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Valle d’Aosta

    Cenni descrittivi della Valle d’Aosta

    I precedenti storici e i limiti dell’autonomia

    Abitata in epoca preromana da un piccolo popolo locale di incerta origine etnica, i Salassi: latinizzata per effetto della conquista romana ma segregata dalla pianura e quindi dal resto della penisola per una serie di strozzature; incuneata in sèguito fra il mondo francese e quello elvetico: ad essi legata attraverso i funicoli del Piccolo e del Grande San Bernardo, ma al tempo stesso gelosa della sua indipendenza, la valle d’Aosta ebbe presto coscienza di una sua innegabile omogeneità di genesi di vita, di costumi, di tradizioni, di parlata — omogeneità accresciuta dal relativo isolamento e dai contrasti fra i grandi domini circostanti — e si diede istituti ed ordinamenti propri. I conti e i duchi di Savoia fin dall’inizio del loro potere sulla valle d’Aosta riconobbero l’autonomia di questa piccola patria, largheggiando in privilegi e libertà, che ogni nuovo sovrano veniva a riconfermare con rito solenne nella cattedrale di Aosta alla presenza dei tre Stati riuniti.

    Le più antiche concessioni risalgono al 1191 quando Tommaso I, allo scopo di frenare l’arbitraria strapotenza dei signorotti locali, andò appositamente ad Aosta, per largirvi la così detta Carta delle Franchigie. Ripresa nel 1253 da Tommaso II la Carta subì ulteriori modifiche e amplificazioni: l’unità fisica ed antropica della valle d’Aosta aveva trovato conferma in campo politico ed amministrativo con l’erezione della valle stessa a Ducato, avvenuto nel 1238. I conti di Savoia ne ricevevano l’investitura, acquistando per tal modo la formale signoria che già possedevano di fatto. Era fatale che coerentemente al corso delle sue acque la valle d’Aosta seguisse le sorti di una signoria destinata a rafforzarsi sul versante italiano. L’accentramento dei comandi, sancito negli Statuta Sabaudiae del 1430, portò il primo colpo di piccone all’esercizio delle franchigie valdostane. Nel 1466 con Amedeo IX si tennero le ultime udienze generali.

    Avanzi del teatro romano di Aosta. L’arco inquadra la torre del Bailliage.

    Nei decenni di mezzo del secolo XVI, durante lo sfacelo dei domìni sabaudi, il Ducato d’Aosta, governandosi come paese quasi autonomo, riuscì abilmente a conservare la neutralità ed a risparmiarsi disastrose invasioni, pur offrendo l’estremo rifugio ai suoi signori. Per ricompensare questa fermezza e questa fedeltà Emanuele Filiberto, pur teso nello sforzo di cancellare tutte le divisioni e le disparità, lasciò sussistere il Consiglio dei Commessi dichiarando solennemente che: « le paìs d’Aouste est une province séparée qui ne dépend de nos autres provinces dega et delà Ics monts ». Le Regie Costituzioni del 1770 segnarono la caduta dei privilegi goduti per tanti secoli e seppellirono gli istituti valdostani: i tre Stati, il Consiglio dei Commessi, il « livre des Connaissances » e il « Coùtumier » o più esattamente libro dei « Coutumes du Duché d’Aoste » di cui è stata curata dal Consiglio della Valle nel 1959 una nuova edizione in superba veste tipografica. Tuttavia il « Règlement particulier pour le Duché d’Aouste » accordato nel 1773 da Vittorio Amedeo III concesse speciali temperamenti e deroghe alle disposizioni contemplate nelle Regie Costituzioni. Come Ducato la valle d’Aosta fu assorbita dal Regno nel 1822 e affinchè sopravvivesse, almeno di nome, nel 1845 Carlo Alberto stabilì che il nipote principe Amedeo portasse il titolo di Duca d’Aosta.

    Vecchio e nuovo nel castello di Avmavilles

    La particolare condizione fatta alla valle d’Aosta nell’insieme dello Stato sabaudo si spiega anche ricordando che, di tutto lo Stato stesso, la valle d’Aosta è la regione che meno ebbe a soffrire delle dominazioni straniere. Salvo brevissimi periodi di soggezione francese, appartenne ininterrottamente alla dinastia sabauda e non senza ragioni fu chiamata Aouste la Pucelle. Il tradizionale regime di autogoverno goduto per secoli dalla valle d’Aosta ha ripreso vita e figura giuridica nello Statuto di Regione autonoma che la Costituzione italiana ha riconosciuto alla valle d’Aosta. Il limite inferiore della Regione, e cioè il torrente Lys fra i comuni di Pont-St.-Martin e Carema, è ancora quello che i Borgognoni, i Franchi, i prìncipi, conti e duchi di Savoia rispettarono.

    La Regione, nei limiti del potere legislativo statale e nel rispetto dell’interesse nazionale, esercita la funzione legislativa specialmente in materia di polizia locale, di urbanistica, di trasporti, di acque, di caccia e pesca, di artigianato, di industria alberghiera, di turismo, di toponomastica. Ma sino ad ora la Regione ha limitato la sua attività legislativa al campo delle norme di integrazione e di modificazione delle leggi statali vigenti. Per altro, alla Regione sono state attribuite, con leggi speciali, la competenza amministrativa e la gestione diretta di numerosi ed importanti servizi già di spettanza di uffici statali e di enti locali soppressi.

    Il territorio della valle d’Aosta è posto fuori della linea doganale e costituisce zona franca. Sono organi della Regione: il Consiglio della Valle, eletto per quattro anni, composto da 35 consiglieri e da un Presidente; la Giunta regionale, il cui Presidente, eletto dal Consiglio della Valle tra i suoi componenti, è il capo dell’amministrazione della Valle e rappresenta la Regione. Gli assessori preposti ai singoli rami dell’amministrazione sono nominati dal Consiglio su proposta del Presidente della Giunta. La Regione, sentite le popolazioni interessate, può istituire nei propri territori nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni. La facoltà di sciogliere i Consigli dei Comuni è esercitata dalla Giunta regionale, sentito il Consiglio della Valle. Il Presidente della Giunta regionale, per delegazione del Governo della Repubblica, provvede al mantenimento dell’ordine pubblico, la cui tutela, solo in casi eccezionali può essere assunta direttamente dal Governo.

    Risalendo la valle

    Chi dal Vercellese per il Biellese o per la pianura e le colline canavesane entri in vai d’Aosta, vede sùbito che poche decine di chilometri separano due mondi, portando dal dominio di una coltura subtropicale a quello dei ghiacciai e delle nevi eterne sulle montagne più alte d’Europa. Certo si è che dall’inquadratura geografica del Piemonte la valle d’Aosta emerge e tiene un posto del tutto particolare. Anzitutto per la sua posizione all’angolo d’incontro della frontiera elvetica con quella francese, al punto di sutura delle Alpi occidentali con le centrali, in facile contatto, almeno un tempo, con le contermini regioni d’oltralpe più che con la pianura padana. Poi per la imponente grandiosità delle sue montagne, che raggiungono insuperabili culmini europei di dimensioni e mondiali di bellezza. Quindi per la sua storia che, come abbiamo già avuto occasione di notare, si è svolta nell’ambito di istituti e di ordinamenti propri, solennemente riconosciuti da conti e duchi di Savoia e oggi riconsacrati in forma di autonomia regionale. Infine per la sua struttura linguistica su cui pure ci siamo fermati a suo tempo. Un complesso dunque di tratti fisici, storici, etnici e linguistici che fanno della valle d’Aosta una entità geografico-storica assai ben definita e che le danno un alone di suggestiva originalità.

    La valle d’Aosta più che una valle nel senso geografico della parola è un compiuto mondo nel quale si concentrano tutte le variazioni possibili intorno al motivo conduttore della montagna. Questa ricchezza di variazioni sorprende anche chi si limiti a percorrere per ferrovia e su strada il fondovalle principale a partire da Pont-Saint-Martin, l’antico confine tra signoria canavese e feudalesimo valdostano. Di qui effettivamente comincia la vallèe. Dal ponte romano sul Lys, che una grande condotta elettrica fiancheggia — accostamento quasi simbolico della passata e dell’attuale funzione della valle — attraverso la cittadina ricostruita in bianco dalle rovine della guerra si scende all’ampio pianoro solcato dalla Dora e sparso di grandi opifici. Appena passato Pont-Saint-Martin, la valle si restringe ed assume un aspetto primitivo e selvaggio, sbarrata com’è dal roccione di Bard con l’ormai inutile apparato dei suoi poderosi fortilizi. Ma prima di entrare nella gola di Bard lo stretto addossarsi delle grigie case di Donnaz al fianco precipite della montagna già prepara alla difficoltà del passaggio, testimoniata dalla pierre taillée, la lunga fetta di roccia viva asportata dai Romani per dare il passo alla via consolare. Dopo la stretta di Bard ecco sulla sinistra lo sbocco del vallone di Champorcher e sulla destra di chi guarda i massi ancora freschi della grande frana del 1912.

    La valle intanto si è rifatta ampia e serena. Una serenità che neppure il cipiglio del massiccio castello di Verrès — alla uscita della valle d’Ayas — riesce ad offuscare e che si riflette nell’aspetto agreste nella zona di Issogne. Ma la verde distesa dei prati e dei vigneti — questi ultimi su regolari pergolati dalle bianche colonnine non dura a lungo. La valle ritorna a rinserrarsi, sbarrata a destra da una verticale fiancata di montagna, a grandi paretoni, lisci, nerastri, mentre sul lato sinistro la Dora, seguita dalla ferrovia, scorre in basso, in una gola serpeggiante fra roccioni cupi per la foltezza umida dei cespugli e degli alberi. La fatica della salita riceve inaspettatamente uno stupendo compenso: dalla stretta di Montjovet si esce di fatto sulla conca di Saint-Vincent. Oltre la porta, un vestibolo, come lo definisce il Dainelli, insolitamente ampio e luminoso, sulla destra adorno di vigneti e di boschi, sormontati dal rosso ferrigno della roccia, sulla sinistra frammentato di prati smeraldini e di campi. Lungo la strada che si snoda sul ripiano terrazzato a margine della conca, lasciando lontano, giù in basso, il fiume e la ferrovia, ecco dapprima i grandi alberghi e le ville della mondana Saint-Vincent, e poco dopo l’attiva, commerciante ed industriale Chàtillon, donde si stacca la strada per il Breuil.

    Un altro dei tanti manieri valdostani. Il castello di Avise.

    Intanto la grande valle qui ha mutato direzione. Prima era orientata grosso modo verso settentrione. Di qui innanzi andrà verso occidente. Sorpassato il bacino di Saint-Vincent la valle mantiene una discreta larghezza, ma soprattutto ampia, svasata e luminosa è la visione della sua testata di montagne, fra le quali in primo piano il candore di nevi del Rutor. Con un ulteriore allargarsi del fondo piatto della valle — lo stesso Castello di Fénis s’adagia su un dolce declivio di ombrose praterie — si entra veramente nel cuore del pays d’Aoste. La vasta conca su cui s’allarga a macchia d’olio la piccola capitale ha sopra di sè, alla sinistra, sempre di chi guarda, la maestosa piramide dell’Emilius, ma per un armonioso giuoco di proporzioni non ne è schiacciata. Sulla destra una ridente gradinata di colline, popolate di ville e di minuscole frazioni, conduce all’imbocco della valle del Gran San Bernardo. Oltre Aosta, il bacino in cui sorge la città va lentamente restringendosi. Il suo fondo, però, non muta carattere: coltivi, vigneti, frutteti e, di quando in quando, un castello. Quello d’Aymavilles ci ricorda che siamo giunti all’imbocco della valle di Cogne. Per breve tratto sulla sinistra fa capolino «l’ardua Grivola bella» cantata dal poeta. Poi la strada, ora in discesa, conduce nella piccola conca di Villeneuve, dove il paesaggio ha assunto caratteri più selvaggi. Separate da un sottile contrafforte su cui è il paese di Introd, sboccano qui, con due forre, la Valsavaranche e la vai di Rhéme.

    Panoramica di Saint-Vincent. Si noti l’abbondare delle nuove costruzioni.

    Ma se la montagna in basso si è rincupita, in alto a destra il fianco della valle si staglia netto sul cielo con una nota delicata di aerea serenità portata dalla bianca chiesetta di Saint-Nicolas. Da Villeneuve per lungo tratto la valle scorre ora più o meno profondamente incassata. Ed è per superare questa strettura che la strada romana, qui mirabilmente conservata, procede per intagli di roccia, su archi di sostegno, e su sostruzioni a riseghe, geniali nella loro arditezza. Un’altra opera dell’uomo, non meno ardita, è scolpita sull’opposto fianco della valle, totalmente tagliuzzato da minuscoli terrazzi su cui chilometri e chilometri di muretti sostengono la manciata di terra che fa prosperare i vigneti dell’Enfer. Nella piccola conca d’Avise s’apre la Valgrisanche, al cui ingresso è Liverogne, un tempo importante tappa per i viaggiatori. Un nuovo, precipite rinserrarsi della valle, e poi un nuovo piccolo slargo, in cui trova posto, con le case di Avise, una grande centrale elettrica. Una svolta improvvisa della roccia spalanca la spettacolosa visione del Monte Bianco.

    Il grosso attivo centro di Chàtillon allo sbocco della Valtournanche.

    Poco dopo si entra nella Valdigne — così si chiama la parte superiore dell’alta valle d’Aosta — che alterna tratti angusti e severi ad ampie conche, come quella tosto incontrata di Morgex. Il Monte Bianco s’avvicina sempre di più, dominatore: la sua catena comincia a dispiegarsi sulla destra, ma la Valdigne quasi improvvisamente si chiude, e nella strozzatura le poche case di Pré-Saint-Didier non si spiegherebbero neppur esse, se non vi fossero di mezzo le antiche terme e lo sbocco del vallone della Thuile o del Piccolo San Bernardo, la cui alta soglia è incisa dal famoso orrido. Lunga e ripida è la salita che scalando le morene di Verrand, porta all’inizio del bacino di Courmayeur, verso cui si scende poi dolcemente. Ma due quinte avanzate sulla vasta platea valliva — il Mont Chetif e il Mont La Saxe — nascondono ora in gran parte la vista del Gigante. In compenso, la conca di Courmayeur, con i vil-laggetti che vi sono sparsi qua e là e col suo centro, la Veulla, ormai cittadinizzato, è un più riposante ed armonioso spettacolo che corona degnamente l’infilata di prospettive del lungo fondovalle aostano.

    La tormentata conca in cui si snodano le frazioni della Thuile.

    Dal quale fondovalle, come rami fronzuti da un valido tronco, si dipartono le valli tributarie, che, pur avendo comune una certa aria di dimestichezza e di famiglia, non si assomigliano l’uria all’altra, e si raccomandano ciascuna per qualche particolare attrattiva. Così, per esempio, la valle del Lys o di Gressoney, che ha per sfondo il Monte Rosa; così la valle dell’Evan^n, o di Ayas, che mette ai pianori ghiacciati e al cupolone del Breithorn e ai mitici Castore e Polluce; così la valle del Marmore o Valtournanche, illuminata dalla fama del Cervino, la formidabile piramide, e dalla dolce conca del Breuil. Sul fondo dello spacco della Valpelline si affaccia arditamente il corno della Dent d’Hérens; Ollomont lascia vedere l’aguzza cuspide del Gran Combin; la valle del Gran San Bernardo offre la lunga serie dei suoi ricordi storici e i monumenti e le reliquie del suo Ospizio leggendario. Cogne unisce alla visione precipite del Gran Paradiso quella delle sue apparecchiature minerarie, mentre la vicina Valsavaranche spiana le sue romantiche strade di caccia e il larghissimo colle del Nivolet. La vai di Rhéme incastona come un gioiello il suo laghetto del Pélaud e mostra la cuffia dogale della Granta Parei; la Valgrisanche si è piegata ad ospitare il più grande invaso idroelettrico della regione; la valle della Thuile accoglie il visitatore con le spumeggianti cascate del Rutor e con le sottili vene del suo carbone. Infine ai piedi della catena del Bianco oltre Courmayeur la vai Veni contrappone il verde cupo dei suoi boschi al biancore delle morene della Brenva e termina, o comincia, con la nota dolomitica delle Piramides Calcaires, mentre la più pastorale e mondana vai Ferret squaderna alberghi e ville sulla strada del colle che separa le Alpi Graie dalle Pennine.

    Una idilliaca visione della valle di Rhème (Rhéme Notre-Dame).

    Grazia di sorrisi e di antichi costumi a Gressoney-La-Trinité.

    Perchè — e questa è una felice prerogativa della valle d’Aosta — nella cerchia dei suoi confini vi è di che sollevare ed appagare le più diverse curiosità. I naturalisti vi trovano una costituzione geologica e petrografica complicata e densa di interrogativi ; una gamma di minerali che si estende dai più comuni ai più rari ; condizioni atmosferiche estreme e una successione di climi per il cui studio esistono appositi istituti; una tipologia di ghiacciai, di nevai, di acque correnti, di laghi, estremamente varia; una morfologia particolarmente ricca di superfici glacializzate e ringiovanite; una flora ed una fauna che, insieme a tutte le specie proprie delle zone elevate delle Alpi, ne includono delle peculiari, rarissime, in buona parte concentrate com’è noto, nei Parco nazionale del Gran Paradiso.

    Il Parco nazionale del Gran Paradiso è separato in due metà dalla catena dominata dal massiccio omonimo. La metà settentrionale è a sua volta divisa da diramazioni della catena stessa nelle tre valli di Cogne, di Valsavaranche, di Rhéme. Nell’interno del Parco si passa dall’uno all’altro versante valicando a piedi alti passaggi alpini, alcuni dei quali veramente ardui. Dall’esterno, varie sono le porte di ingresso al Parco. La più importante e frequentata è la valle della Grand’Eyvia o di Cogne che, con i suoi valloni e con le vallette laterali, solca profondamente il gruppo del Gran Paradiso. A sud del gruppo si sviluppa incassata ed aspra la grande valle dell’Orco.

    Il Parco s’impernia sul territorio delle antiche riserve sabaude di caccia, dove già nel 1821 era stata proibita la caccia dello stambecco per evitarne la totale distruzione. Fra il 1852 ed il 1864 Vittorio Emanuele II — le roi chasseur — perfezionò l’organizzazione delle sue riserve, tracciando una rete di strade e di sentieri per oltre 360 km. (strade e sentieri oggi qua e là degradati dall’erosione), costruì palazzine di caccia stabili e creò un corpo di guardiani della riserva. Nel 1919 Vittorio Emanuele III fece dono allo Stato della riserva stessa e delle terre possedute in vai d’Aosta (2200 ettari) per l’istituzione di un Parco nazionale, attuato nel 1922. L’amministrazione del Parco non è autonoma, ma dipende dall’Amministrazione forestale, essendo passata al Demanio la donazione del re. Il Parco è sovvenzionato dallo Stato, dalla provincia di Torino e dalla Regione valdostana. Il compito di sorveglianza è affidato ad una sessantina di guardie del Parco, dove tuttavia, si può entrare liberamente. Attualmente l’abbattimento di qualche stambecco è concesso a pagamento per motivi scientifico-sanitari. Ma è alla gelosa tutela, non alla morte dei suoi protetti, che l’Amministrazione del Parco mira con appassionata dedizione.

    Aspetti non meno caratteristici ed interessanti presenta il mondo umano — di cui si possono analizzare al col di Olen le reazioni fisiologiche alle elevate altitudini — con le sue aree di spiccata brachicefalea e di biondismo, con la cantilenante guttu-larità dei suoi dialetti e con le sue isole linguistiche; con la complicata psicologia della sua gente rude ed a un tempo semplice, ingenua e quasi dolce; con la sana filosofia della vita che trova appoggio in una intensa religiosità, impressa nel paesaggio con frequenza di croci, di tabernacoli, di cappelle, di chiesette. Lo studioso di folclore ha di che arricchire album, raccolte, schedari, con la varietà degli abbigliamenti locali delle donne — alcuni bellissimi, come quello oro e nero di Gres-soney, altri meno belli, ma tipici, come quello di Cogne —; con un vastissimo repertorio di leggende; con gli espressivi lavori in legno dell’arte rustica valdostana: giocattoli e stampi da burro, collari per sonagli, conocchie e bastoni, coppe da vino (grolle), culle, scrigni, cassettine, ecc.; con i giuochi primaverili del fiollet e dello tsan; con l’epica tenzone delle mucche (bataille di vatz) nei primi giorni dell’alpeggio per il conferimento del titolo di « regina » alla vincitrice ; col riesumarsi di vecchi canti tradizionali in patois e in francese che, insieme alle nostalgiche canzoni alpine odierne, alimentano la passione di ottime società corali.

    Aosta: Pont Suaz. Eliminatorie nel combattimento per il titolo di « reina di reines ».

    Archivi pubblici e privati, gelosamente custoditi, riserbano ancora ghiotte sorprese, mentre accademie e singoli dotti, specialmente sacerdoti, frugano con amore tra le antiche memorie per illustrare personaggi e vicende della vallee. L’archeologo e lo storico dell’arte dispongono di un abbondante materiale d’indagine, dai reperti preistorici e dalle antichità romane d’Aosta, dalle strade, dai ponti, dai colli, alle chiese di bella linea o decorate di dipinti e di sculture lignee, alle case private e ai castelli medioevali, che hanno una rara potenza evocativa di tempi andati e che continuano ad essere caratteristica essenziale del paesaggio valdostano. E tutto ciò a prescindere dalle note attrattive d’ordine più popolarmente turistico ed alpinistico: così note queste attrattive, pur essendo sempre assai suggestive, che non è qui il caso di richiamarle all’attenzione del lettore, anche perchè largamente illustrate in apposite pubblicazioni.

    Ma la valle d’Aosta non è soltanto un unicum come raccolta di bellezze naturali ed artistiche, una palestra di sports invernali, o un insieme di località alberghiere per il riposo estivo. E un paese in movimento, cui l’autonomia regionale sta procurando nuovi mezzi e nuovi sbocchi alle sue risorse. Persino il lento e circospetto settore agricolo-pastorale appare sensibile alle moderne sollecitazioni e lo dimostra con la diffusione degli impianti di irrigazione a pioggia, con l’organizzazione di cooperative per la lavorazione del latte e con la difesa della fontina. Le strade — eccezion fatta per quella del fondovalle, insufficiente al movimento — sono belle e comode e spinte ormai fino ai centri più lontani, insieme al telefono e alla luce elettrica. Nuove scuole sorgono un po’ dappertutto, specialmente allo scopo di preparare maestranze qualificate. Perchè se in valle esiste già un discreto sviluppo industriale con un colosso qual è la « Cogne », e con grandi stabilimenti come la « Soie di Chàtillon », vi sono le premesse regionali e locali per il sorgere di assai più numerose industrie. E tra le premesse, fondamentale è quella dell’energia elettrica. Grandiosi impianti dell’A.E.M. e della S.I.P. sono in via di avanzata costruzione. Ma il governo della Regione ha un ardito programma di lavori che dovrebbero portare alla integrale utilizzazione di tutte le disponibilità idriche del bacino valdostano della Dora Baltea. E i segni di un rapido rinnovamento s’estendono anche ai paesi e ai villaggi, dove l’intonaco esterno e i tetti di tegole, al posto di quelli di « lose », mettono chiazze squillanti di bianco e di rosso tra l’uniforme grigiore pietroso delle case.

    Impianto del Buthier superiore in Valpelline.

    Viene così spargendosi un po’ dovunque quel soffio di modernità, di progresso e di benessere che gruppi capitalistici esterni — specialmente biellesi e milanesi — avevano fatto convergere solo su alcune località turisticamente favorite, valorizzandole con alberghi e casamenti funzionali e cioè con assai scarso rispetto del paesaggio e delle tradizioni. L’economia valdostana fa grande assegnamento sui trafori stradali del Monte Bianco e del Gran San Bernardo che dovranno inserire la valle in un vasto circuito di traffici internazionali, non solamente turistici.

    Il progetto del traforo del Monte Bianco — l’idea del traforo risale ad Orazio Benedetto De Saussure — è opera di tecnici italiani. Il tunnel stradale ricavato nelle viscere del Gigante sarà il più lungo del mondo, sviluppandosi per 11.600 metri. L’imbocco della galleria sul lato italiano è a quota 1381 sul livello del mare, nei pressi di Entrèves, in Comune di Courmayeur. Il tracciato passa ad est del ghiacciaio della Brenva, poi, in territorio francese sotto l’Aiguille du Midi, sboccando in località Les Pelerins (Comune di Chamonix), a quota 1274. Il tratto francese, lungo 5150 m., avrà una pendenza del 2,4%; quello italiano, lungo 6450 m., avrà una pendenza dello 0,25%, con un punto culminante a 1395 metri. L’altezza della galleria sarà di m. 4,50. La galleria stessa avrà una carreggiata della larghezza di 7 m., delimitata da due marciapiedi laterali. Il difficile ed importante problema della ventilazione sarà risolto con un sistema di condotti che sorpasseranno la galleria vera e propria. La roccia finora incontrata nello scavo sul versante italiano appare meno solida e facile a lavorarsi di quanto non si credesse. Ma non basterà questa difficoltà ad impedire l’esecuzione dell’ardito progetto.

    Diverse caratteristiche si prospettano per il sottopassaggio in galleria del massiccio del Gran San Bernardo. Il problema, oggetto di studi e di proposte fin dal 1839, è oggi avviato a soluzione attraverso un progetto che aggredisce la montagna piuttosto in alto (l’imbocco svizzero è a quota 1918, quello italiano a quota 1875) riducendo sensibilmente la lunghezza del traforo. Esso sarà, complessivamente, di 5845 metri. Ma implicherà d’altra parte delle strutture antineve per le strade di accesso. L’aerazione sarà assicurata da camini verticali. La pendenza in galleria sarà del 0,2% dal lato svizzero (imbocco alla località Cantine d’en Haut) e dell’1,69% sul versante italiano (imbocco in sponda sinistra del torrente San Bernardo, di fronte al km. 26 della strada statale n. 27). La galleria avrà un piano viabile di m. 7,50, con altezza libera di m. 4,50. Ai lati della strada è sistemato un marciapiede alto 90 centimetri. Dal lato italiano l’autostrada si inserisce sulla strada statale n. 27 a quota 1530, ai piedi dell’ultimo tornante in direzione di Saint-Oyen. Il tronco stradale di raccordo sarà sistemato con una speciale copertura. Sotto la quota 1530 entreranno in funzione potentissimi spazzaneve.

    Un tratto della catena del Bianco e, in primo piano, la grande morena di Verrand (Courmayeur).

    S’inasprisce pertanto e s’accelera la lotta per i migliori collegamenti della valle con Torino e con Milano, entrambe interessate a far convogliare verso di sè il movimento di persone e di merci che i due nuovi attraversamenti della catena alpina determineranno. E mentre è in discussione il modo con cui la valle d’Aosta dovrà inserire l’asse delle sue strade con il prolungamento verso la Svizzera della camionale Genova-Serravalle Seri via, l’avanzata costruzione dell’autostrada Torino-Ivrea entra in questo programma di serrata concorrenza tra i due grandi centri urbani per le più rapide e comode comunicazioni con la valle d’Aosta che, d’altra parte, è collegata per ferrovia anche all’Italia centrale e meridionale, con un servizio di vetture dirette Aosta-Roma.

    Forse la seduzione dei tanti rivoletti d’oro che si attendono dagli sviluppi del turismo induce gli stessi Valdostani a non considerare sempre nella misura che pur meriterebbero le più effettuali, tangibili ricchezze agricole, pastorali, minerarie, industriali, della valle. Ma è indubbio che nella economia della valle stessa la parte che vi ha il turismo tende ad assumere sempre maggiori proporzioni. Anche attualmente d’altronde, l’afflusso dei visitatori raggiunge cifre cospicue. Nel 1958, per es., sono arrivati nelle sue principali stazioni di soggiorno della valle d’Aosta (Ayas, Champoluc, Brusson, Cervinia, Gressoney, Valtournanche, Saint-Vincent, Courmayeur) tanti italiani e stranieri da fare una massa di gente pari a due terzi della popolazione della valle.

    Non vi è quindi da meravigliarsi se negli ambienti interessati vivi sono l’ottimismo e l’impazienza di vedere folte schiere di turisti attraversare le due gallerie transalpine in esecuzione per riversarsi in vai d’Aosta e nelle varie valli laterali. Per rendere l’accesso ad esse più agevole, da anni ormai si vanno sistemando nuove strade ed altre ancora se ne tracceranno con ritmo sempre più intenso. Basti pensare, a questo proposito, che l’80% dei proventi che derivano alla valle grazie all’autonomia regionale sono devoluti ad opere stradali. Ma si pensa anche, e molto, al miglioramento delle attrezzature turistiche. In effetti le richieste per la costruzione di nuovi alberghi sono numerose, anche perchè la Regione offre agli albergatori dei mutui a basso tasso d’interesse. Vi sono attualmente delle scuole alberghiere che hanno carattere stagionale. Ad esse si intende dare carattere permanente per avere un flusso continuo di personale specializzato.

    La conca di Aosta sotto l’erta piramide del monte Emilius. Il fumo delle fabbriche vela la visione della città,

    Aosta

    Poche città alpine possono vantare una così prestigiosa posizione come quella di Aosta: nessuna ha un altrettanto maestoso quadro di monumenti archeologici. Si dice, e non dai geografi soltanto, che la montagna è un ambiente conservatore per eccellenza. Forse per questo, come bene ha scritto il Brocherel, « l’ossatura geometrica dell’organismo urbano è rimasta tal quale fu tracciata or sono duemila anni dall’architetto urbanista di Terenzio Varrone ». Il quadrilatero delle mura in gran parte ancora in piedi, il reticolato delle vie della città romana, sono vestigia che le sovrastrutture moderne non potranno mai cancellare e che valsero ad Aosta il titolo di « Roma delle Alpi ». La grandiosità veramente maestosa del teatro e dell’anfiteatro romano si ritrovano nella mole della Porta Pretoria, e più in là nell’Arco d’Augusto e nell’antico ponte sul Buthier. Effettivamente sull’apice del cono di deiezione del Buthier, a breve distanza dalla confluenza con la Dora Baltea, nel punto di biforcazione delle vie consolari transalpine per il Piccolo e per il Gran San Bernardo, fu costruita Augusta Praetoria.

    La via romana che conduceva da Ivrea al Piccolo San Bernardo attraversava la giovane città da est ad ovest costituendone l’asse maggiore. Ma delle due porte principali aveva maggiore importanza quella da cui usciva la via per il Gran San Bernardo. Le mura di cinta della città — la quale aveva un perimetro di m. 724 X 572 — erano munite di 18 torri che furono distrutte prima del Mille dalle successive ondate di invasori.

    L’area interna era divisa in 8 isolati maggiori, di cui ciascuno in 4 minori: gli edifici pubblici più importanti erano l’Horreum, il Foro, i Templi, le Terme, il Teatro e l’Anfiteatro. Le regolari vie attuali della città vecchia (sotto le quali si conservano tratti delle cloache che terminavano in un collettore sfociante nella Dora Baltea) corrispondono ancora a quelle del campo militare sul cui schema fu costruita la città.

    Esaurita la sua funzione strategica nell’ambito dell’Impero romano, la città cadde via via in potere dei Borgognoni, dei Goti, dei Longobardi, dei Franchi, per passare sul principio del secolo XI a Casa Savoia, alla quale poi sempre apparterrà, come capitale di un Ducato semiautonomo.

    Durante il Medio Evo le mura romane, alte circa m. 8,50 e composte di tre durissimi strati verticali saldati l’uno all’altro, furono sbucciate e sbrecciate per trarne materiali da costruzione. Con questo economico sistema di approvvigionamento alcune famiglie nobili eressero castelli con torri, di cui rimangono ancora quelle di Bramafam, delle Prigioni, del Pailleron, del Lebbroso. E pure nel Medio Evo un singolare caratteristico complesso religioso di alto valore artistico sorse poco fuori le mura, ancora dalla parte del Buthier, dove intorno ad una suggestiva, appartata piazzetta, si disposero la collegiata di Sant’Orso, il grazioso piccolo chiostro annesso, l’elegante costruzione del Priorato e un maestoso campanile romanico inferiormente di grandi massi squadrati, tolti anch’essi, in gran parte, dalle mura romane. Con questa appendice monumentale la vecchia Aosta non mutò sostanzialmente volto fino al principio del secolo scorso, quando la vita cittadina si concentrò intorno alla grande piazza Chanoux, e alla mole bonariamente grandiosa del Municipio. Era lAosta, diciamo così umbertina, simile assai, per molti aspetti, alle città piemontesi, percorsa, nelle sue strade principali, sul duro, luccicante selciato di ciottoli, da torrentelli d’acqua che provvedevano egregiamente alla nettezza urbana e dalle enormi giardiniere, con l’ampio baldacchino paurosamente oscillante, che assicuravano i servizi di posta con l’alta valle. Ma si rimaneva pur sempre nel perimetro delle mura romane. Un taglio netto col passato, urbanisticamente parlando, si ebbe soltanto quando impiantatisi gli stabilimenti siderurgici « Cogne », tra la stazione ferroviaria e la Dora, il crescente accorrere di mano d’opera, portò alla creazione di un quartiere, che si estese largamente oltre le mura verso occidente e cioè in direzione dell’alta valle. In epoca fascista pretenziosi edifici collegarono meglio alla parte antica della città il quartiere operaio con le sue ampie strade alberate e con i suoi spiazzi verdi. Ma il distacco rimase, anzi fu accentuato dal sorgere di grandi edifici con alti modernissimi portici in corso Battaglione Aosta. Lo sviluppo delle officine metallurgiche della « Cogne » sta portando la città di Aosta fin quasi sulle sponde della Dora e dopo aver creato un nuovo quartiere di abitazione verso ovest, con l’ampliarsi degli stabilimenti verso est tende ad allungare la città stessa da quella parte.

    La vita di montagna ha in Piemonte manifestazioni di grazia rustica e di piena armonia con l’ambiente. ( Valtournanche).

    Nel cuore di Aosta. Il Municipio sulla piazza Chanoux.

    Un angolo caratteristico della cattedrale di Aosta.

    Pure in questi ultimi anni un grande impulso ha avuto l’attività edilizia a nordest della vecchia Aosta, sicché quasi colmato è ormai lo spazio che rimaneva fra le mura romane e il piede della collina verso l’imbocco della valle del Buthier. E già le nuove costruzioni tendono ad inerpicarsi sulla collina stessa, dove il paesaggio sparso di vigneti, di giardini, di ville, ha un tono tra l’agreste e il signorile. Tutto qui è nuovo. I segni della modernità non mancano, però, neppure nel cuore della vecchia Aosta, tra le cui viuzze strette, non più duramente acciottolate, hanno cessato di scorrere i rivoli d’acqua in funzione di spazzini. E per le stesse viuzze si sentono continuamente risonare, accanto all’italiano e al patois o al francese, gli accenti dialettali del Veneto e della Calabria, mentre i palazzi delle banche, della giustizia, dell’amministrazione regionale, che prospettano i giardini e il viale della stazione, completano il quadro di Aosta, piccola, dinamica capitale. Una capitale che ha più che triplicato in cinquantanni la sua popolazione, passando dai 7875 ab. nel 1901 ai più di 24.000 nel 1951, attraverso una profonda trasformazione demografica e sociale di cui è indice la popolazione operaia di quasi 5000 unità. Pure, mentre altre industrie (liquori, cioccolato, industrie chimiche e meccaniche), si affermano nell’insieme della sua cornice paesaggistica e in mille particolari della sua vita quotidiana, Aosta mantiene il suo carattere di centro di montagna. E questo continua in effetti ad essere l’aspetto più accattivante della città.