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Le maggiori città piemontesi

    Le maggiori città

    Le città piemontesi

    Riferisce il Botero la risposta che « un cavalier Piemontese diede a un gen-til’huomo che gli domandava che cosa fusse il Piemonte, dicendogli essere una città di trecento miglia di giro ». E il Botero considera la risposta non impertinente. Evidente appare la esagerazione. Tuttavia si può riconoscere a quel borioso giudizio un fondo di vero, nel senso di un vivace sviluppo della vita urbana in Piemonte e di un’aria di famiglia che indubbiamente accomuna le città piemontesi, indipendentemente dalle diverse movenze loro imposte dal rilievo. Nella stessa Torino, anzi particolarmente in Torino, sono nettamente visibili alcuni dei tratti urbanistici ed architettonici che generalmente meglio caratterizzano le città piemontesi. Nelle città minori, soprattutto, è dato cogliere in breve cerchio gli aspetti di quello « stile piemontese » delle vie, delle piazze, delle case che non è punto facile rendere, descrivendolo, perchè in sostanza privo di grandi slanci e di prepotenti affermazioni.

    Lasciamo dunque a Franco Antonicelli, squisito interprete del paesaggio piemontese, di sintetizzare quegli aspetti attraverso un suo gustoso profilo di Bra : « una cittadotta che pare un modello dei piccoli centri della provincia piemontese: tutta rossastra dai mattoni ai tegoli, come un viso di campagnola, cotto dal sole. Tutte queste cittadine arieggiano la capitale Torino: dove si può slargare al massimo possibile una piazza, far andare diritta una via, portar l’ombra e il passeggio con i portici vien fatto. Qui poi il Municipio sembra una copia minima dell’ardito barocco torinese di Palazzo Carignano, mosso come un’onda. Ma da un fianco la cittadotta di Bra alza le spalle sulla collina, che è bellissima, e perciò alcune stradine scendono al centro come rigagnoli. I segni dell’antico, fin nei nomi di certe vie, non mancano.

    Le minori città piemontesi imitano volentieri le tipiche piazze porticate della capitale. La piazza Umberto I ad Alba nella sua sistemazione originaria.

    Hanno provveduto poco la poesia e l’arte a dar gloria alle remote età del Piemonte, cosicché monumenti fastosi se ne incontrano di rado e quasi sorprendono: ma Bra è una cittadina, si vede, che affonda le radici in una terra di molti passaggi e perciò le patine dei vari secoli han deposto un colore vetusto e signorile, sull’insieme di questa sua vita, che è moderna e molto industriosa. Di suo Bra ha grandi palazzoni, non so se oggi o già ieri diventati caserme, seminari, convitti ».

    Se la città è, come si dice, lo specchio parlante dell’economia e della civiltà di una regione, nel carattere delle città piemontesi non è diffìcile individuare quella mancanza di ricchezze eccessive, quella relativamente uniforme compartimentazione di beni, che il Botero indicava come tratto fondamentale della fisionomia del Piemonte. A differenza della Toscana e della Lombardia, il Piemonte non fu terra di ricche repubbliche e di magnifiche signorie. I mercanti astigiani non sembra investissero volentieri denari in prestigiosi abbellimenti delle loro case e della loro città. I Savoia, ebbero sì, sovrani e dignitari cultori di assai ambiziosi progetti, ma le frequenti guerre e la necessità di mantenere numerose e ben armate milizie li costrinsero spesso ad accontentarsi di meno dispendiose realizzazioni. I marchesi di Monferrato hanno troppo sovente mutato sede e capitale dello Stato, per lasciare più che sparse tracce della loro potenza. Solo a Saluzzo i discendenti degli Aleramici, in quattrocento anni di dominio, hanno concentrato un complesso di memorie storico-artistiche piuttosto raro in Piemonte. Sicché, pur non mancando qua e là monumenti degni di attenzione, non c’è generalmente nelle città piemontesi il palazzo vistoso del gran signore che schiaccia gli edifici circostanti e dà l’immagine di una vita splendida e superba.

    Materiale povero è il mattone, che lasciato quasi costantemente senza intonaco nelle chiese del Sei e del Settecento, le più frequenti, dà un’impressione di non finito, di frettolosa nudità. Tutte, suppergiù, della stessa altezza sono le case delle vie centrali, le più vecchie, in cui bassi portici, retti da tozzi pilastri in muratura, raccolgono e incanalano il movimento di va e vieni degli abitanti. La pavimentazione delle vie secondarie rimane quella ad acciottolato, ancora una trentina d’anni fa, comunissima a Torino, a testimonianza dell’origine alluvionale della pianura, e della dura scorza dei nostri padri. S’apre di quando in quando, su queste vie, qualche maggior costruzione — una casa signorile, l’ospedale, l’ospizio di carità, una scuola, un massiccio convento, una caserma — ma senza gravi contrasti. E spesso i palazzi, schierati alla pari con le grandi case borghesi, sono dissimulati da una facciata comune, sicché non servono a dar carattere alle strade. Insomma una architettura democratica e ugualitaria che dà anche alle città un tono di modestia casalinga e di ordine, di severità, fra la militare e la religiosa. Neppure l’improvviso slargo di qualche vasta piazza deve consentire deroghe alla rigida simmetria ed uniformità delle case, come solo un gravissimo impedimento può far deflettere le vie dalla linea retta. Ad accomunare le abitazioni in una massa corretta e un po’ rigida, senza variazioni e ribellioni clamorose, contribuisce il predominio del color giallo, con tutte le sue sfumature, dal giallo antico all’oro pallido, misto di innumerevoli tinte verdognole e grigie, che però si perdono in una tinta generale giallastra un po’ sbiadita.

    Caratteristici portici a Cuorgnè. Si noti il pavimento ad acciottolato.

    Mondovì (Breo e Piazza) come esempio dei centri doppi delle colline pedemontane.

    Ma il movimento, la vivacità, la varietà che, in armonia con lo spirito e il carattere della gente, gli schemi urbanistici e gli orientamenti costruttivi non han saputo o potuto dare alle città piemontesi, sono venuti a queste dalla scelta dei luoghi. Dove non è arrivata l’arte è arrivata la natura. Ben pochi fra gli stessi più piatti centri del Piemonte si stemperano nella pianura circostante senza che una pur modesta rottura di pendio venga a dar risalto a qualche loro parte. Molte delle nostre città, forse le più caratteristiche, si dividono fra la pianura e il fianco di una collina e questo bisogno di appoggiarsi ad una prominenza del rilievo differenzia abbastanza nettamente l’abitato in due parti.

    L’una, la più alta e spesso la più antica — a Mondovì, Mondovì Piazza, a Pinerolo San Maurizio, a Biella il Piazzo — dove la tradizionale geometria si rompe in un dedalo di viuzze e di salite silenziose, lustre di ciottoli fra alte case avvolte in un’atmosfera che sa di claustrale e di guerriero, di signorile e di plebeo ad un tempo.

    Vie strette e case alte nei vecchi quartieri di Saluzzo.

    E quando uno comincia a sentirsi penetrato da questa sottile atmosfera, ecco improvvisamente un più aperto, squillante incantesimo: quello della vista sulla larga, calma pianura, con i suoi riquadri di alberi e di campi, con le macchie rosse dei paesi, con l’immancabile fondale di montagne e di colline, così cangiante di colori e di luce a seconda delle ore della giornata. L’amenità delle pendici collinari, soleggiate anche quando in basso stagna la nebbia, richiama intorno ai quartieri alti delle città subalpine un’aureola di casette e di ville, che portano il verde delle viti, dei giardini e dei frutteti, sin sulla soglia dell’agglomerato urbano. Talvolta, come ad Asti, le morbide ondulazioni dei poggi si prestano a prolungare spaziosamente, in toni moderni, strade, piazze e viali, che salgono dal tessuto della città vecchia. Talaltra, come a Novara, basta un lieve rialzo della pianura perchè la topografia della città ne esca segnata con un tratto particolare. E dove non c’è una collina o uno sperone montuoso, si sono incaricati i fiumi di ricavar rilievi nella pianura stessa, isolandone e quasi innalzandone dei lembi, sul margine dei quali, come da lunghi balconi, s’affacciano le città. Così Fossano, Cherasco, Cuneo, pur essendo centri di pianura, acquistano una loro sospesa lievità, soprattutto quando emergono dalle brume che occupano l’ampio solco dei fiumi. E, come le città di collina, vantano punti panoramici, dai quali lo sguardo spazia su un larghissimo giro di campagne.

    Nei quartieri bassi delle città appoggiate alle colline si ritrovano i caratteri di rigore geometrico e di schiva dignità edilizia che sono propri dei centri tipicamente piemontesi. Ma mentre in alto la stessa morfologia, rallentando il movimento, aiuta a conservare forme e silenzi del passato, in basso fervono la vita e il traffico. Qui il fluttuare delle cose nuove batte in breccia le vecchie case del centro, allogando in rutilanti negozi i più moderni portati dello strumentario domestico. Fuori del centro quel flutto si espande per larghe strade asfaltate, in fabbriche e in officine, in garages e in distributori di benzina, in abitazioni nuovo stile, fra le quali sembra d’esser d’obbligo persino un presuntuoso quanto inutile grattacielo.

    Profilo di Torino

    Una salita, a Superga o al colle della Maddalena, vale la spesa, oltre che per la grandiosa bellezza del panorama che abbraccia la città, la montagna e le colline circostanti, per gli elementi di spiegazione che ne vengono alla posizione e allo sviluppo di Torino. Basta vedere come essa giaccia proprio allo sbocco della valle di Susa, e pensare all’importanza dei valichi che mettono in quella valle, per trovare naturale che una città si sia formata davanti al profondo intaglio valsusino. S’aggiunga che qui, fra montagna e collina, la pianura ne esce quasi strozzata, obbligando le vie di comunicazione che la seguono a mutare direzione, ad infilarsi in una specie di corridoio largo 12 km., ed a tagliare ad angolo retto la grande strada della valle di Susa. In questo punto d’incontro e di flessione di strade doveva sorgere Torino. Il luogo, oltreché come sede di mercato, si prestava pure alla difesa, alto com’era ed isolato, sull’angolo che facevano il terrazzo superiore di sinistra del Po, e quello di destra della Dora Riparia, in prossimità della confluenza dei due fiumi.

    Le stesse ragioni che in età del bronzo davano importanza alla cittadina come nodo stradale, facilmente difendibile, ne fecero in mano ai Romani, diventati padroni delle Gallie, un centro di notevole valore strategico e logistico, destinato ad ospitare alti comandi, ed a funzionare come capace deposito di truppe, di armi, di vettovaglie. Di qui la pianta rettangolare della Torino colonia di Cesare e di Augusto, modellata sullo schema degli accampamenti militari. Piccola era la città di quei tempi. Aveva le dimensioni di 770 m. per 710: un’area di circa 52 ettari e un perimetro murario di circa 2960 m. lungo le vie Giulio a nord; Consolata e Siccardi ad ovest; Cernaia, Santa Teresa e Maria Vittoria a sud; Accademia delle Scienze, Piazza Castello, Giardini di Palazzo Reale ad est. Un reticolato di strade tagliantisi ad angolo retto divideva l’abitato in 72 insulae, che oggi noi diremmo, torinesemente, « isolati ». Le principali arterie della città erano il Decumano, che per 770 m. la attraversava da est ad ovest, in corrispondenza alla via Dora Grossa dei nostri padri, l’attuale via Garibaldi, e il Cardine, lungo 710 m., che intersecava il Decumano ai due luoghi. Dove non è arrivata l’arte è arrivata la natura. Ben pochi fra gli stessi più piatti centri del Piemonte si stemperano nella pianura circostante senza che una pur modesta rottura di pendio venga a dar risalto a qualche loro parte. Molte delle nostre città, forse le più caratteristiche, si dividono fra la pianura e il fianco di una collina e questo bisogno di appoggiarsi ad una prominenza del rilievo differenzia abbastanza nettamente l’abitato in due parti. L’una, la più alta e spesso la più antica — a Mondovì, Mondovì Piazza, a Pinerolo San Maurizio, a Biella il Piazzo — dove la tradizionale geometria si rompe in un dedalo di viuzze e di salite silenziose, lustre di ciottoli fra alte case avvolte in un’atmosfera che sa di claustrale e di guerriero, di signorile e di plebeo ad un tempo. E quando uno comincia a sentirsi penetrato da questa sottile atmosfera, ecco improvvisamente un più aperto, squillante incantesimo: quello della vista sulla larga, calma pianura, con i suoi riquadri di alberi e di campi, con le macchie rosse dei paesi, con l’immancabile fondale di montagne e di colline, così cangiante di colori e di luce a seconda delle ore della giornata. L’amenità delle pendici collinari, soleggiate anche quando in basso stagna la nebbia, richiama intorno ai quartieri alti delle città subalpine un’aureola di casette e di ville, che portano il verde delle viti, dei giardini e dei frutteti, sin sulla soglia dell’agglomerato urbano. Talvolta, come ad Asti, le morbide ondulazioni dei poggi si prestano a prolungare spaziosamente, in toni moderni, strade, piazze e viali, che salgono dal tessuto della città vecchia. Talaltra, come a Novara, basta un lieve rialzo della pianura perchè la topografia della città ne esca segnata con un tratto particolare. E dove non c’è una collina o uno sperone montuoso, si sono incaricati i fiumi di ricavar rilievi nella pianura stessa, isolandone e quasi innalzandone dei lembi, sul margine dei quali, come da lunghi balconi, s’affacciano le città. Così Fossano, Cherasco, Cuneo, pur essendo centri di pianura, acquistano una loro sospesa lievità, soprattutto quando emergono dalle brume che occupano l’ampio solco dei fiumi. E, come le città di collina, vantano punti panoramici, dai quali lo sguardo spazia su un larghissimo giro di campagne.

    Vie strette e case alte nei vecchi quartieri di Saluzzo.


    Nei quartieri bassi delle città appoggiate alle colline si ritrovano i caratteri di rigore geometrico e di schiva dignità edilizia che sono propri dei centri tipicamente piemontesi. Ma mentre in alto la stessa morfologia, rallentando il movimento, aiuta a conservare forme e silenzi del passato, in basso fervono la vita e il traffico. Qui il fluttuare delle cose nuove batte in breccia le vecchie case del centro, allogando in rutilanti negozi i più moderni portati dello strumentario domestico. Fuori del centro quel flutto si espande per larghe strade asfaltate, in fabbriche e in officine, in garages e in distributori di benzina, in abitazioni nuovo stile, fra le quali sembra d’esser d’obbligo persino un presuntuoso quanto inutile grattacielo.

    Profilo di Torino

    Una salita, a Superga o al colle della Maddalena, vale la spesa, oltre che per la grandiosa bellezza del panorama che abbraccia la città, la montagna e le colline circostanti, per gli elementi di spiegazione che ne vengono alla posizione e allo sviluppo di Torino. Basta vedere come essa giaccia proprio allo sbocco della valle di Susa, e pensare all’importanza dei valichi che mettono in quella valle, per trovare naturale che una città si sia formata davanti al profondo intaglio valsusino. S’aggiunga che qui, fra montagna e collina, la pianura ne esce quasi strozzata, obbligando le vie di comunicazione che la seguono a mutare direzione, ad infilarsi in una specie di corridoio largo 12 km., ed a tagliare ad angolo retto la grande strada della valle di Susa. In questo punto d’incontro e di flessione di strade doveva sorgere Torino. Il luogo, oltreché come sede di mercato, si prestava pure alla difesa, alto com’era ed isolato, sull’angolo che facevano il terrazzo superiore di sinistra del Po, e quello di destra della Dora Riparia, in prossimità della confluenza dei due fiumi.

    Le stesse ragioni che in età del bronzo davano importanza alla cittadina come nodo stradale, facilmente difendibile, ne fecero in mano ai Romani, diventati padroni delle Gallie, un centro di notevole valore strategico e logistico, destinato ad ospitare alti comandi, ed a funzionare come capace deposito di truppe, di armi, di vettovaglie. Di qui la pianta rettangolare della Torino colonia di Cesare e di Augusto, modellata sullo schema degli accampamenti militari. Piccola era la città di quei tempi. Aveva le dimensioni di 770 m. per 710: un’area di circa 52 ettari e un perimetro murario di circa 2960 m. lungo le vie Giulio a nord; Consolata e Siccardi ad ovest; Cernaia, Santa Teresa e Maria Vittoria a sud; Accademia delle Scienze, Piazza Castello, Giardini di Palazzo Reale ad est. Un reticolato di strade tagliantisi ad angolo retto divideva l’abitato in 72 insulae, che oggi noi diremmo, torinesemente, « isolati ». Le principali arterie della città erano il Decumano, che per 770 m. la attraversava da est ad ovest, in corrispondenza alla via Dora Grossa dei nostri padri, l’attuale via Garibaldi, e il Cardine, lungo 710 m., che intersecava il Decumano ai due terzi della sua lunghezza, in corrispondenza delle odierne via San Tommaso e Porta Palatina.

    Bel nome sonante quello di Julia Augusta Taurinorum, adatto ad una città forte, del cui carattere militare abbondano le testimonianze. Quanto al commercio, non bisogna dimenticare che la Torino romana era città di confine, trovandosi a poca distanza dalla quadragesima Galliarum. Ma la massa della popolazione era ancora legata alla terra, che dava grano in pianura, vino sulle colline.

    Sul modello di Roma — fatte le debite proporzioni — anche la Torino di Augusto e suoi successori ebbe templi, teatri, fori, basiliche. Delle quattro porte fortificate alle estremità delle arterie principali non ne rimane oggi visibile, e in buon stato, che una, la notissima Porta Palatina al nord. Pochi avanzi in fondazione, o rinchiusi dentro muri medioevali e moderni, rimangono della Porta Decumana (detta nel Medio Evo « Fibellona »), dove oggi sorge il Palazzo Madama. Ma se quasi nulla i secoli hanno risparmiato delle case e dei monumenti di Torino romana, nel cuore della città si conserva l’antico disegno planimetrico.

    Con la caduta dell’Impero romano, venendo a mancare l’unità che richiedeva uno stretto collegamento fra Italia e Gallia, Torino perde temporaneamente la sua importanza militare. Ma solo temporaneamente, perchè, diventata centro di nuove formazioni politiche nell’Italia settentrionale, Torino riprende ad essere sede di alti comandi e di truppe, prima agli ordini dei Goti e, per breve tempo, dei Bizantini, quindi sotto i Longobardi e i Franchi. Alla funzione politica e militare s’aggiunge quella religiosa, culminante nella creazione di una vasta, ricca diocesi di Torino.

    Avvenne, però, che fattisi preminenti gli interessi della terra, la vita urbana anche a Torino s’illanguidì. Non poche case abbandonate andarono in rovina; molte drizzarono più economici tetti di paglia e lunghi balconi di legno; spiazzi interni furono occupati da orti, da frutteti, da giardini; per le vie della città si aggiravano liberamente oche e maiali. Torino, sempre chiusa nel perimetro delle vecchie mura romane, anzi ristretta quanto ad area fabbricata, si era trasformata in un grosso borgo rurale. Ma nello stesso tempo i più antichi Statuti di Torino mostrano come si attendesse a ben ordinare la materia dei pedaggi, la sorveglianza e la manutenzione dei ponti, dei « porti », dei guadi, il noleggio di mulini e di gualchiere, e cioè quelle che saranno per secoli le maggiori fonti di entrate per l’amministrazione comunale.

    Il fervore di vita conseguente al riattivarsi dei traffici con l’Oriente e allo sviluppo di attività artigiane e manifatturiere riconduce a Torino gente di fuori. Crescono di case e di abitanti i borghi che costellano gli immediati dintorni della città. E all’interno di questa, vecchi edifici si riattano, nuovi vanno sorgendo sulle rovine di precedenti fabbricati. Le aree ad orto e a giardino progressivamente si riducono, le vie si restringono. Poi, quando tutto lo spazio possibile è occupato in superficie, si sopraelevano le case, si incastrano in esse costruzioni accessorie, riducendo i cortili, e si giunge persino a rompere la perfetta geometria della scacchiera romana, portando le abitazioni a tracimare su vie sghembe o addirittura curvilinee.

    Torino, che ancora nel 1327 contava appena 4200 ab., ed era quindi superata per popolazione da centri come Chieri, Saluzzo, Mondovì, Fossano, riuscirà a stipare tra le sue inestensibili mura 20.000 ab. circa nel 1560, e 24.000 sui primi del Seicento.

    L’aspetto delle vie e delle case non doveva essere molto diverso da quello che durava ai tempi di De Amicis e che, sotto il cromato decoro dei negozi moderni, permane tuttora nelle strade più strette, « fiancheggiate » come le vedeva lo scrittore « da case alte e lugubri divise da una striscia di cielo, che s’aprono in portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senza uscita, sfondi umidi di chiostro e di prigione…».

    Ancora nel secolo XVI davanti alle case non c’erano marciapiedi, e solo le vie principali avevano pavimentazione ad acciottolato, con guide di pietra o di mattoni per facilitare il transito dei veicoli. Le altre vie erano a fondo poco meno che naturale, polverose o fangose, con l’alternarsi delle stagioni e delle piogge. Nel bel mezzo delle vie correvano rigagnoli con funzione di collettori di rifiuti ed immondizie.

    Qualche rinnovamento ed abbellimento edilizio è tuttavia intervenuto rispetto alla città medioevale. Il più importante ha condotto ad abbattere alcune chiese che sorgevano presso le Case del Vescovo e dei Canonici — site dove ora è il Palazzo Reale — per costruirvi il solo grande edificio rinascimentale della nostra città: il bel duomo di Piazza San Giovanni. La più imponente costruzione civile rimaneva il Castello, e cioè la parte a levante del magnifico Palazzo Madama.

    L’ambiente topografico della città e del Comune di Torino.

    Torino. La zona archeologica con le Torri Palatine.

    Intanto, anche la struttura economica e sociale della città è andata modificandosi. Nel vecchio borgo rurale sono entrati fermenti di attività nuove. Ne fanno fede gli ultimi capitoli degli Statuti di Torino del 1360, mostrando già diffusa entro la cerchia urbana la confezione di panni di lana e di telerie. Più tardi, sono le stesse autorità comunali che, a gara con i Savoia, non ritenendo più adatte ai tempi le vecchie manifatture, invitano dall’estero abili maestri d’opera e rinomati artigiani a venire a stabilirsi a Torino per avviarvi nuove attività industriali. Sorgono, così, le prime filature e tessiture di seta, insieme a tintorie, a concerie, a cartiere, a vetrerie, a fabbriche di tappezzerie, di arazzi, di maioliche. Ma queste iniziative in campo industriale hanno fortunose vicende e magri successi, sicché non lasciano quasi traccia di sè nel corpo del fabbricato urbano.

    Anguste vie della vecchia Torino.

    Comunque quando, sul finire del Cinquecento, Emanuele Filiberto fa di Torino la capitale di un piccolo, ma forte Stato, la città appare già in ascesa, e le nuove funzioni politiche s’innestano su un organismo in via di crescente differenziazione interna, e danno ulteriore impulso al suo sviluppo. Il « concorso di gente », come dice il Botero, finisce per congestionare la nuova capitale. Emanuele Filiberto rompe finalmente, nell’angolo sudovest dell’abitato, la barriera muraria che ricalca il giro delle mura romane. Ma la prima gemmazione di Torino non è nè una reggia, nè un quartiere di abitazione: è un capolavoro d’arte militare, è la superba rossa mole della Cittadella, tipica nella sua pianta stellare. Torino è ricondotta dalla gravitazione dello Stato Sabaudo verso la pianura padana a riacquistare grande importanza strategica, e tale importanza, come cuore di uno Stato che si trova come un vaso di coccio (abbastanza forte, però), fra grossi vasi di ferro, conserverà fino al compimento dell’unità italiana. Munita piazzaforte e sede di un potere politico a larga base militare, Torino deriverà da questi duri compiti aspetti caratteristici. Intanto, anche per dar lavoro a torme di spostati, si fondano altre fabbriche di panni di seta, si mettono su delle tipografie, si crea un laboratorio di pesi e misure. Nel 1563 entra in funzione la Compagnia di San Paolo, da cui più tardi avrà origine il Monte di Pietà.

    Improvvisamente, come per un colpo di scena, sullo sfondo di un paesaggio urbanistico da secoli immobile, nasce, per la precisa volontà dei suoi sovrani, la Torino del Seicento, secondo linee programmatiche che guideranno il suo espandersi fin verso la fine del Settecento. Il primo ampliamento, preceduto da lavori di abbellimento e di sistemazione di piazza Castello, è giustificato dal suo autore, Carlo Emanuele I, col riconoscere (sono parole sue), che « la città è senza dubbio troppo angusta per il concorso delle persone che tratte dalla residenza della nostra corte dei magistrati, della giustizia, degli uffizi e dei negozi, vi vengono a soggiornare ». Ciò spiega perchè i lavori decretati nel 1619 mirino ad ingrandire un quartiere residenziale, quello di San Gregorio o della Porta Marmorea, nella parte sud-ovest della città. Al di là di piazza San Carlo — destinata a rimanere a lungo uno spiazzo erboso — doveva sorgere un complesso di dieci isolati, sull’area limitata all’ingrosso da via Alfieri, via Giolitti, via Accademia Albertina, via Andrea Doria, via XXIV Maggio, via Arsenale. Lo sviluppo di questa nuova parte di Torino fu piuttosto lento, e portò le mura della città a collegarsi con i bastioni della Cittadella, che seguivano l’andamento delle vie Andrea Doria e XXIV Maggio. Ecco perchè queste vie non sono rettilinee come le altre della zona. All’incrocio di via Roma con via Andrea Doria il duca aveva fatto innalzare una porta tutta di marmo, cui si dette e rimase a lungo il nome di Porta Nuova. E del 1619 l’apertura della via Palazzo di Città, che facilitava il passaggio dal Palazzo del Comune alla piazza Castello. Madama Reale, Cristina di Francia, porterà a compimento gli armoniosi edifici di piazza San Carlo, e nel 1648 con la Via Nuova, la futura via Roma, collegherà piazza San Carlo a piazza Castello.

    Ma la massima parte di Torino Secentesca la dobbiamo a Carlo Emanuele II, nei cui memoriali si legge: «(la città dev’essere ingrandita)… per far luogo al popolo cresciuto in modo da non più capire nella cerchia della città. Nobilitare la capitale, con l’istituzione di Accademie, di Collegi di nobili, di pubblici alberghi per l’esercizio della virtù, ed invitarvi negozianti, banchieri ed altri virtuosi, a rendere la città insigne e comoda, come porta al principio della Italia, e uno dei più avvantaggiosi passaggi per coloro che provengono a farla forte di più, con la costruzione di nuove mura, secondo vere regole militari ». Effettivamente la popolazione di Torino, che nel 1612 contava 24.000 anime, era salita nel 1631, l’anno della famosa peste, a 36.649. Probabilmente a causa della tremenda morìa di quell’anno e dei suoi strascichi, l’accrescimento successivo fu assai più modesto, se nel 1702 erano censiti in Torino 43.000 abitanti. Ma nel 1717 già se ne contavano 56.336, sì che Torino si lasciava molto indietro tutte le altre città del Piemonte, che in passato gareggiavano di popolazione con lei.

    Seguendo i criteri sopra ricordati, Carlo Emanuele II, nel 1673, fa iniziare il progettato ingrandimento di Torino verso est, e cioè verso il Po, con una serie di isolati, che riempie l’area grossolanamente triangolare delimitata dai bastioni di via Andrea Doria, lungo l’Ospedale di San Giovanni, costruito nel 1672, e la vecchia Maternità, dal Rondò di piazza Vittorio e da una parallela di corso San Maurizio, che portava i nuovi bastioni a collegarsi con quelli del Giardino Reale. L’allargamento spinse la nuova cerchia muraria fino all’imbocco di piazza Vittorio, dove si apriva la maestosa Porta di Po, ed ebbe per asse la vecchia contrada di Po, una delle più belle vie di Torino, nella quale vennero continuati i portici che già ornavano piazza Castello.

    Qualche danno riportò Torino per l’assedio del 1706, ma i successivi ingrandimenti dello Stato Sabaudo, accrescendo l’importanza della capitale e la sua popolazione, fecero sì che Vittorio Amedeo II riputasse indispensabile un nuovo ampliamento. Questo avvenne sui disegni di Filippo Juvarra, il grande architetto messinese, cui Torino deve tanta parte del suo più tipico aspetto stilistico. Tutta la cerchia delle mura venne spostata verso ovest da via della Consolata a raggiungere il corso Valdocco, finendo su per corso Palestra, e di qui ai bastioni della Cittadella. Sullo spazio acquistato si costruirono diciotto isolati, tra piazza Savoia e il fondo di via del Carmine, dove sorsero i grandi quartieri militari, che sono, architettonicamente, tra le cose più belle di Torino settecentesca. Nel 1759 fu aperta quella via Milano che è diventata così popolare e che, nel suo insieme, fu progettata dal Juvarra.

    Torino verso la fine del Seicento (dal « Theatrum Statuum Sabaudiae », Amsterdam, 1682).

    Tutti e tre gli ampliamenti, che dovevano dare veste di nobile metropoli a Torino ducale e regale, sono stati attuati mantenendo lo schema a scacchiera delle vie, senza tuttavia che si possa attribuire ai loro ideatori l’intento di mantenersi fedeli al tracciato ortogonale della pianta romana. Tra l’altro, senza riguardo al vecchio reticolato romano, fu condotta via Po che risulta obliqua ad esso, come lo sarà poc’oltre, verso nordest, corso San Maurizio. Mentre l’orientazione del Decumano, e cioè di via Dora Grossa, era quella stessa della vai di Susa ed esprimeva lo stretto legame dell’agglomerato romano con il grande corridoio vallivo, la via di Po, recentemente aperta, mostrava l’intento di annodare il centro della città al passaggio del fiume e di assoggettare alla direzione del suo corso le ampliazioni edilizie che lo raggiungessero.

    Torino. Piazza San Carlo ai primi del sec. XVIII (dal « Théàtre des Etats du Due de Savoye », 1700).

    La francesizzante mole del castello del Valentino.

    È vero sì, che quando si esce dalle vie strette e semibuie della Torino antica, non si muta direzione, e la città continua a sembrare fabbricata su di una scacchiera. Ma la scacchiera prende respiro, si fa immensa: si prova immediatamente una impressione nuova. A primo aspetto tutte le strade si assomigliano come se fuse nello stesso stampo: via Garibaldi, via Po e la vecchia via Roma, via del Carmine, via Milano, via San Francesco d’Assisi, via Consolata, e oltre piazza Castello, via Giuseppe Verdi, via Accademia Albertina, via San Francesco da Paola, via Bogino, via Maria Vittoria, via Principe Amedeo, che tagliano tutte un lunghissimo rettangolo di cielo, con due file di case di colore uniforme, di altezza uniforme, di foggia esterna uniforme. Ma di quando in quando, nella rete un po’ uggiosa delle strade gemelle, ecco grandi piazze e giardini, che fanno un largo squarcio improvviso pieno d’aria e di verde: ecco angoli ariosi, tranquilli e simpatici. E la Torino che faceva dire al Vittone: «nulla si può vedere al mondo di più ordinato e di più comodo»; la Torino che appariva al De Brosses come « la plus jolie ville de l’Italie », ed in cui « rien n’est fort beau, mais tout y est égal et rieri n’est médiocre, ce qui forme un total, petit ci la vérité (car la ville est petite) mais charmant»; la Torino, che come dice il De Amicis, « è fatta di case allineate come lo erano i vecchi reggimenti piemontesi coi guidoni e guide sulla linea, dopo un’ora di lavoro, e girando per la quale si prova un desiderio di vita agiata, senza sfarzo, d’eleganza discreta, di piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da una operosità regolare, confortata da un capitale modesto, ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza dell’avvenire ».

    Come Torino si è sviluppata attraverso i tempi. (In base a fonti cartografiche favorite dalla Divisione urbanistica del Municipio di Torino).

    Questo schema architettonico ed urbanistico insieme, che permetteva l’estensione della città con la facile aggiunta di blocchi compatti, era connesso anche al fatto che sotto lo stesso tetto si distribuivano, come in una specie di stratificazione verticale, tutte le classi sociali. « Un palazzo torinese », scrive Vittorio Bersezio in I miei tempi, « era un modello in azione del corpo sociale ». A pianterreno le botteghe e negli ammezzati i bottegai; al piano superiore, che si chiamava superbamente primo piano nobile, l’aristocrazia e la ricchezza; negli altri piani successivi la borghesia sempre minore di grado a grado che si saliva, e da ultimo sotto i tetti, nelle soffitte, la plebe. Questo continuo contatto non era senza utili effetti nei reciproci rapporti. Non si poteva rimanere affatto estranei gli uni agli altri nelle fasi dell’esistenza.

    Il Palazzo Municipale di Torino e la piazza delle Erbe alla fine del Seicento (dal « Theatrum Statuum Sabaudiae», Amsterdam, 1672).

    In realtà il crescere della città s’era accompagnato, come generalmente avviene, a una sempre maggiore differenziazione economica e sociale della sua popolazione. S’era di molto ridotto, rispetto al passato, il ceto di quelli che oggi chiamiamo piccoli coltivatori diretti, le cui terre, appena fuori delle mura, ospitavano soprattutto colture ortive e frutticole, che trovavano facile smercio sui mercati della città. L’afflusso di nobili e di funzionari pubblici in Torino capitale — si calcola che verso la metà del Settecento risiedessero nella città circa 500 famiglie titolate — l’arricchirsi di elementi dell’alta borghesia mercantile e l’esempio dei sovrani determinarono la ricerca di terreni del contado per farne redditizie aziende agricole di notevole estensione e ville di soggiorno estivo, che andavano moltiplicandosi, specie nella vicina collina.

    Mentre una discreta aliquota della ricchezza torinese si riversa sulla campagna circostante e prende le forme, tra rurali e residenziali, ora ricordate, un’altra parte di investimenti si concentra in un vecchio borgo della città (ma esterno alle mura), che dovrà diventare il luogo d’avvio delle sue fortune industriali. Già da tempo in Borgo Dora, e cioè nella zona tra il fiume e l’imbocco di piazza della Repubblica, s’erano installate delle rudimentali fabbriche : un maglio, una « pista da olio » (e cioè un frantoio), una « pista per canapa », una segheria. Un ulteriore accentramento di opifici si ebbe durante il regno di Vittorio Amedeo II, quando sorsero in Torino le prime fabbriche nel senso moderno, capitalistico della parola. Nel 1768 Torino contava ben ventisette filande di seta, che impiegavano 895 persone. Un buon numero di operai lavorava in alcune fabbriche di panni di lana, mentre si fondavano, accanto alle vecchie telerie, manifatture di cotone.

    Calze, guanti, passamanerie fabbricati a Torino erano molto apprezzati anche all’estero, e tra le numerose università o corporazioni quella dei calzettai figurava molto onoratamente. Stimata per la produzione di robuste, ma anche belle ed eleganti carrozze, era la « università dei minusieri, ebanisti e mastri da carrozza », che, fondata nel 1636, durò fino al 1844. Gli opifici tessili erano situati in gran parte nei quartieri del nuovo ingrandimento verso Po. Il trasporto dell’Arsenale nelle vicinanze della Cittadella segnò l’inizio di un periodo di intensa attività produttiva in fatto di cannoni. Verso ovest e verso nord tendevano, di fatto, a stabilirsi le industrie metallurgiche e meccaniche. Così le canne da fucili erano fabbricate a Valdocco, in continuazione di Borgo Dora. Qui, tra le altre, era sorta un’importante manifattura di polveri piriche. Non sarà male ricordare che queste fabbriche si valevano, come energia motrice, dell’acqua derivata dalla Dora Riparia mediante appositi canali industriali, che continuavano ad azionare, sempre in Borgo Dora, i mulini di cui era proprietaria la città di Torino.

    Se in campo industriale la Torino settecentesca ha fatto progressi, per altro artificiosamente sostenuti, in campo commerciale, e più precisamente nei traffici a grande raggio, è scaduta d’importanza. Non di meno all’impoverirsi delle grandi correnti di traffico faceva da contrappeso l’intensificarsi delle relazioni commerciali fra Torino e le altre città del Piemonte. Prova ne sia la sempre maggiore importanza dei mercati e delle fiere. I mercati, specializzati fin dal Medio Evo in località diverse a seconda delle diverse mercanzie, avevano tuttavia come aree di maggior afflusso e movimento piazza Castello, piazza delle Erbe, davanti al Municipio e vicino alla Porta di San Michele, donde si entrava a Porta Palazzo, l’attuale piazza della Repubblica. Parecchi mercati erano poi trasmigrati in rapporto agli ampliamenti cittadini. Così, quello delle granaglie da piazza San Tommaso era stato trasportato nei paraggi di via Andrea Doria, e quello del vino in piazza Carlina, dove erano state apprestate apposite tettoie. Molta gente di fuori richiamavano le due fiere annuali di San Germano, che durava tutto il periodo del Carnevale, e del Santissimo Sudario, che si teneva i primi di maggio.

    Vedi Anche:  Lo sviluppo industriale del Piemonte

    La bufera rivoluzionaria e il periodo della riorganizzazione napoleonica costarono alla città di Torino, oltre che la perdita del rango di capitale, la fuga di un gran numero di funzionari regi, e la chiamata alle armi di molti giovani. Di qui una diminuzione della popolazione che da 69.894 ab. nel 1780 scese a 53.934 nel 1807. S’aggiunga l’ordine di abbattimento della cerchia muraria che si estendeva per un circuito di 7 km. circa. Quest’ultima umiliante misura si risolse, però, in un grande beneficio per il futuro sviluppo della città, non più inceppata nella sua espansione da una ormai insufficiente barriera difensiva. D’altro canto, bisogna riconoscere che con i suoi 500 e più abitanti per ettaro, di fronte ai no per ettaro della metà del Cinquecento, la Torino dell’ultimo Settecento soffocava. Ma nè sotto l’amministrazione repubblicana, nè sotto quella imperiale sorsero nuovi quartieri. Nasceva invece sulle rovine delle antiche fortificazioni « una delle maggiori bellezze torinesi, una delle più ridenti caratteristiche che rendono lieta, elegante, cordialmente accogliente la città subalpina, costituita dagli ampi e lunghissimi corsi alberati, che da un capo all’altro dell’abitato e con una fitta rete periferica creano nei quartieri ampie, comode, salubri linee di traffico, e nello stesso tempo prospettive grandiose, soste piacevoli, zone di verdeggiante quiete e di riposanti silenzi » (M. Bernardi).

    Non tutti i bastioni però furono distrutti. Rimasero in piedi, oltre alla Cittadella, quelli di Santa Adelaide e di San Giovanni, che andavano da piazza Vittorio ai giardini Cavour e che, trasformati in parco pubblico, divennero i giardini dei Ripari. Pure risparmiati furono i bastioni di Sant’Ottavio, di San Lorenzo e di San Maurizio, che collegavano via Vanchiglia ai Giardini Reali, in corrispondenza dei quali venne conservato il Bastion Verde. Risale anche al periodo napoleonico il bel ponte Vittorio Emanuele II, lievemente spostato a valle rispetto all’antico ponte, parte in legno e parte in muratura, che attraversava il fiume all’altezza di via Giolitti.

    Rotta dunque la diga delle mura e dei bastioni, Torino non conservò più un limite definito fra città e suburbio, ma prese a svilupparsi secondo un ritmo espansivo, in complesso crescente, e che dura gagliardamente tutt’oggi. Mentre si provvedeva, dopo la parentesi dell’occupazione francese, a migliorare la rete stradale della campagna circumurbana con arterie di traffico dipartentisi dal sito delle quattro porte abbattute, e mentre si tendeva a completare la magnifica serie di viali cui s’è fatto cenno, la città straripava dal margine dei terrazzi fluviali, sui quali era rimasta confinata fin dalle origini, e scendeva, sia verso Po, sia verso Dora. Verso il maggior fiume la città venne ad inglobare il malsano e pittoresco Borgo di Po, un’accozzaglia di casupole, in cui abitavano barcaioli, contrabbandieri, pescivendoli, lavandaie, e che scomparve di lì a poco per lasciar posto alla spaziosissima piazza Vittorio (prima Vittorio Emanuele I, poi Veneto), aperta su uno scenario in cui templi, ville, colline si compongono e si fondono in mirabile armonia. Verso Dora, il passo fu più breve ancora, perchè la maggior parte delle case del borgo era sorta tra le mura ed il fiume. Dal Borgo Dora, andando a monte, si passava, sempre lungo le « basse di Dora », al « Balòn », il famoso mercato dei rottami e delle cianfrusaglie, e poi in regione Valdocco, dove altre fabbriche e cascine dai floridi prati irrigui dovevano tra breve lasciare il posto alle grandi e nude costruzioni della città dei poveri, fondata dal Cottolengo, e della prima vera « Città dei Ragazzi », creata da Don Bosco.

    Intanto la popolazione di Torino, rimasta stazionaria sugli 88.000 ab., dopo un primo rapido aumento coincidente con il ritorno del governo legittimo e della corte dalla Sardegna dal 1823 aveva ripreso ad aumentare celermente, tanto da raggiungere nel 1830 i 122.424 abitanti. Ancora una volta l’intervento sovrano (regnavano allora Carlo Felice e poi Carlo Alberto) potè contenere gli ingrandimenti urbani entro lo schema predisposto di blocchi di isolati unitari per concezione e per caratteri costruttivi. Tra i grossi isolati di piazza Vittorio e il viale del Re andò gradualmente allargandosi il Borgo Nuovo, con le sue regolari, severe, signorili case, quiete e silenziose verso il non lontano placido fiume e il prospetto impareggiabile della collina, ma tosto invase, nelle vicinanze di Porta Nuova, da negozi, da uffici e da un vivace movimento di gente.

    Dopo il 1830, e fino al 1848, segue per Torino un altro periodo di rallentato incremento demografico, passando la popolazione da 122.000 a 136.894 abitanti. Il perimetro della città, dentro alla strada di circonvallazione, compresi i tre sobborghi di Po, di Dora e il Borgo Nuovo, ma esclusa la Cittadella con le sue opere, aveva raggiunto gli 11.450 metri. La maggior lunghezza dell’abitato urbano era di 2650 metri, la maggior larghezza di 1700 m., e la superficie toccava i 280 ettari. La prima guerra di indipendenza italiana segnò una battuta d’arresto nella espansione della città, ma per l’arrivo in essa di molti profughi da ogni parte d’Italia, la popolazione aumentò notevolmente, tanto da ammontare nel 1858 a 192.673 abitanti. Seguirono, pertanto, anni d’intenso incremento anche edilizio che portarono, fra l’altro, ad innestare verso piazza Carlo Felice le nuove, sempre diritte e spaziose arterie di via San Secondo, di via Nizza e di via Sacchi, col risultato di fare includere nella città i borghi di San Salvario e del Valentino. Fu del 1857 la sistemazione della Cittadella con la creazione di via Cernaia. Lavori cui s’accompagnò il prolungamento dei grandi viali di circonvallazione verso la Crocetta, ormai essa pure nella cinta urbana.

    A proposito di cinta, risale a quegli anni, e più precisamente al 1853, prima cinta daziaria, che doveva avere una notevole, ma non favorevole influenza, sulla fisionomia urbanistica di Torino. Tale cinta comprendeva 1705 ettari di territorio ed ebbe uno sviluppo complessivo di km. 16,2. L’accesso alla città avveniva in corrispondenza di « barriere », che diedero poi il nome ad altrettante località periferiche: barriere del Regio Parco, di Milano, di Valdocco, di Dora, del Martinetto, di Francia, del Foro Boario, di San Paolo, di Orbassano, di Stupinigi, di Nizza, di Piacenza, di Casale, con le neoclassiche caserme daziarie. Ai vecchi borghi del Regio Parco, di Madonna di Campagna, di Lucento, di Pozzo Strada, altri se ne aggiunsero in periferia, con i nomi di Montebianco, Monterosa, Vittoria, Ceronda, Campidoglio, San Paolo, Lingotto e Molinette. E anche entro la cinta daziaria, frammezzo ai blocchi residenziali unitariamente concepiti, cominciava ad infiltrarsi una massa di costruzioni utilitarie e meschine, intristendo il volto della città.

    La bella, armoniosa piazza Vittorio Veneto col superbo sfondo della collina torinese,

    Torino si preparava ad un passo decisivo sul suo cammino di moderno centro urbano. Mentre verso ovest e verso sud si allargava in ancora disciplinati quartieri di abitazioni signorili, tendeva a spostarsi verso nord e verso est con le sedi di una promettente attività industriale. Importava, cioè, trarre sempre più stretto vantaggio dalla rete di canali che si era condotta a percorrere quella parte della città e che doveva fornire a basso prezzo molte migliaia di cavalli di forza motrice. Tra Borgo Dora e la barriera di Francia sorgevano, richiamando attorno a sè gruppi di modeste case operaie, stabilimenti metallurgici e meccanici, filande, tessiture, concerie. Altre fabbriche ed altre abitazioni si costruivano alla Madonna di Campagna, a Lucento, al Martinetto, a Pozzo Strada: borgatelle che fino ad allora avevano conservato carattere prettamente rurale. Lungo la strada che dal Martinetto conduceva alla città andò sviluppandosi Borgo San Donato. Più tarda e più lenta fu l’espansione di Torino in regione Vanchiglia.

    Lo sviluppo demografico ed edilizio di Torino ebbe un particolare impulso durante il periodo in cui la città fu capitale del giovane regno d’Italia. Gli abitanti dai 179.635 del 1858 erano saliti nel 1865 a 211.546. Furono quelli gli anni in cui si provvide alla formazione di piazza Statuto, con portici e palazzi simmetrici ad imitazione di quelli di piazza Vittorio: si aprirono corso Duca degli Abruzzi, corso Duca di Genova, il più ampio viale torinese, e via Madama Cristina; si risanò e si ricostruì il Borgo Rubatto, oltre Po; vennero terminati i ponti Regina Margherita e Duchessa Isabella sul Po; venne innalzata quella Mole Antonelliana che rimase a lungo il più alto edificio europeo in muratura e che, con la sua snella freccia, abbattuta da un tornado il 23 maggio 1953, diventò l’emblema di Torino ed elemento tipico del paesaggio torinese; si inaugurò l’ampia stazione di Porta Nuova con la bella facciata del Mazzucchelli.

    Il mercato di Porta Palazzo come figurava verso i primi del secolo.

    Veduta aerea del centro di Torino da piazza Carlo Felice.

    Il trasporto della capitale a Firenze inflisse a Torino danni molto seri. La città perdette, tra l’altro, alcune decine di migliaia di abitanti, per la partenza degli impiegati dei vari ministeri, di molti militari e della Corte. Ma come abbiamo già ricordato in principio, la dura crisi fu superata per la preveggenza e la tenace volontà di uomini accordatisi nel proposito di fare di Torino una città industriale e manifatturiera. Questa deliberazione, che gli eventi successivi mostrarono fondata su solidissime basi, non determinò, inizialmente almeno, profondi cambiamenti nella struttura generale della città, anche perchè molte piccole industrie, a carattere artigiano, poterono stabilirsi in quartieri di abitazione. Ma la differenziazione delle abitazioni, in ordine ai vari ceti sociali, ne riuscì accentuata e quindi ne fu toccata anche la fisionomia della città. Torino che nel 1867 aveva 48.000 abitanti occupati nelle diverse industrie, ne contava 68.000 nel 1881, e sul finire del secolo ne annoverava 90.000. L’entrata in gioco dell’energia elettrica delle vicine montagne aveva aperto quasi illimitate possibilità di progresso alle industrie torinesi.

    I popolari borghi di Vanchiglia e di San Donato furono quelli che dopo il 1865 si arricchirono del maggior numero di abitazioni. E non passarono molti anni prima che case popolari e case operaie s’infittissero tanto da dare un’impronta caratteristica ad intere zone della città. E ciò mentre nell’ultimo quarto di secolo altre parti della città, come la vecchia piazza d’Armi e la Crocetta, con i corsi Re Umberto, Duca di Genova, Galileo Ferraris e Vinzaglio, assumevano una veste assai più signorile di quella presentata dai severi palazzi giallicci della Torino carlalbertina. Sulla vecchia piazza d’Armi sorse una ridente cittadina popolata di ville e di giardini fra vie discrete ed eleganti. Sui corsi si allinearono ricchi, massicci palazzoni, non di rado inspirati allo stile dei grandi boulevards parigini e frutto di ormai solide fortune. Verso Porta Nuova, attorno al gasometro, stava sorgendo Borgo San Secondo; verso la Cittadella, Torino si abbelliva di grandiosi casamenti, di ampie piazze, di giardini.

    Un tratto della signorile via Pietro Micca nella Torino della fine Ottocento.

    Qualche gustoso ambiente si va ancora configurando negli ultimi decenni del secolo: piazza Maria Teresa; la tanto discussa ed accogliente diagonale di via Pietro Micca; piazza San Martino con Porta Susa; il Parco del Valentino, grandiosissimo spazio verde, completato con la passeggiata di corso Cairoli e con i poderosi « murazzi » lungo il Po. Ma nulla di particolarmente notevole venne fuori dagli ingrandimenti operati dopo il 1876, sia verso la barriera di Francia, sia verso la barriera di Nizza, in quelle direzioni, cioè, che dovevano risultare le topograficamente più adatte allo sviluppo della città.

    Nel trapasso dall’Ottocento al Novecento Torino, come afferma il Cavallari -Murat, si snatura. Si crede di rimanere nel solco della tradizione conservando al tracciato delle vie l’andamento ortogonale, ma l’osservanza di questa caratteristica non basta a trasmettere al nuovo, le proporzionate armoniose linee del vecchio volto della città. Questa, di fatto, che nel 1901 risulta dal censimento avere 335.656 abitanti, comincia ad espandersi, incontrollatamente, a macchia d’olio.

    Sui primi del nuovo secolo si cercò di imbrigliare e di disciplinare la disordinata, tumultuosa crescita della città con un piano regolatore, per effetto del quale il muro daziario, che segnava i limiti della zona urbana, fu abbattuto nel 1912, per far luogo ad una nuova cinta di 32 km. di lunghezza. Il territorio comunale continuava ad esser diviso in due sezioni : quella urbana entro il dazio con una superfìcie di 5989 ettari, e quella suburbana, extracinta, di 7024 ettari. Gli ettari costruiti all’interno della cinta municipale erano 2400 con una densità di 210 abitanti per ettaro. I suburbi in pianura avevano ancora l’aspetto di piccoli centri di provincia, con la pavimentazione poco curata e le vie brevi e strette ancora illuminate a gas.

    Corso Re Umberto, uno dei lunghissimi, splendidi viali di Torino

    Di qui innanzi diventa diffìcile, per non dire impossibile, seguire la travolgente espansione cittadina, che dopo le due guerre e i vuoti rovinosi creati dall’ultima, riprende con rinnovata, giovanile energia. Questa espansione si effettua sempre più decisamente in obbedienza alle esigenze dell’industria, che è ormai la ragione prima di vita per Torino. In effetti, mentre ancora fino alla fine del primo conflitto mondiale si notava una certa proporzione tra le varie funzioni — militare, governativa, commerciale, industriale, culturale — della città, in sèguito, al graduale sminuirsi degli altri compiti, corrispose una progressiva dilatazione dell’attività manifatturiera, che, tra l’altro, portò Torino ad essere la sede del più imponente complesso industriale d’Italia, con una massa di 60.000 addetti e ad avere, secondo il censimento del 1951, insieme alla provincia, il 58,4% della popolazione attiva occupato nell’industria e nei trasporti. Ove non bastasse, possiamo ricordare che a Torino 1’80,90% dei redditi proviene dall’industria, commercio e credito. Questo prevalente indirizzo industriale della vita economica cittadina non soltanto ha improntato di sè interi quartieri diventati urbani e vaste zone periferiche, ma ha pure largamente influito nell’orientare le più recenti linee dello sviluppo di Torino. La città si espande ora lungo le maggiori vie di comunicazione, per tentacoli che si spingono in molteplici direzioni verso i limiti amministrativi del Comune.

    Ora, se ben si guarda, questi protendimenti portano la città a collegarsi ai paesi limitrofi — Settimo, Venaria, Alpignano, Collegno — verso i quali, negli ultimi anni, numerose direzioni industriali hanno decentrato i loro stabilimenti, o ad altri paesi, pure limitrofi, come Nichelino, Beinasco, Orbassano, Moncalieri, che funzionano piuttosto come serbatoi di mano d’opera, l’immigrazione superandovi l’emigrazione. Ma uscendo dalla grande città, è molto diffìcile riuscire a distinguere la periferia dal sobborgo. Anche perchè questo, si chiami Nichelino, Leumann, Cascine Vica o Bertolla, fa di tutto per diventare freddo ed anonimo, come la periferia vicina, che potrebbe essere quella di qualunque centro industriale europeo.

    C’è di fatto alla periferia di Torino, un disordine, quasi uno squallore, che mostra come qui l’agglomerato urbano non riesca a darsi una forma sicura, forse perchè manca ancora una organica sutura fra l’antico schema a scacchiera della città, e quello moderno, radiale.

    E tuttavia « qualche nuovo ambiente unitario », osserva ancora il Cavallari-Murat, « va pur notato nell’ultimo trentennio torinese. La via Roma Nuova, il primo tratto in stile eclettico, arieggiante al barocco e il secondo tratto in stile piacentiniano. Il centro delle attrezzature sportive, con piscina e stadio atletico. La grande oasi di Mirafiori, dopo il trasferimento dal tipico edificio del Lingotto, e pure qui un grande opificio che sembra un favo di api operaie. Unità residenziali, quali la Falcherà, e gruppi sparsi di case sovvenzionate per il popolo. I nuovi mercati, opere di ingegneria, quali ponti, strade, radiali di nuovo tracciato, l’autostrada per Milano (1932), centrali idroelettriche lungo il Po. Gli ospedali delle Molinette. Il campo di aviazione di Caselle ».

    Veduta dell’area centrale di Torino e delle Alpi dalla collina (viale Seneca).

    Lo sviluppo industriale determina, come si è già avuto occasione di ricordare, un forte flusso immigratorio a Torino, e questo a sua volta contribuisce largamente a determinare l’ingrandimento edilizio della città. Nel periodo che va dal 4 novembre 1951 al 31 dicembre 1956, la popolazione di Torino, ha subito un aumento migratorio (immigrazione-emigrazione) di 136.573 persone. In un solo anno (il 1957), 51.925 immigranti hanno fissato la loro residenza in Torino. Nessuna città d’Italia, neppure Milano, è la meta di una così massiccia « invasione » di uomini in cerca di lavoro e di fortuna. Com’è evidente, questa ininterrotta corrente migratoria impone dei gravi problemi all’organizzazione della vita cittadina, prima di tutti quello dell’abitazione dei nuovi arrivati. Non per nulla, dal 1945 al 1956, il ritmo delle costruzioni è stato addirittura vertiginoso, essendo venuti su in quegli anni 32.207 appartamenti con 102.929 stanze. Dopo il 1956 il ritmo costruttivo ha subito un sensibile rallentamento, ma non è rallentato il movimento immigratorio. Nè qualche cosa dà a divedere che debba diminuire o arrestarsi nei prossimi anni.

    Era dunque ora che alla vigilia di diventare città «milionaria» (il 1° agosto 1958 contava più di 905.000 ab.), Torino fosse dotata di un moderno piano regolatore. Ed è naturale che questo piano, approvato con legge 7 aprile 1956, intenda soprattutto esser di guida al futuro sviluppo industriale della città. Non è qui il caso di analizzare le linee direttrici secondo cui si prevede e si provvede ad orientare i prossimi ingrandimenti urbani.

    Al piano regolatore urbano deve affiancarsi un piano regolatore intercomunale di Torino, con un territorio interessato comprendente, oltre la città capoluogo, 23 Comuni di media e piccola importanza, alcuni dei quali hanno assunto negli ultimi anni le caratteristiche della periferia urbana, mentre altri sono diventati sobborghi della città, o lo diventeranno, non appena inquadrati nel piano programmatico del piano regolatore intercomunale. Questo abbraccia anche tutta l’area della collina di Torino propriamente detta.

    La parte inferiore della conca di Cavoretto e, al di là del Po, il grosso della città di Torino.

    Così, da città classicamente caratterizzata da un unico centro — quello di piazza Castello — Torino sta diventando un agglomerato policentrico. I nuovi centri li vediamo formarsi sotto i nostri occhi, in piazza Sabotino, per esempio, al Largo Orbassano, in piazza Massaua, intorno a nodi stradali di grande movimento. E col sorgere di negozi, di mercati, di garages, di cinematografi che non hanno nulla da invidiare a quelli del centro, finiscono per acquistare una loro autonomia anche fisionomica. E mentre alcune zone della città, specialmente sotto l’impulso dell’accresciuto traffico, prendono a pulsare di più intensa vita e sfavillano di luce nelle vetrine ammodernate — è il caso di piazza Statuto — altre zone come quelle del Borgo Nuovo e intorno a via Po sembrano, forse per contrasto, intristire al pari di vecchie dame decadute.

    Parecchie vie dell’antico centro, come la via Po, ora ricordata, e le adiacenze di via Garibaldi, mutano inquilini ed anche padroni. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non è tanto ai nuovi caseggiati della periferia che si dirigono i meridionali immigranti a Torino, quanto ai quartieri centrali, che gli abitanti torinesi lasciano volentieri per più ariosi, razionali e moderni immobili e che, forniti come sono di vasti locali, anche se maldisposti e malconci, si prestano assai bene ad accogliere le famiglie numerose di Calabresi, di Siciliani, di Pugliesi, di Napoletani, che vi si ammucchiano. Come abbiamo detto, anche a Torino si nota la fuga degli abitanti dall’antico centro, per far posto ad uffici, magazzini, agenzie d’affari, alberghi. La funzione residenziale, cioè, scade a vantaggio di quelle che caratterizzano una city. Ma è fenomeno lento e di modeste proporzioni. Anche perchè le attività di direzione delle industrie, del commercio, della finanza, trovano facilmente sedi ampie e signorili in ville e palazzine dei corsi più centrali: tipi di stabili molto impegnativi, che i proprietari, spesso nobili, non sono più in grado di mantenere con l’antico decoro.

    I Torinesi, si sa, hanno la nomea di bógianen. Eppure in nessuna città italiana, la popolazione mostra una mobilità — e cioè una propensione a mutar casa entro l’ambito della città stessa — così pronta e vivace. E un’altra opinione è più diffusa del necessario: quella che Torino sia una città stanchevole, uggiosa, troppo uniforme. Torino, intanto, non è punto un organismo urbano piatto. Non lo è sicuramente nel senso traslato della parola, ma non lo è neppure in quello fisico, reale, pur figurando come un tipico agglomerato di pianura. Tra piazza Massaua, alla barriera di Francia e piazza Vittorio Veneto, all’imbocco del ponte sul Po, vi è un dislivello di ben 60 metri. La città discende dunque verso il maggior fiume e la collina di Torino, seguendo la pendenza dell’antica conoide di deiezione su cui per gran parte è costruita. Ma discende anche sui fianchi della conoide stessa, con più ripide rotture di pendio verso la Dora, verso la Stura di Lanzo e verso il Sangone. Per andare da piazza Castello ai quartieri nordorientali della città, s’attraversano i terrazzi della Dora: due nettissimi in discesa, uno che conduce ai Giardini Reali e al corso Regina Margherita, e l’altro, più basso, che di qui conduce a Dora, visibilissimo al principio di via Cigna o anche soltanto nel breve tratto da corso Regina al Cottolengo; e altrettanti in salita, sulla sponda opposta della Dora, lungo via Cigna, per raggiungere la borgata Montebianco. Il dislivello del più alto terrazzo si nota pure seguendo via San Donato, da piazza Statuto al Martinetto.

    Caratteristiche depressioni periferiche, ora in via di riempimento, erano le basse di Po, dopo le Molinette, con salto ben netto sul terrazzo sovrastante, e quelle del Lingotto con scarpata fatta dal Sangone. Insuperabile, almeno per ora, pare il terrazzo di destra della Stura di Lanzo, che, come si è già ricordato, pone un limite ben definito all’espansione della città in direzione nord. In sostanza, tanto chi s’accosta ad essa venendo dalle strade che seguono il Po, quanto chi viene da Milano per l’autostrada, s’avvede, ove faccia un po’ d’attenzione, della posizione relativamente elevata che occupa la massa del centro urbano. Altri minori, ma pur sensibili dislivelli del suolo cittadino sono quelli dovuti allo scorrere di antichi torrenti che incidevano il margine dell’alto terrazzo della pianura, per scendere al Po. Uno di questi torrenti, che si vedono rappresentati in vecchie figurazioni di Torino e della sua campagna — e di cui alcuni ancora qualche anno fa si scaricavano in Po, a monte delle Molinette — aveva il proprio letto dove oggi s’allunga via Mazzini. E poi, anche se al di là del Po la collina contrasta lo sviluppo del grosso della città, i quartieri del Fioccardo, del Pilonetto, di Crimea, della Gran Madre, della Madonna del Pilone, di Sassi, movimentano la topografia urbana, come frangenti di un’onda che si rompe fra le scogliere del rilievo collinare.

    Ma dislivelli d’altro genere, e indubbiamente più interessanti, sono ciucili urbanistici ed economico-sociali, riconoscibili tra le varie zone della città, cui vicende di popolo e iniziativa di singoli uomini hanno conferito proprie fattezze e spesso una singolare, incisiva personalità. La più tipica di queste zone, vera città dentro alla città, è forse la regione di Valdocco, una zona « santa », cui possiamo aggiungere il santuario della Consolata, la chiesa più frequentata dai Torinesi. Nell’antica depressione della Dora, che fu campo d’azione di due grandi santi moderni, Giuseppe Cottolengo e Giovanni Bosco, grossi edifici chiusi e muti, limitati da strade strette, silenziose, rade di passanti, ricoverano circa 25.000 persone, tra assistiti ed assistenti (e gli assistiti sono gli scarti della natura, i rifiuti della società). Poco più in su, intorno alla bella chiesa di Maria Ausiliatrice, altri grandi edifici, ma più moderni, più allegri — sono scuole, laboratori, officine — inframmezzati da ampi cortili, ospitano migliaia di giovani, che crescono nella carità e nell’amore di Don Bosco.

    Per un accostamento casuale, ma che tuttavia fa riflettere, accanto ai rottami umani, raccolti fra le mura della Piccola Casa del Cottolengo, altri rottami si raccolgono ammucchiati al suolo o sui banchi d’un mercato assai caratteristico: sono gli oggetti più disparati, di cui non è possibile farsi un’immagine, scrive il De Amicis « fuorché supponendo che un intero quartiere di Torino invaso da furore di distruzione abbia rovesciato giù dalle finestre tutte le masserie delle sue case, dai solai alle cantine, sino all’ultima carabattola dell’ultimo armadio»: oggetti usati e guasti, ma per qualcuno ancora servibili, esposti e rimessi in vendita nelle viuzze e sugli slarghi del « Balòn ». E limitrofa a una zona in cui s’alimentano le sublimi aspirazioni dello spirito, eccone un’altra, alla quale fa capo per la sua alimentazione il ventre di Torino: è Porta Palazzo — oggi piazza della Repubblica, la più vasta piazza torinese — con le sue tettoie per la vendita delle carni e del pesce, e con le grigie tende delle bancarelle, rigurgitanti di frutta e di verdura, tra il vocìo delle loquaci erbivendole, gli imbonimenti dei venditori ambulanti, il via vai delle massaie, il regolato incrocio di lunghe file di tram e di autocarri. Altre parti di Torino si distinguono per concorso di folla, per movimento di macchine, per difficoltà di passaggio, per il traffico quasi frenetico, insomma, che caratterizza la grande città. La zona delle banche per esempio, tra le vie Santa Teresa, Arsenale, XX Settembre ed Alfieri; la zona di Porta Nuova; il crocicchio di via Pietro Micca e piazza Solferino; quello di via Garibaldi e quello di San Francesco d’Assisi; di via Garibaldi e di via Consolata; di piazza Statuto e di corso Francia; il corso Vittorio Emanuele e corso Re Umberto, il Largo Orbassano e corso Rosselli; la zona di corso Ponte Mosca e il primo tratto di corso Giulio Cesare.

    Una loro fisionomia hanno zone in cui il ritmo della vita cittadina si fa meno chiassoso, signorilmente discreto. Così i blocchi di isolati fra la aiuola Cavour, via Giolitti, corso Cairoli e via Mazzini, dove, lungo l’asse di via della Rocca, palazzi nobiliari e severi edifici di color cupo gettano come un’ombra di tristezza nelle vie larghe e solitarie, nelle quali non si sente strepito di lavoro e i passi risuonano sotto le volte dei portoni muti e nei cortili erbosi. Così l’elegante distesa di palazzine e di ville tra corso Vittorio Emanuele, corso Duca degli Abruzzi, corso Peschiera e corso Re Umberto, in cui la molteplicità degli stili architettonici s’accompagna a una varietà di prospettive dovute al frequente rompersi delle vie, quasi quinte decorate di splendidi giardini, sull’immancabile fondale dei grandi corsi e delle lontane montagne. E se, come al Valentino, c’è ancora modo di sottrarsi alla vita turbinosa della città e di confortarsi gli occhi nella visione del parco e delle colline di Torino che mettono nella visione stessa un riflesso eli serenità e eli grazia campestre in borgata Ceronda, per esempio, e più largamente tra corso Principe Oelelone e Lucento, si può avere l’impressione di essere capitati nel cuore fumoso e squallido eli un centro siderurgico e industriale della Ruhr o della regione di Liegi, fra mucchi eli rottami di ferro e di scorie, alte ciminiere, fragorosi capannoni, scoli d’acejue rugginose o opalescenti, raccordi ferroviari, andirivieni di decauvilles e di camions, gruppi di operai in bicicletta o a piedi, lungo i muretti di cinta degli stabilimenti. In tema di aree in cui si concentrano determinate attività cittadine, ripetendo la caratterizzazione medioevale delle « vie di mestieri », possiamo ancora riconoscere i paraggi di via Roma e di piazza Carlo Felice, dove s’addensano alberghi, agenzie di viaggio, cinematografi, e quelli di via Pomba e delle vie adiacenti, dove si trovano gli uffici di quasi tutte le Case per la rappresentanza e il noleggio dei films.

    Il Cottolengo, cittadella del dolore e della carità.

    Altra gloria di Torino è l’Opera di Don Bosco, Qui la Casa Madre e gli istituti annessi

    Un angolo della vecchia Torino. Il Palazzo Reale e l’antistante piazzetta.

     

    Il cuore di Torino. Palazzo Madama e piazza Castello.

    Si sa, le guide turistiche invitano il forestiero a visitare Torino richiamando giustamente la sua attenzione su un insieme di chiese, di monumenti e di musei, che, se non ha lo splendore e la dovizia del tesoro artistico di altre città italiane, presenta tuttavia aspetti di singolare pregio: dai ben conservati avanzi della Torino romana al Duomo, dalla Cappella della Santa Sindone a Palazzo Reale e a Palazzo Madama; dall’Armeria e dalla Biblioteca Reale al Museo Egiziano e alla Galleria Sabauda; dal Cavai ‘d Bruns alla facciata di Porta Nuova; da Palazzo Carignano con l’annesso Museo Nazionale del Risorgimento a quello della Montagna sul Monte dei Cappuccini; dalla Cittadella, ov’è il Museo Nazionale dell’Artiglieria, al giardino zoologico; dal Borgo Medioevale al Castello del Valentino e al palazzo di Torino Esposizioni.

    S’insiste, altrettanto giustamente, sulla bellezza e sull’interesse artistico e scientifico dei dintorni di Torino: dalle ridenti, panoramiche alture della sua collina, con la grazia settecentesca di numerosi piccoli borghi e di ville scaglionati fra vigne e boschi dell’uno e dell’altro versante, con la stupenda Basilica di Superga e con l’antichissima Abbazia di Vezzolano, alla meno cittadina ma ugualmente amena cerchia della collina di Rivoli, con il Castello che sovrasta la cittadina e con l’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, le case medioevali di Avigliana, i due laghi, e la possente Sagra di San Michele. Nella pianura propriamente torinese ecco il celebre «Palazzo di Piacere» di Venaria Reale: la candida, squisita Palazzina di Caccia di Stupinigi, due delle più armoniose costruzioni del Settecento piemontese. Ai piedi della collina, verso mezzogiorno, spicca tra le case della cittadina la turrita mole del castello di Moncalieri, mentre quello di Castelvecchio, come altri della sottostante pianura, si nasconde tra la folta alberatura della campagna. Nella quale tra Trofarello e Poirino s’incontra a Santena la grande villa ov’è la tomba di Cavour.

    Oggi, poi, che antiche « delizie » della Corte con il Regio Parco e Mirafiori sono scomparse per far posto a manifatture ed a fabbriche, Torino va orgogliosa del titolo di « capitale dell’automobile » e addita al visitatore le tappe che materialmente segnano gli sviluppi del suo cammino verso quella altissima dignità nel campo del lavoro: dal primo stabilimento della Fiat in corso Dante, diventato sede di attrez-zatissime, modernissime scuole operaie, all’elegante, originale officina del Lingotto, famosa, tra l’altro, per la pista di prova, installata sul tetto, al gigantesco complesso di edifici che campeggia nella ridente ed aperta zona di Mirafiori.

    A nostro giudizio, però, la cosa più interessante da vedersi a Torino è Torino, e cioè la città in sè e per sè, nella fisionomia delle sue vie, delle sue piazze, dei suoi corsi, così diversa da quella di quasi tutte le altre città italiane, nelle abitudini di vita e di lavoro dei suoi abitanti — Torino, per esempio, non ha vita notturna — nella linea di compostezza e di eleganza dei suoi negozi, nell’ordinato svolgersi del suo traffico, nell’innata cortesia della sua popolazione, rispettosa ed educata. Tutte qualità e virtù codeste, che non si lasciano apprezzare di primo acchito, ma solo dopo qualche tempo di una pratica che finisca per diventare confidenza. Benissimo hanno detto P. Betta e A. Melis De Villa, parlando di una « suadente blandizie » che scaturisce dalla città di Torino.

    E d’altra parte la bellezza di Torino è di un tipo particolare, assai difficile da definire. In che consiste dunque questa bellezza? Lasciamolo dire a chi di estetica, e non solo cittadina, molto s’intende: a Marziano Bernardi: «È nel suo ordine, nella sua calma armoniosa, nella sua signorilità, non turbata da traffico incomposto e da frastuono. E nel ritmo degli spazi dei suoi vasti corsi e dei suoi ampli giardini ; è nell’eleganza innata delle sue donne, anche più modeste. È nel placido fluire del suo fresco fiume, nelle linee dolci della sua collina. E nel suo pudore d’ogni ostentazione, nella sua rinuncia ad apparenze futili; nella sua fiducia nelle cose reali ed oneste. E nella solennità del suo orizzonte montuoso, superba difesa datale dalla natura.

    «Degna metropoli d’una delle più pittoresche regioni d’Italia purtroppo non abbastanza valorizzata dal turismo. Duemila anni di storia, dall’umile borgo dei Taurini alla capitale del regno d’Italia: un progredir lento, ma costante, attraverso una lotta tenace e coraggiosa; uno sviluppo urbanistico e un incremento demografico e produttivo che, in egual periodo di tempo, non hanno riscontro in alcun centro italiano; una gentilezza di costumi unita ad un’inalterabile capacità di lavoro; una bellezza un po’ severa, ma accogliente e cordiale, anche per l’incanto dei luoghi circostanti; un singolare equilibrio fra civiltà nordica e civiltà mediterranea: questo è Torino, e questo è il suo spirito ».

    Le città del vecchio Piemonte

    Quasi sicuramente Biella (la Bugella dei documenti medioevali) ha preso il posto di un antichissimo centro agricolo-minerario Victimulum o Ictimula. La parte più vecchia della città si è sviluppata in piano, in Borgo Vernato, tra la collina e il Cervo. Nel Medio Evo, come spesso è avvenuto, il centro della vita cittadina si è spostato verso l’alto, sulla collina ora ricordata, formando il Piazzo, nucleo allungato in cima alla dorsale. Lo sviluppo delle comunicazioni e delle industrie ha nuovamente fatto rifluire a Biella-Piano le più intense attività urbane, e specialmente il mondo degli affari. Perchè Biella si è faticosamente conquistata, lottando soprattutto contro Andorno e contro il Vescovo di Vercelli, e in seguito concentrando via via buona parte delle attività commerciali connesse allo sviluppo dell’industria laniera del suo « retroterra », una singolare posizione economico-finanziaria che non ha riscontro in altre città del Piemonte, e forse d’Italia.

    In questa lenta, ma continua ascesa — 5053 ab. nel 1753, 8259 nel 1774, 14.844 nel 1881, 24.957 nel 1921, 42.791 nel 1951 — la città è stata favorita dal trovarsi al centro di un ampio semicerchio di monti e di colline, e quindi di valli convergenti, al contatto con l’ampia pianura antistante. Qui, per lungo tempo, Biella-Piano è rimasta confinata tra lo sperone collinoso del Piazzo e l’imbocco della valle del Cervo. Il fiume con le sue pure acque attivava i più antichi lanifici. Ma già nel tracciato delle sue vie, orientato nella direzione della valle e della strada per Torino il nucleo antico — di cui i monumenti più notevoli sono il romanico Battistero, la torre campanaria di Santo Stefano e la cattedrale di Santa Maria Maggiore — Biella si preparava alla sua futura espansione. Questa avvenne, inizialmente, ai margini ancora liberi del territorio urbano verso il fiume e nel sobborgo del Vernato, alla estremità del promontorio del Piazzo, e si effettuò sotto l’impulso della industria. Ma per la consuetudine degli industriali di costruirsi la casa accanto alla fabbrica, i pur numerosi opifici non vennero formando dei veri quartieri industriali, sicché Biella-Piano conservò la sua fisionomia signorile. Via Italia, che è la continuazione di via Torino, rimane l’asse movimentato ed elegante di questa parte della città, che, pur avendo meritato a Biella l’appellativo di « Manchester d’Italia », ha poco in comune, per il lindo, chiaro paesaggio urbano, incorniciato di giardini e di ville, con la fumosa, colossale metropoli inglese del cotone.

    Vedi Anche:  Dialetti e letteratura dialettale

    Dopo la prima guerra mondiale, Biella-Piano cominciò ad ingrandirsi nell’unico verso ora consentito dalla strettoia fra collina e fiume, e cioè in direzione di sudest, al di là della stazione Santhià-Biella, lungo la strada per Torino. La disponibilità di spazio altrove negato, la costruzione della stazione di San Paolo, e il sorgere di magazzini e di depositi, guidarono l’espansione edilizia a cavallo di ampie arterie, rigidamente ortogonali. Di guisa che Borgo Nuovo, con le propaggini di Borgo Rosselli e San Paolo e col villaggio sportivo, sta diventando la zona più moderna e più attiva di Biella, fiera di sfoggiare casoni multipiani, di pretto stile funzionale. Maggior contrasto ne deriva al Piazzo, dove la severa maestà dei palazzi turriti, i lunghi ampi portici silenziosi, le viuzze solitarie, costituiscono un’oasi di pace, di cui, in fondo sono responsabili i 55 m. di dislivello tra il Cervo e la sommità della panoramica dorsale collinare. Vecchio e nuovo, agitazione febbrile e profonda quiete si conciliano a Biella, come l’attività pratica si concilia con il raccoglimento degli studi e delle istituzioni benefiche, che fanno di Biella, in questi campi, città d’avanguardia. Cosciente di queste e di altre sue prerogative, come l’opulenta bellezza dei suoi parchi, Biella compartisce il frutto del suo lavoro con Vercelli, capoluogo di provincia, con Torino e con Milano, mentre è direttamente unita a Novara per ferrovia con una linea che poi mette pure a Milano. Intenso è il movimento automobilistico con i maggiori centri ora ricordati e con la corona di valli che fanno capo alla città.

    Poco sotto la confluenza del Cervo con la Sesia, in aperta pianura, là dove le strade scendenti dal Biellese e dalla Valsesia si innestano sulla grande arteria che portava dalle Gallie e da Pavia a Milano, è nata Vercelli (Vercellae), ai tempi di Tacito firmissimum transpadanae regionis municipium. Vercelli fu sede di Ducato longobardo, di contea carolingia, città fiorente sotto i vescovi e poi potentissimo Comune. Perdette l’indipendenza nel 1335, entrando a far parte del dominio visconteo, cui appartenne fino al 1427, quando fu ceduta ad Amedeo Vili duca di Savoia. Città di confine dello Stato Sabaudo, ebbe a soffrire assedi e rimase per qualche tempo sotto gli Spagnoli ed i Francesi. Nella seconda metà del secolo XV e nel XVI Vercelli fu il centro intellettuale più vivace del Piemonte. Già sede della più antica università piemontese, si distinse anche nella pittura e nella tipografia.

    Nella configurazione attuale della città non si hanno tracce chiare della più antica topografia, la romana, ma ben distinto appare il nucleo medioevale della città, che ha assunto forma tipicamente pentagonale, grazie alle poderose opere di fortificazione erette a più riprese, e che furono distrutte dai Francesi nel 1704. Sul luogo dei bastioni sorsero spaziosi viali alberati. Questa parte vecchia della città rappresenta tuttora il cuore della sua vita economica ed amministrativa, cuore che s’alimenta non poco della funzione di Vercelli quale capoluogo di provincia, e che

    pulsa più vibratamente in piazza Cavour, con le vecchie ed anguste vie che da quella s’irradiano a ragnatela. Arteria assiale è il corso Libertà. Qui tra i monumenti degni di particolare attenzione spicca la grandiosa Basilica di Sant’Andrea, chiesa unica in Italia per lo stile di transizione da quello lombardo all’ogivale della Francia del nord. Insieme alla vicina abbazia e ad altri edifici romanici e gotici sopravvanzano della città medioevale diverse torri delle case fortificate. Come non mancano case di architettura rinascimentale. Ben ordinati musei (Leone e Borgogna), raccolgono le testimonianze di una larga fioritura d’arte, non soltanto locale.

    La Vercelli moderna ha cominciato a formarsi con l’estendersi dell’area fabbricata al di là dei bastioni. Ma l’espansione di tale area ha trovato ed incontrerà sempre verso est l’ostacolo del fiume Sesia: ostacolo non solo passivo, ma attivo, come bene si è visto dagli effetti della piena del 1951. Verso nord e verso ovest altri ostacoli sono rappresentati dalle linee ferroviarie (rispettivamente la Torino-Milano e la Casale-Alessandria). Qui però, e più precisamente a nord, la comodità della ferrovia e la presenza di rogge e di canali hanno favorito la formazione di un’importante zona industriale, che si spinge fino alla Sesia, e che comprende fabbriche di prodotti chimici, di posatene, tessiture, riserie. Dal lato opposto, e cioè verso sud, lungo le ampie strade di un graticolato regolare, si è sviluppato un quartiere prevalentemente residenziale, dove i mezzi grattacieli della zona centrale trapassano alle casette isolate della periferia. Alla quale periferia si va coagulando un nuovo quartiere industriale, mentre gemmazioni a carattere lineare si profilano lungo le strade di Torino e di Biella. Così la città, che in epoca comunale occupava una superficie di 99 ettari, è ora giunta ad espandersi su più di 600 ettari. E la sua popolazione, che era di 8045 ab. nel 1571, di 6092 nel 1707, saliva a 12.556 nel 1774, a 31.154 nel 1901, a 43.716 nel 1951. Linee ferroviarie ed autocorriere collegano Vercelli con Biella, Novara, Torino, Casale, Alessandria, Mortara.

    Veduta panoramica di Biella. Si noti la fittezza degli abitati circostanti.

    La Cattedrale e la piazza del Duomo di Vercelli dall’aereo.

    Anche la bella capitale del Canavese, Ivrea, si appoggia, come Biella, ad uno spuntone collinoso e sale ad incappucciarne la cima, ma dietro di sè, invece di un muro di montagne, ha lo spazioso ingresso della vai d’Aosta. Se mai un muro Ivrea se lo vede sorgere verso oriente, di fianco, nella geometrica Serra, mentre gli orizzonti sulla pianura, a Biella apertissimi, qui incontrano le lievi ondulazioni dell’anfiteatro morenico. Città di sbocco di valle, dunque, Ivrea, e di una valle nota e percorsa fin da tempi remotissimi, e preromana certo è ì’Eporedia fondata nel territorio dei Salassi, poi colonia. Nel Medio Evo, la vera grande età di Ivrea, già sede di Ducato longobardo e di contea franca, è quella in cui Arduino Marchese è anche Re d’Italia. Poi alla potenza marchionale subentra quella vescovile e quindi quella comunale, rafforzata dall’adesione dei Conti del Canavese. Il nobile consortile non valse a salvare Ivrea, prima, dalla dominazione dei Biandrate, e poi da quella dei marchesi del Monferrato, che durò con alterne vicende fin al 1313, anno in cui la città di Ivrea si diede ai Savoia nella persona di Amedeo V.

    Dall’alto della città antica, raccolta al sommo di uno spuntone collinoso appartenente alla diga dioritica che attraversa diagonalmente l’anfiteatro morenico, dalle rossi torri del Castello e dall’antichissimo Duomo si dominava lo stretto vano intagliato dalla Dora nello spuntone stesso: era il passaggio obbligato, superato da un ponte, che rendeva prezioso il possesso di Ivrea e che è sostanzialmente alla base del suo sviluppo. Uno sviluppo piuttosto lento, perchè la città, che contava 5196 abitanti nel 1377, ne annoverò appena 5741 nel 1753, e 7221 nel 1774. Ma un buon balzo in avanti fu fatto nel secolo scorso, quando la città prese ad estendersi con dei bei palazzi lungo la Dora, e poi al di qua della Dora Baltea, lungo la strada per Torino. Restava, così, in mezzo alla città il tratto di fiume da cui un lungo sbarramento deriva il Naviglio di Ivrea. Effettivamente fu lo sviluppo delle comunicazioni stradali e ferroviarie verso Torino, la vai d’Aosta, Vercelli e il Biellese, che diede il primo impulso all’Ivrea moderna. Ma il maggior incremento questa lo ricevette dall’industria tessile e meccanica, e soprattutto dal grandioso sviluppo della Olivetti. La nota fabbrica di macchine da ufficio diede una sua particolare impronta alla parte nuova della città, che si estendeva intorno agli impianti ferroviari, e intorno alla strada per Chivasso-Torino, e a quella per Castellamonte. Ivi si viene infoltendo di case e di opere sociali tra collinette e vallette, modellate nella diga dioritica sopra ricordata, un quartiere operaio, che ha una sua lindezza ignota alle consimili agglomerazioni delle grandi città. Altre officine ed alti casamenti sono sorti all’estremità orientale dell’abitato, lungo corso D’Azeglio e la provinciale per Biella. Infine un terzo nucleo industriale, ma più basso, sta venendo su nella piana alle spalle della città, polarizzato intorno alla statale per Aosta. Nonostante questo fervore di progresso tecnico ed economico, ad Ivrea ci si rituffa volentieri nel passato, e lo stesso famoso Carnevale non è che la celebrazione di un antico episodio della storia cittadina. Lo studioso può ammirare la preziosa raccolta di codici medioevali conservata nell’archivio capitolare. Turisti e campeggiatori apprezzeranno particolarmente i dintorni della città, specie nella zona dioritica ricca di laghi, boscosa, con bei vigneti, costellata di case e di ville. E il curioso di statistica si meraviglierà forse di sapere che Ivrea conta appena 15.000 abitanti.

    Veduta aerea della celebre basilica di Sant’Andrea a Vercelli.

    Un altro tipico centro urbano della montagna piemontese è Susa, rannicchiata nel grembo della sua verde comba, e, per le plumbee lose dei suoi tetti, quasi mimetizzata con i roccioni circostanti. Come Aosta, anche Susa deve la sua importanza storica alla posizione geografica, che ne fa la naturale custode del Moncenisio, là dove la strada del Moncenisio si riunisce a quella che scende dal Monginevro. E come Aosta, Susa, posta alla confluenza di due corsi d’acqua, la Cenischia e la Dora Riparia, va fiera delle monumentali tracce della sua romanità. Capitale del piccolo regno di Donno e di Cozio, Segusio ebbe da Augusto fori, teatro ed anfiteatro. Dopo la caduta dell’Impero romano subì travagliate vicende. Città confinaria della marca di Torino, passò ai Savoia nel 1047 e questo le valse d’essere incendiata dal Barbarossa, durante una delle sue calate in Italia, e più tardi d’essere circondata da una corona di fortificazioni.

    La città si estende oggi sulle due sponde della Dora, ma in antico doveva limitarsi ad occupare un piccolo tratto della sua sponda destra. L’abitato rimase fino ai secoli XII e XIII entro la cerchia muraria romana: poi, oltre l’antica cinta, si formò verso sudest il Borgo dei Nobili. Solo in tempi più vicini a noi, la massa delle costruzioni valicò il fiume. E qui sulla sponda sinistra, l’industria moderna, prevalentemente tessile e meccanica, ha stabilito i suoi capannoni e i suoi chiari villini, isolando e dando maggior risalto alla Susa romana e medioevale. Sul pittoresco disordine delle sue brevi vie e dei’ suoi slarghi s’innalza il castello adelaidino, e a breve distanza, in un ambiente solenne e suggestivo, aggraziato da giardini, si profila il celebre arco di Augusto. Oltrepassato l’arco, s’incontrano avanzi della cinta e eli edifici romani ancora in via di escavazione. Più in basso, vicino alla Dora, è la cattedrale di San Giusto, di stile lombardo, come lombardo è il massiccio campanile, uno dei più belli del Piemonte. Romane sono invece le torri mozze della vicina Porta Savoia, che faceva parte della cerchia muraria. Lambita di corsa, si potrebbe dire, dalla strada del Moncenisio, Susa è stata lasciata da parte dalla ferrovia del Fréjus. E tra le due importanti arterie Susa continua a vivere una vita raccolta e tranquilla, testimoniata anche dallo scarso aumento della sua popolazione che era di 3688 ab. nel 1774, per passare ad appena 4265 un secolo dopo, e a 4957 nel 1901. Ci sono voluti i cinquantanni successivi per portarla a 5868 abitanti.

    Nell’ampia, industriosa vai Chisone non sorgono centri urbani, ma ad essa deve gran parte della sua storia e del suo sviluppo Pinerolo, formatasi nel primo Medio Evo ai piedi e sulle pendici del promontorio collinoso di San Maurizio, presso la confluenza del Lemina col Chisone. Una ricca, ben irrigata porzione di pianura, un sistema di valli che convogliava sul posto genti e prodotti in frequentatissime fiere, la presenza di canali (Rio Moirano) che favorirono il rapido svilupparsi delle industrie tessili, di cartiere, di mulini, di fonderie, il ruolo di capitale della frazione dello Stato Sabaudo affidata agli Acaia, contribuirono indubbiamente all’importanza della città. Ma la sua posizione, all’imbocco di un solco vallivo che metteva in facile comunicazione il Piemonte con il Delfi-nato, se le potè costare i rischi di una contesa piazzaforte, le valse pure i vantaggi del dominio di una frequentata arteria commerciale transalpina. Più tardi, la decadenza politica e industriale della città trovò un compenso nelle risorse minerarie, di cui si palesò ricca la vai Chi-sone, nello sviluppo elei traffici con Torino, con i centri delle valli valdesi e con quelli dalla pianura, nell’incremento della produzione agricola.

    Le case di Ivrea nascondono la Dora Baltea che scende a dividere una parte nuova della città dalla vecchia.

    Sentinella alle porte d’Italia, posta fondamentale in partite d’alta strategia, Pinerolo non conserva molte costruzioni del passato. Le più importanti di esse si trovano sulle pendici della collina di San Maurizio, fra le vie strette e tortuose della città vecchia, e sono: la bella quattrocentesca casa del Senato, che ancora attende i completi restauri, già sede del tribunale al tempo degli Acaia, e il restaurato trecentesco palazzo degli Acaia. Dalla cima del colle di San Maurizio, dove tra una fioritura di giardini e di ville si innalza l’omonima chiesa ogivale, con le tombe dei principi di Savoia e di Acaia, si vede spaziare ed allargarsi in piano la città moderna. Via Lequio, piazza Cavour e piazza Vittorio Veneto separano le più basse propaggini della città antica — dove attorno al Duomo e nelle vie adiacenti si trova tuttora il cuore commerciale della città — dai quartieri nuovi, che si diramano a semicerchio dalla base elei colle, giù verso la pianura. Alla tradizione militare della città, viva soprattutto quando alla sua scuola di cavalleria insegnavano i più celebri maestri d’equitazione d’Europa, si devono alcuni vasti edifici centrali, contornati dalle non meno vaste piazze sopra ricordate. Da queste si dipartono geometrici reticolati di comode vie, sulle quali, tra le case ottocentesche, troneggia un grattacielo eli diciassette piani. Casette, ville, giardini e fabbriche caratterizzano le zone periferiche, che tendono ad allungarsi lungo le strade di Torino, di Saluzzo e del Sestriere.

    Da un retroterra economicamente variato — agricolo, forestale, minerario, industriale — da un’antica tradizione manifatturiera, dalla ricchezza d’acqua, da una estesa rete di comunicazioni, e specialmente dalla vicinanza di Torino, Pinerolo trae incentivi per un crescente sviluppo industriale, che si indirizza ai rami più diversi, dal tessile all’alimentare (panettoni, liquori), al chimico (farmaceutici), al meccanico, al cartario. E nuovi impianti vanno via via sorgendo. Ciò spiega il notevole aumento della popolazione di Pinerolo. La città, che aveva 8291 ab. nel 1774, s’era già portata a 14.956 nel 1855: nel 1901 ne annoverava 18.250, e nel 1951 era salita a ben 24.595, con una popolazione operaia di 5150 unità, pure nel 1951. La città bassa è resa animatissima, specialmente alla domenica, dall’ininterrotto passaggio di macchine che salgono al Sestriere o ne discendono. Ma chi cerca riposo e pace può trovare un ridentissimo rifugio sulla collina di Santa Brigida e nel più ampio anfiteatro di verdissime alture che circonda la città verso nord e nordest. Qui, dove già abbastanza numerose sono le ville e i giardini, ha veramente modo di verificarsi esatta la fama che godono Pinerolo e i suoi dintorni per la costante serenità del cielo e per la mitezza delle temperature.

    Un angolo della piazza del Duomo a Susa.


    Riservando alcuni cenni su Saluzzo a quando si dirà dei centri dei marchesati, passiamo d’un balzo ad un’altra nobile città subalpina: Cuneo, l’invitta Cuneo dei sette assedi. Pochi spettacoli in terra di Piemonte sono così suggestivi ed interessanti come quello del lungo « cuneo » di antiche alluvioni, che sporge sulla bassa pianura, alla confluenza della Stura e del Gesso, e della città che vi si stende, affacciandosi sui ghiaieti dei due fiumi, come dalla terrazza di prua d’un grande transatlantico. E poche città, anche fuori del Piemonte, sono state così rigidamente plasmate nella loro forma dalla forma del terreno, o hanno tutt’intorno l’amplissimo scenario di montagne al cui centro, come sulla scena rialzata di un superbo anfiteatro, sta Cuneo, dominatrice, oltre che di eventi bellici, di strade. La fondazione della città, avvenuta verso il 1198, corrisponde ad un periodo in cui lo sviluppo dei traffici e delle relazioni politiche fra Italia e Francia meridionale attraverso il Piemonte dava particolare importanza al possesso del colle di Tenda ed al passo dell’Argenterà. Da allora il destino di Cuneo fu strettamente connesso alle lotte fra i Comuni, le Signorie e gli Stati che miravano ad assicurarsi le vie d’accesso a quei valichi. Prima Monferrato e Saluzzo, poi Asti ed Alba, i Savoia, gli Angioini, i Visconti, i Saluzzo, quindi nuovamente gli Angioini e poi nuovamente i Savoia, cui la città si sottometteva definitivamente, si resero via via padroni, per più o meno breve tempo, della città stessa. Saccheggi e ripetute distruzioni dapprima, i sette famosi assedi in sèguito fecero di Cuneo una città-fortezza, chiusa da ogni lato da una arcigna chiostra di mura merlate e di torri, e con l’andar del tempo costrinsero la crescente popolazione a stiparsi sempre di più.

    Panoramica di Pinerolo con il colle di San Maurizio (a destra) e in fondo la cuspide del Monviso.

    Il terrazzo su cui sorge Cuneo, con lo sfondo della Bisalta.

    Cuneo. Piazza Galimberti.

    Praticamente Cuneo non muta limiti fino alla fine del Settecento. Una lunga strada, l’attuale via Roma, fiancheggiata da bassi, caratteristici portici, pronti a funzionare, occorrendo, da rifugi e da scuderie, segue l’asse del cuneo. Intorno ad essa s’allineano quattro quartieri. Vìa non v’è ordine nelle vie, sempre più strette, e nelle costruzioni che sporgono e talora sembrano accavallarsi. La città che contava 6154 ab. nel 1571, era cresciuta tanto da contarne 18.106 nel 1774. Il solito, provvidenzionale ordine napoleonico di abbattere mura e fortificazioni determinò il prorompere di quella contenuta vitalità urbana, e dove sorgeva la Cittadella si ricavò l’ampia, elegante piazza, ora Galimberti. Nei primi decenni dello scorso secolo si costruì corso Nizza, il magnifico rettifilo che continuando, oltre la piazza, via Roma, doveva costituire l’asse dell’espansione futura di Cuneo. Questa espansione avvenne, per altro, lentamente fino alla prima guerra mondiale. Le modeste case che fiancheggiavano corso Nizza furono abbattute e sostituite con massicci palazzi ad alti portici. Anche nelle vie adiacenti la Cuneo umbertina s’arricchiva di solide costruzioni; case di abitazione, banche, scuole, uffici amministrativi.

    Stretta tra i due stupendi terrazzi — i Belvederi di corso Gesso e di corso Stura e delle loro continuazioni (oltre corso Gesso, il viale degli Angeli, si prolunga per più di 2 km.) — Cuneo non poteva continuare ad estendersi che verso sud, e cioè verso l’unico lato aperto sul pianalto, in direzione di Borgo San Dalmazzo. Fu ciò che avvenne con poderoso ritmo durante le due guerre mondiali. Furono allora aperti importanti corsi e viali cittadini: s’innalzarono grossi palazzi ed attrezzature sportive. Ma soprattutto fu terminata la nuova stazione, verso Stura (la vecchia è proprio alla punta del cuneo), col grande giardino antistante e col viadotto promiscuo sul fiume. La parte di Cuneo a monte del vecchio aggregato urbano è come un’altra città; una città signorile, fresca, moderna. Sui nuovi viali e corsi si schierano imponenti costruzioni a spaziosi portici, soprattutto nella zona di corso Dante e di corso Giolitti, che s’accosta alla nuova stazione. Dopo la seconda guerra mondiale una vera e propria febbre edilizia ha portato la città ad estendersi ulteriormente verso sud, con modernissime case, lungo le linee ortogonali di una regolare scacchiera.

    Questo rapido aumento costruttivo va di pari passo con l’aumento della popolazione, che dai 26.879 ab. del 1901, era salita ai 31.741 del 1921, e ai 35.321 del 1936. Ma è in parte anche dovuto ad uno spostamento interno di abitanti, che abbandonano le vecchie strette, malsane dimore della Cuneo antica, per le igieniche, chiare, funzionali case della Cuneo moderna. La quale, fervida di vita per le sue incombenze di capoluogo di provincia — e di una provincia « granda » — per l’importanza del suo mercato (scaduto da quando Cuneo era la capitale dei bozzoli e delle castagne), per le sue iniziative turistiche e culturali, ha tuttavia un modesto sviluppo industriale (fabbriche di prodotti alimentari, officine meccaniche e metallurgiche, tipografie per un totale di 2541 operai nel 1951). Anche e soprattutto per questo non vi è quasi afflusso di immigrati dal Mezzogiorno. Anche e soprattutto per questo, Cuneo conserva una sua caratteristica, riposante atmosfera di centro signorilmente borghese, le cui maggiori fortune, in senso finanziario, sono ancora quelle che derivano da una diffusione di possessi terrieri. Anche per questo Cuneo mantiene il suo cielo pulito dall’aria pura dei monti vicini e sfolgorante in una gloria di sole quando le nebbie gravano sulle campagne sottostanti. Un clima ideale per il Piemonte che dà, in parte, ragione della notevole affluenza di turisti, specialmente francesi, a Cuneo. La città non offre bellezze monumentali d’alto pregio. Ma nei suoi ben forniti negozi c’è sempre qualche buon acquisto da fare sulla via del ritorno. E lungo i suoi viali periferici una anche breve passeggiata può offrire incancellabili visioni di cerchie montane, di pianure e di colline a perdita d’occhio.

    Contemporaneamente, o quasi, a Cuneo, nasceva dal concorso di gente delle vicine campagne la città di Mondovì. Nasceva, o più precisamente, risorgeva in essa, con altro nome, un centro precedente, perchè come Cuneo ereditò le funzioni della romana decaduta Pedona, così Mondovì sottentrò all’importante borgo di Bre-dulo, diventato nell’alto Medio Evo centro di un omonimo Comitato franco, poi inglobato, conservando il nome di Breo, nella nuova città. La quale si formò sulla sommità di un promontorio collinoso fra il torrente Bianco e l’Ellero, su cui scende precipite col fianco occidentale. Il nuovo agglomerato urbano, chiamato Mondovì

    Piazza o Piazza semplicemente, risultò dall’aggregazione di tre terzieri intorno a una lieve depressione centrale, che è la piazza maggiore. Nel secolo XIV, mentre s’infoltivano di abitanti i nuclei già esistenti tra i piedi della collina e l’Ellero, se ne creò un altro in basso, all’estrema punta del molo collinoso, col nome di Caras-sone. Entro questi confini Mondovì, diventata fiorente Comune, lottò con Asti, passò sotto gli Angioini, quindi sotto i vescovi di Asti, ritornò agli Angioini, poi subì la Signoria dei Visconti, dei Monferrato, dei Principi d’Acaia e di Casa Savoia dal 1418. Attraverso queste vicende Mondovì legava a sè, politicamente ed economicamente, le terre che si diranno poi monregalesi, ed acquistava un’importanza preponderante nella vita del Piemonte sudoccidentale, soprattutto come piazzaforte militare, con compiti prevalentemente logistici.

    Nei secoli XV e XVI, lo sviluppo dell’irrigazione in pianura, il sorgere di parecchie industrie, conciarie e della carta, ma soprattutto l’essere diventata Mondovì, per la sua posizione geografica, punto chiave delle comunicazioni e dei valichi fra il Ducato Sabaudo e la Liguria — Mondovì signoreggiava le vie d’accesso alla Sella d’Altare e ai passi della vai Tanaro — determinarono un largo afflusso immigratorio. Stando al Botero, verso la metà del secolo XVI Mondovì era la città piemontese addirittura « la più gagliarda di popolo perchè passava le 20.000 anime ». Questo incremento demografico, pur determinando un infittirsi di abitazioni, non alterò sostanzialmente la struttura urbanistica di Mondovì Piazza. Spinse, invece, ad estendersi e ad avvicinarsi i nuclei del piano (Pian della Valle, Piani di Breo, Rinchiusa, Borgatto) portando il Breo ad assumere grosso modo la configurazione attuale. Nel Seicento Mondovì attraversò un periodo di grave crisi che provocò disordini e sollevazioni. La popolazione era di 19.893 ab. nel 1664, e ancora scemava nel 1734 a 6975 anime. Ma nel corso del secolo XVIII la situazione migliora rapidamente: nuove industrie, specialmente tessili, si affermano, il lungo soggiorno dell’Università ha dato vigoroso impulso alla vita intellettuale, si portano a termine nella città alta complessi monumentali, religiosi e civili, in cui trionfa il barocco. La popolazione è in ripresa e passa a 17.614 ab. nel 1774.

    Nel secolo XIX Mondovì ha perso ogni importanza strategica, ma conserva una notevole importanza commerciale, come centro intermediario nelle relazioni tra Piemonte e Liguria occidentale. Nel 1838 la città aveva 15.921 abitanti. Questo spiega perchè più nessun ingrandimento abbia avuto luogo, se non con la costruzione di alcuni opifici sulla destra dell’Ellero. Sullo scorcio del secolo Mondovì risulta divisa in quattro nuclei, aventi ciascuno e caratteristiche e funzioni proprie: Mondovì Piazza, con le case antiche — alcune medioevali ben conservate — con le strade che si dipartono a raggiera dalla piazza Maggiore ed altre vie che seguono le curve di livello, con gli edifici artisticamente più interessanti, è il nucleo storico, monumentale, religioso e, in sott’ordine, militare; Breo, in basso, è centro commerciale, amministrativo, industriale; Carassone e Borgatto sono borghi industriali con abitifici, fabbriche di ceramiche, mulini, officine meccaniche, ecc. Tra la prima e la seconda guerra mondiale si ebbe un periodo di discreta espansione, con la formazione di due nuovi nuclei oltre Ellero: il borgo Ferrone e il quartiere dell’Altopiano, al cui sviluppo, in buona parte industriale, diede incremento la nuova stazione della Fossano-Ceva, inaugurata nel 1933. Gli abitanti, da 19.256 ch’erano nel 1901, salirono a 20.137, per poi ri discendere a 19.621 nel 1936. Dopo la seconda guerra mondiale l’Altopiano appare il centro di gravitazione di nuove attività industriali, ma queste, in generale, entrano in una fase depressiva che dura tuttora, e di cui non è facile individuare le cause. La popolazione rimane quasi stazionaria sui 20.000 ab., dei quali circa un decimo operai. E curioso come a Mondovì sia stata tanto varia attraverso i tempi la fortuna delle manifatture. Eppure, e lo abbiamo veduto, esse hanno lontane radici e non è senza orgoglio che i Monregalesi ricordano come uscito da una loro tipografia il primo libro con data certa apparsa in Piemonte. Dalla bella spianata a giardino del Belvedere, a Mondovì Piazza, ammiriamo ancora una volta la superba visione dell’amplissima pianura, con lo sfondo dell’arco alpino e delle Langhe vicine, e poi riprendiamo il nostro itinerario per le città piemontesi, senza tuttavia dimenticare che da Mondovì breve è il passo per il santuario di Vicoforte, capolavoro dell’architetto monregalese Gallo.

    Panorama della parte nuova di Mondovì.

    Più modesti di quelli di Mondovì furono gli inizi di Possano, fondata nel 1236 per opera di una lega guelfa costituitasi ai danni d’Asti, signora di Romanisio, i cui abitanti formarono appunto il primo nucleo della città. Questa lottò contro Asti e contro gli Angioini. Si diede poi ai Marchesi di Saluzzo, dai quali nel 1314 fu ceduta a Casa Savoia. Per la quale Fossano era assai importante come nodo sulla grande strada che allora conduceva, attraverso le valli della Stura e della Verme-nagna, a Nizza Marittima e alla rada di Villafranca, che del Ducato Sabaudo erano i porti. La città di Fossano sorge su di un breve rialzo del terreno, lungo il margine di un pianalto, rimasto isolato per incisione della Stura di Demonte. Sul pianalto troneggia la rossa mole del Castello dei Principi d’Acaia, severo ed elegante, a pianta quadrangolare, con quattro torri angolari. L’arteria principale, via Roma, fiancheggiata da vecchi portici e da alcuni palazzi di bella linea, conduce alla piazza Umberto I, cuore anche architettonico di Fossano, per la bellissima chiesa della Trinità. Da una continuazione della piazza lo sguardo prende d’infilata ed accompagna per lungo tratto il vasto, profondo solco della Stura, al cui greto attuale la sponda destra del fiume scende con una magnifica serie di quattro-cinque terrazze. Il dislivello complessivo è di una settantina di metri. Agrariamente ricco, grazie ad alcuni canali d’irrigazione, il territorio di Fossano ha anche avuto, e continua ad avere, un discreto sviluppo industriale, localizzato specialmente in Borgo Sant’Antonio. Attualmente si tratta di fonderie, di cartiere, di caseifici, di tessiture, di officine meccaniche, di mulini. Ma di Fossano è da rilevarsi particolarmente l’importanza commerciale, già notevole in passato, ma ancora accresciutasi da che Fossano è diventata centro ferroviario, effettuandovisi la biforcazione della Fossano-Ceva-Savona e della Fossano-Cuneo, due linee molto attive. Per largo raggio tutt’intorno s’estende l’area d’influenza del mercato di Fossano. L’aumento della popolazione è chiaro indice di questo graduale, ininterrotto sviluppo della città. Essa aveva 10.777 abitanti nel 1685, 14.647 nel 1734, 14.389 nel 1774: che diventano 16.544 un secolo dopo (1871), 21.606 nel 1931, e 20.227 nel 1951.

    Veduta parziale di Fossano.

    La città di Chieri in una tavola del « Theatrum Statuum Sabaudiae » (fine Seicento).

    Il versante meridionale della collina di Torino con le sue propaggini costituisce un semicerchio di amene alture, che economicamente fa capo a Chieri. La quale è antichissima città, perchè ricordata da Plinio col nome di Carreo Potentia. Nel Medio Evo appartenne ai vescovi di Torino, poi fu potente Comune frequentemente alleato con Asti contro Torino, che le contrastava il redditizio pedaggio di Montosolo (Pino Torinese). Nonostante le continue lotte interne ebbe nei secoli XIV e XV periodi di grande prosperità: dal 1339 cadde sotto il dominio angioino; nel 1347 passò sotto quello degli Acaia, e nel 1418 venne a far parte dei domini sabaudi. La prosperità cui ora si accennava derivò da due fonti principali di reddito: il movimento commerciale, creato dal trovarsi Chieri sull’importantissima arteria del traffico transalpino che da Asti metteva al Moncenisio e al Monginevro, passando per il Pino; e lo sviluppo di un’industria tessile specializzata nel cotone per la fabbricazione particolarmente del fustagno. A servizio di questa industria, nella campagna chierese si coltivavano diffusamente lo zafferano e il guado, usati come piante tintorie.

    Inoltre Chieri ricavava buone entrate per essere signora di un vasto territorio di notevole produttività agraria, massime per quel che riguarda la vite. Non per nulla nel 1363 la popolazione di Chieri (6665 ab.) superava quella di Torino (4220 ab.). Successivamente, l’importanza commerciale di Chieri decadde, o meglio, si restrinse. Ma l’attività industriale tessile, in gran parte a carattere artigiano, resse alle più fortunose vicende, e dura tuttora accanto ad altri rami di manifatture. Chieri rimane ciò nonostante un centro ad economia prevalentemente rurale e la sua popolazione non ebbe gli sbalzi di altre città. I suoi 6665 ab. del 1363 diventarono 9511 nel 1571, ma erano scesi a 7916 nel 1750, per risalire a 10.374 nel 1774. Un secolo dopo, i Chieresi salivano a 15.033 (1871), ma erano discesi a 13.803 nel 1901, per rimanere sui 13.000 nel 1921 e giungere a 14.804 nel 1951. In sostanza, negli ultimi cento anni la popolazione di Chieri si è mantenuta complessivamente stazionaria.

    Battistero del Duomo di Chieri.

    L’agglomerato urbano si è formato alla estremità di uno dei costoloni con cui la collina di Torino si protende verso la pianura che da Chieri prende nome. La via Vittorio Emanuele II, che contorna la base del modesto poggio terminale, divide la città in due parti: la città alta e la città bassa. Nell’alto Medio Evo le mura cingevano soltanto lo sperone collinoso del quartiere di San Giorgio ma, dopo la distruzione della città ad opera del Barbarossa, il perimetro delle mura fu sensibilmente ampliato fino a raggiungere in pianura il torrente Tepice e il Rio Passano. Fu questo il recinto entro cui prosperò l’attività commerciale, e da quel tempo non si ebbero ulteriori espansioni fino alla costruzione (1874) della linea ferroviaria Torino-Trofarello-Chieri. Se la parte superiore della città è più tipicamente contrassegnata dalle vie strette e dalla frequenza delle case medioevali, tra cui spiccano le abitazioni signorili con relative torri, nella parte bassa, fervida di affari e di traffici, si trovano i monumenti che dànno veramente lustro artistico a Chieri : la bella, ampia cattedrale di forme lombardo-ogivali, il grazioso Battistero, le chiese di San Bernardino e di San Giorgio, l’elegante arco trionfale, la chiesa di San Filippo Neri, con facciata del Guarini, la lombardo-ogivale chiesa di San Domenico. Queste ed altre costruzioni religiose sono una eloquente manifestazione dello spirito della popolazione, che ha indotto molte comunità religiose ad aprire in Chieri conventi, seminari e scuole. In tempi recenti, attorno alla stazione e lungo tutto il perimetro della città in pianura, le costruzioni crebbero di numero. Parecchie nuove industrie — officine meccaniche, fonderie, tipografie, ecc. — vennero ad aggiungersi a quella delle coperte, che è caratteristica di Chieri e che è rimasta a rappresentare la tradizione tessile medioevale, naturalmente in forme nuove. L’attività tessile artigianale è in progresso, e questo spiega il numero notevole delle ditte chieresi, che solo in quel campo sono (1951) 152 con 3786 operai. Negli ultimi anni la città si è estesa con nuove costruzioni ad uso industriale e con ville di proprietà dei maggiorenti dell’industria locale, sulle strade per Torino e per Villanova-Asti. La comodità delle comunicazioni con Torino tende a fare di Chieri un centro satellite nella costellazione della metropoli. Chieri è centro importante delle comunicazioni automobilistiche con il più vicino Monferrato e con l’Astigiano, ed attira un buon numero di turisti locali, amanti dell’asprigno « freisa » delle sue colline e della bagna caóda, fatta con i cardi bianchi e teneri per cui Chieri è famosa nella gastronomia torinese.

    Le città dei marchesati e delle Langhe

    Tra le città piemontesi Saluzzo è la sola, dopo Torino, che deve aspetti caratteristici della sua fisionomia all’azione di una Corte: quella dei marchesi che da Saluzzo han tratto nome e che vi hanno dominato dal 1142 al 1584. Dal 1584 al 1601 la città appartenne ai Francesi, poi, salvo il periodo napoleonico, passò e rimase a Casa Savoia. La città si adagia — rivestendolo quasi completamente — sul fianco nordorientale dello sperone roccioso con cui finisce sulla pianura il contrafforte spartiacque tra la valle del Po (e la piccola vai Bronda) e la vai Varaita. La parte alta della città è come al solito la città medioevale (la prima documentata menzione di Saluzzo è del 1064), ma arricchita di reliquie artistiche uniche in Piemonte. A questa parte della città, dominata dalla imponente, fosca mole della Castiglia, il castello sovrano dei marchesi, si sale dal basso, seguendo alte e strette viuzze pavimentate di ciottoli e tratti di scalinata, talora chiusi fra i muri nudi od erbosi di frequenti istituti religiosi. Qui Saluzzo conserva il silenzio delle età cadute, che tuttora mirabilmente rivivono per chi visiti Casa Cavassa, più che museo dimora signorile fermatasi sulle soglie del tempo, quale l’aveva foggiata il gusto e lo sfarzo della Rinascenza. Magnifico fiore dell’arte gotica è la vicina chiesa di San Giovanni, di cui è particolarmente ammirata l’abside. E l’atmosfera signorile è diffusa anche da altre interessanti costruzioni, come la settecentesca casa dei marchesi del Carretto. Da Casa Cavassa e dal Belvedere, si gode un panorama veramente stupendo sulla città e sulla pianura sottostanti.

    Vedi Anche:  Colline, pianure ed Alpi Piemontesi

    Molto probabilmente prima della collina fu abitata la parte piana di Saluzzo, sapendosi dell’esistenza di due antichissimi borghi, qui creatisi per la posizione prettamente prealpina alla confluenza di più valli. Ma l’intervento dei marchesi con la costruzione del castello determinò, o favorì, la formazione del borgo superiore, dove ben presto si concentrò, insieme alla vita politica, anche quella civile e commerciale della città, così strettamente legata, attraverso il Delfinato, alle sorti della Francia. Due successive cerchia di mura difesero Saluzzo, che nel Cinquecento era ancora in gran parte limitata al borgo superiore. La parte piana della città si forma nella prima metà del Seicento, intorno ai ricordati nuclei preesistenti, nei pressi del Duomo, la più vasta chiesa del Piemonte dopo la cattedrale di Asti. A poco per volta, mentre la vita cittadina è richiamata in basso soprattutto dal fiorente mercato, la parte medioevale viene abbandonata ai suoi ricordi. Passato è il tempo delle relazioni col Delfinato. Ora i rapporti si stabiliscono con il resto del Piemonte e segnatamente con Torino. L’impronta del Settecento piemontese domina largamente in Saluzzo bassa, che ha l’aspetto generale di una città moderna, anche se ha bassi portici e qualche stradina cieca e stretta.

    Saluzzo raffigurata in una tavola del « Theatrum Statuum Sabaudiae » (fine Seicento).

    Corso Piemonte, corso Italia e via Spielberg, seguendo la base dello sperone, staccano abbastanza nettamente le due parti della città. Si snodano lungo queste vie i gangli dell’attività commerciale. Le poche industrie di Saluzzo hanno, per gran parte, carattere artigianale, e quindi manca in città un quartiere manifatturiero ed operaio. In tema di industrie basterà ricordare quella del mobilio antico, salita a diffusa rinomanza. Sicché, dalla fine del secolo scorso ad oggi, lo sviluppo urbanistico di Saluzzo è stato alquanto limitato. La stessa vicinanza della stazione al nuovo centro cittadino non ha servito a fissare abitazioni o cospicue industrie. Un lento aggiungersi di nuove abitazioni si verifica a stella lungo le principali arterie stradali, e principalmente lungo quella di Cuneo. Perduta l’importanza politica e strategica di un tempo, Saluzzo era scesa sui primi del Settecento ad appena 4700 abitanti. In neppure un secolo la popolazione si raddoppiò, arrivando nel 1774 a 10.956 abitanti. Crebbe ancora fino a toccare i 16.627 ab- nel 1901, ma da allora si stabilizzò su questa cifra, che è ancora quella (16.227) dell’ultimo censimento. E si spiega, non avendo Saluzzo notevoli vie di comunicazioni alle spalle, verso la montagna; essendo un nodo ferroviario di limitata importanza (più intenso il movimento automobilistico di linea); non alimentando un vivace afflusso turistico ; avendo poche industrie. Forse per questo rivestono particolare, attraente risalto in Saluzzo le glorie culturali del passato, dal Bodoni alla Diodata Saluzzo, al Pellico.

    Qualche tocco di maestà e di grazia Casale Monferrato deve indubbiamente al fatto di essere stata per qualche tempo capitale del Marchesato sotto i Paleologi. Maggiore sarebbe, tuttavia, il suo interesse monumentale ed artistico, se la posizione sul Po, là dove il fiume abbandona le colline del Basso Monferrato per avviarsi all’aperta campagna lomellina, non le fosse valsa una grande importanza strategica, e per conseguenza una lunga serie di dominazioni varie, di assedi, di distruzioni. Il primo ricordo certo di Casale risale al 1039. Da allora la città passò ai Marchesi di Monferrato, all’Impero, ai Vescovi di Vercelli, agli Aleramici, ai Paleologi, ai Visconti e poi di nuovo ai Paleologi. Occupata in sèguito dagli Spagnoli e dai Francesi, dopo la pace di Cateau-Cambrésis fu assegnata ai Gonzaga di Mantova, che ne fecero la capitale di un Ducato. A lungo disputata, poi, tra Francia e Spagna, Casale ritornò al Duca di Mantova e solo nel 1703 passò definitivamente a Vittorio Amedeo II di Savoia.

    Cessava allora Casale di essere una delle più munite piazzeforti d’Europa. Ma la stessa posizione di chiave orientale dei domini sabaudi, in una zona di contatto tra produzioni collinari e pianigiane diverse, favorì l’incremento dei traffici, per cui Casale divenne un attivo centro commerciale. Le nuove e più rapide vie di comunicazione, stradali e ferroviarie, lasciarono un po’ in disparte Casale. Questa tuttavia divenne il perno di una modesta rete di collegamenti ferroviari con Torino, Chivasso, Vercelli, Asti, Mortara, Alessandria, e stazione terminale di numerose autolinee con i paesi vicini, che forniscono una abbondante produzione ortofrutticola ed agraria, in genere, alle sue fiere e ai suoi frequenti mercati. L’industria della calce, che risale a tempi lontani, e quella più ragguardevole e recente (1876) del cemento, dando nuovo impulso all’economia della città, ne hanno pure modificata la configurazione urbanistica. Moltiplicandovisi le possibilità di vita, anche la popolazione si è andata moltiplicando. I 12.473 ab. del 1774 si sono più che raddoppiati nel giro di un secolo (27.514 nel 1871), e altre 10.000 anime Casale ha acquistato dal 1871 ad oggi, con un aumento non completamente uniforme ed ininterrotto.

    La Saluzzo odierna tende piuttosto a scendere per dilatarsi nel piano.

    Un bello scorcio su una piazza di Casale Monferrato.

    Escludendone i quartieri di più recente formazione, Casale conserva il perimetro poligonale che doveva essere quello delle sue potenti fortificazioni circumurbane. Vicinissimo al Po è il vasto spiazzo ove sorge il castello dei Paleologi. Tra gli edifici religiosi celebre è la chiesa di San Domenico, bell’esempio di architettura quattrocentesca. Pure molto lodata è la più antica basilica di Sant’Evasio, grandiosa costruzione lombarda dell’XI e XII secolo. La città era irta di torri. Tra le conservate spicca quella comunale di Santo Stefano. E tra le costruzioni settecentesche meritano particolare menzione alcune case signorili (palazzi San Giorgio, Treville, Lan-gosco). Via Roma, piazza Mazzini, via G. Lanza, rappresentano l’asse della più intensa vita cittadina. Sono vie abbastanza ampie, con negozi (massime di genere di abbigliamento) ricchi ed eleganti. Al di fuori della cerchia poligonale, Casale si è estesa soprattutto ad ovest ad est e a sud. Ad ovest, in prossimità del Po, è sorta una zona industriale, con parecchie cementerie: zona che si prolunga in Rione Ranzone, dove le fabbriche sono più vicine alla collina, da cui si ricava la marna da cemento. Verso est, oltre la stazione ferroviaria, si è formato un quartiere che ospita buona parte della massa operaia di Casale, costituita da più di 5000 addetti all’industria manifatturiera, dei quali quasi 3000 occupati nelle cementerie, e 2000 in industrie meccaniche, tessili, dell’abbigliamento, ecc. Verso sud, infine, lungo la strada che va ad Alessandria, è sorto un quartiere misto di operai, di impiegati, di artigiani, di commercianti. Il quartiere orientale della città già abborda le prime ondulazioni collinari — noto come belvedere il colle di Sant’Anna — con file di casette e di villini. Patria di artisti e di scienziati, Casale si gloria di una tradizione culturale, che si riflette, tra l’altro, nel numero e nella frequenza degli istituti scolastici.

    Quando si entra in Asti, non si può a meno di ricordare la sua posizione preminente nel Piemonte medioevale, e questo aiuta a far rivivere e a rendere parlanti le molte tracce, ancora esistenti, di quell’epoca gloriosa. Veramente Asti è di origine romana, ma di romano è rimasto assai poco. Colpisce invece sùbito il numero considerevole delle torri, delle case, e dei palazzi privati e pubblici, per cui Asti andò superba nei secoli XIII-XV, di modo che in certe vie della vecchia città si respira un’atmosfera impregnata di memorie e di scorci di vita caratteristici del Medio Evo.

    Quartieri moderni di Asti. In ultimo piano le colline oltre Tanaro.

    Un cantuccio di serenità e di pace in piena Asti. San Pietro in Consavia.

    Allora effettivamente Asti, in passato Ducato longobardo, poi contea franca, quindi Comune recalcitrante al Vescovo e al Barbarossa, da cui venne distrutta, e finalmente schieratasi dalla parte imperiale, favorita dallo sviluppo dei traffici internazionali lungo la valle del Tanaro e dall’attività commerciale e bancaria dei suoi cittadini, svolgentesi in tutta Europa, Asti, dicevamo, era il più potente Comune del Piemonte. Tanto che potè vittoriosamente lottare per parecchio tempo contro i Savoia e contro gli Angioini. Ma sul principio del secolo XIV le discordie intestine cominciarono a minare le esuberanti energie astigiane, e la città dovette sottomettersi ad Amedeo V di Savoia, poi a Roberto d’Angiò, e poi ancora a Luchino Visconti. Dai Visconti per via di matrimoni passò a Carlo V e da Carlo V ad Emanuele Filiberto, che ne divenne effettivo signore nel 1575.

    Le fortune commerciali ed industriali di Asti, e, più in generale, la sua importanza storica, appaiono strettamente condizionate dal fatto che la città domina la media valle del Tanaro, nel punto in cui essa muta bruscamente direzione volgendo da nordest a sudest, e in cui riceve da sud le vie che dalla Liguria, attraverso le Langhe, puntano più direttamente verso Torino e la valle d’Aosta. Ma bisogna anche tener conto della larga base territoriale che Asti potè formarsi sull’uno e sull’altro versante della conca del Tanaro. Quanto alla posizione topografica, il primo nucleo

    dell’agglomerato urbano sorse sul fianco meridionale di un poggio, presso la confluenza del Borbore col Tanaro. La città antica, chiamata nel Medio Evo « recinto dei nobili », si adagia sul poggio ora ricordato, che mostra avanzi notevoli di mura e le rovine di due castelli. Ha per limiti, a sud la via XX Settembre, ad ovest la chiesa di Santa Caterina, ad est la piazza Alfieri, e presenta un perimetro quasi circolare. Nel secolo XII la città s’ingrandì, includendo nelle sue mura alcuni borghi. Questa parte, detta appunto « recinto dei borghigiani », portò Asti ad estendersi fino all’attuale stazione a sud, e alla piazza IV Novembre verso ovest, e cioè sulla direzione delle strade per Alba e per Alessandria. Alcune vie del « recinto dei nobili », come le vie Gioberti, Natta, Roero, XX Settembre, relativamente strette ed irregolari nel loro andamento, sono le più meritevoli di attenzione per le costruzioni medioevali, in cui figurano spesso come caratteristiche architettoniche, peculiari di Asti, portali e finestre ogivali con archi formati da uno o più giri di mattoni, alternati a conci di arenaria gialla.

    Dopo il secolo XIV, lento fu lo sviluppo urbano della città, anche e soprattutto per la sua decadenza come centro commerciale. Prova di questa decadenza è il numero di abitanti che Asti contava nel 1571, e cioè 8339. Corso Alfieri è rimasto, come in antico, la principale arteria cittadina, sull’asse della strada Torino-Alessandria-Genova, ma alla sua estremità orientale, oltre piazza IV Novembre, si sono formati degli isolati prevalentemente popolari fra ampie piazze e vie larghe e diritte. Anche verso nord, e precisamente lungo corso Dante, la città si è ingrandita. Qui però, sui fianchi della collina, le costruzioni sono molto signorili, e ad esse si alternano scuole, uffici, ville, giardini, in un insieme arioso e ridente. Anche l’attività industriale ha attecchito in Asti, ma con varietà di produzioni ignote alle manifatture antiche, quasi tutte tessili. Si hanno così fonderie, fabbriche di liquori, di fiammiferi, di stoviglie, di oreficerie, di maglierie, ecc., con sedi più frequentemente ubicate lungo il Corso alla stazione. Nel 1951 7300 erano gli addetti alle industrie manifatturiere astigiane. Infine la creazione della provincia di Asti, avvenuta nel 1935, elevò il tono della vita cittadina con l’apporto di funzioni amministrative.

    Ma tutto ciò non toglie che Asti s’imponga pur sempre come centro di un fertile retroterra agricolo, celebre specialmente per i suoi vini e per le sue industrie enologiche, e rinomato per l’importanza dei suoi mercati, che hanno trovato sede con-venientissima nella bassura della grande piazza Emanuele Filiberto, fra il centro cittadino e la stazione. L’afflusso ad Asti dai dintorni è facilitato da linee ferroviarie locali (Asti-Casale, Asti-Acqui, Asti-Chivasso, Asti-Alba-Bra) e da numerose linee automobilistiche. D’altro canto, alla prosperità agricola della zona contribuisce la città stessa, con i magnifici orti che si sono installati sui terreni alluvionali del Tanaro, facilmente irrigati mediante numerosi pozzi. Si tratta di una produzione che trova smercio anche all’estero. A questo più vasto raggio di relazioni Asti si presta come importante stazione sulla linea Torino-Genova-Roma, approfittando della quale il turista può agevolmente rendersi conto delle principali caratteristiche della città e dell’interesse dei suoi monumenti. Tra questi, vanno specialmente ricordati il romanico battistero di San Pietro, il palazzo Alfieri, e la grandiosa cattedrale, nota come la più vasta chiesa del Piemonte, la torre Troiana o dell’Orologio, e la collegiata di San Secondo. Sotto i vari impulsi d’ordine storico, economico, amministrativo ed anche culturale via via ricordati, Asti ha veduto i suoi abitanti aumentare da 14.365 — quanti erano nel 1774 — a 31.033 nel 1871, a 39.251 nel 1901, a ben 52.000 nel 1951.

    Veduta di una parte di Alba. A destra s’intravvede il Tanaro.

    Potente Comune nel Medio Evo, come Asti, Alba non si è, in sèguito, mantenuta all’altezza della vicina città rivale, soprattutto perchè, pur essendo situata essa pure nella valle del Tanaro, è tagliata fuori dalle grandi comunicazioni con Torino, con Alessandria e con Genova, ed ha una più ristretta zona d’influenza stradale-commerciale, oggi limitata all’alta Langa sudoccidentale e alla prospiciente area collinare oltre Tanaro. Il sito di Alba appare già popolato in epoca preistorica, ma romana è la fondazione della città, col nome di Alba Pompeia. Rimase a lungo sotto la signoria dei Visconti; poi, diventata libero Comune, gareggiò con Asti nel commercio e nell’attività bancaria, intessendo anche accordi diretti con Genova. Sotto gli Angioini fu sede del governo regionale. Soggiacque successivamente al Monferrato, di nuovo agli Angioni, poi ai Visconti, quindi nuovamente al Monferrato (Paleologi e Gonzaga). Disputata fra Carlo V e Francesco I, entrò definitivamente a far parte dello Stato sabaudo nel 1531, con la pace di Cherasco.

    La città, che si è sviluppata in un tratto di ubertosa pianura, alla confluenza del torrente Cherasca col Tanaro, potè contenere, entro la cerchia muraria poligonale dell’età romana, la popolazione dei periodi successivi: popolazione che, anche in epoca moderna, subì poche variazioni (7135 ab. nel 1774; 8286 ab. nel 1838). Ciò spiega anche come oggi si riconosca assai bene l’antica struttura urbana, col perimetro segnato da spaziosi viali, e con le vie interne improntate all’angustia e al disordine caratteristico del Medio Evo. Alba incominciò ad infittirsi di abitanti e ad ingrandirsi qualche poco nella seconda metà del secolo scorso, mantenendo, tuttavia, una fisionomia economica agricola ed artigiana, con attività commerciale dominata dal mercato vinicolo. In sèguito, la produzione ortofrutticola del suo retroterra, l’incremento di una razza bovina locale, pregiatissima, in aggiunta alle sempre più famose risorse in tema di vini, dettero un sensibile slancio al movimento cittadino e all’immigrazione di gente dal contado, tanto che la popolazione di Alba salì a 12.178 ab. nel 1821 e a 13.900 nel 1901. In tempi ancora a noi più vicini, si affermò in Alba l’industria enologica, con importanti stabilimenti. E nel secondo dopoguerra, superando le difficoltà create dalla mancanza di vie di comunicazione di grande importanza, nuove industrie si impiantarono con successo ad Alba. Accenniamo, specialmente, ad una cospicua impresa dolciaria e ad un modernissimo stabilimento tessile. Tutto sommato, si contano in Alba più di 2000 operai.

    La città ha, dunque, dovuto espandersi, e lo ha fatto specialmente lungo corso Italia e al di là della stazione, verso sudovest, e cioè verso la collina che fa da ridente sfondo al complesso urbano. Mentre l’attività industriale veniva a compensare una relativa decadenza del mercato agricolo di Alba (eccezion fatta per quello del bestiame), si originava verso Alba un discreto movimento turistico, alimentato oltreché dalla tradizionale « fiera del tartufo » e dalla rinomanza dei ristoranti locali, dai frequenti, pittoreschi castelli dell’Albese, ed anche dai monumenti cittadini, fra i quali appaiono degni di rilievo il Duomo e parecchie belle case e torri medioevali, ragguardevoli per la loro ricca decorazione in cotto. Nelle immediate vicinanze della città, sul margine di una palude ora scomparsa, fu scoperta una delle maggiori stazioni neolitiche d’Italia.

    Sebbene derivi il nome e l’antica fama dalle acque calde e medicamentose che vi sgorgano dall’interno del suolo, Acqui non è soltanto una città termale. Essa deriva piuttosto la sua dignità di città dal fatto di accentrare la vita di buona parte dell’Alto Monferrato. E ciò fin da tempi remoti, da quando Acqui era centro romano col nome di Aquae Statiellae: da quando era Ducato longobardo e contea franca e Comune della lega longobarda. Si sottomise nel 1278 al marchese di Monferrato, e la sua importanza regionale fu allora riconosciuta col farne la capitale del Monferrato al di qua del Tanaro. Subì poi altre diverse signorie. Nel 1708 passò ai Savoia. La città si formò e si sviluppò inizialmente ai piedi del poggio su cui venne poi costruito il castello dei Paleologi, vicino alla confluenza del torrente Medrio con la Bormida, in un punto in cui la valle si allarga tra amene colline. Nella pianta topografica si distingue nettamente l’ambito della città vecchia, che, ingranditasi per successivi ampliamenti di mura, intorno al 1700 comprendeva quasi tutta l’area oggi racchiusa tra corso Cavour, corso Dante, corso Vigano, il castello e i giardini, piazza San Guido, corso Roma: area caratterizzata dal solito dedalo di vie piuttosto strette su cui dànno alte case severe. Entro questa parte della città sgorgano dalla terra varie sorgenti calde, di cui la più nota è la Bollente, sull’omonima piazzetta. Il getto d’acqua a 75°, avvolto in una continua nebbia di vapori, è protetto da una graziosa edicola ottagonale, di linea classica. Pure nella città si offrono al visitatore interessanti monumenti architettonici, come l’assai ampio Duomo e l’ancor più antica basilica di San Pietro, a lungo abbazia benedettina.

    La graziosa edicola che richiama l’attenzione sulla « Bollente » di Acqui.

    Il passaggio della città a Casa Savoia ne valorizzò la posizione in vai Bormida, agli effetti delle comunicazioni con Alessandria e con Genova. E la città, fatta intanto capoluogo di provincia, iniziò ad ingrandirsi lentamente, mentre la popolazione, che nel 1774 ammontava a 6097 anime, prese ad aumentare, quasi raddoppiandosi nel secolo successivo (n. 153 ab. nel 1881). In questo lasso di tempo, tutto intorno all’antico nucleo urbano sorsero costruzioni civili e pubbliche, su piazze ampie e vie diritte, che rinnovarono completamente il volto della città. Tra il 1848 e il 1898 Acqui ebbe un’espansione, fuori dell’ultima cinta muraria, quasi uguale alla superficie della vecchia città. Dopo, l’accrescimento fu più lento, ma si accompagnò ad una più accentuata differenziazione funzionale delle diverse parti che andarono profilandosi nella città. Anche perchè al principio del secolo Acqui, che già nei secoli precedenti aveva avuto qualche timido accenno di attività industriale, cominciò ad ospitare importanti manifatture, cui altre tennero dietro (pastifici, vetrerie, officine meccaniche, fonderie, fornaci, ecc.). Queste industrie si localizzarono di preferenza tra la ferrovia e la Bormida, in un unico borgo a sudest del vecchio nucleo, a sinistra del corso Bagni, che collega la città alle vecchie Terme site al di là del fiume. E questa zona industriale continua ad accrescersi, come si accresce a sudovest dell’Acqui vecchia e sulla destra di corso Bagni un quartiere operaio, con case ed aree verdi.

    L’interno della città ha assunto un più netto carattere termale e commerciale. Qui, di fatto, sono state costruite le nuove terme ed un complesso di imponenti alberghi. A nord, lungo corso Italia, verso la collina, si sviluppa un altro quartiere prevalentemente industriale. Finalmente oltre Bormida, una nuova propaggine cittadina viene formandosi attorno alle vecchie terme. Queste, cominciate a costruire dai Monferrato nel secolo XVI, furono poi ampliate dai Savoia, e ultimamente arricchite di nuovi padiglioni, d’un magnifico parco e d’una piscina termale, che è la più vasta del genere in Europa. Dal ponte che attraversa la Bormida, in prosecuzione di corso Bagni, si ha la suggestiva visione delle maestose arcate superstiti d’un acquedotto romano, che valicava il fiume su pilastri affondati nel suo ampio greto. Non ultima, questa visione, fra le attrattive turistiche di Acqui, facilmente raggiungibile in ferrovia, per essere stazione d’incrocio della Genova-Ovada-Asti e del-l’Alessandria-Savona. Di grande movimento, massime per i trasporti petroliferi tra Savona e il retroterra piemontese e lombardo, è la strada statale 30 che attraversa Acqui in pieno. La città contava nel 1951 16.254 ab., dei quali 2129 addetti alle industrie manifatturiere.

    Le città delle terre di nuovo acquisto

    Come ogni notevole bacino vallivo, quello della Toce incentra la sua vita in un agglomerato urbano, Domodossola, che, già esistente in epoca romana, si è affermato nel Medio Evo come sede di una contea, entrata poi a far parte dei possessi dei Vescovi di Novara, e poi dei Visconti. L’antico borgo — la Domus Oxulae o la Oxula dei documenti del secolo XII — doveva la sua preminenza tra gli altri centri della valle alla posizione che ne faceva, e continua a farne, il punto di convergenza di strade a carattere internazionale: quella del Sempione, la Vigezzina e quella dell’alta vai Formazza. Alle strade si sono recentemente affiancate le linee ferroviarie, pure internazionali, del Sempione e della vai Vigezzo.

    La città ha, dunque, sempre avuto importanza preminentemente commerciale e come nodo di comunicazioni. In passato Domodossola era rinomata anche per le sue attività artigiane. Durante e dopo la prima guerra mondiale, col rapido espandersi dell’industria, la cittadina assunse in parte un nuovo volto ed un veloce ritmo di espansione demografica ed economica. I 1207 ab. del 1774 erano saliti a 2873 nel 1901, a 7578 nel 1921. Dal 1921 al 1951 la popolazione si è quasi raddoppiata, passando a 13.552 abitanti. La città, costruita sulla grande conoide del torrente Bogna, ne rispetta la morfologia a vasta schiena d’asino. Nel 1852 Domodossola, era ancora quasi interamente chiusa nel perimetro murario. Tale è rimasta la zona del centro antico, in cui si trovano i principali monumenti cittadini, dalla storica collegiata al palazzo cinquecentesco dei Silva, ai musei che testimoniano vivaci interessi culturali. Al dosso roccioso del Monte Calvario corrisponde una zona di carattere scolastico-religioso. Recenti quartieri sono quello industriale, in basso, vicino alla Toce, costituito dal complesso delle costruzioni del parco ferroviario e dai maggiori stabilimenti industriali (siderurgici, meccanici, chimici), e quello residenziale, a nord, lungo la strada del Sempione.

    La città, che in un secolo ha visto sestuplicata la sua popolazione e accresciuta l’area fabbricata di ben ventinove volte, si espande per digitazioni che accompagnano le strade più importanti. Tale accrescimento e le nuove funzioni industriali non tolgono per altro a Domodossola l’atmosfera di città di confine, che si respira specialmente nei pressi della stazione e nella assai pittoresca piazza del mercato.

    Il fatto che il principale nucleo di Novara sia sorto su di un modesto rialzo del terreno, isolato tra le alluvioni del Ticino e dell’Agogna, e bastevole tuttavia a dominare la pianura circostante, prova evidentemente l’importanza strategica che si annetteva al possesso di quell’altura. Ma le ragioni della difesa non basterebbero a spiegare lo svilupparsi della città, se non si tenesse anche, e soprattutto, conto della sua ubicazione, al centro di una raggiera di strade, con un asse principale rappresentato dalla grande via, forse preistorica, che univa Milano a Vercelli. Rimane a Novara (Novario) l’impronta del dominio romano nel caratteristico impianto a scacchiera della zona centrale. Ma, a parte ciò, poco rimane della storia secolare della città. Questa, essenzialmente avvantaggiata dalla sua posizione di confine tra Stati irrequieti e contesi dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria, scontò con assedi e con parziali distruzioni il valore attribuito al suo possesso. Sicché il suo aspetto, quale ancor oggi s’impone, Novara lo deve ai tempi relativamente tranquilli della monarchia piemontese, dalla seconda metà del Settecento all’Ottocento, sotto Carlo Emanuele III e Carlo Alberto. Tale aspetto, prevalentemente neoclassico, è caratteristico della città compresa nel pentagono dei bastioni alberati che seguono l’andamento delle vecchie mura abbattute.

    Per qualche tempo la vita della città stagnò nelle strette, severe vie del centro, isolato ed alto sulla pianura. Tutto intorno erano degli avvallamenti erbosi (« cunette ») che lo separavano dai sobborghi sottostanti. E pertanto la popolazione nella città vecchia andava addensandosi. Gli 11.913 ab. del 1774 erano saliti a quasi 30.000 un secolo dopo, per diventare 45.248 nel 1901. Alcune delle cunette ora ricordate vennero trasformate in ridenti giardini e campi da giuoco. Altrove, l’area fabbricata oltrepassò la cerchia dei bastioni, lungo le direttrici delle grandi vie di comunicazione, verso Torino, verso la Valsesia, verso i laghi, verso Milano. Fino alla metà del secolo scorso Novara ebbe importanza quasi esclusivamente commerciale, come attivissimo mercato agricolo. E dalla terra, ancor più che dal commercio, traevano, e traggono ancora, pingui rendite le classi aristocratiche e borghesi della città. Poi, mentre un più attivo movimento si creò intorno agli uffici della città, diventata capoluogo di provincia, prese ad avviarsi un processo di industrializzazione che trovò sedi convenienti negli avvallamenti semivuoti, ai piedi della altura centrale. Vennero così formandosi intorno alla città in espansione tre zone industriali: una meridionale, dove prevalgono le fornaci; una occidentale (San Martino) dove sono sorti numerosi stabilimenti siderurgici e meccanici; e una terza, la più importante, a nordest, tra Sant’Andrea e Sant’Agabio, in cui lavorano stabilimenti tessili (cotonifici, setifici), chimici (ammoniaca e derivati, concimi chimici, ecc.) e numerose riserie, nella cui attività si riflette il carattere agrario di molta parte della campagna novarese.

    Veduta panoramica di Domodossola sulla spaziosa pianura entrovalliva della Toce.

    Nodo ferroviario di notevole importanza, non solo come attiva stazione sulla Torino-Milano e sulla più breve linea ferroviaria tra Domodossola (e cioè la Svizzera) e Genova, ma anche stazione di testa per parecchi tronchi vicinali, Novara ha pure un intenso movimento di autocorriere. Di qui, l’ardita soluzione, mediante ponti a farfalla, dei gravi problemi che imponeva il collegamento fra il centro della città e le strade di grande traffico verso nord; collegamento impedito dagli impianti ferroviari. Turisticamente Novara non manca di richiami, fra i quali la tradizione locale mantiene costantemente vivo quello della famosa battaglia risorgimentale e dei luoghi in cui si svolse, presso l’antico borgo della Bicocca. Ma più che nei suoi monumenti — il Duomo, il Battistero, il medioevale Broletto, il Palazzo del Comune, l’altissima cupola antonelliana che, come la torinese, è essa pure diventata un elemento caratteristico della fisionomia della città — Novara offre interessi culturali di notevole valore nel suo archivio capitolare, ricco di preziosi codici, nella biblioteca Negroni, una delle più aggiornate che abbiano le città di provincia, nelle istituzioni musicali (fra cui il famoso teatro Coccia), che danno lustro ad una antica tradizione artistica, nelle officine come l’Istituto Geografico De Agostini, la cui produzione scientifica e didattica ha larga diffusione anche all’estero. Così, questa solida, pratica città — che con i suoi 70.000 ab. è il terzo tra i più popolosi centri del Piemonte, dopo Torino ed Alessandria — si dimostra non meno sensibile alle voci della cultura e dell’arte che a quelle del tornaconto e dell’iniziativa economica.

    Come si presenta dall’aereo una parte di Novara,

    La caratteristica, agilissima cupola antonelliana di Novara.

    Da un « consorzio degli uomini » di quattro antichi Comuni — Rovereto, Ber-goglio, Marengo e Gamondio — consorzio effettuatosi per opera della Lega lombarda, si ritiene sia sorta attorno al 1158, auspice il Papa Alessandro III, la città che da lui doveva prendere il nome di Alessandria. Il nuovo nucleo urbano s’impiantò sul Tanaro, poco a monte della confluenza con la Bormida, e sùbito si fece valere per l’importanza della sua posizione geografica rispetto alla intera pianura padana. Posta nella pianura di Marengo, un po’ fuori del suo centro, ma in modo da potere ugualmente dominare la valle della Scrivia, da cui scende la strada che varca il passo dei Giovi e congiunge il Piemonte col mare, la città sorveglia il punto di divergenza di questa strada, che si biforca in due rami, verso i due maggiori centri della pianura padana, Milano e Torino. Così Alessandria, che dista poco dallo sbocco del corridoio del Tanaro, guarda contemporaneamente i passi delle Alpi col Mar Ligure, e i passaggi dalla Lombardia e dall’Emilia a Torino. Questa è la ragione della grandissima importanza che ha rivestito Alessandria come piazzaforte.

    Dal 1198 al 1348 libero Comune, Alessandria lottò contro Comuni vicini, obbedendo in sèguito agli Aleramici, agli Angioini, ai Visconti. Dal 1348 al 1708 rimase sotto i Visconti, gli Sforza, e gli Spagnoli, e nel 1708 fu ceduta al Duca Vittorio Amedeo II di Savoia. Gli avvenimenti di guerra, intrecciati a questi numerosi passaggi di sudditanza, procurarono ad Alessandria assedi, distruzioni, rifacimenti parziali per lasciar posto ad opere di fortificazione. Di qui, e dalla preminente funzione logistica e strategica del centro urbano, la sua povertà di opere d’arte in campo architettonico. Nell’insieme della città è distinguibile un nucleo medioevale, compreso fra lo spalto Rovereto e la via Mazzini a nord-nordest, la via Venezia e le vie Tripoli e San Dalmazzo a destra, e una linea che, passando per il centro attuale della città, giunge quasi fino al Tanaro. E un’area di case piuttosto basse, ammassate tra vie asimmetriche, senza giardini, o spiazzi verdi. La città moderna costituisce

    una specie di aureola tutt’intorno al nucleo antico, delimitata all’esterno dagli spalti e cioè dai larghi viali alberati, che segnano il tracciato poligonale delle fortificazioni prenapoleoniche. Solo verso il Borgo Orti le costruzioni valicarono lo spalto Rovereto per congiungersi al borgo stesso ed inglobarlo alla massa della città. Dal lato opposto, la città moderna venne a contatto con l’antico, forse preistorico, sobborgo del Cristo. Nella cerchia urbana vivevano nel 1741 22.084 abitanti.

    Gli ingrandimenti della città effettuatisi nel secolo scorso avvennero sotto la spinta di un cospicuo accrescimento demografico, conseguente, a sua volta, ad una aumentata importanza commerciale e industriale della città, giunta a buon punto per compensare la città stessa del suo scaduto valore come piazzaforte. Il più intenso movimento degli scambi va attribuito, in gran parte, alla posizione geografica di Alessandria, fra Piemonte meridionale, Liguria, Lombardia ed Emilia: posizione che ne ha fatto un centro ferroviario di primissimo ordine. Oltre le grandi linee che la toccano mettendola in rapidissima comunicazione con Torino, Genova, Milano e Bologna, ben altre nove linee ferroviarie vi fanno capo, per un movimento complessivo che non si allontana di molto dai 200 treni giornalieri. Strettamente legata al suo contado, che ne rifornisce gli importanti mercati agricoli (specialmente per quel che riguarda il bestiame), Alessandria è pure stazione di testa per un gran numero di linee automobilistiche vicinali.

    Alessandria s’allarga nella sua vasta pianura,

    Quanto all’industria, essa venne ad arricchire la fisionomia urbana di Alessandria nell’ultimo quarantennio, e tenendo dietro all’esempio di quel Borsalino cui la città deve la sua indiscussa rinomanza nel campo della fabbricazione del cappello di pelo fine, drizzò i suoi stabilimenti di preferenza nella zona periferica di sud-sudest, in vicinanza di un quartiere tipicamente residenziale (Pista). Si stabilirono qui opifici tessili e meccanici, fabbriche di costruzioni in ferro, di profumi, di apparecchi radiofonici, ecc. Una passeggiata in corso Roma, col movimento delle macchine e con lo sfolgorio delle luccicanti vetrine, basta a dare un’idea della fervida vita che anima Alessandria e della sua popolosità. In poco più di un secolo, di fatto, e cioè dal 1774 al 1881, la città vide più che raddoppiarsi il numero dei suoi abitanti, che salirono a 71.298 nel 1901 e a 82.137 cinquantanni dopo, facendo di Alessandria la più popolosa città del Piemonte dopo Torino, con una massa operaia di ben 25.000 unità. Qualche bell’edificio settecentesco, come il Palazzo Municipale e quello del Governo — Alessandria è capoluogo di una provincia assai vasta, ma dimezzata nel 1935, per formare quella di Asti — la chiesa di Santa Maria di Castello, una pinacoteca, un museo, meritano di richiamare l’attenzione del visitatore amante di cose artistiche. Ma per l’uomo colto, in genere, è d’obbligo una puntatina alla vicinissima Marengo, ricca di memorie napoleoniche, e alla Cittadella che, al di là del Tanaro, ancora impressiona con lo sviluppo e la grandiosità delle sue costruzioni ormai silenziose.

    Aspetti della nuova viabilità ad Alessandria nei pressi del Tanaro.

    Fondata assai probabilmente in relazione all’apertura della « via Postumia », tra Piacenza e Genova, e poi fatta capo di altri due tronchi stradali, per Savona e per Torino, Tortona, la Julia Derthona dei Romani, continuò nel tempo a vivere di questa antica vocazione stradale, connessa soprattutto al dominio della valle della Scrivia. Di fatto, Tortona è situata sulla riva destra della Scrivia, al piede di una punta collinosa con cui termina, tra Scrivia e Po, l’Appennino ligure-piemontese.

    Anche a Tortona un grattacielo è una nota di modernità fra le vecchie case di un glorioso centro.

    Animoso Comune nel Medio Evo, più volte distrutta, si dette nel 1347 ai Visconti. Fu poi, per brevi periodi, in possesso dei Savoia, che la ebbero definitivamente per il Trattato di Aquisgrana. Città di notevole importanza anche strategica, subì assedi e ne ebbe in compenso sempre più irrobustito il Castello, che con la Fortezza la domina dall’alto della collina poco fa ricordata.

    Lungo l’asse centrale della sua architettura urbana, che è la frequentissima via Emilia, la città si stira disponendosi a semicerchio attorno allo sperone collinare. Delle antichità cittadine fornisce un’accurata documentazione il museo romano, di recente riordinato. Del Medio Evo poche sono ancora le costruzioni in piedi. La Tortona moderna tende, da un lato a propagginarsi verso i colli circostanti, dall’altro verso e intorno alla stazione e alla via Emilia. Qui si dispongono particolarmente le industrie, tra le quali più notevoli le metallurgiche, le meccaniche, le tessili, le laterizie, l’enologica. La città rimane, tuttavia, un attivo mercato agricolo per l’ampiezza e la ricchezza di un territorio che, servito da numerose linee automobilistiche, fornisce a Tortona ortaggi, frutta, bestiame. Anche come centro ferroviario Tortona ha una sua importanza determinata dalla posizione. Ma soprattutto in grazia dello sviluppo dei trasporti automobilistici e camionistici sulle grandi strade da e verso la Liguria, la Lombardia e l’Emilia, Tortona ha rinnovato i suoi fasti di nodo stradale di prim’ordine. Specialmente numerose le autocisterne che vi fanno tappa. Anzi un gruppo di imprenditori tortonesi ha in mano buona parte del servizio di autocisterne in provenienza dai porti di Savona-Vado, Genova e Livorno. Vecchie e nuove funzioni danno ragione del considerevole aumento della popolazione che, duplicatasi in poco più di cento anni, dal 1774 al 1881, saliva ancora a 17.457 nel 1901 e a 23.516 nel 1951, con un totale di 6236 operai.