’« Ente per la Colonizzazione della Maremma e del Fùcino », con un vasto programma di radicali opere di bonifica e di trasformazione fondiaria, in modo da reinserire positivamente la regione nell’ambito nazionale. La situazione era a quei tempi piuttosto allarmante: la proprietà dei prìncipi Torlonia, di circa 14.000 ha., aveva su oltre 4/5 dei terreni quasi 10.000 affittuari; le particelle colturali erano 29.000, e il 73% di esse non superava l’ampiezza di mezzo ettaro. L’enorme sperequazione fra l’area totale dei terreni coltivabili e la densità della popolazione agricola portava inevitabilmente alla disoccupazione e alla sottoccupazione. Cosi tale proprietà fu interamente espropriata, ed ebbe subito inizio la ricomposizione fondiaria, che nel giro di pochi anni ha fatto discendere il numero delle particelle colturali a meno di 9000.

    Nel 1954 il comprensorio del Fùcino fu svincolato da quello della Maremma tosco-laziale, con la costituzione dell’attuale « Ente Fùcino » che ha sede ad Avezzano. Naturalmente l’azione non è rivolta soltanto nel senso della riforma e dell’assegnazione ai contadini di appezzamenti a riscatto. Finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno, l’ente mira al potenziamento delle molteplici attività economiche con una nuova rete di canali di irrigazione, con l’uso sempre più largo dei concimi chimici e una sempre più forte meccanizzazione (nel 1966 c’erano 1200 trattori, cioè uno ogni 15 ha. di seminativo), con la costruzione di borghi rurali, con l’abbinamento dell’agricoltura alle industrie di elaborazione dei prodotti stessi. I risultati non si sono fatti attendere: nel decennio fra il 1951 e il 1961 la produzione lorda è quasi raddoppiata e il reddito ha avuto lo straordinario aumento del 112%. Mediante il perfezionamento della tecnica colturale, la produttività del grano è passata da 23 a 45 q. per ettaro (1951-1966), quella della barbabietola da zucchero da 260 a 650, quella della patata da 140 a 280, tanto per ricordare i maggiori prodotti della conca; ed estremamente redditizia è risultata la recente introduzione della carota su 200 ha. a causa della elevatissima resa unitaria (600 q. per ha.). La rete di scolo delle acque è stata estesa per 276 km. di canali e le strade, alcune delle quali asfaltate — per esempio, quella che da Case Incile, attraverso Borgo Ottomila, porta a San Benedetto — hanno ormai uno sviluppo di più di 270 chilometri. Dal sottosuolo è stata tratta l’acqua sufficiente a irrigare un’area di oltre 6500 ha., mentre alcuni progetti di espansione e irrigazione prevedono la costruzione di bacini montani. Sui rilievi circostanti vengono frattanto consolidate le superfici franose o nude con il rimboschimento, come quello attuato sul Monte Salviano, presso il valico che da Avezzano conduce ai Campi Palentini. A proposito di questi, fino a poco tempo fa trascurati, vi è stata bonificata un’area di circa 10.000 ha., e molti lavori sono tuttora in corso.

     

    Ma tutte queste attività sarebbero lacunose e sterili senza una particolare attenzione vòlta alla valorizzazione della popolazione stessa. E per questo che vengono tenuti numerosi corsi professionali agrari e che si è garantita un’efficiente attività dei nuclei di assistenza sociale, tecnica ed economica per le aziende. Molto importante è ad Avezzano l’Istituto Professionale di Stato per l’Agricoltura, passato da in studenti nel 1957 a 1162 nel 1964, dal quale dipendono 9 scuole per esperto coltivatore e per massaie agricole, decentrate anche al di fuori della Màrsica (Balsorano, Capestrano, ecc.). Particolare importanza hanno le cooperative, che possono difendere la produzione dalla concorrenza esterna e stimolano alla specializzazione nella lavorazione dei prodotti; già ne è stato raggiunto il numero di circa 50 (con ben 6500 soci), che ha permesso, fra l’altro, l’istituzione di uno dei più importanti centri nazionali di moltiplicazione delle patate da seme, al quale in seguito se n’è aggiunto un altro della Federconsorzi.

    Riguardo all’industria abbinata all’agricoltura, il vecchio zuccherificio era ormai insufficiente per il grande incremento della produzione delle barbabietole. Siamo infatti passati da un totale di 816.000 q. nel 1951 a 2.363.000 nel i960. Dopo avere ampliato lo stabilimento, triplicando così la sua possibilità produttiva, si è resa necessaria la costruzione di un altro presso Celano, che è attivo dal 1961 e può produrre 100.000 q. di zucchero all’anno. L’utilizzazione dei pioppi da parte della cartiera di Avezzano ne ha fatto crescere notevolmente il numero, tanto più che essi servono anche da frangivento. La presenza di aree a vigneto specializzato, soprattutto sulle pendici a solatìo, ha stimolato il sorgere di cantine cooperative, delle quali la principale è quella di Paterno, presso Avezzano. A San Benedetto, Avezzano e Luco dei Marsi si trovano anche grandi magazzini per la conservazione delle patate, mentre una delle realizzazioni più recenti è, presso Avezzano, un importante caseificio. Rimane infine da aggiungere che l’Ente Fùcino si è mutato dal 1966 in « Ente di sviluppo per l’Abruzzo », che ha come compito essenziale l’incremento della zootecnia, mediante la cernita e l’adattamento di razze selezionate alle caratteristiche ambientali.

    L’utilizzazione del suolo.

    Anche se la superficie agraria e forestale ricopre le due regioni con un manto quasi continuo (dal 96,4% dell’intero territorio nella provincia dell’Aquila al 94% in quella di Pescara), prendendo in considerazione soltanto i terreni messi a coltura vediamo risaltare ancora una volta il vivo contrasto tra l’Abruzzo montano e quello marittimo. Infatti nelle province adriatiche i terreni sfruttati per l’agricoltura raggiungono i quattro quinti dell’area totale — come all’incirca nel Molise — mentre nella provincia montuosa e interna dell’Aquila questi equivalgono pressappoco a un terzo: da una parte quindi l’ambiente è più che favorevole allo sfruttamento agricolo, dall’altra siamo di fronte a una delle plaghe più povere di terreni coltivabili di tutta quanta l’Italia. L’utilizzazione del suolo presenta quindi tra un settore e l’altro delle due regioni nette differenze, anche se tra le colture vediamo dominare un po’ dovunque il frumento. E su queste differenze influiscono in modo determinante da una parte i tratti boschivi e a pascolo, secondo la loro ampiezza e continuità, dall’altra il rapporto fra il seminativo in genere (e in particolare il frumento) e le colture legnose.

    I seminativi hanno la più ampia diffusione (fra il 66 e il 69% della superficie agraria), fatta eccezione per l’Abruzzo aquilano (28,6%), ma per essi, a seconda della coltura prevalente, l’utilizzazione del suolo può avere diversità sostanziali. Il Molise per esempio, occupa il primo posto fra le regioni italiane per l’ampiezza relativa della superficie produttiva coltivata a cereali (44,2%), mentre assai limitate sono le foraggere (10,8%). Ben diverso è il rapporto fra cereali e foraggere nel Sub-appennino Aprutino — Teramo, rispettivamente, 29 e 24%, Pescara 30 e 27% — mentre il Subappennino Frentano appare come una zona di transizione fra il Teramano, nel quale troviamo un riflesso degli avvicendamenti colturali delle Marche, e il Molise, nel quale si anticipano le grandi colture cerealicole del Tavoliere con il maggese, che spesso sostituisce ancora le più evolute rotazioni dell’Abruzzo marittimo.

     

    Un altro evidente segno di diversa evoluzione agricola è la distribuzione del seminativo nudo rispetto a quello arborato. La policoltura, tipica delle aree a prevalente mezzadria, si espande da nord sulle colline subappenniniche, pressoché ininterrotta fino al Sangro, esprimendosi nel paesaggio agrario con il seminativo arborato — associato a olivo, vite, alberi da frutto — mentre le colline frentane fra il Sangro e il Trigno rappresentano il trapasso alle vaste distese di seminativo nudo che occupano gran parte del basso Molise. Dal Tronto alla Pescara si riconnette a questo paesaggio collinare variamente coltivato il bordo estremo della fascia litoranea, ormai quasi del tutto riservata alle colture orticole irrigue, che penetrano assai profondamente anche negli ampi fondivalle e divengono, più a sud, assai sporadiche.

    Fra i cereali, di gran lunga il più diffuso è il frumento, che occupa una superficie di 184.000 ha. in Abruzzo e 122.000 nel Molise, seguito dal granoturco, più esteso nel Molise (47.500 ha.) che nell’Abruzzo (37.500 ha.). Degli altri, degna di considerazione è soltanto l’avena, che supera i 10.000 ha. di estensione nel Molise, mentre la più scarsa superficie occupata in Abruzzo appartiene quasi completamente alla provincia di Chieti (4500 ha.). La coltura del frumento era un tempo ancora più estesa, aggirandosi, negli anni che seguirono l’unificazione, sui 380.000 ha., ma il grande esodo migratorio a cavallo dei due secoli portò anche la conseguenza di una sensibile riduzione di questa coltura, soprattutto là dov’era praticata soltanto per le immediate esigenze della popolazione locale; e se il governo fascista, con la cosiddetta « battaglia del grano » ne fece nuovamente aumentare l’estensione, dopo l’ultima guerra molte aree montane a scarso reddito sono state definitivamente abbandonate.

    Fra i seminativi, grande estensione occupa anche la coltura della patata: 37.500 ha. in Abruzzo (di cui 24.500 nella provincia dell’Aquila) e 51.500 nel Molise dove, insieme al granoturco, essa è servita a sostituire in buona parte il maggese come pianta di rinnovo. Le aree maggiori sono il Fùcino e l’alto Molise, fra Capracotta e Pescolanciano, mentre nell’Abruzzo marittimo e nel basso Molise viene praticata la coltivazione mista.

    Oltre al granoturco e alla patata si trovano come piante da rinnovo nel Subap-pennino abruzzese e nel Molise le leguminose alimentari, soprattutto il fagiuolo e la fava. L’area ricoperta dalle colture di fagiuoli — da granella, poiché il legume fresco è molto limitato, misto con le altre colture di necessità immediata nei piccoli appezzamenti familiari disposti intorno agli abitati — è particolarmente estesa nel Molise (36.000 ha.), ma abbastanza diffusa anche in Abruzzo, dove 11.000 ha. su 17.000 si trovano nella provincia di Chieti. Favorita, come del resto nella maggior parte della penisola, dalle condizioni ambientali, la coltura si estende sempre più, associata al granoturco, ma esige abbondanti concimazioni, avendo un’azione depauperante sui terreni. Caratteristica opposta hanno le fave (anch’esse da granella), che arricchiscono di azoto il suolo preparandolo così nel miglior modo ad ospitare il frumento; è incomprensibile quindi il poco uso che si fa della pratica del sovescio, eccellente al riguardo. La superfìcie occupata da questa leguminosa è molto più ridotta della precedente, comunque anch’essa assai superiore nel Molise (17.000 ha.) che nell’Abruzzo (13.000 ha.).

     

    Grande importanza hanno i prati avvicendati, in stretta connessione con l’allevamento dei bovini. L’area da essi occupata si avvicina molto in Abruzzo (170.000 ha.) a quella del frumento, mentre nel Molise (64.000 ha.) corrisponde a poco più della metà. Di introduzione alquanto recente, le colture foraggere — prima la lupinella e la sulla, poi l’erba medica e il trifoglio — hanno gradualmente, fin dall’ultimo scorcio del secolo scorso, sostituito i terreni a riposo, che si basavano soprattutto sul maggese. I mutamenti più cospicui sono avvenuti senza dubbio nell’area subappenninica, nella quale l’allevamento bovino ha assunto una certa importanza, e soprattutto nella provincia di Teramo, dove la superficie delle foraggere avvicendate — per lo più erba medica e trifoglio — supera di gran lunga (75.800 ha.) quella coperta dal frumento. « Le foraggere restano in media sul terreno per un paio d’anni consecutivi, come colture fuori rotazione. La durata è più lunga nel Teramano e nel Molise, più breve nel Chietino e nella Val Pescara. Le differenze che si notano nella durata del prato sono dovute alla sua diversa composizione: questo nel Teramano e nel Molise è dominato dal verde cupo dei medicai che conviene lasciare due o tre anni sul terreno; viceversa nel Chietino si rimane fedeli alla sulla, dai caratteristici toni rossi e violacei, la quale dopo circa un anno fa un ceppo legnoso che conviene estirpare. Nel Pescarese s’avverte forse una certa maggiore varietà di composizione: medica nei piani inferiori e trifoglio pratense in montagna » (Ortolani). L’Abruzzo aquilano, anche se particolarmente deficiente di foraggere (21.000 ha.), conserva in più della metà dei prati avvicendati la tradizionale lupinella. Scarsa rilevanza hanno infine, in ambedue le regioni, gli erbai, sia annuali che intercalari.

    La più tipica coltura arborea consociata al seminativo è indubbiamente l’olivo, che trova sulle colline subappenniniche condizioni assai favorevoli al proprio sviluppo, mentre all’interno si arresta bruscamente nelle plaghe marginali lambite dall’influenza mitigatrice del mare: le conche di Sulmona e di Capestrano, verso l’Adriatico, e la Val Roveto, al di là dei grandi massicci appenninici. Nell’Abruzzo montano i lunghi rigori invernali sono invece sopportati dal mandorlo, che si è bene adattato all’ambiente, prosperando sugli altipiani aquilani — Barisciano, Tussio, Navelli, ecc. — e raggiungendo limiti altimetrici molto elevati: circa 1300 m. fra Calascio e Santo Stefano di Sessanio. Poca rilevanza hanno le aree a olivicoltura specializzata, che raggiungono a malapena gli 8500 ha. e trovano il loro habitat preferito sulle pendici collinari spesso dominate alla sommità da antichi borghi, come attorno a Loreto Aprutino, a Città Sant’Angelo, a Chieti, a Larino, a Guglionesi; una discreta densità hanno anche i margini delle conche di Sulmona e di Capestrano, dove l’oliveto si spinge compatto fino all’altitudine di 600 m., e, sul versante tirrenico, gli orli delle conche di Isernia e di Venafro. La coltivazione promiscua ad olivi sparsi nei campi in consociazione con le colture erbacee avvicendate si estende invece per circa 200.000 ha. — dei quali 33.000 appartenenti al Molise — e interessa più che altro il Pescarese e il Chietino, per i tre quarti dell’area totale.

    Vedi Anche:  Le altre attività primarie: allevamento e pesca

     

    Le altre colture arboree consociate al seminativo, all’infuori degli 11.000 ha. di mandorleti nell’Abruzzo aquilano, hanno ben scarsa importanza. « Si tratta in genere di fruttiferi sparsi qua e là per i campi in modo piuttosto disordinato, o, più spesso, intercalati nelle colture legnose predominanti nella consociazione, quali la vite e l’olivo. Sulle colline del Teramano, e in particolare nella vallata del Tordino, i filari di viti interposti tra contigui appezzamenti di seminativo si appoggiano a sostegni morti: ma è un uso assai comune intercalare nei filari, ogni dieci o dodici viti, degli alberi fruttiferi (meli e peri), che possono anche servire da piante d’appoggio dei filari » (Ortolani).

    Ben diversa da quella dell’olivo è nelle due regioni la situazione dell’altra coltura legnosa tradizionale, la vite, che occupa con la coltivazione promiscua il 27% della superficie totale a vigneto; sono quindi promiscui soltanto 22.000 ha. su circa 80.000, in gran parte limitati al Teramano, dove si fa sentire l’influenza degli ordinamenti colturali marchigiani, mentre sono completamente assenti nel Molise. Nella prevalente superficie a coltura specializzata, grande importanza ha la differente ampiezza e distribuzione dei vigneti per uva da vino e di quelli per uva da tavola (rispettivamente il 77 e il 23% dell’area). I primi infatti, oltre alla maggiore estensione, hanno anche una più grande facilità di adattamento ad ambienti diversi, e si spingono all’interno dell’Abruzzo aquilano, come sul bordo settentrionale del Fùcino; qui, fra Pescina e Avezzano, i vigneti costituiscono — oltre i 700 m. di altitudine — un’area vinicola alquanto importante e raggiungono, con minuscoli appezzamenti, limiti altimetrici eccezionali (sui 1000 m.). Ma le zone di maggiore diffusione sono più in basso, specialmente nel Subappennino Frentano, nella conca di Sulmona e nell’area di più antica tradizione viticola fra Tocco da Casauria e Torre de’ Passeri (Val Pescara). Nel Molise, contrariamente a quanto avviene nel Subappennino abruzzese, la vite sfugge la zona collinare prossima al litorale, regno delle grandi colture estensive a cereali, e si concentra all’interno, anche ad altezze considerevoli, nell’alto bacino del Volturno. I vigneti per uva da tavola, totalmente mancanti nell’Abruzzo aquilano, hanno la massima espansione nel Chietino, fra la Pescara e il Sangro; la coltivazione a « capanneto » dell’uva Regina (« pergolone »), che forma una copertura quasi ininterrotta nell’area compresa entro il triangolo Francavilla-Tollo-San Vito, si spinge da una parte verso Chieti e dall’altra fino a Lanciano, risalendo le valli (Foro, Arielli, Moro, Feltrino) e acquistando sempre maggiore spazio a spese dell’olivo ed anche degli ortaggi.

    In definitiva, l’area coperta a vite, che un tempo era molto più estesa e si basava unicamente sulle uve da vino, sta manifestando da non molti anni una positiva evoluzione. Abbandonato il tradizionale vitigno Montònico, l’introduzione del Trebbiano e del Montepulciano d’Abruzzo (per la vinificazione) e l’impianto del « capanneto » d’uva « pergolone » (da tavola) hanno dato ai vigneti un valore economico ben più alto di quello di un tempo ; e il progressivo espandersi del « pergolone » dà speranze ancora migliori per il futuro.

    Altre colture che stanno acquistando terreno sono quelle orticole, pur essendo irrisoria l’area da esse occupata rispetto alla superficie agraria totale. L’introduzione è recente, influenzata dai floridi orti marchigiani, e corrispondente all’epoca della bonifica del litorale e dei bassi fondivalle; soprattutto il decennio 1925-35 ne segnò una cospicua espansione, più che altro sulla fascia costiera aprutina. Ora gli orti si estendono dalla foce del Tronto fin quasi a Ortona con una certa continuità, interrotti logicamente dagli insediamenti balneari, dalle aree di sviluppo turistico e dall’abitato urbano di Pescara, e si addentrano anche nei fondivalle dell’Arielli, del Foro, della Pescara, del Vomano e della Vibrata. Una certa estensione hanno anche gli orti della conca di Sulmona — soprattutto presso Pòpoli — e del litorale a sud di Ortona, pur se estremamente frammentari (presso la foce del Sangro e fra Tèrmoli e Campo-marino). Le colture si basano prevalentemente su pomodori (più di 4500 ha.), cavolfiori (1600 ha.), insalata e peperoni.

     

    Fra le colture industriali, l’unica degna di nota è la barbabietola da zucchero, che occupa circa 13.000 ha. di superficie, più di metà della quale nella conca del Fùcino; tale estensione, anche se trascurabile nel quadro generale dell’utilizzazione del suolo, pone L’Aquila al terzo posto fra le province dell’Italia centro-meridionale, dopo Foggia e Macerata. Ritengo infine necessario un breve accenno allo zafferano, pianta erbacea che, pur coprendo un’area ridottissima di montagna (circa 200 ha.), ha nell’Abruzzo un’antica e insigne tradizione. La coltura, unica in tutta l’Italia, si estende in appezzamenti molto ridotti e frazionati e viene praticata in rotazione con frumento, lupinella e granoturco nella media valle dell’Aterno, da San Demetrio ne’ Vestini ad Acciano, e sui ripiani carsici aquilani (Navelli, Prata d’Ansidonia) fino alla conca di Capestrano.

    I pascoli e i boschi — dei quali sarà trattato specificamente in un prossimo paragrafo — coprono buona parte della montagna. L’estensione totale delle cosiddette coltivazioni foraggere permanenti — che comprendono i pascoli, i prati-pascoli e i prati — è nelle due regioni di circa 240.000 ha., quella dei boschi si aggira sui 265.000. La metà della superficie forestale si raccoglie nella provincia dell’Aquila e un quarto spetta al Molise, mentre le restanti aree si suddividono in parti pressoché uguali nei territori provinciali di Chieti e di Teramo e in misura alquanto minore in quello di Pescara. L’alta percentuale dell’Abruzzo aquilano rispetto alla superficie territoriale (27%) potrebbe però trarre in inganno senza un indispensabile chiarimento: i boschi di alto fusto sono soltanto il 43% e l’area maggiore è occupata dal ceduo, in prevalenza semplice. Le specie dominanti, sia nelle fustaie che nei cedui, sono due, la quercia nei piani inferiori e il faggio nei piani montani superiori, mentre fra le resinose, molto scarse, prevale il pino nero di Villetta Barrea. Anche i pascoli si estendono soprattutto nell’Abruzzo aquilano (30% della superficie territoriale) ed occupano, oltre alle superfici al di sopra del piano forestale, anche vasti spazi al limite inferiore del bosco (pascolo submontano), che testimoniano la costante azione diboscatrice dell’uomo. Sui fianchi dei grandi massicci esposti a settentrione si nota una fascia di bosco pressoché ininterrotta, che divide il pascolo naturale di monte da quello submontano, mentre « le fiancate dei rilievi esposti a sud hanno subito la eliminazione pressoché totale del bosco, così che si passa quasi insensibilmente dall’uno all’altro tipo di pascolo, nella cornice di un quadro spoglio e degradato che rappresenta uno dei paesaggi più diffusi e caratteristici dell’Appennino calcareo » (Ortolani). Soltanto 1*8,7% delle foraggere permanenti è costituito dai prati-pascoli (più di 2/3) e da prati ad alta produttività, mentre talune zone a pascolo, tenuto conto dell’estrema degradazione, potrebbero benissimo essere considerate come superfici improduttive e sterili. Gli incolti produttivi, infine, che raggiungono in Abruzzo la consistente estensione di circa 70.000 ha. (6,5% della superficie agraria e forestale), sono del tutto insignificanti nel Molise.

    I paesaggi agrari.

    L’utilizzazione del suolo, l’ampiezza e l’organizzazione delle aziende con le diverse forme di economia che ne derivano e le sedi umane, possono essere sintetizzate visivamente in paesaggi agrari che nelle due regioni — ma soprattutto in Abruzzo — presentano fra una plaga e l’altra nettissime differenze. L’Ortolani ne individua cinque tipi fondamentali, che si adattano più che altro alle condizioni alti-metriche regionali: paesaggio litoraneo dell’orto e del vigneto, delle colture promiscue, della grande cerealicoltura, forestale e pastorale di montagna, delle oasi intramontane di coltura. E all’interno di essi si possono scorgere sovente varietà tali da poter ulteriormente procedere a sensibili differenziazioni.

     

    Il paesaggio degli orti alternati a tratti di vigneto specializzato è tipico soprattutto della fascia litoranea dal Tronto a Francavilla e di taluni tratti terminali delle valli che su di essa si aprono. Il litorale, largo di regola circa mezzo chilometro, mostra su aree alquanto discontinue i minuscoli appezzamenti a rettangoli regolari limitati spesso da recinti di canne — che vegetano assai fitte lungo i corsi d’acqua — e alternati a tratti di « capanneto » sovrappostisi ai tradizionali vigneti per uva da vino. In mezzo agli orti conferiscono la loro impronta al paesaggio le piccole case a un solo piano e prive di stalla, suddivise generalmente in tre soli vani allineati — cucina, camera e magazzino per gli ortaggi — e le grandi vasche che raccolgono l’acqua per

    l’irrigazione tratta dal sottosuolo mediante pompe a motore, tendenti a sostituire quasi completamente gli antiquati pozzi con sistema a bilanciere. Le aree più tipiche si trovano tra Martinsicuro e Villa Rosa, fra Montesilvano e Pescara e intorno a Francavilla. A sud e a est di questa, non soltanto lungo il litorale ma anche nelle valli e sui dossi collinari, il paesaggio cambia visibilmente, dominato dal vigneto specializzato che intacca qua e là anche le esili propaggini orticole insinuatesi nei fondi-valle. Il « capanneto » si espande a macchia d’olio sulle pendici, formando un verde manto uniforme e compatto in corrispondenza del triangolo Francavilla-Tollo-Ortona e interrompendosi con limitati appezzamenti verso Ripa Teatina e il Lancianese. Sia per gli orti che per i vigneti la proprietà è estremamente frammentata, e le aziende di rado superano i 3 ha. d’ampiezza, favorendo la forte dispersione dell’insediamento: ci troviamo infatti nell’area a più alta densità di popolazione sparsa di ambedue le regioni.

     

    Molto più esteso e vario è il paesaggio delle colture promiscue, che si estendono compatte fino al Sangro e su vaste zone anche al di là di questo, fino a raggiungere il Trigno, in continua espansione dal Subappennino Aprutino verso sud. Ed è infatti nel Teramano che si può individuare la culla della policoltura, di influsso marchigiano e in connessione indubbia con l’appoderamento — dovuto al sistema di conduzione a mezzadria — e con il conseguente insediamento sparso. Si potrebbe dire che lo spazio delle colture promiscue intensive corrisponda all’incirca al seminativo arborato, benché questo sia un po’ più ampio, trovandosi anche non solo come policoltura ma come semplice consociazione fra i cereali e l’olivo, curata da coltivatori diretti abitanti negli agglomerati. Il paesaggio, molto noto per la sua grande diffusione sulle colline appenniniche, è caratterizzato dagli alberi da frutto (e in minor misura dalle piante da sostegno) sparsi in mezzo agli appezzamenti variamente e ordinatamente coltivati. Nel Teramano si inserisce un altro elemento, che più a sud scompare, con i lunghi filari di vite che delimitano i campi, i quali più che altrove sono disposti a forma allungata, in linea col maggiore pendio, per il prevalere della tradizionale disposizione a rittochino, propria delle pendici argillose sulle quali non è possibile effettuare terrazzamenti. Tutt’intorno il podere, dominato dalla casa colonica isolata, è recinto da siepi (« fratte »), che mettono in evidenza il carattere chiuso dell’azienda mezzadrile. Non molto estese sono però le aree dove il seminativo arborato si estende omogeneo senza soluzioni di continuità (triangolo Pescara-Chieti-Francavilla, colline fra la Vibrata e il Tronto, ecc.). In genere aree, talora anche notevoli, di seminativo nudo interrompono questa omogeneità, aggiungendo al paesaggio l’inconfondibile nota delle vaste superfici spoglie coltivate a cereali o ad erbe da rinnovo. E, soprattutto a sud del Piomba, insorge il frequente motivo degli oliveti specializzati, fitti ma discontinui, che avvolgono le colline incorniciando dal basso i vecchi borghi d’altura (Città Sant’Angelo, Loreto Aprutino, ecc.), mentre nel Chietino si aggiunge l’orma di verde più cupo dei « capanneti » in espansione.

    Il paesaggio della grande cerealicoltura è rappresentato essenzialmente dal seminativo nudo che appare sulle enormi distese monotone e uniformi dilaganti a perdita d’occhio soprattutto nel basso Molise e in alcune plaghe del Subappennino Frentano, fra il Sangro e il Trigno, interrotte soltanto da gruppetti di olivi dispersi a grande distanza fra loro. Ed ogni tanto fitti oliveti rompono la monotonia del paesaggio avvolgendo gli abitati posti sulle sommità collinari. Ma come avviene per il seminativo arborato, anche quello nudo perde continuità e omogeneità a mano a mano che si procede verso l’alta collina e la montagna. Infatti nella maggior parte del medio e alto Molise, nella fascia di transizione fra il Subappennino abruzzese e i massicci calcarei (alta collina subappenninica) e sulle pendici dei Monti della Laga il seminativo nudo, pur conservando una netta prevalenza, si alterna con il seminativo arborato, il bosco ceduo e il pascolo, in proporzioni diverse fra una plaga e l’altra. Ne consegue un paesaggio molto più vario, che appartiene solo in parte alla grande cerealicoltura e che può essere definito piuttosto «paesaggio cerealicolo dell’alta collina», nel quale spesso i tratti che si possono ritenere a pascolo sono in effetti terreni a riposo col sistema del maggese. Il seminativo può conservare una prevalenza relativa anche su territori spiccatamente montani, fra gli 800 e 1000 m. di altitudine. Il paesaggio delle colture montane si mostra con sensibili differenze dai precedenti, tanto nella maggiore frammentazione delle particelle fondiarie quanto neli’alternarsi del seminativo con terreni a pascolo e a bosco, ceduo o, meno sovente, di alto fusto. Comune denominatore di questi tre diversi tipi di paesaggio basato sul seminativo nudo è più che altro l’insediamento rigorosamente accentrato sia in mezzo alle grandi distese cerealicole, sia a contatto con l’accentuato frazionamento dell’alta collina e delle zone più elevate.

     

     

     

     

     

     

    Al di sopra dei 1000 m. di altitudine si passa al vero e proprio paesaggio forestale e pastorale di montagna dominato, a seconda della zona, dai pascoli, dai boschi e dai campicelli posti a corona più o meno ampia intorno ai villaggi, simbolo di un’agricoltura di sussistenza sempre più precaria che cerca, fra le desolate groppe calcaree, ogni spazio adatto alle colture: vallecole e piani carsici, doline, detriti di falda. E così che, anche molto distanti dagli abitati e talora ad altitudini considerevoli, si possono trovare piccoli lembi coltivati o lasciati a prato, sui quali di quando in quando si elevano esili mandorli e rare piante da frutto, di regola meli o peri. E un paesaggio che chiamerei « delle oasi colturali di alta montagna », coltivate per lo più a grano, patate e lenticchie, caratterizzate spesso dalla suddivisione dei campi in lunghe strisce trasversali alla depressione e delimitate dalle « macere », muretti a secco di sassi ricavati dal diuturno spietramento dei campi stessi. Piccoli appezzamenti coltivati a grano, orzo o segala — con riposo ad anni alternati — che raggiungono la massima altitudine di 1890 m. sulle pendici esposte a mezzogiorno del Monte Genzana, sopra il lago di Scanno, sono tuttora sfruttati dagli abitanti di Frattura, villaggio che costituisce il limite delle sedi umane nella zona a 1260 m. ; così anche sul versante meridionale del Gran Sasso le quote massime delle colture superano i 1600 m., dando un’idea ben chiara della «fame» di terra coltivabile che angustia l’uomo sugli erti massicci calcarei. Più in basso, al di sotto dei 1000 m., si estendono invece alquanto fìtti i mandorleti, e la vite compare sporadica a delimitare i campicelli.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Il paesaggio delle oasi intramontane di coltura si inserisce nella regione interna, ben caratterizzato dalla netta differenza con le montagne circostanti. Ed effettivamente ci troviamo di fronte a vere oasi verdeggianti in mezzo alle monotone distese di calcari grigiastri, coperti per lo più da magri pascoli o da cedui, spesso discontinui, che fanno di tanta parte della regione montana un ambiente repulsivo e decadente. Ma anche se le grandi conche del Fùcino, dell’Aquila, di Sulmona e di Capestrano esprimono vivacemente tale contrasto, non si può disconoscere fra di esse una sensibile diversità di paesaggi agrari.

    Un richiamo all’ambiente delle colture promiscue può esserci suggerito dalla conca di Sulmona, fertile e ricca di acque, nella quale l’assetto colturale — dai frutteti ai prati, dai vigneti specializzati alle colture irrigue, dai campi di cereali agli oliveti — si mostra con tratti di marcata varietà, anche se notiamo l’assenza di un elemento tipico delle regioni a policoltura, cioè l’insediamento sparso. Sulle diverse caratteristiche del Fùcino, già sufficientemente descritto, può bastare un breve, significativo brano dell’Ortolani : « Lineamenti giovanili è facile riconoscere nel paesaggio del bacino del Fùcino, più particolarmente nell’ex-alveo lacustre, dove il geometrismo dei canali, delle strade e dei filari di pioppi ripete gli schemi tecnici delle lontane bonifiche del delta padano, alle quali il prosciugamento del lago è coevo ». Maggiore varietà si può notare ai bordi della piana, dove si sviluppa a corona l’insediamento rigorosamente accentrato e compaiono sovente tratti a seminativo arborato e a vigneto specializzato. Nella conca aquilana, infine, prevale il seminativo nudo in appezzamenti spesso limitati da filari di pioppi o da alberi da frutta e talora da radi filari di vite.

    La produzione agricola.

    Considerando i vari aspetti della produzione agricola, vediamo che il grano riveste tuttora un’importanza vitale e risulta ogni anno in sensibile aumento, in ragione del costante rialzo della resa unitaria — sebbene ancora bassa rispetto alla media nazionale — che ha ormai raggiunto i 20 q. per ha. (15 negli anni 1957-63, 12 nel 1936-39). Più di 6 milioni di q. ne sono stati prodotti nel 1967 (oltre 5 milioni e mezzo nel 1966), dei quali il 43% nel Molise. In questa regione ha la massima diffusione il grano duro, più pregiato ma a resa minore, adatto alla fabbricazione delle paste alimentari, mentre quello tenero, utilizzato essenzialmente per la panificazione, viene prodotto nella quantità più elevata nel Teramano. Il Chietino, con la produzione di ambedue i tipi di frumento in parti pressoché uguali, può essere considerato come un’area di transizione, a sud di quella linea che divide il Subappennino aprutino da quello frentano e che per la cerealicoltura è quasi un confine tra Settentrione e Mezzogiorno.

    Molto inferiore è l’apporto del granoturco, al quale nuoce la scarsa attitudine dei terreni e l’abituale mancanza dell’irrigazione, con una resa (15 q. per ha.) che è al di sotto della metà di quella nazionale. La produzione, che supera il milione di quintali all’anno, appartiene in proporzioni uguali ad ambedue le regioni, con una netta prevalenza per l’Abruzzo alla provincia di Chieti. Scomparsa la consuetudine della polenta e della focaccia, la farina di granoturco viene utilizzata sempre più raramente, soprattutto mescolata nel pane a quella di frumento, e una certa parte del prodotto serve per gli equini e gli animali da cortile. L’unico altro cereale di un certo rilievo è l’avena, la cui produzione supera i 300.000 q., in gran parte dovuti al Molise (3/4) e alla provincia di Chieti: cifra non molto elevata ma suscettibile di notevole incremento, tenendo conto che la resa media (17 q. per ha.) è alquanto superiore all’indice nazionale.

    La produzione della patata, iniziata su larga scala assai di recente — una spinta decisiva fu data dalla carestia del 1816 — e per lungo tempo basata su valori mediocri, è ora cospicua, tanto da lasciare un largo margine anche all’esportazione, specialmente per le patate da seme del Fùcino, molto pregiate. Oltre 5 milioni di q. ne sono stati prodotti nel 1967 (3 in Abruzzo e 2 nel Molise), quantunque la resa unitaria, soprattutto a causa dell’insufficiente concimazione a base di letame, sia molto bassa: 88 q. per ha. in Abruzzo e soltanto 42 (la più bassa resa fra le regioni italiane) nel Molise. Valori eccezionali raggiungono invece, come abbiamo visto, le colture specializzate di patata nel Fùcino. Come, del resto, ha una particolare importanza la produzione della barbabietola da zucchero, la quale nella conca fucense ha raggiunto la resa unitaria più elevata che in qualunque altro lembo di territorio nazionale (651 q. per ha.; Italia 378), tale da inserire l’Abruzzo al terzo posto nell’Italia centro-meridionale, con una produzione di quasi 6 milioni di q. all’anno.

     

    Per i prodotti delle coltivazioni erbacee in rotazione con il frumento si scorgono nette differenze fra il Molise e l’Abruzzo. Infatti nel Molise hanno grande prevalenza le leguminose da granella, in particolare le fave e i fagiuoli. Per le prime, Campobasso, con oltre 330.000 q. annui, è la terza provincia in Italia dopo Caltanissetta e quasi alla pari con Cagliari; per i fagiuoli, anche se la produzione è alquanto inferiore (circa 150.000 q.), la provincia si trova al quarto posto, alle spalle di Napoli, Caserta e Cuneo. Nell’Abruzzo invece si è cercato di imperniare la rotazione mirando sempre più all’incremento dell’allevamento bovino, quindi, fatta eccezione per l’Aquilano, assume un certo valore la produzione delle leguminose da foraggio (erba medica, sulla, ecc.), con un totale annuo di oltre 8 milioni di q. di fieno, di cui poco meno della metà nel Teramano. Aggiungendo a questi la produzione dei prati avvicendati molisani e quella, molto inferiore, dei prati, dei prati-pascoli e degli erbai, si raggiunge per le due regioni una produzione foraggera di 12 milioni di q., che viene tuttora ritenuta insufficiente per l’attuale entità del patrimonio zootecnico.

     

    Alto valore ha la produzione orticola, anche se limitata, come abbiamo visto, ad aree assai ristrette. Si basa più che altro sui pomodori da esportazione, corrispondenti all’incirca a un quinto della produzione totale di questa solanacea che si aggira di regola ogni anno su 1.300.000 quintali. Seguono a notevole distanza gli ortaggi tradizionali, cioè quelli che per primi furono impiantati sui terreni sabbiosi dei litorali: cavolfiori (372.000 q.), insalata (360.000 q.), peperoni (188.000 q.). Un certo rilievo hanno ortaggi ancor più limitati, quali l’aglio rosso della conca peligna in gran parte destinato all’esportazione, l’aglio bianco del Fùcino, i cocomeri e i poponi del Termolese, le zucche della piana di Venafro, le cipolle della conca di Isernia. Purtroppo bisogna dire che spesso i prodotti di esportazione non hanno una selezione adeguata, perciò trovano sempre maggiore difficoltà a imporsi sui mercati esteri. Per ora a questi difetti ha sopperito il crescente consumo interno, ma non è che la situazione dia adito — rimanendo le cose come sono — a previsioni ottimistiche.

    Vedi Anche:  Il Parco Nazionale d'Abruzzo e il Giardino Botanico di Campo Imperatore.

    Maggior favore trova lo smercio dell’uva da tavola (il « pergolone »), la cui ingente produzione, che si aggira sui 2 milioni annui di q. — per la quale l’Abruzzo è la seconda regione d’Italia dopo la Puglia — è smaltita agevolmente sia all’interno che all’estero. Non così è per il vino, spesso alquanto mediocre, se si eccettuano il rosso Montepulciano d’Abruzzo e il bianco Trebbiano d’Abruzzo, buoni ma poco conosciuti, prodotti dai vitigni omonimi. Mescolando secondo determinate proporzioni le due uve si ottiene il Cerasuolo, di colore rosato, tipico della conca peligna; ancor meno pregiato e più aspro è il vino rosato Marsicano della conca del Fùcino. I quantitativi di uva vinificata e di vino prodotto, pur avendo sensibili oscillazioni a seconda delle annate, sono attualmente in buon incremento. Nel quinquennio 1963-67 i rispettivi valori non sono mai scesi al di sotto dei 3 milioni di q. di uva e dei 2 milioni di hi. di vino (media quinquennale, 3.356.740 q. di uva vinificata, 2.312.870 hi. di vino), superando i massimi raggiunti alla fine del secolo scorso, ai quali seguì una costante decadenza. Come rapporto tra le due regioni si può dire che il Molise produce circa un quarto dell’Abruzzo: persino il quantitativo di uva da tavola che in minima parte viene vinificata nel Chietino è superiore alla produzione molisana. Il rapporto con la produzione vinicola nazionale, sempre più ridotto fino a pochi anni fa, tende ora a rialzarsi e si aggira sul 3,5%.

     

    Le olive vengono quasi completamente riservate alla deificazione — soltanto l’i,5% in media è destinato al consumo diretto — con una resa in olio superiore all’indice nazionale (20,5 kg. ogni quintale di olive). La produzione è indubbiamente in sensibile incremento, anche se le oscillazioni annue sono assai più marcate che per l’uva: fatto riscontrato in maniera particolare nei due successivi anni 1966 e 1967, nei quali il quantitativo del prodotto è più che raddoppiato (722.600 q. di olive nel 1966, 1.530.000 nel 1967). La media del quinquennio 1963-67 (1.127.360 q. di olive, 223.420 q. di olio) può quindi essere ritenuta soddisfacente, nettamente superiore a quelle degli anni passati — sempre mantenutesi al di sotto dei 200.000 q. di olio — tanto più considerando che l’olio prodotto è assai pregiato e di bassa acidità. Ciò deriva dal fatto che la raccolta di olive, effettuata in genere dai proprietari, coadiuvati dalla mano d’opera stagionale delle « raccoglitrici », è condotta a mano con una particolare cura e prescinde ormai dal sistema dell’abbacchiatura in uso assai frequente nel secolo scorso. All’interno delle due regioni, la provincia di Chieti ha una particolare rilevanza, con il 40% della produzione complessiva, seguita dal Molise e dalla provincia di Pescara con un quarto ciascuna, mentre il rimanente è prodotto nel Teramano (8%) e in proporzione minima nell’Abruzzo aquilano, anche se qui hanno un particolare pregio gli olii di Ofena e della Val Roveto. Nelle annate di maggiore produzione l’olio eccedente il fabbisogno regionale viene esportato nelle regioni adiacenti: in Puglia dal Chietino e dal Molise, nelle Marche dal Teramano, in Campania dal Molise.

    Poca importanza hanno le altre colture arboree, il cui prodotto proviene in massima parte dagli alberi fruttiferi sparsi nei campi, data la scarsità dei frutteti specializzati. La produzione principale riguarda le mele (media del quinquennio 1963-67, 700.000 q.) che provengono in prevalenza dall’Abruzzo (56%), specialmente dalle province di Chieti e dell’Aquila, mentre quella delle pere (367.000 q.) è particolarmente elevata nel Molise (65%). A proposito di quest’ultime, un notevole regresso si nota nell’Abruzzo aquilano, parallelo a un sensibile incremento nel Chietino, in modo che le due province sono attualmente su valori pressoché uguali (43.000 q.annui). Un frutto in rapida espansione, dovuta alla specializzazione delle colture, è la pesca, la cui produzione (256.000 q. nel 1967) è concentrata per metà nei frutteti del Pescarese. Discreta è anche la produzione di fichi (288.000 q. nel 1967), per quasi due terzi dovuta alla provincia di Chieti, dei quali una parte (55.000 q.) viene essiccata, mentre poco rilevante è quella delle mandorle (41.000 q.), che alimenta l’industria dei confetti di Sulmona ed è divisa in parti pressoché uguali fra Abruzzo e Molise.

     

    E doveroso infine ricordare la produzione, estremamente ridotta ma di notevole valore, dello zafferano. Della piccola pianta erbacea (crocus sativus) vengono colti i fiori, e ce ne vuole un numero medio di 130.000 per ottenere — separandone gli stimmi — un chilogrammo di zafferano secco. Il quantitativo annuo, che si aggirava alla fine del secolo scorso sui 40 q., si è stabilizzato con lievi oscillazioni sui 20 q. (1957), mentre un nuovo sviluppo è ostacolato da vari fattori, fra cui da una parte le difficoltà di reperimento della mano d’opera — di regola femminile — e l’arretratezza delle operazioni colturali, e dall’altra l’impurità del prodotto.

    Così abbiamo terminato la breve analisi della produzione agricola regionale. E ne risulta chiaro che, essendo basata per lo più su prodotti di prima necessità e di largo consumo familiare, essa è essenzialmente il cespite di un’economia povera, che tende a divenire di pura e precaria sussistenza nelle plaghe più elevate ed interne. Tuttavia, come scrive l’Ortolani, « è senza dubbio un’agricoltura povera, ma non proprio poverissima, almeno in confronto con le altre regioni dell’Italia peninsulare. Prodotti di scarso volume ma di alto pregio, anche per l’anticipo stagionale, sono caratteristici dell’agricoltura mediterranea in genere e dell’agricoltura abruzzese in particolare : si allude qui principalmente agli ortaggi ». E una particolare immediatezza di visione dell’economia possiamo trovarla analizzando gli ultimi dati della produzione lorda vendibile (1966). Sui 140 miliardi dei prodotti agricoli la più alta percentuale è da attribuirsi ai cereali (41 miliardi; 29,3%), ma immediatamente dopo troviamo gli ortaggi e i legumi freschi (25 miliardi; 18%); seguono l’uva da vino e i suoi prodotti (14%), le patate e i legumi secchi (8,6%), l’uva da tavola (8,5%), la frutta (7,5%), le olive e l’olio (7%), la barbabietola da zucchero (4,8%). In linea generale si può constatare che i prodotti delle colture erbacee costituiscono quasi i due terzi, in valore, della produzione agricola regionale, e in questo l’Abruzzo e il Molise sono più simili alle regioni centrali che a quelle meridionali, dove le colture legnose di regola hanno la prevalenza, tipica degli ordinamenti colturali a carattere mediterraneo.

    I boschi e i pascoli.

    Come già è stato accennato esaminando l’utilizzazione del suolo, vaste porzioni di territorio montano sono coperte da boschi e da pascoli: questo manto naturale, non sfruttato dalle colture, corrisponde a quasi due quinti della superficie produttiva per l’Abruzzo e a circa un quarto per il Molise. Le percentuali sono comprese tra il 18,7% del Chietino e il 58,8% dell’Abruzzo aquilano, e le proporzioni fra i terreni a bosco e quelli a pascolo sono alquanto differenti tra le due regioni: nell’Abruzzo prevale, anche se di poco, il pascolo, mentre nel Molise ha un netto predominio il bosco.

    Colture a tratti di bosco ceduo sui monti della laga, nei pressi di Campotosto.

     

    La superfìcie forestale doveva essere nel passato assai più estesa di quanto non lo sia attualmente, ma non possiamo pensare ad un’azione diboscatrice molto accentuata, almeno al di sopra dei 1000 m. di altitudine, anche se vari autori dei secoli passati, quali il Galanti, il Giustiniani e il Del Re, hanno a più riprese denunciato nei loro scritti la piaga della deforestazione arbitraria e incontrollata. Al grande manto uniforme di fustaie si sono sempre opposti senza dubbio il clima piuttosto

    arido e la natura calcarea dei rilievi, spesso dotati di uno strato di humus superficiale così esile da non permettere lo sviluppo che a magre erbe da pascolo. Inoltre, a causa della scarsa densità di popolazione sulla montagna e del limite non molto elevato delle sedi umane, l’utilizzazione del bosco ha sempre avuto un carattere marginale, legato più che altro al fabbisogno giornaliero di legna da ardere e alla ricerca di ristrette superfici da coltivare, sulle quali basare la poco evoluta economia familiare. E scarso dev’essere sempre stato lo sfruttamento come materiale da costruzione, considerato che « la civiltà abruzzese appare legata fondamentalmente alla pietra, e ha sempre fatto un uso molto parco del legname: anche nella edilizia dei vecchi centri abitati disposti presso l’orlo inferiore del bosco, non soltanto sono rare quelle sovrastrutture in legno che rappresentano tanta parte delle sedi alpine, ma è diffusissimo viceversa negli interrati e al piano terraneo l’arco di pietra a tutto sesto, che permette di eliminare o di ridurre l’impiego delle travature in legname » (Ortolani).

    Tutto considerato, l’estensione boschiva delle nostre due regioni è ragguardevole, superando, con un’area di 265.585 ha. (1967), quella del Veneto e rimanendo di poco inferiore alla Campania. Se però consideriamo la produzione del legname da lavoro — che non raggiunge i 100.000 me. annui — rispetto a quella di tante altre regioni (Veneto, 259.000 me.), balza subito in evidenza la scarsa possibilità di reddito di queste ampie superfici boscate. Nel confronto con la produzione agricola e zootecnica il valore dei prodotti forestali è pressoché insignificante: nella provincia dell’Aquila, che è di gran lunga la più favorita, la percentuale è soltanto dell’8,5%, nel Molise del 3,3%, nelle province di Pescara e di Chieti dell’1,5%.

    Il fatto è facilmente spiegabile: dovunque ci troviamo di fronte al predominio del bosco ceduo, che ricopre oltre i 3/5 dell’area boschiva, con estensioni percentualmente molto maggiori nel Molise (74%). Le foreste di alto fusto sono quindi assai limitate, e in esse troviamo una nettissima prevalenza delle latifoglie (4/5) rispetto alle aghifoglie e alle associazioni miste, che si dividono in parti pressappoco uguali il resto della superficie. La specie di gran lunga più diffusa è il faggio (62.842 ha. nel 1967), che domina nel piano superiore montano con fustaie talora imponenti, soprattutto nel Parco Nazionale fra il Fùcino e la Meta, in Abruzzo, e sul versante settentrionale del Matese fra il Monte Mutria e Guardiaregia, nel Molise. Sovente la faggeta è una formazione del tutto pura; più di rado, specialmente al bordo inferiore (sotto i 1500 m.), essa può invece assumere un carattere misto, con alberi di carpino, frassino, tiglio e oppio. Molto più spoglio è il piano inferiore montano, classificato dall’illustre botanico svizzero E. Furrer come «piano della quercia»: corrispondente pressappoco alla fascia del castanetum, esso è in effetti occupato in prevalenza da boschi di quercia, peraltro alquanto scarsi come fustaie (5175 ha. in Abruzzo, 4123 nel Molise) dato che l’azione distruttiva dell’uomo si è manifestata più vigorosamente proprio su questa fascia, con la ricerca di nuove terre arabili e di più ampi spazi per il pascolo. La specie predominante è il cerro, soprattutto nel Molise e nel Chietino, mentre il leccio è alquanto diffuso nel Subappennino Aprutino e scarsissimo è il rovere, presente soltanto nel Molise e nel Subappennino Frentano.

     

     

    Con maggiore frequenza della faggeta il bosco di quercia è misto ad altre essenze, fra cui il carpino e l’acero, e si presenta a « piccole isole forestali » che ne esprimono chiaramente il carattere residuale. Molto rari sono i castagneti da frutto (1683 ha.), limitati ad aree assai ristrette della Val Roveto, dei Monti della Laga e delle valli del Turano e dell’Imele, e completamente mancanti nelle province di Chieti e Pescara e nel Molise. Il pioppo, pure occupando una superficie ancor più ridotta (1144 ha.) quasi esclusivamente in Abruzzo, compare qua e là nelle bassure (conche del Fùcino, dell’Aquila e di Sulmona, alto Liri, ecc.) a interrompere la monotonia dei coltivi e del ceduo con ridotti e regolari appezzamenti, per lo più di recente impianto. Al contrario dei castagneti, che tendono a ridursi per la loro sempre minore utilizzazione, le pioppete sono in via di sviluppo assai marcato, tale da vederne raddoppiata l’area negli ultimi sei anni.

    Fra le aghifoglie — o resinose, come vengono chiamate nelle statistiche — si impone il pino (6359 ha.), soprattutto con la specie endemica del pino nero di Villetta Barrea, che copre notevoli superfici sui monti del Parco Nazionale; nella montagna chietina si trovano anche boschi di pino laricio, però su aree assai più ristrette. Insignificante è infine l’estensione dei boschi di abete bianco, raramente in formazione pura, che occupano alcune plaghe montane del Molise e del Chietino e, nell’Abruzzo settentrionale, il bosco Martese sui Monti della Laga e il versante nord del Gran Sasso, verso l’orlo superiore della faggeta.

    Per il resto vediamo dilagare, talora a perdita d’occhio, i boschi cedui che si alternano ai magri pascoli, dando vita a un paesaggio che di vitale ha ben poco… Il ceduo, come si sa, può essere semplice, corrispondente per lo più a macchia degradata di carattere cespuglioso, oppure misto, che è in definitiva un’associazione fra piante del ceduo semplice e alberi d’alto fusto. Nell’Abruzzo e Molise il bosco ceduo si estende per ben 1650 kmq. (770 nella provincia dell’Aquila), diviso fra i due tipi all’incirca in parti uguali, con una certa prevalenza del primo (57%) in Abruzzo, del secondo (62%) nel Molise. Le essenze predominanti sono di gran lunga il faggio e le querce (soprattutto cerro), alle quali sono consociate come specie secondarie l’acero, il carpino, Tornello e il nocciolo. Irrisorie sono le superfici coperte dal ceduo di castagno, che potrebbe dare un reddito ben maggiore. Infatti il valore dei cedui di faggio e di quercia è minimo, e tende a diminuire progressivamente a causa della minore utilizzazione della legna da ardere e del carbone vegetale, sostituiti sempre più dai gas liquidi, che usufruiscono di una rete capillare di distribuzione. Per dare un’idea di questo enorme decremento si possono riportare le cifre della produzione di legna da ardere e di carbone nello spazio degli ultimi venti anni; nel 1947 il quantitativo era rispettivamente di 4.145.000 e di 337.000 q.; nel 1967 esso è calato a 1.800.000 q. di legname e a soli 33.000 di carbone, quasi tutti prodotti nel Molise.

    Ben altro reddito, anche se non molto elevato su scala nazionale, danno le faggete, alle quali nuoce il fatto che il diradamento venga condotto piuttosto irrazionalmente, abbattendo i tronchi più vecchi. Il sistema a tagli successivi viene praticato normalmente, ma « tale trattamento è peraltro deformato dalla mancanza del taglio di sgombro sostituito da una serie di tagli secondari. Il turno ha perciò un valore molto elastico, che oscilla fra i 150 e i 250 annui. Anche il valore dell’incremento è di calcolo molto difficile: per le fustaie si può valutare, al massimo, intorno a me. 2,50 per ha. e per anno » (Ortolani). Il legname è soltanto in minima parte lavorato localmente : i tronchi più fini e diritti forniscono la materia prima per la fabbricazione delle cassette da imballaggio dei prodotti ortofrutticoli del litorale abruzzese e marchigiano, quelli di maggior diametro sono utilizzati in prevalenza per la fabbricazione di traversine ferroviarie. Nel 1967 il legname da lavoro — prodotto per più di 3/4 dalle fustaie di faggio — è stato in Abruzzo pari a 72.264 me., nel Molise a 25.714 me., di cui soltanto il 13,5% proveniente dai boschi cedui.

    In base a quanto finora è stato scritto si può quindi dedurre che la situazione forestale delle due regioni è ben lungi dall’essere soddisfacente. Nel ventennio postbellico fra il 1947 e ^ l’area a bosco ha avuto un aumento di circa 17.000 ha. (in massima parte fustaie), non certo pari alle aspettative e alle possibilità del territorio. Il finanziamento — piuttosto scarso — di vari enti, fra i quali specialmente la Cassa per il Mezzogiorno e i Cantieri scuola, è stato volto a una triplice azione: rimboschimento dei terreni nudi, ricostituzione dei boschi degradati e consolidamento dei terreni franosi. Fra il 1950 e il 1965 sono stati effettuati rimboschimenti per oltre 14 miliardi di lire su una superficie di 13.600 ha., quasi per la metà nell’Abruzzo aquilano; la ricostituzione boschiva e il consolidamento dei terreni hanno interessato un’area molto minore (circa 3800 ha.), in prevalenza nel Teramano. Il difetto fondamentale è che in gran parte questi rimboschimenti sono stati effettuati con due resinose, il pino di Villetta Barrea e il pino nero d’Austria, che hanno dimostrato grande facilità di ambientamento sui terreni più poveri ma rivelano grossi difetti, quali una lenta crescita, notevoli difficoltà di rinnovazione e facile attaccabilità da parte della processionaria e di un imenottero, l’acantolyda, che portano alla distruzione della pianta. Verso il 1950 l’amministrazione forestale mostrava la tendenza a volgersi verso altre specie prevalendo la considerazione che il rimboschimento dovesse essere effettuato non tanto per stabilizzare i terreni — almeno in Abruzzo, data la costituzione stabile delle rocce — quanto per valorizzarli, apportando nuove fonti di lavoro e di reddito. Furono quindi usati con buoni risultati il cipresso dell’Arizona fra i 700 e i 900 m. di altitudine, il cedro dell’Atlante fra gli 800 e i 1000 e l’abete greco al di sopra dei 1000 m., insieme ad altre specie, quali il carpino sui terreni più sterili, il frassino e l’acero montano su quelli più fertili. Purtroppo l’alto costo di questi rimboschimenti e la penuria dei fondi a disposizione hanno determinato un ritorno alle vecchie specie. Ormai ogni attività ha come base quasi esclusiva il pino di Villetta Barrea, e si possono citare come esempio, accanto al rimboschimento ormai adulto del Monte Luco presso L’Aquila, quelli sui calanchi fra Arischia e il Passo delle Capannelle, sulle pendici sudoccidentali del Gran Sasso presso Fonte Cerreto, e sul fianco destro della valle di San Potito, tanto per rimanere nell’Abruzzo aquilano.

     

    Con ciò si è evitato di seguire la logica che, in base anche a studi condotti una diecina di anni fa su un piano comunitario europeo, avrebbe stimolato l’introduzione di specie di buona produttività e di rapida crescita. In tal modo l’isolamento dell’Abruzzo, per quanto riguarda l’economia del bosco, è, oggi ancor più di ieri, una triste realtà che non può che generare rimpianto per il mancato inserimento nella politica forestale del Mercato Comune.

    Di non facile soluzione sono anche i problemi riguardanti gli estesi pascoli (199.552 ha. in Abruzzo, 38.770 nel Molise) che occupano le più vaste porzioni di territorio sulla montagna aquilana. Anzitutto va messa in evidenza la loro scarsa potenzialità produttiva: sia il pascolo di monte, che dal limite superiore del bosco raggiunge senza soluzione di continuità i 2400 m. di altitudine, sia il pascolo antro-pogeno submontano, causato dall’azione distruttrice dell’uomo nei riguardi del margine boschivo inferiore, sono composti per lo più da associazioni erbacee di scarso valore economico. Le erbe infatti risentono della punta di aridità estiva — propria delle regioni mediterranee — e del substrato calcareo spesso poverissimo di humus a causa dell’intenso dilavamento. Non sono rari i fenomeni di soliflusso che denudano talora vasti pendii facendo slittare in basso le magre cotiche erbose, mentre le colate detri-tiche si espandono, macchiando di lingue grigiastre il verde tenue dei pascoli. In questo ambiente regressivo dominano le specie ruderali, rupicole e boschive, per lo più infestanti, ed altre che, sebbene commestibili, sono a scarso potere nutritivo. Un’indagine botanica condotta sull’ultimo tratto meridionale del Campo Imperatore alle spalle di Castel del Monte, ha portato all’identificazione di circa trecento specie erbacee, fra le quali solo un sesto corrispondenti a foraggere utili, per meno della metà classificate come ottime.

    Ci troviamo quindi di fronte a distese erbacee magre, rase, interrotte da rocce nude e da colate detritiche, le quali non possono essere falciate nemmeno una volta all’anno e perciò vengono utilizzate soltanto direttamente dagli animali. Generalmente, fra le associazioni erbacee utili predomina il mediocre nardeto, a spese dell’ottimo festuceto (che trova il suo migliore habitat sui grandi detriti di falda), mentre molto diffusa è la flora ammoniacale, specialmente in vicinanza degli stazzi e dei ricoveri, dovuta all’eccessivo accumulo dello sterco animale.

     

    Pascoli così magri e poveri non sono certamente adatti al bestiame grosso esigente, ed è per questo che su di essi si è affermato in maniera perentoria ed esclusiva l’allevamento ovino. Ma la degradazione delle distese erbacee, particolarmente accentuata nelle zone più alte, ne riduce progressivamente le possibilità pascolative ed è parallela alla decadenza della pastorizia appenninica. Entro certi limiti, l’alleggerimento del peso dei greggi pascolanti, apparso nel passato eccessivo in molte plaghe, favorendo il riposo dovrebbe portare al rinvigorimento vegetativo, considerando che i greggi tendono a ridurre il festuceto a nardeto impoverito. Ma non possiamo tralasciare il fatto, sperimentato e provato dal Rivera, del vantaggio che certe erbe — in particolare il Trifolium Thalii — traggono dalla resecazione animale, che ne stimola sensibilmente lo sviluppo. Da ciò risulterebbe che se un territorio è moderatamente pascolato si mantiene botanicamente ferace, mentre se è abbandonato si estendono le erbe infestanti, con conseguente degradazione floristica. Secondo il Rivera, quindi, non dev’essere spezzata quella naturale simbiosi armonica fra uomo, animale e piante, che è fattore indispensabile di equilibrio sia naturale che economico.

    Sembra dunque che le cause e gli effetti della degradazione del pascolo s’incrocino fra di loro e che ben diffìcilmente la situazione critica possa essere superata, almeno in un periodo relativamente breve. Oltre alla possibilità di introduzione, specialmente nella fascia submontana, di prati-pascoli — che per ora coprono una superficie irrilevante — con possibilità di almeno uno sfalcio annuale, ogni cura dovrà essere posta nell’aumento della potenzialità produttiva del pascolo con la diffusione di buone foraggere. Tuttora siamo alla fase sperimentale, e nel quadro di questa azione si è aggiunto al giardino alpino di Campo Imperatore, nel quale sono studiate le possibilità di ambientamento e di sviluppo delle migliori specie di foraggere, un altro giardino simile nel Molise, presso Capracotta, oltre a un vivaio specializzato a Monte di Mezzo, nei dintorni di San Pietro Avellana. I risultati pratici non potranno mancare se a questi seri studi botanici seguirà al più presto una pratica applicazione nel quadro della bonifica montana integrale.