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Suddivisioni territoriali

    Le suddivisioni territoriali

    Regioni naturali

    Suolo, clima, vegetazione, variamente intrecciandosi ed interferendo l’uno sull’altro, hanno foggiato nell’ambito della regione piemontese, delle minori aree, contraddistinte da un complesso di caratteri naturali propri. Alcune di queste aree sono già venute profilandosi attraverso l’esame delle loro componenti fisiche, e cioè appunto del suolo, del clima, della vegetazione. Altre potranno prendere risalto da un ulteriore sforzo di precisazione.

    La montagna, la pianura, la collina, quali sono state fin qui definite e configurate, costituiscono evidentemente altrettante regioni naturali. Nel complesso della frangia alpina non si osservano quei passaggi tra formazioni diverse che sul versante francese hanno portato a distinguere Basse ed Alte Alpi. Ripido e stretto, il nostro versante fa tutt’uno e mal si assoggetta a divisioni che spezzino l’unità delle valli. E, comunque, ognuna di queste fa regione naturale a sè, dallo sbocco alla testata.

    Evidenti nella nostra montagna, e spesso ben marcate, proprio per la forte declività del versante e per gli assai accentuati dislivelli, sono le fasce altitudinali di clima e di vegetazione che si distinguono solitamente sui fianchi delle catene alpine dal loro piede alle vette. Come si parla correntemente di una regione dei pascoli, si potrebbe parlare di una regione di base o delle colture, per indicare la fascia compresa fra il fondovalle e gli 800-900 m. e che, favorita dal terreno sminuzzato e permeabile delle numerose conoidi, ospita, insieme ai policromi campicelli di segale, di grano, di patate, una notevole varietà di piante da frutta (meli, peri, susini, noci, ciliegi, ecc.), la vite, il castagno. E similmente sembra lecito indicare come regione delle foreste la fascia che per notevoli estensioni, dai 1000 ai 2400 m. riveste di essenze arboree, pure o variamente consociate, i fianchi più erti della media montagna. La già ricordata regione dei pascoli, preceduta da una subregione dei cespugli, su cui domina il rododendro, è caratterizzata da un tappeto erboso, più unito e morbido nei luoghi umidi, spesso discontinuo, giallo, pungente nei luoghi asciutti su verso i 2600-2700 m., dove segna il passaggio alla regione di alta montagna, delle rocce, delle nevi permanenti. Si può infine distinguere, entro la montagna stessa, una regione di pianura, in corrispondenza dei più ampi fondivalle, paragonabili, più che per la piattezza dei depositi alluvionali nei larghi solchi di rimodellamento glaciale, per il paesaggio agrario, a lingue sottili o a golfi della sottostante pianura.

    Le subregioni del Piemonte.

    Questa pure si lascia dividere, per la varietà della costituzione e degli aspetti, in un certo numero di unità naturali. Ben identificabile, in grazia soprattutto dei suoi elevati pianalti e delle profonde incisioni vallive nella coltre diluviale, è la parte meridionale della pianura piemontese, cui si potrebbe conservare anche in senso fisico, la denominazione corrente di pianura di Cuneo. Le curve con cui questa obbedisce all’avanzarsi della collina di Torino, e allo sporgere, in direzione opposta, di due grandi anfiteatri morenici, la ristrettezza della fascia alluviale, la diffusa proporzione di pietre verdi nel materasso delle alluvioni antiche e recenti, le magre superfici delle « vaude », e cioè una varietà di articolazioni e di fattezze quale non compare in altre parti della pianura piemontese, dovrebbero bastare a giustificare la distinzione di una pianura torinese-canavesana, dalla Maira alla Dora Baltea. Dalla Dora Baltea al Ticino, sui caratteri fisici di una residua diffusione della baraggia, di un più esteso dominio delle formazioni alluviali, di un livellamento generale della bassa e media pianura predomina un fatto umano, che è tuttavia strettamente legato a condizioni naturali, e che è la risaia, tanto che viene spontanea la denominazione di pianura risicola o vercellese-novarese. Chiaramente individuate da quella specie di culdisacco che s’affonda tra colline casalesi ed Appennino sono la posizione e la monotona fisionomia della pianura di Alessandria. E sul fondo del corridoio del Tanaro, fra Alessandria (o meglio Felizzano) e Bra, un’altra striscia di pianura, sottile ed allungata questa, assume una sua capricciosa personalità.

    Già si sono indicate le ragioni per le quali, nella cittadella collinosa sorta in mezzo al territorio piemontese, si riconoscono gli elementi di tre differenti unità costruttive. Il sistema Moncalieri-Valenza, pur nella diversa morfologia dei due tronchi — collina di Torino e colline di Casale — ha una propria fondamentale coerenza, come catena a pieghe con una o più dorsali, dirette, molto grosso modo, da est ad ovest. Le Langhe, analoghe a quel sistema per origine, per età e natura dei terreni, ma più energicamente rilevate nei loro paesaggi sommitali, quasi alpestri, presentano un insieme di dorsali, rivolte, anche qui grosso modo, da sud a nord. Le colline dell’Astigiano, più giovani e più uniformi nella semplicità della loro struttura geologica, sono più basse e riflettono nel minuto arabesco dei loro poggi e delle loro vallecole, l’origine per sola erosione dal fondo tranquillo di una conca marina.

    Regioni storiche e tradizionali

    La parte della storia nell’enucleare dal fondo territoriale del Piemonte delle unità regionali consegnate alla tradizione ed in essa ancor vive è parte di primissimo piano. Ma si deve subito osservare che tali unità mostrano di quadrare spesso, almeno nelle loro grandi linee, con quelle già distinte in base a caratteristiche naturali. Così, posizione geografica, importanza di valichi, ampiezza di risorse e di spazio hanno indubbiamente concorso a fare della valle d’Aosta l’unica regione storica della nostra falda alpina, d’altronde troppo stretta e precipite, dicevamo, per far luogo a formazioni politiche capaci di vita propria.

    Non si può, in effetti, riconoscere la dignità di regione storica a piccole formazioni territoriali nelle Alpi, determinate unicamente da contingenze politiche e prive, sia di una propria base geografica, sia di distinti ordinamenti unitari: s’intende qui alludere all’alta vai di Susa, che, con la vicina vai Chisone costituì, come abbiamo ricordato a suo tempo, un profondo cuneo francese nello Stato sabaudo, dalla forma caratteristica, interpretabile come un becco, sì da ricevere il nome di Bec Dauphin ed essere considerato come il « Dauphiné aux eaux pendantes vers l’Italie ». Altrettanto si dica della « Castellata », comprendente i territori di Casteldelfino, Bellino e Chianale in vai Varaita, essi pure, fino al Trattato di Utrecht, possessi del Delfino di Vienna e poi della Francia.

    Maggiore vitalità hanno le regioni storiche, che dalla montagna scendono ad abbracciare una parte della pianura sottostante. L’esempio della formazione della regione piemontese è parlante al riguardo. E si spiega tale vitalità soprattutto con le maggiori possibilità di vita varia ed autosufficiente offerte dall’integrazione delle risorse montane con quelle della pianura. E il caso, non solo del Piemonte originario, ma anche del Canavese e del Saluzzese. Quanto al Canavese, anche senza far capo al territorio dei Salassi, abitatori dello sbocco della valle d’Aosta, si può risalire all’ager del municipio romano di Eporedia (Ivrea), che si stendeva a ponente fino al corso superiore del Malone e dell’Orco: comprendeva forse la valle grande di Lanzo, certo la valle Locana o dell’Orco, la vai Soana e la vai Chiusella; confinava a settentrione con Carema, tra Settimo Vittone e Donnaz, estremo limite del territorio di Augusta Praetoria, e seguitava a oriente la cresta della Serra, includendo tutto l’anfiteatro morenico d’Ivrea, per passare poi dalla sponda sinistra della Dora Baltea, alla destra, tra Villareggia e Saluggia.

    Press’a poco gli stessi confini manteneva l’autorità ecclesiastica, assegnando alla diocesi d’Ivrea la regione pianeggiante compresa fra l’Orco e la Serra d’Ivrea e la montuosa delle valli Locana, di Soana e di Chiusella. Soltanto a mezzogiorno i limiti delle diocesi non coincidevano con quelli dell’antico municipium, spingendosi oltre Po, alle colline di San Sebastiano, di Berzano, di Casalborgone, di Moriondo. Sede, sotto i Longobardi, di uno dei quattro ducati che sappiamo essere stati istituiti nella regione piemontese; contea in amministrazione diretta sotto Carlo Magno; centro di una delle marche in cui, sul finire del IX secolo, Guido di Spoleto ordinò l’Italia Neustria, per un certo numero d’anni Ivrea dettò legge a quasi tutto il Piemonte, pur mantenendo il proprio contado nei limiti entro cui s’estendeva un giorno la giurisdizione del municipium romano.

    Opere antiche e moderne a Pont Saint-Martin, confine del ducato di Aosta.

    Vedi Anche:  Lo sviluppo industriale del Piemonte

    In tal modo era venuto preparandosi l’ambiente in cui il nome Canavese doveva trovare le migliori condizioni di sviluppo, ed entro i cui confini era chiamato ad esercitare la propria forza di espansione. « Canava » una piccola curtis sotto Cuorgnè, nei pressi di Salassa, menzionata per la prima volta in un diploma di Ludovico III del 401, fu il centro d’irradiazione del nome stesso, donde «Canavese, Canavise » latinizzato in Canavesiwn, Canavisium, Canapitium, che gli umanisti, e dopo di loro numerosi storici e geografi, preferirono far derivare, ma erroneamente, da una supposta particolare feracità in fatto di canapa. Il primo diffondersi del nome fuor del suo territorio d’origine data dal tempo in cui, verso la fine del secolo XII, la corte di Canava divenne sede dei comites de Canavise. Con questa denominazione compare poco dopo una lega o consortile, formata non solo dai conti di Canava e dai loro rami collaterali, ma anche da altre famiglie nobili della zona. I confederati, stretti soprattutto dal timore della potenza monferrina, si assicurarono nel 1213 l’appoggio di Ivrea e gradatamente estesero, attraverso ulteriori adesioni, l’area della loro influenza. Con essa si ampliò ad un tempo l’area del nome Canavese, che comparirà in Dante (Purg., c. VII, v. 134): quando Sordello addita… « Guiglielmo marchese, per cui e Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canavese». Stando all’Azario, il primo storico del Canapitium (principio del secolo XIV), questo aveva come confini « a mane districtus Vercellarum, a meridie terras Montis-ferrati supra Padum : a sero in parte terra Pedemontium et in parte terra illustris principis domini comitis Sabaudiae et a monte dictae Alpes et aliae possessae, et Yporegia civitas cum Valle Augusta ». Non è qui il caso di tener dietro alle sorti del territorio diventato canavesano, tanto più che dal 1313 esso passò a far parte integrante dei domini sabaudi. Ricorderemo soltanto che verso mezzogiorno non fecero parte delle terre propriamente canavesane Chivasso e Settimo Torinese, mentre verso occidente il nome si estese dal Malone verso la Stura di Lanzo, senza tuttavia raggiungere Caselle, Ciriè e Lanzo, che formavano la terra vetus della signoria sabauda cismontana. Come vedremo, al riconoscimento del Canavese, quale unità storico-geo-grafica, innegabile per armonia di territori intorno ad un grande asse di traffici, per antichità di tradizioni, e per rilievo di confini, non mancherà la sanzione degli ordinamenti amministrativi.

    Le rosse torri del castello d’Ivrea. Sullo sfondo la regolare muraglia della Serra, confine tra Canavese e Biellese.

    Meno anticamente radicata e meno spiccatamente individuata appare un’altra regione montana e pianigiana del Piemonte, il Saluzzese o Saluzzo, come più semplicemente dirà Fazio degli Uberti (Dittamondo, 1. Ili, c. V, v. 70). Alla sua origine troviamo un centro medioevale, la cui prima menzione risale secondo alcuni intorno al 964, secondo altri intorno al 1064: centro formatosi in amena posizione sullo sperone in cui termina il contrafforte che divide la vai Varaita dalla vai Bronda e dalla valle del Po. E troviamo pure una famiglia di signori che, stanziati i propri feudi fra il Po, la Stura di Cuneo e le Alpi, avevano assunto il nome di marchesi di Saluzzo. Si è già accennato, di passaggio, alla vita precaria e drammatica del piccolo Stato, senza un’ampia conca valliva e senza importanti valichi alle spalle, premuto tra vicini ingordi e potenti come i Delfini di Vienna e i Savoia.

    Nel disordine provocato dall’invasione angioina, il marchesato di Saluzzo s’impossessò, oltre che di molti altri luoghi minori, del comune e del distretto di Cuneo e della valle della Stura, di modo che alla fine del secolo XIII il marchesato presentava un territorio abbastanza compatto, che era circondato parzialmente anche da confini fisici, rappresentati dalle Alpi, dalla Stura, dalla Mellea, dalla Maira e dal Po, e che comprendeva, insieme alle rispettive valli, la pianura digradante dalle Alpi Cozie e incuneantesi in mezzo a paesi di varia pertinenza fino a Carmagnola. Prestando alternativamente omaggio ai Delfini e ai Savoia, i marchesi di Saluzzo riuscirono a rimanere indipendenti di fatto. Al principio del secolo XVI lo Stato saluzzese perdette Cuneo e la valle della Stura, e si ridusse nei limiti conservati fino all’estinzione del marchesato con la sua riunione al Delfinato nel 1549 e poi richiamati in vita nelle divisioni amministrative dei domini sabaudi. Tali limiti s’identificavano con la displuviale alpina, con i contrafforti racchiudenti la vai Varaita, la vai Bronda e la valle del Po, con le pendici settentrionali del Monte Bracco, poi con il Po stesso fino a Casalgrasso, quindi con una linea che passando poco ad est di Caramagna, Cavallermaggiore, Marene, raggiungeva la Stura a Cervere, donde, lasciando al marchesato Genola e Levaldigi, oltrepassava la Maira e la seguiva sino al piede della montagna.

    Tipicamente collinare è invece la regione storica che ebbe vita ed una sua fisionomia fra rustica e guerriera sotto i marchesi di Monferrato. Collinare al punto che si finì per dare alla denominazione di Monferrato un significato spaziale più esteso di quello propriamente storico, portandolo a coincidere con tutta l’ampia collina del Piemonte centrale fra il Po e l’Appennino ligure. Ma andiamo con ordine, cominciando dal nome che è di dubbiosa origine, ma in cui peraltro è chiara la designazione del rilievo prominente come monte. L’incertezza sta nel predicato, che alcuni vogliono derivare da ferax, donde «monte ferace»: altri da mons farratus e cioè ricco di farro, altri ancora da mons ferratus e così via. Sta di fatto che nella forma di Montefarrato e simili il nome compare in diplomi della fine del secolo X ed è, a quanto sembra, relativo a luoghi della collina di Torino.

    Anche questo nome ha trovato la sua fortuna nel sorgere di un potere politico dotato di notevole forza espansiva, sicché, abbandonando i colli torinesi (che gli sfuggirono per sempre) migrò verso oriente, per portarsi sulle colline di Casale e poi per allargarsi via via che si allargavano le conquiste dei marchesi. I quali, afferrato il meglio dell’eredità aleramica (secolo X e XI), e pur avendo la loro acropoli sulle turrite balze delle colline casalesi, fra il duplice fossato del Po e del Tanaro, tesero costantemente ad estendersi nelle pianure circostanti, e quindi a tenere in pugno i centri che permettevano di puntare su di esse: Chivasso, sul Canavese, Trino sul Vercellese e sulla Lomellina, Valenza sulla pianura alessandrina e sull’Oltrepò.

    Nella capitale elei marchesato di Saluzzo particolare di casa Cavassa.

    Ed effettivamente, durante i periodi di auge che culminarono con Guglielmo VII il Grande, nella seconda metà del secolo XIII, il marchesato monferrino travalicò i grandi fiumi che lo rinserravano e portò il suo dominio in terre transpadane, come sul bordo settentrionale delle Langhe. Ma unici acquisti durevoli furono quelli del settore tra Tanaro e Bormida, sicché lo Stato degli Aleramici e poi dei Paleologi (1305-1533) fu costretto a conservare la sua caratteristica fisionomia di Stato di collina. Tuttavia ai marchesi non sarebbe forse mancata la possibilità di crearsi una base geografico-politica più stabile, sicura, e redditizia, se avessero potuto farla da padroni nel corridoio del Tanaro, senza del quale cessava l’unità e il pieno controllo della regione collinosa. Tutti i tentativi fatti in questo senso si può dire che si siano infranti contro l’affermarsi di un’altra unità regionale collinare, ben individuata in senso fisico, il bacino terziario astigiano, e in senso politico prima gravitante intorno al comune di Asti, poi ambita e vittoriosamente contesa da forze politiche esterne che avevano possenti interessi legati alla valle del Tanaro.

    Il risultato territorialmente più significativo di questi contrasti per il possesso dell’importantissima via di comunicazione fu che il marchesato di Monferrato si spezzò presto in due monconi, separati dal solco del Tanaro, e ai quali più propriamente rimase il nome di Monferrato, ma con una curiosa deformazione, per cui si chiamò Basso Monferrato l’insieme della catena casalese e delle prime colline da essa degradanti verso mezzogiorno e si distinse tradizionalmente come Alto Monferrato il paese limitato a nord dal Tanaro e verso sud da una linea che segue la strada Alba-Canelli-Nizza-Acqui-Ovada-Novi Ligure, risalendo, però, fra la Bormida e la Stura di Ovada, notevolmente a monte, per le valli della Bormida, dell’Erro e della Stura.

    Vedi Anche:  Marchesati e Langhe


    Nella capitale del marchesato di Monferrato: casa Tornielli a Casale Monferrato.

    Sebbene indebolito dalla frattura mediana ora ricordata e da confini estremamente frastagliati e labili, e sebbene formato da terre soggette ad assai diversi rapporti di vassallaggio, lo Stato monferrino sopravvisse ad ardue prove. Ma, in realtà, nei secoli XIV e XV, diventato oggetto della cupidigia sabauda e viscontea, si salvò soltanto per la rivalità tra le due potenze, come nei secoli XVI e XVII, passato ai duchi di Mantova, e fatto esso pure ducato, si mantenne soprattutto quale pedina nel gioco per il possesso della valle padana tra Spagna e Francia prima, poi fra Borboni ed Absburgo. L’importanza delle strade che passavano per il Monferrato era tale da determinare pronte coalizioni di interessi ogni qual volta si profilava la minaccia di una egemonia politica della regione. Ultimo ostacolo sulla via che doveva condurre all’unità piemontese, il Monferrato, fu assegnato nel 1708 a quei prìncipi di Savoia che per secoli e secoli avevano tenacemente perseguito il disegno di ottenere in qualunque modo l’agognato paese.

    Le colline dell’Astigiano, così omogenee nella struttura e nell’aspetto, si prestarono assai bene al differenziarsi entro il maggior organismo monferrino, di una modesta ma vivace regione storica, stirata lungo un tratto del Tanaro e facente capo ad Asti, donde il nome medioevale di Astisium. Situata su un punto cruciale della strada del Tanaro, ove tra il Versa ed il Borbore, il corso del fiume cambia direzione; dotata di ottime comunicazioni verso i passi che dalle valli appenniniche portano al mare; posta al centro della raggera donde convergono tutte le valli e le strade delle colline astigiane, Asti disponeva di magnifiche possibilità di sviluppo, che attendevano il momento favorevole per farsi valere. Questo momento — che durò più di un secolo — venne quando, insieme all’affermarsi delle libertà comunali, fiorirono i traffici fra il Levante Mediterraneo e la Champagne e le Fiandre: quando cioè, e lo abbiamo già accennato, il Piemonte, trovandosi sul percorso obbligato di tali traffici, s’inserì nella loro corrente, tramite parecchi centri urbani, tra cui Asti venne a primeggiare, tanto da diventare il più potente Comune del Piemonte (fine secolo XII e prima metà del secolo XIII).

    Come è noto, dopo essersi dedicati all’industria e al commercio dei panni, gli Astigiani, appresa dai Genovesi, secondo la tradizione, l’arte del cambio, la esercitarono poi in tutti i paesi d’Europa traendone copiose ricchezze. Queste vennero in parte impiegate a dare una larga base territoriale al Comune, che venne via via esercitando la sua influenza su uno spazio crescente tutt’intorno. Verso il 1300 l’Astisium, e cioè la regione collegata in maniera più o meno diretta alle fortune di Asti, confinava a levante col marchesato di Monferrato per Villadeati, Moncalvo, Grazzano, Viarigi, Fubine: con Alessandria per Quargnento, Solaro ed Oviglio; nuovamente col Monferrato per Mombaruzzo, Acqui e Bistagno; poi con i feudi imperiali del marchese Del Carretto (Spigno, Dego, Cairo, Millesimo e Calizzano); a mezzogiorno con Ormea; a ponente con Cuneo e con un buon tratto del marchesato di Saluzzo, quindi con lo Stato dei Prìncipi d’Acaia a Racconigi e a Carignano; a settentrione col territorio del Comune di Chieri e dopo Sciolze ancora col marchesato di Monferrato.

    Si sono ricordati or ora i feudi imperiali. Il richiamo ci conduce ad un’ultima regione fisica del Piemonte sulla quale è venuta innestandosi nel Medio Evo una particolare configurazione politica. La regione è quella delle Langhe, dove lo sbriciolamento del territorio in minuscole formazioni statali, comune a tutto il Piemonte feudale, ebbe le sue manifestazioni più spinte. Di fatto, durante i secoli XII e XIII e per buona parte del secolo XIV, le Langhe presentarono un groviglio quasi inestricabile di signorie comunali e consortili. In vai Scrivia avevano possessi i marchesi Malaspina, i marchesi di Gavi, di Parodi, del Bosco. Più ad occidente prevalevano in vai d’Orba gli stessi marchesi. Tra le due Bormide inoltre instauravano i loro feudi i marchesi Del Carretto, di Ceva, di Clavesana, di Ponzone e altri aleramici. La parte delle Langhe che non apparteneva ai marchesati di Finale, di Saluzzo, e di Monferrato formava una specie di stato confederato in regime feudale.

    Nei secoli successivi, mentre tutto intorno si formavano le grandi signorie, nelle Langhe questo sminuzzamento politico, pur limitato dal predominare dei Del Carretto, degli Incisa, degli Spinola, dei Doria, perdurò sotto la protezione dell’Impero, da cui direttamente dipendeva la maggior parte dei feudi locali. Pur ammettendo come evidente la funzione disgregatrice di un rilievo a dorsali diramate, come quello delle Langhe, sembra anche qui doversi attribuire il conservarsi di tante formazioni politiche principalmente alla reciproca gelosia dei potenti vicini di fronte alla sicurezza delle grandi vie commerciali che attraversavano le Langhe. Che non di meno restavano una regione abbastanza appartata dal resto del Piemonte. Anche questo isolamento può contribuire a spiegare come i feudi imperiali siano rimasti pressoché indisturbati fino al 1815, anno della loro annessione al regno di Sardegna. E può pure dar ragione del fiero spirito di insofferenza dimostrato dagli abitanti delle Langhe per la perdita di certe loro libertà.

    Nel novero delle minori regioni tradizionali rientrano quelle che ricollegandosi alla superficie dei municipii romani, dei districtus urbis medioevali, s’incentrano nella città, ma hanno tuttavia perduto la precisa determinazione giuridica e territoriale di un tempo, per trasformarsi in un’area di influenza prevalentemente economica e culturale. Si può dire che tali regioni sono tante quante le città piemontesi di qualche rilievo. Ma le più importanti, specialmente dal punto di vista storico, sono l’Acquese, l’Albese, l’Alessandrino, il Pinerolese, il Monregalese, il Cuneese, il Biellese, il Vercellese, il Novarese, l’Ossolano.

    Divisioni amministrative

    Il motivo fondamentale per cui si deve dire che in epoca romana non si riconobbe l’esistenza di una regione anche soltanto fisica, corrispondente al Piemonte, sta nella divisione della pianura piemontese operata sulla linea del Po, tra la IX e la X regione augustea, rispettivamente Liguria e Transpadana. Si è notato a suo tempo come Roma, non avendo molta fiducia nell’acquiescenza delle nostre popolazioni alpine al suo dominio, ripartisse le Alpi occidentali in provinciae da cui presero nome e delimitazione le Alpi Marittime, Cozie, Graie e Pennine. Con la riforma di Diocleziano i confini della diocesi italiciana furono portati alla linea di displuvio delle Alpi, e quindi inglobarono il versante interno e cioè piemontese delle antiche province alpine. Il nome di Alpes Cottiae rimase ad una delle 12 province della diocesi italiciana, come rimasero la Transpadana e la Liguria. Nel corso del IV e del V secolo un singolare mutamento venne a sconvolgere le linee della divisione di Diocleziano nella nostra regione. Il nome di Alpes Cottiae andò via via guadagnando terreno verso est e verso sud sino a comprendere le Alpi Marittime, l’Appennino ligure e parte della pianura padana a destra del Po. Per contro, il nome Liguria s’imponeva rapidamente in parte del Piemonte orientale e settentrionale ed in quasi tutta la Lombardia.

    In buona età romana i municipi che si ripartivano il territorio piemontese dovevano essere: Dertona (Tortona), Iria (Voghera), Libarna (presso Serravalle Seri via), Acquae Statiellae (Acqui), Forum Fulvii (Valenza), Vardagate (a sud di Casale), Industria (presso Monteu da Po), Carreo Potentia (Chieri), Pollentia (Pollenzo), Hasta (Asti), Alba Pompeia (Alba), Augusta Bagiennorum (Benevagienna), Pedo (Borgo San Dalmazzo), Forum Vibii Caburrum (Cavour), Augusta Taurinorum (Torino), Eporedia (Ivrea), Vercellae, Novaria, Victimula (presso Biella). Di alcuni di questi municipi, come di alcuni altri costituitisi più tardi (Plumbia o Pombia, Stationa o Stazzona, Oscella o Domodossola, Bulgaria, presso Novara, Auriate, fra Stura e Po, Bredulo, fra Tanaro e Scrivia), è possibile ricostruire l’area, cosa importante, perchè sembra certo che i ducati longobardi e poi i comitati franchi abbiano spesso ricalcato i confini dei corrispondenti municipi o di gruppi di municipi.

    In sèguito alla creazione delle marche occidentali d’Italia, il territorio del Piemonte si trovò ad essere diviso tra le quattro marche d’Ivrea, di Torino, della Liguria occidentale, della Liguria orientale. La marca d’Ivrea (o Anscarica), prima estesa a quasi tutto il Piemonte attuale, dopo la riorganizzazione delle marche fatta da Berengario I verso il 945-950, venne limitata ai territori a nord del Po, compresi fra il Ticino e il Malone. Comprendeva cioè i comitati di Ivrea, Vercelli, Bulgaria, Lomello, Pombia, Stazzona, Ossola. La marca di Torino (o Arduinica) era limitata dall’arco alpino, dal mare alle sorgenti del Malone, mentre il suo confine orientale scendeva con questo fiume al Po, donde, accompagnando il corso del torrente Versa, raggiungeva il Tanaro e, risalendo il corso del Belbo fino alle sorgenti, attraversava le Alpi Liguri per scendere al mare presso Finale: comprendendo i comitati di Torino, di Auriate, di Bredulo, di Alba, di Albenga e di Ventimiglia.

    Vedi Anche:  Evoluzione della crescita demografica

    Nell’area già soggetta ai feudi imperiali sono frequenti gli antichi manieri (Castello di Molare).

    La marca della Liguria occidentale (Aleramica) comprendeva nel secolo XI i quattro comitati di Vado (o Savona), di Acqui, Loreto e Monferrato. Limitata fra il mare e il Po, confinava a settentrione con la marca d’Ivrea, a occidente con quella di Torino, mentre il suo confine orientale seguiva la linea che tra Voltri e Varazze risale l’Appennino: di qui scendeva tra Ovada e Gavi, poi lungo la Stura, la Bormida e il Tanaro raggiungeva il Po. La marca della Liguria orientale (o Obertenga) era in gran parte estranea al Piemonte, che vi rientrava col solo comitato di Tortona.

    Durante i primi tempi della dominazione sabauda in Piemonte, la valle di Susa e il Canavese costituivano un baliato, le cui terre principali erano Susa, Avigliana, Caselle, Ciriè e Lanzo. Il resto non era diviso in baliati ma in Comuni di cui Torino, Carignano, Pinerolo, Moncalieri, Cumiana, Cavour, Vigone, Villafranca erano i principali. Dopo un lungo periodo di confusione e di disordine, entro uno schema già moderno di organizzazione finanziaria e amministrativa dello Stato, Emanuele Filiberto istituì nel 1561 sette province che erano: Vercelli, Cuneo, Mondovì, Savi-gliano, Ivrea, Asti, Moncalieri. Carlo Emanuele I portò le province da sette a dodici. Nel 1624 furono aggiunte quelle di Nizza e di Aosta. Col regolamento del 1729 le province furono undici per il Piemonte, compresa Nizza e Oneglia, quattro per il ducato di Monferrato, compresa Mortara per la Lomellina e una per il ducato di Aosta e la Valsesia. A queste si aggiunsero nel 1738 le province di Novara e di Tortona e nel 1748 il Vigevanese e l’Alto Novarese.

    L’uniformità introdotta dall’ordinamento provinciale non riuscì tuttavia a riassorbire, almeno nell’uso corrente, le divisioni delle precedenti formazioni politico-territoriali. Così, per esempio, una statistica del 1759 per il Piemonte dice esservi compresi dieci territori: i° il ducato d’Aosta; 2° il marchesato d’Ivrea; 3° la signoria di Vercelli; 4°la contea d’Asti; 5° il Piemonte proprio; 6° il marchesato di Susa; 7° il marchesato di Saluzzo; 8° le Langhe; 9° la contea di Nizza; 10° il principato di Oneglia. Il Monferrato vi figura come a sè stante: il Novarese, la Valsesia, il Vigevanese, la Lomellina, l’Alessandrino, il Tortonese e l’Oltrepò Pavese portano complessivamente il nome di Lombardia di Savoia, ma più frequentemente erano chiamati « province di nuovo acquisto ».

    L’occupazione del Piemonte da parte delle forze rivoluzionarie sconvolse profondamente il sistema delle precedenti circoscrizioni cui furono sostituiti i dipartimenti: i° di Montenotte (che comprendeva una parte dell’antica provincia di Mondovì); 2° delle Alpi Marittime; 3° della valle di Stura con i territori di Cuneo, Saluzzo, Savigliano, Alba e parte di Mondovì; 4° del Po, con Torino, Pinerolo, Susa e parte dei territori di queste città; 5° della Dora (Baltea) che abbracciava il ducato d’Aosta e la provincia d’Ivrea; 6° della Sesia; 70 di Marengo; 5° dell’Agogna (con le province di Novara, Pallanza, Ossola e Varallo). Incoronato Napoleone, il Piemonte formò la 27a divisione, che comprendeva il territorio di quattro dipartimenti, fra cui Vercelli, mantenuta capoluogo del dipartimento della Sesia.

    La restaurazione mutò completamente l’ordinamento amministrativo foggiato sul modello francese. Il 7 ottobre 1814 lo Stato fu nuovamente diviso in province portate al numero di ventuno. Queste province costituivano cinque divisioni, che divennero sei (Torino, Cuneo, Vercelli, Alessandria, Novara, Aosta) sotto Carlo Alberto con la legge 7 ottobre 1848. Tale ordinamento, che raggruppava in ogni divisione (salvo Aosta) un certo numero di province, durò fino alla legge del 23 ottobre 1859, che organizzò il Piemonte in quattro sole province: Torino, Cuneo, Alessandria, Novara. La stessa legge divideva il territorio piemontese in circondari, mandamenti e Comuni. Nel 1927, staccando dalla provincia di Novara gli ex-circondari di Varallo, Biella, Vercelli ed i Comuni di Villata e Borgo Vercelli, si costituì la provincia di Vercelli, che a sua volta cedeva alla provincia madre l’ex-Comune di Campello Monti e la frazione Isella del Comune di Valduggia. Nello stesso anno si decretava la formazione della provincia di Aosta, ottenuta a spese della provincia di Torino, da cui venivano staccati gli ex-circondari di Ivrea e di Aosta. Nel 1935 veniva poi creata la settima provincia, quella di Asti, raggruppando in essa 105 Comuni già appartenenti alla provincia di Alessandria, per una superficie complessiva di kmq. 1511. Costituita nel 1948 la valle d’Aosta in Regione autonoma, l’ex-circondario di Ivrea è tornato a far parte della provincia di Torino. Le province del Piemonte amministrativo sono dunque tornate ad essere sei e più precisamente:








    Città kmq
    Alessandria 3560,40
    Asti 1510,76
    Cuneo 6903,14
    Novara 3593,87
    Torino 6830,14
    Vercelli 3000,87

    La Val d’Aosta sta a sè con una superfìcie di kmq. 3262,26. In due secoli l’area del Piemonte in senso amministrativo ha subito prima lente e scarse diminuzioni, poi, recentemente, una notevole mutilazione. Tali cambiamenti sono documentati dalla tabella IV, a pag. 576.

    Per quel che si riferisce alla ripartizione del territorio amministrativo piemontese in Comuni, questi, che nel 1734 erano 1205, a quasi due secoli di distanza (1921) erano saliti di poco (1489), per poi ridiscendere nel 1943 a 1068 e per risalire nel 1956 a 1205, pur senza contare i 74 Comuni della Regione autonoma della valle d’Aosta. Per numero di Comuni il Piemonte viene quindi secondo, fra le regioni d’Italia, dopo la Lombardia, che ne conta 1528.

    Dei 1205 Comuni piemontesi, i più numerosi, e di gran lunga i più piccoli, sono quelli di collina, che sommano a 581, con una media superfìcie di 1327 ettari. Seguono, sempre per numero, quelli di montagna, che sono 346, con una ben maggiore superficie media (3173 ettari). Vengono, infine, i Comuni di pianura, che sono 278, ed hanno superficie media (2413 ettari) più equilibrata. Per chi fosse curioso dei valori estremi in materia ricorderemo che, quali Comuni più vasti, appaiono in Piemonte: Alessandria con 20.371 ettari (ma Cogne, in vai dAosta ne possiede 21.274); poi Vinadio (provincia di Cuneo) con 18.393; Asti con 15.182; Locana (provincia di Torino) con 13.274; Formazza (provincia di Novara) con 13.042. Questi i giganti. I pigmei li identifichiamo in Miagliano (provincia di Vercelli) con 66 ettari; in Crosa, nella stessa provincia, con 96 ettari, seguiti da Arizzano (provincia di Novara) con 163 ettari; da Quagliuzzo (provincia di Torino) con 193 e da Pecco, pure in provincia di Torino, con 198 ettari.

    Distribuzione dei Comuni per classi di altitudine.

    Distribuzione dei Comuni per classi di ampiezza.

    Ancora in tema di curiosità geografico-amministrative, il Piemonte si distingue dalle altre regioni italiane per una singolare abbondanza di « isole amministrative », e cioè di parti di territorio comunale completamente isolate dal corpo principale e situate nel territorio di altro o di altri Comuni. Il Piemonte ha, da solo, ben 105 delle 451 « isole amministrative », riconosciute dal Pedreschi in un apposito studio, per tutta l’Italia. Vero è però che le « isole » piemontesi sono in maggioranza di proporzioni addirittura minuscole. I due gruppi più numerosi di tali « isole » sono montani. Uno corrisponde all’alta vai Chiusella: l’altro alle pendici del Mombarone. Si tratta comunemente di pascoli appartenenti a Comuni di collina o di bassa montagna. Un piccolo gruppo si distingue in provincia di Alessandria presso il Po ed è formato generalmente da vecchie isole fluviali, create da meandri morti.