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Attività industriale e commerciale

    L’attività industriale e commerciale

    Le risorse del sottosuolo

    Come ci ha insegnato la geologia, il Piemonte squaderna nel passaggio dalle sue montagne, alle colline, alla pianura, terreni di tutte le età. È quindi naturale che l’esplorazione del sottosuolo, attraverso secoli e secoli di ricerche, abbia segnalato numerosi giacimenti di minerali utilizzabili. Effettivamente, un elenco dei minerali metallici e non metallici del Piemonte risulterebbe assai lungo, e per molti, forse, inaspettatamente ricco. Ma un siffatto inventario non varrebbe a mascherare la realtà della limitatezza delle coltivazioni oggi industrialmente sfruttabili. E vero che in passato si utilizzarono molti più giacimenti di quanto attualmente non si faccia, ma bisogna pensare al costo e alla difficoltà dei trasporti e all’economia chiusa allora vigente, non soltanto in montagna, e, per molti metalli, alla scarsezza dell’offerta.

    In epoca romana gli sforzi estrattivi si concentrarono particolarmente in valle d’Aosta, dov’erano noti i giacimenti cupriferi del vallone di Ollomont, e dove era indubbiamente scavata la magnetite di Cogne. Di vere e proprie miniere aurifere, sfruttate in vai d’Aosta dai Salassi, parla Strabone, ed è notissimo il passo di Plinio che accenna alle migliaia di schiavi occupati nell’estrazione dell’oro secondario dagli accumuli di materiale detritico della Bessa, tra Ivrea e Biella. D’altra parte, prima ancora che l’Italia settentrionale entrasse a far parte del dominio di Roma, le sabbie del Malone, dell’Orco, dell’Elvo, del Cervo, della Sesia, del Ticino, erano in vari punti esplorate dalle popolazioni locali per trarne pagliuzze d’oro. Nei monumenti, che anche in Piemonte sorsero ad eternare la grandiosità ed il prestigio della potenza romana, trovarono largo impiego materiali da costruzione locali quali il bardiglio di Aymaville, lo gneiss porfiroide di Vayes, gli gneiss di Villarfocchiardo e di Bor-gone, il calcare marmoreo di Foresto in vai di Susa.

    Durante l’alto Medio Evo, fra le entrate del tesoro longobardo di Pavia, figurava l’oro cavato dalle alluvioni dei corsi d’acqua ora ricordati. Più tardi, mentre continuava l’utilizzazione della magnetite di Cogne, i minerali di ferro delle valli di Lanzo davano l’avvio alle industrie locali dei chiodi e delle bocche da fuoco, che poi dovevano fiorire a Torino. All’aprirsi del Seicento, il Della Chiesa segnala l’esistenza di buone miniere d’oro, d’argento e di rame in vai Grana, Maira e Po: di piombo a Demonte; di rame, vetriolo e allume a Pradleves; di ferro in vai Varaita e Grana, e specialmente in vai d’Aosta; d’argento in vai Pellice; di vari metalli in vai Germanasca, ricordando tuttavia che molte vennero abbandonate nel Saluzzese perchè non coprivano le spese d’esercizio. Dalla statistica generale del 1750 risultano, come più produttive, miniere di rame in vai Pellice, d’oro in valle Anzasca, di ferro ad Entracque, di rame e di piombo in più punti del Canavese, pure di piombo ad Entracque, mentre giacevano abbandonate quelle di Aisone, Vinadio, Monterosso, Balangero, Mathi, Corio, Monastero di Lanzo. Il primato della produzione era però tenuto dalle miniere di Brosso e di Traversella, nel Canavese, che alimentavano in tutta la regione una proficua industria metallurgica. Si cavavano marmi bianchi a Valdieri e altri marmi assai stimati a Busca, Frabosa Soprana, Pamparato, Roburent, Spigno, Cossila, ecc. Alle fantasie architettoniche del Seicento e del Settecento docilmente si piegava il calcare a litotamnii di Gassino, largamente usato, anche perchè vicino a Torino, in molti palazzi torinesi dell’epoca. Da Gassino a Casale la collina di Torino e quelle del Monferrato fornivano già allora in buona quantità gesso e calce. Le cave di calce, d’altronde, erano frequenti anche nelle colline più propriamente pedemontane. Le prime notizie intorno al talco, come prodotto di commercio, rimontano alla fine del secolo XVII, quando piccoli quantitativi di talco delle valli pinerolesi erano sommeggiati a Brian<;on ed ivi venduti come croie de Briangon. Vene di carbon fossile si esploravano nelle valli di Pinerolo, di Aosta e di Susa.

    Cava di calcare da cemento a Casale Monferrato.

    Cave di calcare presso Torre Mondovì.

    Successivamente, l’ampliarsi dei commerci al mondo intero, e la maggior economicità dei trasporti marittimi, tolsero importanza a molti giacimenti, la cui utilizzazione venne abbandonata. La cerchia dei minerali, di cui conveniva l’escavazione, si ridusse sempre di più, ed oggi quelli che contano veramente non bastano a fare del Piemonte una regione minerariamente ragguardevole. La sua produzione si calcola rappresenti appena un ventesimo della modesta produzione di tutta l’Italia. Tuttavia questo ventesimo è fatto da minerali in buona parte dei quali il Piemonte tiene il primo posto tra le regioni d’Italia. Così è per l’oro, il tungsteno, le rocce uranifere, l’amianto, la grafite, il talco, la marna da cemento (600.000 tonnellate annue). Con 263.000 tonnellate annue di ferro, il Piemonte è al secondo posto dopo la Toscana, e viene pure al secondo, dopo la Sardegna per il rame. Il censimento industriale del 1951 ha annoverato sotto la voce delle industrie estrattive in Piemonte 418 ditte con 6228 addetti, che rappresentano il 5,2% degli addetti all’industria estrattiva di tutta Italia. Si tratta, in grandissima maggioranza — come è evidente dalle cifre ora ricordate — di aziende assai piccole, con un numero ridottissimo di lavoranti. Due sole ditte contano in effetti più di 500 addetti e una sola attività mineraria, quella delle marne da cemento, occupa più di 1800 lavoranti.

    Com’è facilmente comprensibile, la maggior parte delle ricchezze minerarie del Piemonte si trova in area montana: stato di cose, questo, che importa, in linea generale, disagevoli condizioni di estrazione ed aggravio delle spese di trasporto. Le maggiori concentrazioni di minerali consentono di distinguere nella montagna piemontese alcuni distretti minerari, che, per altro, non coincidono affatto con quelli, assai più vasti riconosciuti dalla Direzione generale delle miniere. Cominciamo distinguendo un distretto novarese-ossolano, i cui caratteri dominanti sono costituiti dalle miniere d’oro di Pestarena, sopra Macugnaga (gruppo del Monterosa), che impiega circa 200 operai nell’estrazione media-annua di 250-300 kg. d’oro da una pirite aurifera arsenicale: dalle cave di granito bianco di Arzo (lago d’Orta), e di granito rosa (Baveno), con una produzione annua di 10.000 tonnellate e dalle notissime acque minerali di Crodo e di Bognanco in vai Bognanco. La montagna novarese dà ancora ottimi marmi rosati (Candoglia, Valstrona).

    Quanto al distretto valdostano, il prodotto principale è il ferro magnetico di Cogne. Singolare gruppo di miniere — il più alto d’Europa — quello che s’infossa a 2400 m. d’altitudine nei giacimenti di Liconi e dal quale più di 700 minatori, che rimangono lassù anche nel cuore dell’inverno, cavano annualmente circa 240.000 tonnellate di magnetite al 54% di ferro, per il valore di 7 miliardi di lire. Una modestissima quantità di oro viene da un quarzo aurifero lavorato presso Brusson. Una cinquantina di tonnellate all’anno dà un’ottima roccia asbestifera presso Emarese ed Issogne, località quest’ultima, che dà anche talco grigio per usi industriali. Ancora da piccole miniere a Quart e a Montjovet si ricavano modesti quantitativi di pirite. Tra gli svariatissimi marmi colorati (come si chiamano in commercio), di cui sono ricche le nostre montagne, l’oficalce verde-alpe della valle d’Aosta è quello che si ottiene in maggior quantità, specialmente sopra Chàtillon. Saint-Vincent e Courmayeur offrono fonti di acqua minerale. Non utilizzate rimangono le uniche acque termali valdostane, quelle di Pré-Saint-Didier.

    Come un’appendice del distretto valdostano può considerarsi quello canavesano-biellese, dove i minerali metallici sono rappresentati dalla magnetite (2000 tonnellate annue), dalla pirite, dalla calcopirite, e dalla scheelite, per la produzione di tungsteno, che si traggono dalle vecchie miniere di Traversella, in vai Chiusella. Tra i minerali non metallici primeggia la roccia asbestifera della montagna di San Vittore a Balan-gero, che dà una produzione annua di 800.000 tonnellate ed occupa circa 400 addetti. Tra i materiali da costruzione e da decorazione vanno ricordate la diorite, cavata specialmente a Lessolo, e la sienite (Quittengo, Biella, San Paolo Cervo). Serpentino da pietrisco forniscono i dintorni di Corio, Rocca Canavese, Biella, Pollone. Borgo-franco infine, possiede due fonti di acqua da tavola, tra le più produttive del Piemonte.

    La montagna torinese non dà nelle valli di Lanzo che un po’ di asbesto (Viù), di talco (Ceres), di pirite (Chialamberto) e nella valle di Susa che materiali di cava: oficalce verde-alpe (Cesana), calcare (Bussoleno, Sant’Ambrogio), serpentino (Ulzio, Sant’Ambrogio, Caprie), gneiss (San Giorio, Bussoleno). Importante e tipica è, invece, la produzione che caratterizza il distretto pinerolese, dove si concentrano, in vai Chisone e in vai Germanasca, i più ricchi giacimenti di talco e di grafite di tutta Italia. Quelli di talco, distribuiti a notevole altitudine sull’area di un centinaio di kmq., danno una produzione di oltre 50.000 tonnellate annue, provenienti in massima parte dalle miniere di Perrero, Roreto Chisone e Prali (circa 300 addetti). Su di un’area più ristretta sono distribuite le miniere di grafite greggia (San Germano Chisone, Roreto Chisone, Perosa Argentina), da cui si ricavano annualmente 2000 tonnellate di minerale, con un tenore di carbonio dal 30 al 70%. D’altro il distretto pinerolese non offre che gneiss da taglio, da alcune cave di Perosa Argentina, Luserna San Giovanni e Rorà.

    Antiche coltivazioni a cielo aperto nel giacimento di magnetite di Liconi (Cogne).

    Gli gneiss della val di Susa offrono ottimo materiale da costruzione.

    Il più vario, e sotto certi aspetti, il più ricco è il distretto minerario della montagna cuneese, nel quale, se fanno difetto i minerali metallici, abbondano quelli non metallici e specialmente i materiali da costruzione. Cominciamo, però, col ricordare che molte speranze si appuntano sulle manifestazioni uranifere di cui sembra prodigo il gruppo della Besimauda, e che si riscontrano anche in altre zone, come in vai Cor-saglia e in vai Casotto. Nelle besimauditi di Peveragno e di Chiusa Pesio si sono cominciati a scavare piccoli affioramenti di autunite e di torbernite, col tenore del 3°/oo di uranio. I giacimenti di grafite pinerolesi si protraggono in valle del Po, a Paesana, dove si effettuano estrazioni. Pregiati sono i marmi colorati che vengono dalle montagne calcaree di Valdieri, Frabosa Soprana, Ormea, Viola, Acceglio. Il distretto cuneese è il più importante per la produzione del calcare, da una ventina di cave, che occupano 350 operai. Tipica è l’estrazione delia quarzite lastrolare di Barge o « bargiolina », oggi largamente usata per pavimentazione e per decorazione. Numerose, ma piccole cave, danno una discreta quantità di gneiss (Barge, Bagnolo, ecc.). Le principali sorgenti termo-minerali della montagna piemontese sgorgano a Valdieri (vai del Gesso) e a Vinadio (vai Stura di Demonte). Cono-sciutissime sono le fonti d’acqua minerale di San Bernardo (Garessio) e di Lurisia (Chiusa Pesio).

    Di gran lunga più limitate sono le risorse minerarie della collina piemontese. Abbastanza frequenti sono, nelle alture più propriamente pedemontane, i giacimenti di calcare, di terre refrattarie, di sabbie per fonderie. I due centri più ricchi di terre refrattarie sono quelli di Boca, nel Novarese, e di Lozzolo nel Biellese, ma la concorrenza francese li obbliga ad un’attività ridotta. Materiali refrattari silico-alluminosi si cavano a Gargallo, a Borgomanero, a Castellamonte, a Villanova di Mondovì, a Mondovì. Di sabbie per fonderia vengono buoni quantitativi dal Cuneese (Peve-ragno, Roburent, Vernante, ecc.), da Villanova di Mondovì, e specialmente dalle colline dell’Astigiano (Castello di Annone, Viarigi, Refrancore). Numerose sono le cave d’argilla per laterizi in territorio collinare, specialmente sul fondo della incisioni vallive che lo intersecano. Da alcune depressioni intermoreniche dell’anfiteatro eporediese si cavavano, in tempo di guerra, poche tonnellate di torba.

    Il prodotto minerario più importante della collina è quello che giustifica la distinzione di un distretto casalese, dove la marna da cemento dà, come abbiamo già accennato, una produzione media-annua di 600.000 tonnellate per il valore di un miliardo e 140 milioni di lire. È un primato nazionale che il Piemonte deve specialmente ai ricchi ed estesi giacimenti di Casale, San Giorgio Monferrato, Ozzano Monferrato, Camino, Ponte Stura. La potenzialità degli impianti è però più che doppia della produzione attuale. La collina è pure la massima produttrice piemontese di pietre da gesso, con centri di più attiva produzione nell’Astigiano, a Montiglio, Cocconato, Moncucco, Castelnuovo Don Bosco, Calliano, Moncalvo. Nella zona dei gessi, numerose sono le sorgenti di acque solforose. Si utilizzano industrialmente acque minerali solo presso Castelnuovo Don Bosco e Castelnuovo Calcea. Le manifestazioni idrotermali hanno un centro notevolissimo in Acqui, nota per l’uso terapeutico dei suoi fanghi. Quanto alla pianura piemontese essa non aveva fino a ieri valore minerario che per l’escavazione, veramente abbondante, di sabbie e di ghiaie dai suoi fiumi, e per la produzione di argilla destinata alla fabbricazione di laterizi e di terre cotte. Sono decine e decine di medie e piccole aziende, che rappresentano la maggior parte della produzione piemontese di argilla, calcolata in 1.730.000 tonnellate ed ottenuta dal lavoro di circa 800 operai. Ma nel 1954 si è rilevato produttivo di gas naturale (metano) un pozzo scavato dall’A.G.I.P. a Desana, nella pianura vercellese. Nel 1956 tale pozzo ha dato 5 milioni e mezzo di me. di gas e 270 me. di gasolina.

    Grossa fabbrica di laterizi nel Monregalese.

    Le fonti d’energia

    Se si guarda alle risorse minerarie d’ordine energetico, strido sensu, la posizione del Piemonte non appare certamente brillante, anche tenendo conto dell’accennata, promettente scoperta di idrocarburi. Di veramente importante, almeno per ora, non vi è che l’antracite valdostana di La Thuile, nella valle che conduce al Piccolo San Bernardo. Questa antracite, l’unica italiana in quantità non trascurabile, ha potere calorifero sulle 5100 calorie, e cioè più basso di quello delle antraciti straniere, da cui si distingue anche per la maggiore fragilità. Si trova in giacimenti lenticolari, la cui consistenza complessiva si stima attorno a 35 milioni di tonn. e che si trovano nell’area del colle della Croce, che è alto 2400 metri. La produzione attuale, assorbita dalla Società Nazionale Cogne, s’aggira sulle 40.000 tonnellate annue, ed è ottenuta da 460 operai.

    Come si vede, si tratta di una produzione assai limitata, capace di rispondere soltanto ad una frazione minima dell’odierno fabbisogno energetico del Piemonte. Per fortuna, all’avarizia del sottosuolo ha posto parziale rimedio l’abbondanza delle acque fluviali, la cui forza meccanica era già attivamente sfruttata in passato per muovere gualchiere e folloni, « piste da carta », martinetti e magli. La necessità di sottrarsi alle importazioni di carbone e di macchine a vapore per la nascente grande industria piemontese fece convergere entusiastiche aspettative sull’utilizzazione delle acque correnti per la produzione di energia elettrica. Non per nulla fu un piemontese, Galileo Ferraris, a vincere il grave ostacolo del trasporto a distanza della energia stessa. Superata questa difficoltà, inesauribile ricchezza parve quella del « carbone bianco », scrosciante nei torrenti dalle nostre montagne, ed ogni problema energetico sembrò automaticamente e per sempre risolto.

    Ricca d’acque, la val d’Ossola forma un completo sistema idroelettrico. Diga e invaso della « Edison » in vai Toggia.

    In effetti, la massa d’acqua non mancava, e non sarebbe mancata in avvenire, mentre le caratteristiche morfologiche del rilievo alpino occidentale, soprattutto quelle di origine glaciale, risultavano favorevoli alla creazione di elevati salti. Ma d’altra parte, e di ciò ci si rese conto con l’andare del tempo, il frazionarsi del rilievo in tanti bacini indipendenti e di modesta estensione, limitava forzatamente la potenza dei singoli impianti: il regime prevalentemente glacionivale o nivale, dei fiumi, ne riduceva di molto la portata nei mesi invernali, rendendo indispensabili misure d’integrazione. La quasi generale impermeabilità dei terreni montani si ripercuoteva poi sulle portate dei corsi d’acqua, esacerbandone i divari, non frenando cioè le massime e non attenuandone le minime, mentre la ripidità e la relativa strettezza dei solchi vallivi impediva la creazione di invasi di grande capacità per una regolazione pluriennale. Sta di fatto che, relativamente presto, le risorse idriche locali si mostrarono insufficienti a correlarsi con lo sviluppo industriale di Torino e del Piemonte.

    Si sta formando il lago-serbatoio di Beauregard (Valgrisanche) uno dei maggiori delle Alpi occidentali.

    Distribuzione delle centrali elettriche (con potenza installata superiore a 1000 kW).

    Nel 1958 il Piemonte (compresa come al solito la Valle d’Aosta) contava un numero di centrali idroelettriche (662) superiore a quello di qualsiasi altra regione d’Italia: una potenza installata (2.442.318 kW) e una producibilità media-annua (7 miliardi e 600 milioni di kWh) lievissimamente superiori a quelle della Lombardia. Se ne deduce una relativa piccolezza media delle nostre centrali, in armonia appunto, come si diceva, col frazionamento del rilievo in tanti singoli bacini, aventi per la massima parte modesta superfìcie e quindi limitato deflusso. Tra le maggiori centrali elettriche del Piemonte, ricordiamo quelle di Motta Ponte, in vai d’Ossola (93.260 kW), di Rosone in valle dell’Orco (105.352 kW), di Avise in Valle d’Aosta (146.700 kW), di Pont-Saint-Martin (50.000 kW), di Signayes in Valpelline (42.300), di Valpelline (120.000 kW), di Maen (54.464 kW) e Covalou (44.160 kW) in Valtournanche, di Venalzio in vai di Susa. Più scarse e di minor potenza sono le centrali distribuite nelle valli delle Alpi Cozie e delle Alpi Marittime, tra le quali si ricordano quelle di Vinadio in vai Stura (48.000 kW) e di Sampeyre. Come termine di paragone basterà tenere presente che la centrale di Cardano in vai d’Isarco, che alimenta tanta parte delle industrie torinesi, ha una potenza installata di 199.000 kW. A compensare la modestia delle portate unitarie non basta evidentemente l’imponenza dei salti che nella centrale di Venalzio raggiungono il massimo di tutta Italia (1058 m.).

    Della modesta capacità dei nostri invasi è già una testimonianza il fatto che, mentre nel tratto alpino dall’Agogna al Mincio, i serbatoi costruiti hanno una capacità utile superiore ai 600 milioni di me., quelli nel tratto tra la Sesia e il Tanaro hanno una capacità utile appena superiore ai 200 milioni di me. Il maggiore dei serbatoi di regolazione piemontesi è quello di Beauregard (Valgrisanche) in Val d’Aosta (70 milioni di me.). Gli tengono dietro i serbatoi di Ceresole Reale in valle dell’Orco (36 milioni di me.) e del Moncenisio (32 milioni di me.), ora in territorio francese. Degno di menzione per le sue dimensioni è anche il lago-serbatoio di Telessio in valle dell’Orco (24 milioni di me.). Siamo comunque lontani, per es., dai 355 milioni di me. del lago-serbatoio di Molveno, nel Trentino-Alto Adige. Quando saranno portati a compimento i grandi impianti, ora in costruzione in Val d’Aosta (Avise della S.I.P. e Valpelline del Consorzio Elettrico Buthier), ben poco, in fatto di risorse idroelettriche, rimarrà da sfruttare in Piemonte. A meno che lo spopolamento montano renda possibile allagare interi tronchi di grandi valli, prospettiva, almeno per ora, alquanto lontana. In alcune vallate piemontesi si è già effettuata l’utilizzazione integrale delle acque del bacino sotteso. Come modello tipico di tale culminante realizzazione può citarsi il sistema idroelettrico della Toce, in vai d’Ossola, che con quattro gruppi di impianti, scaglionati lungo la valle, ne utilizza le acque, fra le quote 2460 e 224 sul livello del mare. Sono anche integralmente utilizzati gli affluenti Devero, Isorno, Diveria, Ovesca e minori. Completo è pure il sistema idroelettrico della Valtournanche, con i serbatoi del Goillet e di Cignana e con le centrali di Perrère, Maen, Covalou, Chàtillon.

    Per sopperire alla crescente domanda di energia, specie da parte dell’industria, si sono costruiti di recente impianti ad acqua fluente sul Po, a monte e a valle di Torino. A monte è sorta la centrale di Moncalieri: a valle sono sorte quelle di Stura, San Mauro e Cimena. Un’altra centrale del genere sta per essere costruita in piena città, alla Madonna del Pilone. Dal bisogno di rimediare alle deficienze invernali di energia idroelettrica, in un primo tempo, e poi, in questi ultimi anni, dalla necessità di una più continua, regolare, ampia produzione, destinata a diventare di base, lasciando a quella idrica un ruolo sussidiario, sono derivati il potenziamento dei vecchi e la costruzione di nuovi impianti termoelettrici, come quelli di Moncalieri e di Chi-vasso — che possono funzionare anche a metano — senza contare le centrali termiche costruite a proprio uso, da grandi stabilimenti industriali.

    Centrale idroelettrica della Società Nazionale Cogne ad Aymaville.

    L’acqua di casa, dunque, non basta più, sebbene il Piemonte, con la Valle d’Aosta, producendo (1958) 7 miliardi e 211 milioni di kWh, e rappresentando quindi il 20% della produzione idroelettrica italiana, sia al terzo posto nella graduatoria nazionale delle regioni produttrici. E invece al quarto posto, dopo la Toscana, la Lombardia e la Liguria, per produzione di energia termoelettrica. Quanto ai consumi, con i suoi 1920 kWh annui-medi prò capite — più del doppio della media per abitante dell’energia consumata in Italia — il Piemonte occupa il primo posto. L’energia consumata in Piemonte non è tutta prodotta nella regione. Se ne importano, di fatto, forti quantitativi dalla Lombardia, dal Trentino Alto-Adige, dalla Toscana (Larderello). Per contro, dal Piemonte si esporta energia elettrica in Lombardia e in Liguria. La maggior parte del territorio piemontese rientra nella zona di influenza della Società Idroelettrica Piemonte (S.I.P.) e di sue consociate, come la Piemonte Centrale di Elettricità. L’Edisonvolta ha impianti in diverse località delle Alpi piemontesi, ma specialmente in vai d’Ossola.

    La grande condotta forzata che alimenta l’impianto del Buthier superiore (Valpelline) In basso la centrale.

    Un collegamento idroelettrico internazionale è rappresentato dalla linea a 220 kV Avise-Piccolo San Bernardo.

    Per la sua posizione di confine il Piemonte ha interesse, sia alla possibile utilizzazione di acque derivabili dal versante francese, sia a scambi di energia col vicino Paese. Il quale, per altro, in seguito alle note rettifiche di confine, si è arricchito di un gruppo di centrali dell’alta valle Roja, e della centrale di Gran Scala, sopra Venalzio, in vai di Susa, già proprietà della S.I.P. Attualmente il Piemonte è collegato alla Francia, oltreché dalle linee provenienti dalle centrali ora ricordate, dall’elettrodotto a 220 kV che parte da Avise, per la centrale del Malgovert. Pure da Avise si stacca un elettrodotto che, per il Gran San Bernardo, porta energia alla stessa tensione in Svizzera (Guescet). Scambi di energia con la Svizzera avvengono pure attraverso centrali della vai d’Ossola, collegate mediante linee a 150 kV con le centrali di Morel e di Lucendro. Si tratta, è bene dirlo subito, di scambi di limitata importanza, e che, anche intensificandosi, non libereranno il Piemonte dalla necessità di ricorrere a fonti energetiche combustibili per coprire il suo fabbisogno.

    Lo sviluppo industriale del Piemonte

    Sebbene quasi privo delle grandi materie prime che sono alla base del moderno sviluppo industriale, il Piemonte è riuscito a crearsi in questo campo una posizione di primo piano e, per alcuni aspetti, di avanguardia. Oggi, sia per il numero degli esercizi industriali (65.705 al 4 novembre 1951), sia per quello degli addetti agli esercizi stessi (622.295 data dello stesso censimento), la nostra regione non è superata che dalla ben più popolosa Lombardia. Gli esercizi industriali del Piemonte rappresentano un decimo di tutta l’Italia: gli addetti alle industrie, un quindicesimo della massa operaia italiana. Anche sotto questi rapporti, davanti al Piemonte, non c’è che la Lombardia. Sempre secondo il censimento del 1951, la popolazione attiva del Piemonte, occupata nelle industrie e nei trasporti, costituiva il 46,6% della popolazione attiva totale. Anche qui, la proporzione più alta, dopo la Lombardia. E, come vedremo, la preminenza industriale del Piemonte si afferma nella produzione di beni che hanno importanza basilare nell’economia della Nazione intera.

    In grazia di quali fattori e attraverso quali vicende si è venuta configurando la fisionomia industriale del Piemonte? Basterebbero gli stupendi bronzi di Industria e il tesoro di Marengo, per testimoniare dell’eccellenza raggiunta in epoca romana dagli artigiani locali, nella lavorazione artistica dei metalli. A quell’epoca avevano pure conseguito una certa notorietà, anche in Italia, centri piemontesi della industria figulina. Altri erano caratterizzati dall’industria della lana, come Pollenzo, altri ancora della fabbricazione di vasi vinari e di dolciumi. Ma solo nel tardo Medio Evo si profila una specializzazione di attività industriali, in determinate zone del Piemonte. Comincia allora il Biellese a fabbricare ed a smerciare tessuti di lana; il Chierese a distinguersi per i panni di lana e per i fustagni largamente esportati all’estero. Torino, Pinerolo, Asti, Vercelli, in relazione al fiorire dei commerci per le strade « francigene » e lombarde e alle nuove possibilità di approvvigionamento, attesero esse pure alla filatura e alla tessitura della lana.

    L’industria sta diventando il pilastro dell’economia piemontese.

    Ma la vera vocazione tessile, chiamiamola così, del Piemonte, fu quella che lo volse alla lavorazione della seta. Vocazione, veramente, è dire un po’ troppo, perchè, se fattori naturali favorevoli risultarono il facile attecchire dei gelsi e l’abbondanza di mano d’opera femminile e minorile nelle campagne, è anche certo che, soprattutto per ovviare alla disoccupazione, duchi e re sabaudi misero un grande impegno a proteggere e a diffondere, con la bachicoltura, la lavorazione completa della seta. Si arrivò persino ad impedire l’importazione di manufatti di seta dall’estero e, quel che più conta, ad ostacolare in ogni modo l’industria laniera, per lasciare la strada libera a quella della seta. Nei secoli XVI e XVII, insieme con i « moroni » (così si chiamavano da noi i gelsi), si moltiplicarono le filande, tanto che nel 1708 se ne contavano in Piemonte 125, concentrandosene 67 in Torino, 34 in Cuneo, 20 a Mondo vi, 15 a Cambiano, 12 a Venaria Reale, 11 in Asti, 10 a Chieri. Le persone impiegate ammontavano a 6990. Nel 1787 le filande erano salite a 272 e gli operai a 16.143. Si trattava, nella grandissima maggioranza dei casi, di piccolissimi impianti, ma non mancavano le filande che, dando lavoro a 200-300 operai, già assumevano le caratteristiche della grande industria. Più frequentemente presentavano queste caratteristiche le manifatture da cui uscivano drappi di seta, damaschi, broccati, veli, nastri, calze, stringhe, ecc.

    La buona qualità della canapa e del lino indigeni favorivano non solo la lavorazione domestica delle tele, ma anche quella concentrata in opifici, particolarmente numerosi nei dintorni di Torino, nel Cuneese, nella Valsesia. Le tele di Piemonte e le « marchesane » (così si chiamano quelle provenienti dal Saluzzese) erano particolarmente apprezzate per la confezione di vele a Venezia e a Genova. Il cotone, già da secoli lavorato a Chieri e a Vercelli, andò prendendo piede nella seconda metà del secolo XVIII, sicché diverse fabbriche di cotonate e di fustagni sorsero da allora in più centri del Piemonte. Nello stesso periodo di tempo, nostri imprenditori aprirono fabbriche di calze, guanti, berretti, soprattutto a Torino. Quanto alle industrie metallurgiche già s’è fatto cenno, parlando delle risorse minerarie. Alle vecchie, ma sempre efficienti cartiere di Pinerolo, di Margarita, di Bagnasco, di Caselle, di Ser-ravalle, di Beinette, altre se ne aggiunsero di nuove. Vita assai difficile ebbe, invece, l’industria vetraria, cui poco giovarono anche i più drastici interventi governativi. Numerosi altri rami di attività industriale erano rappresentati nel Piemonte del Settecento, ma si trattava, per lo più, di imprese sporadiche ed isolate, o di specialità locali, frutto di una tradizionale attitudine degli abitanti, o di particolari condizioni eli clima o di materia prima, godenti spesso, sull’intero mercato nazionale, di una larga rinomanza.

    Vedi Anche:  Componenti razziali e psicologiche

    Per la formazione di una mentalità industriale in Piemonte, già nel secolo XVIII, sono fatti significativi il moltiplicarsi delle imprese capitalistiche all’ombra della tutelare protezione governativa, il timido affermarsi di una classe di salariati industriali, i primi istituti di mutuo soccorso, la creazione di case operaie, i progetti di assicurazione contro le malattie e la disoccupazione, la frequenza di nobili e di titolati fra i possessori di fabbriche. Quanto alla distribuzione degli opifici piccoli e grandi, è interessante, soprattutto, osservare la loro dispersione in ogni parte dello Stato, eccezion fatta per la montagna, dove scarsa era l’attività manifatturiera non puramente domestica. Fattore importantissimo poi, per la ubicazione dei singoli stabilimenti, era l’acqua, sia come forza motrice, sia quale materia prima, coadiuvante nella lavorazione di certi manufatti, specialmente tessili. Nonostante gli innegabili progressi nel Piemonte settecentesco dell’attività industriale, non si può però dire ch’essa fosse saldamente radicata nel suolo e nel popolo, e che la buona sorte le arridesse. La quasi totalità dei patrimoni conservava carattere terriero, e la mancanza di capitale formato col risparmio, la riluttanza ad ottenerne con la vendita delle terre, l’ancora esigua e modesta borghesia, s’aggiungevano a quella prima causa, nel rendere, secondo l’acuta analisi del Prato, precaria e stentata la vita di parecchie delle industrie piemontesi.

    La massiccia costruzione dell’antica manifattura dei tabacchi a Torino.

    La fortuna industriale del Piemonte si prepara nel secolo XIX, e si afferma decisamente nel XX. Dalla Restaurazione al 1829 non passano che tre lustri, pure l’esposizione di Torino di quell’anno appare una rivelazione, e da essa balza l’immagine di una regione che ha ormai trovato nell’industria un campo di prospero lavoro e di benessere. Da allora, di fatto, il progresso ha poche soste, e il suo ritmo si fa più rapido e marcato nella seconda metà dell’Ottocento. Segni dei tempi nuovi furono il lento declinare dell’industria serica, il rinvigorirsi della giovane industria cotoniera, e specialmente l’avanzata della siderurgia. Questa ebbe come nucleo di partenza l’Arsenale di Torino, con fonderia e lavorazioni d’armi, dove lavoravano 360 operai, e le fabbriche d’armi di Valdocco, con 586 operai nel 1861. A questo complesso si aggiungevano le Regie officine per il materiale d’artiglieria, dove lavoravano, in 72 diverse fucine, 580 operai. Importante era ancora l’Officina strade ferrate dello Stato, dove circa 300 operai erano impiegati nella riparazione del materiale ferroviario. Valendosi di una mano d’opera già pratica nel trattare il ferro e l’acciaio, una schiera di industriali torinesi cominciò a costruire macchine utensili, mentre per opera di altri industriali — gli Sclopis, il Lanza, il Rossi, lo Schiapparelli — anche l’industria chimica iniziava la sua brillante ascesa.

    Avvenimento decisivo per le sorti dello sviluppo industriale del Piemonte fu il trasporto della capitale del Regno da Torino a Firenze (1865). Gravissimo fu il colpo morale e materiale di cui ebbe a soffrire la detronizzata città subalpina. Ma i suoi uomini migliori reagirono allo scoramento e alla stasi incipiente, puntando, con arditezza e con preveggente chiarezza di vedute, sul futuro industriale di Torino e del Piemonte. L’avvenuta meccanizzazione dell’antica industria laniera del Biellese e l’apporto di tecnici e di capitali francesi e svizzeri a quella cotoniera, permisero al complesso tessile piemontese di superare la crisi del 1872-80 e nel 1884 Torino poteva realizzare il piano grandioso di offrire una rassegna di tutto il progresso industriale dell’Italia negli ultimi anni.

    Nel campo siderurgico e meccanico l’industria torinese, che nel 1881 contava poco più di 10.000 addetti, si distingueva per l’alto pregio della produzione. Decker, Bollito, Torchio, Carena, Operti erano notissimi, e non solo in Italia, come fabbricanti di macchine e di attrezzi, mentre i Barberis, i Negro, i Polla, i Poccardi, i Diatto, i Locati, eredi della tradizionale abilità tecnica che aveva reso famosi nel Seicento e nel Settecento i fabbricanti torinesi di carrozze, eccellevano nella creazione di carrozzerie per omnibus e per tram a cavalli, aprendo così la strada alla futura specialità delle carrozzerie per automobili. Intanto altri pilastri dell’industria metalmeccanica sorgevano a Sa vigliano, con le officine omonime, ad Avigliana, con le ferriere ed acciaierie Vandel, e ancora a Torino, con la bulloneria Assauto, le officine Diatto, la fonderia di caratteri tipografici Nebiolo. La comodità delle comunicazioni e dei trasporti con Genova e Savona, per l’approvvigionamento di carbone, e la vicinanza della Francia, fornitrice oltre che di carbone, di rottami di acciaio e di ferro, preparavano discrete basi allo sviluppo di un’industria pesante, che beneficiava pure del disegno cavouriano di fornire ai porti vicini gli impianti siderurgici occorrenti per riattivare e rammodernare l’industria cantieristica. Ma una nuova preziosa fonte di energia stava ormai approntando l’ingegno umano, e nel 1896-99 si costituivano le società donde trarrà origine la seconda grande impresa idroelettrica italiana, la S.I.P. All’alba del secolo XX, l’elettricità prodotta dalle nostre montagne veniva ad aprire all’industria torinese e piemontese nuove allettanti prospettive.

    Vecchia fabbrica di ceramiche a Mondovì.

    Delle accresciute possibilità di sviluppo e di razionalizzazione di lavoro s’avvalse particolarmente la nascente industria automobilistica — incoraggiata anche dalle esperienze francesi — grazie soprattutto allo slancio impressole dalla fondazione della FIAT, avvenuta a Torino nel 1899, per la geniale e tenace volontà di Giovanni Agnelli. Il sempre più accentuato incremento dell’industria metalmeccanica, cui la FIAT dette un contributo essenziale, segnò veramente l’inizio di una nuova èra nell’economia piemontese ed italiana. A Torino sorsero nel giro di pochissimi anni una ventina di fabbriche d’automobili, tra cui nel 1906 la Lancia, l’altra grande casa torinese, che sùbito dette alla sua produzione l’impronta di altissima qualità. Pure nel 1906, Giovanni Agnelli creava la Società « Officine di Villar Perosa », che oggi col marchio RIV continua a diffondere nel mondo quel fondamentale elemento delle costruzioni meccaniche che è il cuscinetto a rotolamento. Contemporaneamente venivano fondate importanti carrozzerie, fabbriche di freni, di ruote, di fari e di accessori vari, e con la W. Martini e la Michelin s’introdusse l’industria della gomma, e in particolare dei pneumatici.

    Dalla crisi mondiale del 1906-07, l’industria automobilistica torinese esce con una cinquantina di ditte, tra cui principali, oltre alla FIAT, l’Itala, la SPA, la Ceirano. Impossibile è qui continuare a seguire gli eventi di questo importantissimo ramo dell’attività industriale piemontese. Ricorderemo soltanto l’imponente apporto della produzione automobilistica ed aeronautica torinese alla vittoriosa conclusione della guerra 1915-18, la nascita dello stabilimento del Lingotto e lo sviluppo della sezione « Grandi Motori » per il macchinario propulsore delle navi. Nel contempo si progrediva anche in altri rami dell’industria. Quella enologica, per esempio, e in particolare quella del vermouth, sorta a Torino fin dal 1786, ad iniziativa di G. B. Carpano, trovava nei Cinzano, nei Cora, nei Martini, nei Rossi, nei Ballor, nei Bosca, nei Gancia, nei Calissano, degli abili imprenditori, che dovevano fare rinomati in tutto il mondo prodotti tratti dalle zone classiche dei vini piemontesi. E parimenti si dica dell’industria dolciaria, che andò imponendo i nomi ben noti di Talmone, Baratti e Milano, Moriondo e Gariglio, Venchi.

    Per tornare all’industria meccanica, è da segnalarsi la nascita, avvenuta ad Ivrea nel 1908, dell’industria delle macchine da scrivere, ad opera di un pioniere della meccanica fine, l’ingegnere Camillo Olivetti. Nel primo quarto del secolo esaurisce, si può dire, il suo ciclo, l’industria del cinematografo, che specialmente con l’Ambrosio e la « Pasquali Film » legò il nome di Torino ad una produzione non ancora dimenticata. La crisi, più politica che economica, del 1920-22 e quella mondiale del 1927-33, pur mettendo in gravi difficoltà l’apparato produttivo dell’industria piemontese, non ne fiaccarono la prepotente vitalità. Durante la prima, caratterizzata da gravi conflitti sindacali e sociali, sorse e prosperò rapidamente l’industria della seta artificiale, con i grandi stabilimenti di Venaria Reale e di Chàtillon. Al termine della « grande crisi », su di un’area di un milione di mq., si espandono i vastissimi stabilimenti della FIAT Mirafiori. Neppure la seconda guerra mondiale, con le distruzioni provocate da massicci bombardamenti aerei, valse ad intaccare profondamente la struttura e le energie dell’industria piemontese, la cui capacità di ripresa si rivelò superiore ad ogni umana previsione.

    Le maggiori classi d’industria

    Il fenomeno, dal punto di vista geografico, più cospicuo, che caratterizza l’evoluzione dell’industria piemontese nel secolo scorso, è la sua crescente concentrazione dimensionale e territoriale. All’aumento, cioè, della potenza del capitale, dei mezzi tecnici, dell’energia e della mano d’opera impiegata, con il conseguente ampliamento degli stabilimenti, si è accompagnato un graduale trapasso dall’uniforme distribuzione dell’attività industriale, in quasi tutto il territorio del Piemonte, alla sua riduzione in alcune aeree, più particolarmente rispondenti alla nuova organizzazione produttiva, e soprattutto alle necessità della grande industria, molto esigente in fatto di comodità e di rapidità dei trasporti. Ad accelerare e ad accentuare questo processo di disformità distributiva dell’industria è intervenuto un succedersi di circostanze che hanno inferto colpi su colpi, alla più diffusa, frazionata e dispersa attività industriale piemontese, quella della seta. Intendiamo, cioè, accennare alla concorrenza della produzione lombarda, alle malattie del baco da seta, alla vittoriosa avanzata del cotone, e più tardi a quella delle fibre tessili artificiali. Molte delle filande, numerose soprattutto nei centri della provincia di Cuneo, finirono per chiudere, e tacquero pure i moltissimi telai, che nelle case di campagna scandivano il ritmo delle laboriose giornate. Più rapida ancora fu la transizione dalla piccola siderurgia locale delle forge e dei martinetti, alle fonderie e alle ferriere impiantate con criteri moderni. Il trasporto a distanza dell’energia elettrica, permettendo a certe industrie di svincolarsi dalla servitù dell’acqua corrente, e quindi consentendo una più elastica scelta ubicazionale, favoriva, con la maggior mobilità delle industrie, il loro concentrarsi territoriale. Insomma, con l’abbandono delle precedenti forme di attività industriale o artigiana, le zone già fondamentalmente agricole, divennero ancora più specificatamente agricole, e quelle in cui l’industria aveva già fatto notevoli passi, divennero ancor più industriali. L’importanza del fenomeno si misura anche e soprattutto dalla più volte accennata frattura, avvenuta nella fisionomia demografica ed economica del Piemonte: frattura che, in termini spaziali amministrativi, oppone province agricole a province industriali, e che è una manifesta conseguenza della diversa distribuzione geografica assunta dagli opifici e dalle fabbriche.

    Industria pesante per eccellenza, quella siderurgica e metallurgica in genere non potè, pure nel considerevolissimo aumento delle sue dimensioni, allontanarsi di molto dalle originarie ubicazioni in vicinanza della materia prima e dell’acqua, anche se portata a trasformare la sua forza di caduta in energia elettrica. Così, sull’ubicazione della vicina magnetite di Cogne e insieme sulla possibilità di usufruire di ingenti quantitativi di energia elettrica, prodotta in proprio od acquistata a buon prezzo, fecero assegnamento i fondatori del maggior stabilimento siderurgico del Piemonte, quello della Società Nazionale Cogne, facendolo sorgere ad Aosta. Tale stabilimento occupa quasi la metà degli addetti alle industrie metallurgiche di tutto il Piemonte, addetti che sommavano nel 1951 a 20.000 circa. La «Cogne» lavora il proprio materiale in due altiforni per ghisa (dei tredici esistenti in Italia), in tre forni elettrici, pure per ghisa, e in tredici forni per acciaio, tutti elettrici, ottenendone acciai speciali assai pregiati, per una quantità di applicazioni meccaniche, chimiche, aeronautiche (140.000 tonnellate di ghisa e 140.000 tonnellate di acciaio nel 1958). Da queste cifre, passando a quelle complessive per il Piemonte, appare come esso fabbrichi poca ghisa, ma in compenso molto acciaio, tanto da ottenerne poco meno della Lombardia.

    Distribuzione dell’attività industriale nel Piemonte (ditte con più di 100 addetti).

    Veduta parziale delle officine siderurgiche della Società Nazionale Cogne ad Aosta.

    Tale produzione (1.231.700 tonn. nel 1958), si effettua oltre che in vai d’Aosta, anche in vai di Susa e in vai d’Ossola, per evidente tendenza delle fonderie ad avvicinarsi alle fonti di energia elettrica. Allo sbocco della valle di Susa è il grande complesso (ora proprietà della FIAT) di Avigliana, che impiega più di 1000 operai: nel primo tratto della valle ecco gli stabilimenti di Bussoleno e di Susa. In vai della Toce sono diventati importanti centri metallurgici Villadossola e Domodossola, alle quali si può collegare Omegna, sul lago d’Orta. Si tratta di complessi siderurgici poco numerosi, ma che raggiungono dimensioni discrete. Una buona maggioranza degli stabilimenti metallurgici è accentrata nella città di Torino, dove serve più direttamente ai bisogni delle industrie meccaniche colà sorte. Si deve, infatti, allo sviluppo della loro produzione se grandi imprese, come la FIAT, hanno preferito, dandosi una struttura verticale, partire dalla lavorazione delle materie di base. Così si sono moltiplicate fonderie e ferriere — in parte, come le ferriere FIAT, vicine alla Dora — cui l’essere in un importante nodo ferroviario giova sia per l’importazione del carbone, ma anche, come abbiamo già accennato, per l’importazione dei rottami metallici, che costituiscono la quasi totalità dei materiali ferrosi lavorati. Possiamo ormai includere nell’area cittadina, anche i tre discreti impianti di Settimo Torinese.

    Particolare del gruppo di alti forni della Società Nazionale Cogne ad Aosta. Nello sfondo la Becca di Nona e il Monte Emilius.

    Una ventina eli piccoli e medi stabilimenti siderurgici risulta distribuita in diversi centri del Canavese (Castellamonte, Ciriè, Collereto Castelnuovo, Forno Canavese, Pont Canavese, Prascorsano, Rivarolo, Favria, Ronco Canavese, Sparane). Si tratta di aziende che si riattaccano ad antiche tradizioni metallurgiche: quelle della lavorazione del rame per oggetti domestici, massime di cucina, tutt’ora vive nella valle dell’Orco e in vai Soana, cioè nel paese dei magniti (stagnari), e quelle della lavorazione del ferro, che molto probabilmente si alimentava al minerale della vai Chiu-sella (Traversella). Possiamo ricollegare a questa serie d’impianti lo stabilimento di Borgofranco per la produzione di alluminio elettrolitico, colà richiamato dall’abbondanza ed al buon mercato dell’energia elettrica, necessaria alla produzione dell’alluminio in pani. All’infuori delle zone sin qui ricordate, solo a Novi Ligure si annovera un grande complesso siderurgico, strutturato in due unità produttive, che occupano i tre quarti degli addetti del settore della provincia di Alessandria. In provincia di Cuneo è degna di menzione unicamente una ferriera sita a Fossano.

    Ma l’ossatura dell’economia piemontese contemporanea è rappresentata, come è noto, dalle industrie meccaniche. Non vi è quasi Comune della regione che non abbia almeno una di quelle che il più recente censimento chiama unità produttive. Dalla bottega artigianale che ripara attrezzi agricoli al complesso FIAT, dalle carrozzerie alle fabbriche per macchine da ufficio, s’intesse tutta una rete di iniziative e di rapporti che ha fatto del Piemonte una delle regioni più industrializzate d’Italia.

    Stabilimenti della « Snia Viscosa » a Venaria Reale, presso Torino.

    L’imponente complesso degli stabilimenti Mirafiori della FIAT, a sud dell’agglomerato urbano torinese.

    I 188.667 addetti alle industrie meccaniche piemontesi costituiscono di fatto il 21% della massa degli operai meccanici di tutta Italia, e gli esercizi sono quasi il 9% del totale nazionale degli esercizi. E un campo in cui il Piemonte non è superato che dalla Lombardia e si stacca notevolmente dal restante delle regioni d’Italia. Quanto ai vari settori, quello dei mezzi di trasporto e lavori affini, con circa 62.000 operai, raccoglie da solo quasi un terzo delle maestranze meccaniche della regione, ma per numero di esercizi viene primo il settore delle officine meccaniche, che sommavano nel 1951 a più di 10.600, con 27.600 operai. Tengono dietro, per numero di esercizi, la meccanica di precisione, l’oreficeria, e le produzioni meccaniche non qualificate: per numero di addetti, le fonderie di seconda fusione, le macchine motrici (escluse le elettriche), le apparecchiature elettriche e per telecomunicazioni.

    Quanto al grado di concentrazione della nostra industria meccanica, esso è stato ottimamente analizzato dal Milone, il quale osserva che in appena 18 esercizi si riunivano, secondo l’ultimo censimento industriale, 80.000 addetti, con una media di 4900 per esercizio: 15 esercizi se ne dividevano 11.000 e 145 altri esercizi comprendevano 30.000 addetti. Nel suo insieme la grande industria meccanica, al di sopra dei 500 addetti per esercizio, contava da sola, una metà della massa lavoratrice meccanica, mentre altri 30.000 operai si riunivano in stabilimenti dai 100 ai 500 lavoratori. Se si escludono gli artigiani, che sono appena un nono di questa massa operaia, si riscontra una media di una cinquantina di addetti per esercizio, più alta che nella stessa industria meccanica lombarda (40), e da tale media, conclude il Milone, si può intendere la concentrazione della industria meccanica piemontese.

    E tale concentrazione non si manifesta soltanto nelle proporzioni delle ditte e degli stabilimenti, ma anche nella ristretta area di più intensa diffusione. In effetti si può dire, che quasi quattro quinti degli operai metalmeccanici piemontesi lavorano a Torino e nei centri attornianti la grande città, e a sua volta, quasi un terzo di questa massa cittadina o suburbana è impiegata nelle industrie automobilistiche. Assorbe 71.000 addetti la sola FIAT: tanti quanti gli abitanti di un popoloso capoluogo di provincia. Insieme veramente mastodontico e di alta capacità produttiva quello della FIAT, che comprende oggi 25 complessi di stabilimenti e officine, quasi tutti a Torino o nelle sue vicinanze. La produzione, a ciclo completo, parte dalla ghisa e dagli acciai prodotti dalla sezione Ferriere Piemontesi e dagli stabilimenti di Avigliana, per arrivare alle automobili, ai veicoli industriali, alle trattrici agricole e industriali, fabbricati, per ricordare soltanto gli stabilimenti piemontesi, nelle officine del Lingotto e di Mirafiori e nella sezione delle produzioni ausiliarie, SPA, ricambi. Motori di aviazione e aeroplani a pistone e a reazione, escono dagli stabilimenti velivoli e dalle officine di Caselle. Automotrici, locomotori Diesel ed elettrici, carrozze passeggeri, vagoni merci, vetture tramviarie, sono approntati dalla Sezione materiale ferroviario. Grossi motori Diesel per impianti fissi, per propulsione navale e per trazione ferroviaria, sono compito specifico della Sezione grandi motori. La lavorazione di questa svariata e ingente massa di prodotti richiede mezzi finanziari altrettanto ingenti (la FIAT ha 100 miliardi di lire di capitale sociale), e impone, tra l’altro, un consumo di energia elettrica pari, per lo meno, a un terzo di quella che ordinariamente consumano tutte insieme le industrie piemontesi. Ma la produzione automobilistica, che, come si sa, è largamente apprezzata in tutto il mondo, rimane il fulcro dell’attività della FIAT, che nel 1959, sfornando 430.282 unità (422.216 vetture e 7.966 veicoli industriali), al ritmo di 2000 vetture al giorno, ha totalizzato il 92% della produzione automobilistica nazionale. Quasi un terzo delle automobili prodotte viene esportato per un valore di circa 140 miliardi di lire. Alcune decine di migliaia di macchine di piccola e media cilindrata sono state collocate sul mercato americano, e l’esportazione verso gli Stati Uniti, effettuata con circa 1000 vetture ad ogni viaggio in apposite navi-garages, è in continuo aumento.

    Non è qui il caso di analizzare le cause di un così brillante e quasi ininterrotto cammino ascensionale. Evidentemente, accanto ai fattori d’ordine generale che hanno presieduto allo sviluppo delle industrie in Torino e in parte del Piemonte, hanno molto giovato la qualità del materiale impiegato e la perfezione tecnica dei meccanismi. E qui sembra che l’ordine inflessibile, la tenacia, la pazienza, la meticolosa precisione e persino la « pignoleria », per cui andavano famosi… e caricaturati i militari e i burocrati piemontesi, siano diventati retaggio di esperte e ben istruite maestranze. Mentre la raffinatezza e la sobrietà, l’eleganza di gusto e di linea, che distinguono tanti altri prodotti dell’industria torinese, si ritrovano — ed è pregio altamente considerato — nella presentazione estetica delle nostre automobili. Come s’è già accennato, tale cura della bellezza, oltreché delle qualità tecniche, ha conferito particolari attrattive alla produzione della Lancia, volta ad un mercato più limitato, ma più esigente. Il grattacielo della Lancia, svettando in Borgo San Paolo, è diventato uno dei simboli della potenza industriale di Torino e ricorda, tra l’altro, che Vincenzo Lancia ha introdotto il primo tipo di carrozzeria portante che sia apparso nel mondo. La RIV, la cui produzione di cuscinetti a rotolamento era stata iniziata come ausiliaria dell’industria automobilistica, è andata via via estendendosi ad altri campi di applicazione, e i suoi stabilimenti di Torino e di Villar Perosa, presi a modello per analoghi impianti in Russia ed in altri paesi, hanno ormai raggiunto una produzione di 20 milioni di cuscinetti all’anno.

    Distribuzione dell’attività industriale nel Piemonte (ditte con più di 100 addetti).

    Ad un altro capo di Torino, la FIAT ha le sue ferriere. In mezzo è visibile un tratto della Dora Riparia. In secondo piano l’imbocco della vai di Susa.

    Eleganza e funzionalità di linee in un reparto delle officine Olivetti ad Ivrea.

    Sorta in una regione prevalentemente agricola, la Olivetti di Ivrea ha saputo accuratamente formarsi una sua maestranza altamente specializzata, attingendo alle masse contadine dei dintorni, e curandone l’istruzione professionale, e poi creando una rete di iniziative sociali e culturali, che si estese a tutto il Canavese, nell’intento di edificare una « comunità di fabbrica ». La produzione della Olivetti si è allargata alle addizionatrici, alle calcolatrici scriventi, alle telescriventi, alle macchine contabili, alle macchine utensili di precisione, ai mobili ed accessori per ufficio, ma ha tratto e continua a trarre la sua maggiore rinomanza dalle macchine da scrivere, che coprono l’8o% della produzione nazionale, calcolata per il 1958 in 397.000 macchine, delle quali una buona aliquota viene esportata. Le officine di costruzione e di riparazione del materiale ferroviario rappresentano un terzo degli addetti al settore in Italia ed appaiono concentrate in Savigliano, Torino e Pinerolo.

    Grande industria in Piemonte continua ad essere quella tessile, nonostante che tra gli ultimi due censimenti industriali il primato per il numero di addetti sia passato alle industrie meccaniche. Gli addetti all’industria tessile in Piemonte sono oggi (149.884) quanti erano nel 1927, mentre gli esercizi sono passati da 1241 a 1552. Sono mutati anche i rapporti di importanza tra le varie sottoclassi delle industrie tessili. Nell’industria della seta, che ancora una cinquantina d’anni fa impiegava più di metà della mano d’opera tessile del Piemonte, oggi non lavora che il 4% degli addetti ripartito in 71 esercizi su 4109, quanti ne conta nella classe tessile la regione. E si spiega, quando si tenga presente che la produzione piemontese di bozzoli, sommante allora a 6 milioni e mezzo di chilogrammi, nel 1958 si è ridotta a poco più di 44.000. I non molti stabilimenti di filatura, di trattura, di torcitura della seta, che continuano a lavorare, si trovano in centri rurali del Torinese, del Cuneese e nel Novarese. Ben diversamente distribuita, e cioè tanto concentrata in grandi unità operative, quanto l’antica industria serica era frazionata in piccoli opifici sparsi tra le campagne, la fabbricazione delle fibre tessili artificiali, sintetiche e cellulosiche, è venuta in parte a compensare gli effetti della declinante fortuna della seta naturale. Gli stabilimenti di Venaria, Ivrea, Chàtillon, Vercelli, Gozzano, Pallanza (nylon e terital), tutti di dimensioni cospicue, hanno ridato al Piemonte la posizione di punta perduta nel campo del prodotto del baco da seta.

    Vita ben diversamente vigorosa e prospera, pur attraverso le crisi nazionali e mondiali, quella dell’industria laniera, che si è sviluppata principalmente nel Biellese. In complesso il Piemonte comprende un quinto abbondante degli esercizi e una metà circa dei lanieri di tutta Italia, e due volte e mezzo i lanieri del Veneto, l’altro grande distretto laniero nazionale. Ove si faccia eccezione per alcuni stabilimenti in provincia di Torino e per un grandioso opificio nel Novarese, la grande maggioranza degli esercizi lanieri è dunque raccolta nelle verdi vallate del Biellese, e all’imbocco della Valsesia, dove dà lavoro a circa 50.000 operai in più di 350 opifici. Una decina di questi occupano ciascuno un migliaio e mezzo di addetti, mentre altri 15 ne impiegano dai 700 agli 800 ciascuno e un centinaio più modesti ne contano 250 ciascuno. Effettivamente, sul fondo dei solchi vallivi dell’Elvo, del Cervo, della Strona, della Sessera, della Sesia, che si allargano a ventaglio addentrandosi nelle colline e nella prima montagna, si sgranano teorie di fabbriche, che fanno noto per il mondo il nome di attivi centri abitati (Cossato, Trivero, Valle Mosso, Mosso Santa Maria, Pettinengo, Quarona, Vigliano, Veglio, Bioglio, Andorno Micca, ecc.) e di dinastie industriali (Sella, Rivetti, Reda, Zegna, Piacenza, Lesna, Bertotto, Bozzalla, Garbaccio, Cerutti, ecc.).

    Abbondanza di mano d’opera in un paese povero di terreni produttivi e inizialmente dedito alla pastorizia; abbondanza di acque, e qualità di acque chimicamente adatte al lavaggio e alla lavorazione delle lane; facilità di comunicazioni con la sottostante pianura, hanno indubbiamente favorito l’addensarsi della filatura e della tessitura della lana nel Biellese. Ma si deve, soprattutto, all’abilità manuale di maestranze tradizionalmente addestrate e alla iniziativa e all’accortezza di imprenditori se, anche dovendo ricorrere all’importazione quasi totale della materia prima, l’industria laniera del Biellese, non solo si è saldamente e fruttuosamente radicata, ma anche specializzata nella produzione di filati e di tessuti di alta classe.

    La più giovane delle industrie tessili, la cotoniera, si è venuta rapidamente e gagliardamente diffondendo in Piemonte, tanto da essere lievemente inferiore a quella laniera, per numero di esercizi (433) e di addetti (55.540). Con tutto ciò, l’industria cotoniera piemontese è oggi di gran lunga superata da quella lombarda, che dispone di un numero triplo di stabilimenti e di operai. In Piemonte le maggiori filature e tessiture di cotone sono situate all’interno delle valli di Susa e di quelle di Pinerolo, o allo sbocco di valli minori, come quelle dell’Orco e del Sangone, e su lembi dell’alta pianura, oltre che in Torino stessa, dove i primi cotonifici traevano la forza motrice da canali derivati dalla Dora. Successivamente l’ubicazione dei cotonifici si è soprattutto informata alla disponibilità di mano d’opera femminile libera dai lavori agricoli, e alla vicinanza di torrenti e di fiumi montani, utilizzabili per trarne energia elettrica, mediante impianti autonomi. Qualche importanza può pure avere avuto l’abbondante umidità della zona di passaggio dalla montagna alla pianura.

    La manifattura di Grignasco (Novara), come esempio di stabilimento tessile piemontese.

    In val di Susa, centri cotonieri importanti son diventati Susa stessa, Borgone, Sant’Antonino, Bussoleno; in vai Chisone e in vai Pellice sono sedi di grandi opifici cotonieri San Germano Chisone, Luserna San Giovanni, Torre Pellice; allo sbocco del Sangone ecco Giaveno e Coazze; allo sbocco della valle dell’Orco, ecco Pont e Cuorgnè. Poi, nell’alta pianura torinese e canavesana, Ciriè, Chivasso, Noie, Mati, Caselle. Sono queste le sedi in cui continua, oggi un po’ stagnante, l’attività dei Poma, degli Abegg, dei Wild, dei Mazzonis, dei Turati, per non prendere che qualche nome a spizzico. Questo gruppo di cotonifici che, con qualche estensione del termine, potremo chiamare torinese, abbraccia metà circa degli stabilimenti e dei cotonieri occupati in Piemonte. Altri stabilimenti si trovano affiancati ai lanieri nelle valli del Cervo e dell’Elvo, ed altri ancora, più numerosi, e con un numero di addetti pari ad un terzo delle maestranze cotoniere piemontesi, in centri della pianura intorno a Novara (Galliate e Trecate), ad Oleggio, a nord del lago d’Orta, sulle sponde del lago Maggiore e, ad alquanta distanza, nella valle della Scrivia.

    Vedi Anche:  Il clima e la vita vegetale ed animale

    Distribuzione dell’attività industriale nel Piemonte (ditte con più di 100 addetti).

    Una parte della Manifattura lane di Borgosesia,

    Industrie minori e tipiche. Zone industriali.

    Tra le industrie che chiameremo minori solo perchè non occupano un numero di addetti così elevato come quelle sin qui accennate, ve ne sono alcune che sono loro strettamente collegate, e che, avendo raggiunto espressioni qualitative altrove non conseguite, possono considerarsi come tipiche. Si è già avuto occasione di dire che, parallelamente allo sviluppo della produzione automobilistica, si è affermata quella complementare della carrozzeria. E un settore questo, in cui l’elegante buon gusto degli ideatori e dei disegnatori ha conquistato al Piemonte, e principalmente a Torino, un primato oggi largamente apprezzato anche, e soprattutto, negli Stati Uniti. Spostatasi dalla campagna alla città, questa attività manifatturiera rifluisce ora nuovamente verso il contado, alla ricerca specialmente di nuove sedi economiche e di mano d’opera. Così, importanti stabilimenti del ramo si sono stabiliti a Carmagnola, La Loggia, Moncalieri, Grugliasco, nelle immediate vicinanze di Torino. E tuttavia in atto un processo di concentrazione, per effetto del quale numerose, piccole carrozzerie, lasciano il posto ad aziende aventi struttura e dimensioni veramente industriali, come la Viberti. A tutti è noto come le esigenze d’alta classe siano soddisfatte da carrozzieri quali Pinin Farina, Bertone, Casaro, Viotti, Ghia.

    Alle industrie tessili sono massimamente legate quelle del vestiario abbigliamento e arredamento, che, fra le industrie manifatturiere, vengono al terzo posto per numero di addetti in Piemonte, e al secondo dopo la Lombardia, per numero di addetti della classe in tutta Italia. E evidente anche qui l’influenza di un grande centro urbano, perchè quasi la metà degli addetti del Piemonte risulta censita nella provincia di Torino. L’antica produzione locale di stoffe e di passamanerie d’alto pregio, la raffinatezza della vita aristocratica in una piccola, ma importante e vivace città capitale, il gusto della moda, ivi coltivato, hanno dato e danno, alle confezioni torinesi di vestiti, di cappelli, di pellicce, soprattutto per signora, una linea di grazia e di signorilità che è diventata tradizionale. Le manifestazioni torinesi della moda sono un richiamo di portata anche internazionale, sebbene sempre più suadente si faccia la concorrenza di Roma e di Milano, ma soprattutto di Firenze.

    Tessuti al sole delle convalli biellesi

    Tra i generi di abbigliamento, il cappello è quello cui il Piemonte dà il maggior contributo. Per essere più precisi, si tratta della fabbricazione del cappello di feltro di pelo, che ha, com’è noto, il suo maggior centro in Alessandria (Borsalino), ed altri stabilimenti nel Biellese, a Sagliano Micca (Barbisio), Andorno Micca, Biella, Chia-vazza; nel Novarese a Intra e a Ghiffa, e a Chivasso. Di assai antica origine è a Torino l’industria delle maglie e delle calze, che importando le prime macchine circolari e poi vieppiù ingrandendosi, ha saputo attrezzare importanti stabilimenti anche nei dintorni di Torino e a Chivasso. Fabbriche del genere sorgono pure a Biella, Alessandria, Vercelli (maglierie). Di calzifìci vanno ricordati principalmente quelli di Arona, Borgomanero, Novara, Oleggio, Trecate, Omegna. Quanto alle confezioni in serie, la loro diffusione trova un duro ostacolo nella permanenza di un abile artigianato, ed è specialmente affidata ad alcuni discreti stabilimenti, come quello della « Caesar » a Torino. Buonissime posizioni — in genere le seconde dopo la Lombardia — ha il Piemonte nella produzione di nastri anelastici, di nastri e tessuti elastici, di passamanerie, di trecce e stringhe, di tulle, pizzi, veli e ricami, di manufatti impermeabili.

    Una delle carrozzerie da cui escono illeggiadrite le automobili torinesi.

    Stabilimento della Pirelli a Settimo Torinese per la produzione di pneumatici.

    Dalle prime fabbriche di superfosfati a quelle di derivati sintetici della serie acetica e delle resine sintetiche, l’industria chimica in Piemonte ha fatto sensibili progressi. Ma solo in alcuni rami conta impianti di notevoli dimensioni. E il caso dell’industria della gomma, concentrata a Torino (Michelin, Ceat, Pirelli), della raffineria del petrolio (Trecate), di derivati sintetici della serie acetica (Villadossola), di derivati dell’azoto (« Montecatini », a Novara), di materie plastiche (RIV, a Torino), mentre assai numerosi, specialmente nel campo farmaceutico, sono i piccoli stabilimenti. Relativamente più decentrata appare l’industria della carta, che preferisce, ancor oggi, le antiche ubicazioni sui corsi d’acqua. Tra le maggiori cartiere ricorderemo quelle di Verzuolo, in provincia di Cuneo (della « Burgo »), di Borgosesia e di Serravalle Sesia; di Caselle Torinese, di Noie, Mathi, Ciriè, Balangero, Germa-gnano; di Giaveno e di Coazze. In genere la caratteristica della regione è la produzione di carta bianca su grosse macchine continue. Nella classe delle arti grafiche ed editoriali, solo le arti grafiche s’impongono per numero di unità locali e di addetti (in Piemonte un’unità locale arrivava nel 1951 a 855 addetti). Per contro l’attività editoriale, nel senso odierno della parola, ha nella nostra regione, i più antichi precedenti. Basterà ricordare che la Casa Paravia è stata fondata a Torino nel 1728 e che la Casa Bocca ha iniziato la sua attività nel 1775. Oggi gli esercizi poligrafici ed editoriali assicurano al Piemonte il terzo posto, dopo la Lombardia ed il Lazio, per quel che riguarda il numero delle pubblicazioni, col 13% delle opere stampate in tutta Italia. Massimo centro della produzione giornalistica e libraria è naturalmente Torino, dove case editrici, come Paravia, la S.E.I., e soprattutto l’U.T.E.T., hanno attrezzature moderne e larghissima rinomanza anche internazionale.

    Una moderna tessitura ad Alba.

    Anche nell’assai più vasto campo delle industrie alimentari ed affini, che, raggruppando 31.159 addetti, vengono, per questo aspetto, al quarto posto tra le varie classi di industrie manifatturiere del Piemonte, troviamo attività produttive tipicamente piemontesi. Così è, per esempio, di alcuni rami dell’industria enologica. Indubbiamente si produce tutt’ora in Piemonte una cospicua serie di eccellenti vini: dal Barolo e dal Barbaresco ai vini di Gattinara, Lessona, Ghemme, Carema (tutti vini da arrosto, ottenuti dal nobile vitigno Nebiolo), al Grignolino, al Freisa, al Dolcetto, alla Bonarda, per restare nel campo dei vini rossi, fini e superiori, ai vini aromatici, come il Moscato ed il Brachetto, ai Passiti di Caluso e di Canelli, per arrivare all’Asti Spumante e agli spumanti bianchi secchi. Ma la produzione di vini degni di essere considerati pregiati, nel senso più rigoroso della parola, non supera forse il milione di ettolitri sui 4-5 che si producono annualmente e per i quali il Piemonte viene normalmente terzo tra le regioni d’Italia, dopo la Puglia e la Sicilia. Alla diminuita ricerca di così eletta produzione vinicola e alla sua fiacca valorizzazione si contrappone la sempre maggior fortuna del vermouth, alle cui origini abbiamo già accennato.

    Il parco legname di una grande cartiera.

    Una cartiera nel Monregalese.

    Partendo dai vini bianchi più o meno alcoolici e zuccherini di sapore neutro e delicato, come i Moscati di Canelli e quelli di Gavi e di altri vini fini del Piemonte, ma poi allargando alla Puglia e alla Sicilia l’area di approvvigionamento della materia prima, e arricchendo via via la gamma di droghe aromatiche impiegate nella fabbricazione del vermouth, e prima anch’esse di origine quasi esclusivamente locale, si è perfezionata e diffusa un’industria che ha i suoi principali centri di produzione intorno a Torino, lungo la linea ferroviaria di Genova (Moncalieri, Cambiano, Tro-farello, Pessione); nell’Astigiano (Alba, Asti, Canelli); nel Canavese (Chivasso, Riva-rolo). Le maggiori società produttrici, come la Cinzano e la Martini e Rossi, hanno esteso la fabbricazione in Europa e nelle Americhe, ma il vermouth piemontese conserva pur sempre qualità di gusto e di fragranza ineguagliabili. Altri aperitivi e molti generi di liquori sono prodotti dalle stesse fabbriche che danno il vermouth, alle quali s’aggiunge uno stuolo assai numeroso di minori stabilimenti, di analoga ubicazione.

    Come si decanta l’« Asti Spumante » nelle cantine degli stabilimenti Gancia a Canelli.

    Caramelle e cioccolato, in Torino, costituivano, fino a qualche tempo fa, una specialità locale, ma che tuttavia aveva preso una diffusione nazionale, non incontrando che una timida concorrenza interna. La sparizione di alcune tra le più rinomate fabbriche torinesi ed il loro assorbimento in più vaste aziende non è bastato a conservare all’industria dolciaria torinese le antiche, quasi monopolistiche posizioni. Nello stesso Piemonte sono sorti discreti stabilimenti per la fabbricazione del cioccolato (ad Alba, ad Aosta, a Verbania) e delle caramelle (Novi Ligure), mentre alla forte penetrazione di prodotti austriaci e svizzeri fa bordone il crescente affermarsi della ben attrezzata e dinamica industria dolciaria milanese e genovese. Il Piemonte condivide con la Lombardia un altro suo tipico ramo di industrie alimentari, quello risiero. Sulle più di 600 riserie, che l’Italia contava nel 1950, più della metà spettavano alla Lombardia, e un 200 al Piemonte. Di queste ultime, più di un centinaio si trovavano nella bassa vercellese, una sessantina nella pianura novarese, e le poche restanti sorgevano nella zona risicola della provincia di Alessandria.

    E passiamo alle attività manifatturiere alimentari non tipiche. L’industria molitoria si è naturalmente accentrata in stabilimenti di notevoli dimensioni, ubicandosi intorno ai maggiori centri urbani: quella delle paste alimentari non ha fatto grandi progressi. Considerevole sviluppo sono andate, invece, assumendo, in concomitanza con l’incremento dell’allevamento del bestiame e della produzione lattiera, le industrie dei derivati del latte. Alle aziende casearie, che nel Novarese danno una buona produzione di gorgonzola e di altri formaggi, si sono aggiunte di recente, specie nella bassa pianura cuneese, confinante con quella di Torino, vari caseifici, in parte succursali di grandi stabilimenti lombardi. In valle d’Aosta ci si occupa per industrializzare la produzione della rinomatissima fontina. Fabbriche di carni in scatola, di verdure e di ortaggi conservati (cipollini, sottoaceti, funghi), di marmellate, di conserva di pomodoro, sono sorte e altre via via si stabiliscono di preferenza nelle campagne cuneesi. Si tratta, però, di aziende di modeste dimensioni, come sono di modeste dimensioni i salumifici, diffusi un po’ dovunque. Dal 1903 funziona l’unico zuccherificio del Piemonte (fallito il recente tentativo di installarne un altro) a Spinetta Marengo, presso Alessandria, nella cui pianura ha propagato la coltura della barbabietola. Per numero e per grandezza di impianti, l’industria della birra ha assunto in Piemonte un posto di primo piano. Si hanno fabbriche di birra ad Aosta, Ver-bania, Biella, ma le maggiori sono le torinesi: Boringhieri, Metzger, Bosio e Caratsch. L’antica manifattura tabacchi di Torino costituisce pur sempre uno dei più efficienti complessi produttivi del Monopolio.

    Cantine di invecchiamento in uno stabilimento vinicolo dell’Albese.

    Antiche tradizioni ha in Piemonte, e segnatamente a Torino, l’industria conciaria. Anche attualmente in città e in alcuni centri della vicina pianura canavesana (Caselle, Ciriè, Chivasso, Brandizzo, Favria, Castellamonte, Valperga), la concia dei cuoi e dei pellami annovera importanti stabilimenti, e centro specializzato in questa industria continua ad essere Bra. Via l’attuale decina di modesti stabilimenti che vi si contano è quanto rimane di una più larga, passata attività. Rinomata è la lavorazione delle pellicce, quale si effettua ad Alessandria ed a Torino (Rivella).

    Nell’industria del legno sono occupati più di 28.000 addetti, e cioè quasi quanti ne impiega l’industria chimica. Naturalmente si tratta di una attività frazionatissima (le unità locali sommano a 9013), ed abbastanza uniformemente distribuita, con qualche maggiore addensamento a Domodossola, Borgosesia, Borgomanero, Aosta, Cuneo, e cioè nei centri di raccolta del legname grezzo. Quanto alla fabbricazione dei mobili si nota un particolare infittirsi di esercizi nel Novarese, senza tuttavia che ne risulti una vera e propria specializzazione locale e tanto meno zonale. Tranciati e compensati si ottengono in alcune grossi stabilimenti prossimi a Torino.

    Questo panorama, tutt’altro che completo, dell’industria piemontese potrebbe terminare con qualche cenno a parecchie altre sottoclassi e categorie. Ne ricorderemo soltanto tre: quella delle lampadine elettriche, che vanta il grandioso stabilimento della « Philips » ad Alpignano ; quella della ceramica in terraglia dolce ad uso domestico, con fabbriche a Mondovì; e quella delle penne stilografiche, che dall’Abbadia di Stura (stabilimento « Aurora ») si stende a Settimo Torinese, che ne è il massimo centro. I nostri censimenti dell’industria e del commercio staccano dalle industrie manifatturiere le attività che riguardano le costruzioni e le installazioni di impianti, facendone un ramo a parte. Ramo assai importante, per il numero degli addetti (53.000), estremamente vario quanto alle categorie di professioni che comprende, ed ancora in espansione, nonostante i chiari sintomi di un rallentamento della domanda. Effettivamente la riparazione dei danni subiti dagli immobili della città durante la guerra, e il continuo afflusso di piccoli commercianti, di impiegati, di operai dalla campagna e dal Mezzogiorno, hanno dato un vistoso impulso all’attività edilizia nelle città, e particolarmente in Torino. Non per nulla nella provincia di Torino appare censito poco meno della metà degli addetti del ramo.

    L’industria del cioccolato ha uno dei suoi centri maggiori in Alba.

    L’accenno fatto nel corso di questo capitolo alla crescente concentrazione dimensionale e territoriale che caratterizza l’evoluzione dell’industria piemontese, e più ancora la presenza di un complesso industriale veramente gigantesco, che polarizza su di sè l’attenzione di tanti ceti di persone, non devono far dimenticare che, all’ombra del colosso e accanto ad organismi industriali veramente cospicui, vive tutta una miriade di piccoli esercizi, che, in realtà, conservano, anche sotto vesti moderne, le più spiccate caratteristiche dell’azienda artigianale. Si pensi, ad esempio, che nella stessa classe dell’industria meccanica, dove si riscontra la massima assoluta delle dimensioni, la media dei dipendenti per azienda si aggira sui 13: che nel ramo delle costruzioni e delle installazioni di impianti — comprendente insieme ai muratori, decoratori, fabbri, elettricistici, vetrai, falegnami, ecc. — la media degli addetti per esercizio non arriva a 9; che nella classe delle industrie del legno non è che di 3, e che in quella del vestiario abbigliamento e arredamento tale media scende a poco più di 2 addetti per esercizio. In sostanza, si può calcolare che un buon terzo della mano d’opera censita come industriale, in realtà, lavori in piccole ditte a carattere artigiano. Si profila così uno degli aspetti più tipici dell’industria piemontese, e cioè quello della coesistenza — e non di rado della collaborazione — di gruppi industriali aventi proporzioni grandiose, e di botteghe artigiane. Evidentemente l’eredità del passato continua ad esercitare una sua forte influenza sull’attività manifatturiera, soprattutto attraverso una domanda assai esigente in fatto di qualità. Non è qui il caso di passare in rassegna le svariatissime forme di produzioni, nelle quali continua ad affermarsi l’abilità manuale di tanti artigiani. Sarà sufficiente un accenno alle piccole case di moda, così frequenti e frequentate a Torino, e alla lavorazione delle argenterie e delle oreficerie, che hanno come centri principali rispettivamente Vercelli (una quindicina di ditte) e Valenza (un trecento esercizi).

    Come conseguenza del più volte accennato processo di concentrazione delle industrie, sono venute configurandosi entro il territorio piemontese delle zone, o meglio dei distretti, caratterizzati da un più o meno fitto addensarsi di attività industriali, che possono essere assai varie oppure specializzate. Così non viene difficile distinguere:

    1. un distretto ossolano, con industrie elettriche, siderurgiche (Domodossola, Villadossola) ; metallurgiche (Domodossola, Vogogna); meccaniche (Piedimulera, Pieve Vergonte); alimentari (Crodo, Bognanco); chimiche (Varzo, Pieve Vergonte);
    2. un distretto dei laghi (Maggiore e lago d’Orta), con industrie meccaniche (Verbania, Casale Corte Cerro, Omegna, Invorio, San Maurizio d’Opaglio); tessili (Verbania, Gravellona Toce, Omegna, Gozzano, Borgomanero, Castelletto Ticino); del legno (Verbania, Gravellona Toce, Valstrona, Quarna Sotto, Omegna, Gri-gnasco, Borgomanero); del marmo, granito, ecc. (Baveno, Mergozzo, Gravellona Toce); alimentari (Meina, Arona, Maggiora);
    3. un distretto novarese, con industrie meccaniche (Novara, Cameri, Galliate); tessili (Novara, Galliate, Trecate, Cesano); alimentari (Cressa, Ghemme, Varallo Pombia, Novara, Trecate, Galliate); dell’abbigliamento (Novara, Casalvolone, Trecate, Carpignano Sesia);
    4. un distretto vercellese, massimamente caratterizzato dall’industria risiera (Cigliano, Crescentino, Santhià, Trino Vercellese, Vercelli);
    5. un distretto biellese, con larghissima, quasi assoluta preminenza dell’industria tessile (Biella, Cossato, Ponzone, Pray, Trivero, Vallemosso, Borgosesia, Romagnano Sesia) ;
    6. un distretto valdostano, configurato soprattutto dalle industrie elettriche, estrattive (Cogne, La Thuile, Chàtillon), e metallurgiche (Aosta, Pont-Saint-Martin, Borgofranco) ;
    7. un distretto casalese, ugualmente caratterizzato dall’industria estrattiva (Casale, San Giorgio Monferrato, Ozzano Monferrato, Camino, Pontestura) e dalla produzione del cemento (Casale Monferrato);
    8. un distretto canavesano, tra la Stura di Lanzo e la Dora Baltea, con industrie estrattive (Brosso, Traversella, Balangero, Castellamonte) ; metallurgiche (Pont Canavese, Rivara, Fiano, Valperga, Rivarolo); meccaniche (Ivrea, Rivarolo, Ciriè, Settimo Torinese, Brandizzo); tessile (Ciriè, Chivasso, Cuorgnè, Noie, Mati, Caselle, Pont Canavese); cartarie (Caselle, Balangero, Mati, Germagnano); conciarie e dei pellami (Castellamonte, Chivasso, Favria, Caselle); edili (Rivarolo); chimiche (Settimo Torinese, Brandizzo);
    9. un distretto torinese strido sensu, con appendici nel Carmagnolese (industrie alimentari, meccaniche), nel Chierese (tessili) e nelle valli del Sangone (industrie tessili e cartarie con centri a Coazze e a Giaveno);
    10. un distretto valsusino, con industrie estrattive (Sant’Ambrogio, Chiusa San Michele) ; meccaniche (Condove, Susa, Bussoleno) ; tessili (Borgone, Susa, Sant’Antonino) ;
    11. un distretto pinerolese (vai Chisone, vai Germanasca e vai Pellice), con industrie estrattive (Porte di Malanaggio, Roreto Chisone, San Germano Chisone, Perosa Argentina, Perrero); tessili (San Germano Chisone, Luserna San Giovanni, Torre Pellice); meccaniche (Perosa Argentina); dolciarie (Pinerolo).

    Una fabbrica di argenteria ad Ivrea.

    Il fatto che, pur dovendosi riconoscere a città come Asti, Alba, Bra, Alessandria, Tortona, Fossano, Savigliano, Mondovi, un certo sviluppo industriale, riesca impossibile distinguere nelle province di Asti e di Alessandria e di Cuneo distretti come quelli sopra ricordati, è una ennesima riprova della frattura operatasi nella compagine produttiva del Piemonte in conseguenza della rivoluzione industriale. Ma sarebbe un errore credere che, anche là dove l’attività manifatturiera maggiormente addensa i suoi capannoni, le sue ciminiere, le sue case operaie, si ritrovi quel tipo di paesaggio grigio e squallido, che la grande industria ha creato in tante contrade dell’Europa nordoccidentale. Qui in Piemonte, la campagna non è mai, nè cancellata, nè soffocata dall’avanzare della civiltà industriale. Qualche chiazza di verde, qualche orizzonte aperto rimane sempre a dar respiro alle costruzioni delle fabbriche. E difficile immaginare un ambiente naturale spirante pace e serenità più di quello in cui pure si agita la febbrile attività del lanificio biellese. E in ogni caso lo sfondo onnipresente di nevose montagne e la ridente visione di colline morbidamente ondulate sotto un cielo brumoso solo per breve stagione dell’anno bastano a circondare fabbriche ed opifici di un’atmosfera ampia e riposante.

    Il commercio

    Privo di risorse tali da alimentare di per se stesse una viva richiesta e quindi un intenso movimento commerciale, il Piemonte deve tuttavia alla sua posizione geografica il fatto di essere stato e di essere tuttora attraversato da vivaci correnti di scambi. Naturalmente il volume e la composizione qualitativa di tali correnti sono cambiati con i tempi. Tracce di rapporti commerciali svolgentisi lungo le valli di Susa e di Aosta, per utilizzare i grandi valichi cui fanno capo, si hanno già in epoca preistorica. Tali rapporti dovettero intensificarsi quando le invasioni celtiche crearono una continuità di elemento etnico fra le due Gallie, la Transalpina e la Cisalpina, ma specialmente quando la conquista romana della Transalpina fece del Piemonte la principale porta di passaggio tra Roma ed Europa occidentale. E noto come sull’orma delle ferrate legioni romane movessero schiere di mercanti, e altri mercanti s’accompagnassero alle teorie di pellegrini, che in età barbarica e feudale presero a valicare i maggiori passi delle Alpi occidentali per raggiungere Roma e i Luoghi Santi di Palestina. Lo sfasciamento dell’impero Carolingio, la conseguente anarchia, le invasioni degli Ungheri e più ancora quelle dei Saraceni ebbero gravi ripercussioni sulle correnti commerciali che attraversavano il Piemonte e ne ridussero grandemente la portata.

    Un deciso cambiamento intervenne in età comunale (secoli XII e XIII), in quell’età cioè, che si può chiamare il periodo aureo del commercio di transito per il Piemonte. Buona parte, di fatto, degli scambi che si attivano allora tra gli empori dell’Oriente mediterraneo e le grandi fiere di Champagne si effettua attraversando le Alpi occidentali, ed a essi concorrono produttori, intermediari, finanzieri di Alba, di Chieri, di Asti, che diventano i dominatori di vasti mercati e ai cui lauti guadagni si aggiungono, in Piemonte, quelli derivanti dall’organizzazione dei trasporti, e il provento di numerosi pedaggi. Ma quando, verso la fine del secolo XIII i frequentatissimi empori delle Fiandre e della Champagne cominciarono a decadere, anche il commercio di transito per il Piemonte subì una graduale, progressiva anemia. Al rimpicciolimento del campo d’azione fu di qualche compenso la crescente importanza dei traffici con le zone più vicine dei paesi d’Oltralpe, legate al Piemonte da comunione di vincoli statali o soggette all’influenza sabauda. Questa, come conscia dei futuri sviluppi commerciali, volge addirittura le sue ambizioni su Genova e su Savona. Dal commercio, di fatto, lo Stato sabaudo può attendere la vita o la morte, perchè, se è vero che i generi alimentari possono in complesso bastare al paese, questo deve dipendere dall’estero per tutti, o quasi tutti, gli articoli manufatti meno grossolani. E per di più, come risulta a chiare note dalle relazioni degli ambasciatori veneti, il commercio di importazione e di esportazione è quasi tutto in mano di mercanti stranieri, genovesi in primissima linea, che comprano a Lione, Genova, Milano, Venezia, e « vendono la roba quanto loro piace ».

    Non molto diversamente andranno le cose sotto la dominazione napoleonica, che fa scontare i miglioramenti apportati alle comunicazioni transalpine e i relativi vantaggi del blocco antibritannico, monopolizzando in un senso unico ed a proprio esclusivo beneficio il movimento delle merci attraverso il Piemonte. L’unificazione dell’Italia non avrebbe dovuto soltanto significare per il Piemonte — pensavano i propugnatori subalpini del Risorgimento — un considerevole incremento dei rapporti commerciali con le altre parti della Penisola, ma anche un aumento dell’importanza della regione nel gioco degli scambi internazionali. E come sappiamo dall’eloquenza delle opere — si pensi, per esempio, all’arditissimo traforo del Fréjus — a questo effettivamente miravano. In realtà, dal 1850 al 1858, gli scambi commerciali del Piemonte con gli Stati esteri andarono intensificandosi, e il valore, tanto delle esportazioni quanto delle importazioni, si duplicò. Si sa pure che nel 1858 sopra 321 milioni di lire — valore delle importazioni nell’antico regno di Sardegna — 29 provenivano dai Ducati e dalla Toscana, 5 dagli Stati romani e 10.5 dalle Due Sicilie: e che sopra i 236 dell’esportazione, 8 milioni erano destinati ai Ducati, poco meno di 3 milioni agli Stati romani, e 2,5 alle Due Sicilie.

    La sommità del valico del Pino frequentato dai commercianti nel Medioevo.

    Seguendo la politica commerciale dello Stato sardo, il nuovo Regno perfezionò accordi commerciali atti a stimolare i traffici con la Francia, che continuò a mantenere, fin verso il 1889, il primissimo posto fra i principali acquirenti di merci italiane. Il fatto che le sete gregge e i vini fossero i prodotti maggiormente esportati in Francia mostra come di tali accordi notevole beneficio toccasse al Piemonte. E spiega anche come l’aspra rottura dei rapporti commerciali tra Francia ed Italia avvenuta nel 1888, e il conseguente passaggio alla Germania della supremazia nel valore degli scambi, abbiano gravemente intaccato l’importanza commerciale del Piemonte e di Torino, a vantaggio principalmente della vicina Lombardia e di Milano.

    Il declino del ruolo del Piemonte nel complesso delle relazioni commerciali tra l’Italia e gli altri Stati fu solo parzialmente controbilanciato dallo sviluppo di una produzione industriale rivolta anche all’esportazione. Effettivamente in Piemonte il movimento dei traffici non ha avuto nè la vivacità, nè l’incremento di volume che hanno invece caratterizzato l’evoluzione dell’attività industriale. Con ciò non si può dire che l’attrezzatura organizzativa del Piemonte, in campo commerciale, sia scadente. Disponiamoci pazientemente a vedere qualche cifra. Il numero degli addetti al commercio e servizi vari, che nel 1936 rappresentava il 18,2% del totale della popolazione attiva, è salito nel 1951 al 20,8%, percentuale tuttavia inferiore a quella nazionale, che è del 22,7%. I 159.000 addetti al commercio censiti per il Piemonte nel 1951 costituiscono il 10% del complesso degli addetti della categoria in tutta Italia. Il rapporto è quasi uguale a quello del Lazio ed è preceduto da quello della Lombardia. In questo campo, tra le province, viene prima Torino con 60.000 addetti, seguita da Cuneo (25.000 addetti), poi da Alessandria, Novara, Vercelli, Asti e dalla Valle d’Aosta.

    Per gli esercizi commerciali all’ingrosso, il Piemonte segue a breve distanza la Lombardia e supera di parecchio le altre regioni: chiaro riflesso dell’importanza della sua produzione industriale. Degno di nota, però, che il numero degli esercizi della provincia di Cuneo rappresenti più della metà di quelli della provincia di Torino. Il distacco fra le province è maggiore per ciò che riguarda i negozi di generi alimentari. Anche qui il Piemonte è al secondo posto con 30.500 esercizi, dopo la Lombardia. Quanto ai negozi di prodotti tessili, vestiario, abbigliamento sarà una sorpresa il constatare che, fatto il posto di punta alla Lombardia, il secondo spetta non al Piemonte, ma alla Sicilia, e che il Piemonte è appena superiore alla Campania e alla Toscana. Le posizioni si ristabiliscono passando alla categoria dei negozi di prodotti meccanici ed affini, dove, per altro, non si notano grandi disparità tra regione e regione. Quanto al commercio ambulante, è interessante notare come per numero di esercizi la provincia di Torino sorpassi quella di Napoli. In fatto di esercizi pubblici — ristoranti, trattorie, bar, caffè, sale da gioco e da ballo, rimesse e noleggi, rivendite di tabacchi e generi di monopolio — il non trovare il Piemonte nelle primissime posizioni sembra testimoniare della laboriosità, delle attitudini casalinghe, della tendenza al risparmio proprie dei suoi abitanti.

    La mancanza di organi di controllo e di apposite rilevazioni statistiche rende difficile il concretare in cifre le correnti e la portata del commercio interno tra la regione piemontese ed il resto del paese. I prodotti di cui il Piemonte maggiormente si rifornisce presso altre regioni sono: frutta e verdura, paste alimentari, formaggio, zucchero, olio, pesce, sale, carne, vale a dire in prevalenza quei generi alimentari non consentitigli dalla sua continentalità e dalle sue condizioni climatiche. Per contro esporta riso, canapa, ciliege, nocciole, vini pregiati, vermouth, cioccolato, caramelle, manufatti (come filati e tessuti di cotone, di seta, di lana, di rayon, di nylon, maglierie, calze), macchine: motori, autovetture, autocarri, ecc.; pneumatici, lavori in gomma, prodotti chimici, azotati e farmaceutici, materie plastiche, metalli e lavori in metallo.

    Un tipico mercato del bestiame (Fossano).

    Al mercato in un centro rurale del Piemonte.

    In campo nazionale Torino è piazza importante come mercato di cereali, di prodotti alimentari in genere, della seta. Una discreta parte del commercio piemontese è rappresentato dalle merci che affluiscono ai mercati generali della città capoluogo. Nel 1957 si sono qui esitati 320.859 quintali di frutta fresca, provenienti per una metà dal Piemonte e per l’altra metà dalla Liguria, dall’Emilia, dalla Campania, dalla Puglia: 1.417.387 quintali di ortaggi e patate, importati per due terzi dalle stesse regioni ora ricordate; 13.251 quintali di frutta secca di provenienza ligure e meridionale; 478.457 quintali di agrumi, provenienti dall’Italia meridionale; 3.407.000 kg. di pesce, per due terzi di provenienza nazionale.

    Fiere e mercati continuano ad essere, sebbene meno vistosamente di un tempo, gangli importanti nella rete delle relazioni commerciali, regionali, interregionali e anche nazionali. Vi sono dei mercati specializzati ed altri, naturalmente più grandi, di carattere eterogeneo. Chivasso, Moncalieri, Carignano, Alba, Carrù, Cuneo, si sono particolarmente affermati come mercati del bestiame. Vercelli e Novara sono grandi mercati risicoli. Asti, Alba, Nizza Monferrato, Canelli, Dogliani, contrattano specialmente uve e vini. Alba deve una sua particolare notorietà alla « fiera del tartufo », mentre Cuneo e Garessio mettono specialmente in mostra castagne e funghi. Tra i mercati della frutta e della verdura possiamo ricordare Chivasso, cui affluiscono soprattutto cipolle, carote, cavoli, patate, piselli, fagioli freschi, bietole da costa, pomodori, pere e mele; Carmagnola, che dalle sue campagne riceve soprattutto peperoni, cardi, cavoli, agli, pere e mele; Chieri, che va famosa per i cardi; Cambiano e Santena di cui si celebrano gli asparagi; Canale che è nota per le pesche; Bagnolo e Barge per le pere… e l’elenco potrebbe continuare.

    Passando ora al commercio con l’estero è da notarsi che le importazioni più massicce riguardano materie prime di uso industriale: cotone, lana, cellulosa, juta, lino, pellami, materiali ferrosi e non ferrosi, combustibili liquidi e solidi, carburanti, grassi e olii lubrificanti, macchine utensili; poi gomma, prodotti chimici, profumi, carta e cartone, legname da opera. Tra i generi alimentari prevalgono le carni macellate e refrigerate, il pesce fresco e conservato, il pollame, le uova, il burro. Dal Piemonte si esportano soprattutto autoveicoli, aerei, motocicli, automotrici.

    Un invito a sostare: le fragole di San Mauro hanno larga e meritata rinomanza.

    Seguono, per l’importanza del valore, i metalli, i tessuti, i filati, i manufatti di lana, cotone, seta, rayon; vengono poi i vini, i vermouth, i liquori; i cuscinetti a sfere; i pneumatici e lavori in gomma, prodotti chimici e farmaceutici, talco, grafite; dolciumi, frutta e verdura per cifre minori. Quanto alla destinazione delle merci i non molti dati di cui disponiamo riguardano essenzialmente la provincia di Torino, le cui esportazioni si dirigono per il 50% verso l’area dell’OECE, per il 25% circa verso l’area del dollaro, sia nominale che reale, per il 17% verso l’area della sterlina, e per il 4% verso i paesi dell’Estremo Oriente.

    Nell’ambito internazionale Torino risente ancora della fama meritata con le magnifiche esposizioni del 1884, del 1898 e del 1911. Attualmente la sua rinomanza in campo commerciale è affidata soprattutto al Salone Internazionale dell’Automobile, manifestazione caratterizzata, oltre che dalla partecipazione di parecchi paesi stranieri (499 espositori nel 1958), dalla larga affluenza di visitatori, e dalla notevole cifra di affari (diverse decine di miliardi nel 1958). Il Salone dell’Automobile conferma a Torino il titolo di « capitale dell’automobile ». Ma Torino aspira pure a conservare il titolo di « capitale della moda », ed ha nel Salone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento (S.A.M.I.A.) un efficace strumento di propaganda e di affermazione commerciale della sua produzione e del suo gusto in quel campo. Altra manifestazione di vasto raggio e di attivo richiamo è il Salone Internazionale della Tecnica, cui si accompagnano, nella ridente cornice del Valentino, altre manifestazioni internazionali ormai celebri, come le Giornate Mediche.

    Seducente sfilata di modelli al « S.A.M.I.A. ».

    Eleganza di strutture architettoniche e di macchine al Salone dell’Automobile di Torino.

    Le necessità finanziarie del commercio possono far capo a una buona rete di esercizi di credito e di assicurazione. Qui il Piemonte, con i suoi 2310 esercizi, pur venendo dopo la Lombardia, supera sensibilmente le altre regioni d’Italia: come le supera, tolti la Lombardia e il Lazio, per i depositi e gli impieghi delle aziende di credito. Ma per la conoscenza, sia pure sintetica, del traffico mercantile è più significativo il gettito della imposta generale sulla entrata, che come è noto, grava in massima parte sugli scambi commerciali. Ora tale gettito, che è stato di 3434 milioni di lire nel 1957-58, vede il Piemonte, dopo la Lombardia, distaccare pure sensibilmente il resto d’Italia.

    Con tutto ciò, è bene ripeterlo, l’importanza commerciale del Piemonte non è quella che ci si attenderebbe, dati specialmente gli sviluppi delle sue industrie. Di questa relativa arretratezza s’incolpa generalmente l’isolamento in cui il Piemonte

    si troverebbe rispetto alle più frequentate arterie del commercio italiano con l’Europa e con il mondo. Con l’instaurazione della Comunità Economica Europea, le relazioni commerciali tra Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio e Olanda dovrebbero incrementarsi con vantaggio dell’economia piemontese. Ma a questo fine, e in ogni caso a favorire un rinvigorimento degli scambi, dovrebbe provvedersi attraverso un migliore assetto delle vie di comunicazione, massime ferroviarie.

    Trasporti e comunicazioni

    Dell’importanza che hanno avuto in passato le comunicazioni attraverso il Piemonte ci siamo già resi conto, rilevando la caratteristica funzione di nodo stradale della maggior parte delle città piemontesi fiorite in epoca romana, e poi ricordando specialmente le vie del commercio medioevale, che, superando i valichi delle Alpi occidentali, legavano i porti delle nostre repubbliche marinare alle fiere delle Fiandre e della Champagne. Anche oggi, pur essendo profondamente cambiate le condizioni tecniche dei trasporti, il problema delle comunicazioni è per il Piemonte problema vitale. Basterebbe a dimostrarlo, per fermarsi in superficie, la profluvie degli scritti e delle polemiche, che continuano ad agitare vecchie e nuove questioni stradali, ferroviarie, aeree, soprattutto sotto lo stimolo del confronto con la situazione, in questi campi, della vicina Lombardia e di Milano. Ma lasciamo che al di sopra delle recriminazioni e dei contrasti parli la geografia. Uno sguardo alla carta mostra che effettivamente alla piena valorizzazione della posizione geografica del Piemonte, la natura oppone alcuni ostacoli, che se proprio non impediscono, certo rallentano il corso delle comunicazioni.

    Intanto, durante otto mesi dell’anno, il Piemonte è quasi tagliato fuori dal resto dell’Europa, perchè le Alpi nevose sbarrano i valichi, e li rendono pericolosi a causa della loro altitudine. L’unica feritoia aperta rimane la vecchia ferrovia del Fréjus, mentre l’altro grande traforo in territorio piemontese, e cioè il Sempione, serve a mettere in rapporto con Berna e con Parigi assai più comodamente Milano che non Torino. Un altro ostacolo è presentato dalle colline che sorgono nel cuore del Piemonte, e che impediscono il formarsi di un unico, regolare sistema di vie a raggiera, dipartentesi da un solo punto veramente centrale. Se è vero che la barriera delle Langhe ha impedito che la Liguria estendesse le sue influenze sulla media valle del Tanaro, permettendo quindi che l’Astigiano venisse attratto verso Torino, è anche vero che quelle colline hanno reso difficili le comunicazioni fra Torino e i porti di Genova e di Savona. E questo, mentre il grande corridoio del Tanaro costituisce esso pure un fattore di minor coesione piemontese, aprendo al Piemonte meridionale un’agevole via di raccordo con la pianura alessandrina, e di qui con Pavia e con Milano.

    Il viadotto di Cuneo ricostruito dopo la guerra.

    Le conseguenze della presenza di un vasto blocco di colline nel bel mezzo del Piemonte sull’andamento delle vie di comunicazione appaiono evidenti a chi osservi, anche superficialmente, lo schema del sistema ferroviario piemontese, e lo paragoni con quello lombardo. Mentre la Lombardia non ha che un unico centro ferroviario veramente importante, quello di Milano, il Piemonte ne ha tre: Torino, Alessandria e Novara, ai vertici dell’area triangolare che abbraccia la collina di Torino e il Monferrato. Questa vasta area interna rimane quasi priva di ferrovie. La linea Torino-Asti-Alessandria-Genova non porta ad Asti per la via più diretta, che attraverserebbe la collina di Torino, ma girando intorno allo sperone di Moncalieri. Da Milano, si snodano, egualmente distribuite ai quattro punti cardinali, 15 linee principali, e i centri ferroviari che fanno corona a Milano sono importanti, non per le loro diramazioni, ma per il fatto di essere luoghi di passaggio di linee a grande traffico. Da Torino, che non è, come Milano, nel bel mezzo della pianura, ma eccentrica rispetto ad essa, si staccano verso ovest due sole linee ferroviarie: una attraversa le Alpi, l’altra muore al loro piede. Le principali linee piemontesi si svolgono tutte tra nordovest e sudest. Alessandria e Novara, già ricordate, ma anche Chi-vasso ed Asti, sono tutte stazioni di passaggio per linee provenienti da Torino, ma per lo più indipendenti, in quanto da esse hanno inizio parecchie linee secondarie.

    Scarsa è, da parte piemontese, la penetrazione della ferrovia nell’arco montano. E la cosa si giustifica con la brevità e con la modesta importanza delle valli puramente trasversali. Sono percorse da ferrovia soltanto la vai d’Ossola (fino ad Iselle, per il Sempione), la Valsesia (fino a Varallo Sesia), la vai d’Aosta (fino a Prè-Saint-Didier),

    la valle di Susa (fino a Bardonecchia), la vai Vermenagna (da Cuneo a Limone) e la valle del Tanaro (da Ceva a Garessio ed Ormea). Di queste sono a doppio binario ed elettrificate le linee che risalgono la vai d’Ossola e la valle di Susa. Altre ferrovie e tramvie di minor importanza portano all’imbocco di altre valli.

    Quanto al resto del sistema ferroviario piemontese, esso risulta, grosso modo, da un intersecarsi di tronchi aventi prevalente direzione ovest-est., con altri diretti, anche qui grosso modo, da nord a sud. Congiungendo i primi tronchi si possono ottenere le tratte: Torino-Novara, Torino-Asti-Alessandria, Torino-Torre Pellice, Moretta-Bra-Alessandria, Borgo San Dalmazzo-Cuneo-Mondovì-Bastia. Congiungendo i tronchi nord-sud si formano le tratte: Airasca-Moretta-Saluzzo-Busca-Cuneo-Tenda-Ventimiglia, Trofarello-Carmagnola-Savigliano-Fossano-Ceva-Savona, Carmagnola-Bra-Ceva, Asti-Nizza-Acqui-Ovada-Genova, Iselle-Arona-Novara-Mor-tara-Alessandria-Novi Ligure-Genova. Sono a doppio binario ed elettrificate le linee Iselle-Arona, Torino-Asti-Alessandria-Genova; a doppio binario sono pure altri piccoli tratti. Sta per essere elettrificata la Torino-Milano.

    L’imbocco della galleria del Fréjus sul versante italiano.

    Se si guarda al numero delle linee, che sono 35 per il compartimento di Torino, alla loro lunghezza complessiva, che è di 1959 km., alla densità della rete stessa, minima nella regione alpina, massima in quella di pianura, con una media di 6,9 km. di linea ogni 100 kmq., e al rapporto con la popolazione che dà 5,2 km. di linea ogni 10.000 ab., appare innegabile che, per dotazione ferroviaria, il Piemonte ha tra le regioni d’Italia una posizione preminente. E si direbbe che lo sia anche per numero di km./treno giornalieri e per numero di viaggiatori e di merci trasportati pure giornalmente per chilometro. Eppure non una delle linee principali delle Ferrovie dello Stato, con bilancio attivo, entra per intero in territorio piemontese. E su 35 linee del compartimento di Torino, ben 23 figurano tra le linee ferroviarie dello Stato a scarso traffico, e 4 tra quelle a scarsissimo traffico.

    Che questa relativamente limitata utilizzazione del mezzo ferroviario sia da mettersi in relazione con il rapido, quasi travolgente sviluppo dei trasporti automobilistici, sembra indubbio. Si prescinda pure dagli inconvenienti connessi al fatto che la rete elettrificata piemontese è mantenuta a corrente alternata trifase, mentre il resto della rete nazionale funziona a corrente continua. E certo comunque, che sulle linee minori, la poca frequenza dei treni, la loro lentezza e l’usura, e l’arretratezza del materiale costituiscono un incentivo ad abbandonare, non appena si possa, la rotaia per la strada.

    Tanto più che allo sviluppo e al perfezionamento delle comunicazioni stradali si tende con sempre crescente applicazione di capitali e di nuove tecniche. Il Piemonte, dispone oggi di 1633 km. di strade statali, di 4434 km. di strade provinciali, di 16.383 km. di strade comunali. A somiglianza delle altre regioni dell’Italia settentrionale, il Piemonte ha un numero di chilometri di strade statali, rapportato alla superficie del territorio regionale, sensibilmente inferiore a quello proprio delle regioni dell’Italia meridionale. Ugual cosa si verifica per il rapporto tra lunghezza delle strade statali e numero d’abitanti. Il contrario avviene, invece, per le strade provinciali e comunali, proporzionalmente assai più estese da noi che non nel Mezzogiorno. Naturalmente la fittezza della rete stradale apparirebbe ben diversa nella regione di montagna e in quella di pianura.

    È altrettanto naturale che il tracciato delle strade di grande circolazione segua da vicino quello delle ferrovie più importanti, mentre l’uno e l’altro si modellano, in sostanza, sulla rete delle antiche arterie romane. Così, anche oggi le strade di più attivo traffico sono, in montagna, quelle della valle d’Aosta e della valle di Susa, e in pianura, la Torino-Vercelli-Milano e la Torino-Alessandria-Piacenza. Ma mentre i più urgenti desiderati ferroviari, come il ripristino della Cuneo-Breil-Nizza e il doppio binario sulla Fossano-Ceva, sembrano destinati a rimanere tali ancora per lungo tempo, in campo stradale, insieme a un superbo fiorire di progetti, si deve registrare, come si diceva, qualche notevole realizzazione. Preme soprattutto di assicurare più rapide ed agevoli comunicazioni con la valle d’Aosta e con Savona. Quanto alla valle d’Aosta, molto colà si attende dagli iniziati trafori stradali del Monte Bianco e del Gran San Bernardo, che dovrebbero inserire la valle stessa, e quindi il Piemonte, nel fascio delle grandi comunicazioni meridiane tra Europa centro-occidentale e l’Italia, venendo così a rompere, o almeno ad attenuare, l’attuale isolamento del Piemonte stesso. L’autostrada Torino-Ivrea, di cui stanno ultimandosi i lavori, va concepita appunto in funzione di un più celere rattacco della capitale regionale all’accresciuto movimento nazionale lungo il corridoio della valle d’Aosta.

    Le vie di comunicazione del Piemonte.

    Si lavora poco sopra Entrèves a forare il Monte Bianco.

    Quanto alle comunicazioni con Savona — il cosiddetto « porto di Torino » — lascia ben sperare l’entrata in esercizio dell’autostrada Ceva-Savona, che viene in qualche modo a compensare l’allontanamento dal Piemonte della prosecuzione padana della camionale Genova-Serravalle Scrivia. E già si prevede come di più comodo allacciamento con l’Autostrada del Sole, un’arteria autostradale Torino-Piacenza, che segua sostanzialmente da vicino le già esistenti comunicazioni sulla direzione Torino-Asti-Alessandria.

    Con tutto ciò, e nonostante vari perfezionamenti, come l’allargamento dell’autostrada Torino-Milano, la rete stradale del Piemonte stenta ad adeguarsi al traffico che si riversa sulle sue arterie. In montagna, la ripidità e le caratteristiche morfologiche del nostro versante impediscono la creazione di strade longitudinali, raccordanti fra di loro le testate delle valli — come avviene invece sul versante francese — sicché il movimento degli autoveicoli non ha altra scelta che il ritorno per la via d’andata. Anche la vasta superficie, presa dalle colline del Monferrato, dell’Astigiano e delle Langhe, limita la varietà e lo smistamento dei percorsi, preferendosi quasi sempre allungare quei di pianura, anziché addentrarsi nell’intrico delle colline, con gli inconvenienti delle continue salite e discese, delle più frequenti curve e della relativa scarsezza dei centri di rifornimento.

    Ma il crescente ingorgo delle strade di grande comunicazione è dovuto soprattutto, oltre che alla loro modesta larghezza, al fatto che il Piemonte è la regione d’Italia avente la maggior densità di autoveicoli. Con 15,7 ab. per automezzo circolante, il Piemonte precede il Lazio che ne ha 18,0, la Lombardia con 19,1, l’Emilia-Romagna con 21,9, e tutte le altre regioni. In Torino città si contano 17,7 ab. per autoveicolo, mentre a Milano se ne hanno 19,5, e a Roma 18,2. Evidentemente questo primato piemontese e torinese si ricollega non solo all’alto tenore di vita, ma anche all’effetto psicologico esercitato dalla vasta produzione locale di automezzi, e alle particolari condizioni di favore a cui l’industria li cede ai suoi dipendenti. In questi ultimi anni si sono avute, in media, 25-30.000 immatricolazioni annue di autoveicoli « nuovi », e naturalmente è cresciuto in proporzione il rapporto tra autoveicoli e chilometri di strade, mettendo in sempre maggiore evidenza il bisogno di adeguare la rete stradale alle esigenze del traffico. Dell’aumento di questo possiamo prendere come indice il raddoppio — avvenuto dal 1948 al 1955 — dei veicoli transitanti annualmente e del numero dei passaggi giornalieri sull’autostrada Torino-Milano.

    Contemporaneamente, quasi tutte le tramvie extraurbane sono state sostituite con linee automobilistiche, non solo, ma i servizi d’auto si sono capillarmente diffusi fino a raggiungere i centri più lontani della regione, attivando la mobilità dei suoi abitanti e concorrendo non poco a determinare e ad esulcerare i movimenti migratori, cui abbiamo in precedenza accennato. E bisognerebbe ancora trattenersi sulle trasformazioni che molti punti del paesaggio piemontese hanno subito per effetto dello sviluppo delle strade e della circolazione automobilistica, dal moltiplicarsi delle officine di riparazione e dei distributori isolati di benzina e di olio, alle stazioni per linee automobilistiche e alla creazione di piccoli agglomerati « di strada », con servizi di parrucchiere, di ristorante, di alimentari, di generi di monopolio, ecc.

    Per le comunicazioni aeree nazionali ed internazionali, il Piemonte dispone di un solo aeroporto: quello della città di Torino, sito a Caselle. Alla vicinanza delle montagne e delle colline, che costituisce una limitazione al libero orizzonte per gli aeromobili, si contrappone il vantaggio, rarissimo in vai Padana, di un campo quasi sempre sgombero da nebbie. E un campo, per giunta, ottimamente attrezzato, specie per i movimenti notturni. Una linea giornaliera collega Torino a Roma; linee stagionali portano da Torino a Parigi e Londra, a Milano e ad altre località. Il traffico, sia dei passeggieri, sia della posta e delle merci, è andato costantemente aumentando. Nel 1958 si è avuto un movimento tra arrivi e partenze di 1427 aerei e di 21.901 passeggieri. Un discreto contributo a questo movimento è dato dal dirottamento di aeromobili, che d’inverno, soprattutto, non possono, per avverse condizioni atmosferiche, massime per la nebbia, atterrare in altri campi.

    Un tratto della nuovissima ardita autostrada Ceva-Savona.

    Nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione si sono aggiunti recentemente in montagna a quelli tradizionali: le funivie e le seggiovie. E un altro campo in cui il Piemonte figura all’avanguardia, perchè conta da solo un terzo degli impianti del genere in tutta Italia: 17 funivie su 45, e 32 seggiovie su 124. Un’attrezzatura di carattere eminentemente sportivo e turistico, che permette alla massa quel contatto diretto con la montagna, prima riservato ad una ristretta cerchia di persone. È molto difficile farsi anche un’idea in termini finanziari e sociali dell’importanza che i trasporti e le comunicazioni hanno assunto nell’economia piemontese. Sappiamo, è vero, dal censimento del 1951, che il numero degli addetti ai trasporti e alle comunicazioni in Piemonte rappresenta soltanto il 2,8% della popolazione attiva della regione, e che tale numero è superato dal contingente della stessa categoria in regioni come la Liguria, il Lazio, la Campania. Come sappiamo che per numero di esercizi il Piemonte sta indietro, oltreché alla Lombardia, all’Emilia-Romagna e alla Sicilia. Ma tale situazione quasi certamente non riflette la reale portata dei trasporti e delle comunicazioni nella scala dei valori economici della regione.

    L’aeroporto di Caselle (Torino), ora in via di ampliamento e di ammodernamento.

    Il turismo

    Non meno difficile è calcolare quale contributo derivi all’economia del Piemonte dal movimento turistico. Generalmente gli stessi Piemontesi, tratti dal loro carattere a non valutare adeguatamente risorse e capacità di casa propria, riguardano la loro regione come scarsa di attrattive per il turista medio. E ciò facendo, attribuiscono tali inferiorità alla mancanza di quei grandi centri d’arte, che attirano folle di visitatori in altre regioni d’Italia. Ma non pensano abbastanza al complesso del movimento che si crea intorno ai centri di frontiera, lungo l’arco alpino, alle stazioni climatiche e sportive, frequenti in montagna, alle città alberghiere del lago Maggiore. Sta di fatto, che ove si tenga solo conto dei forestieri, italiani e stranieri, ospitati negli alberghi, nelle pensioni, nelle locande durante il 1958, appare che il Piemonte, con i suoi 1.196.092 clienti, può benissimo allinearsi per questo riguardo con le regioni più turistiche, diciamo così, d’Italia.

    Il distacco, invece, si nota quando si abbia riguardo al numero delle presenze. Il ritiro del Piemonte dai primi posti nella relativa graduatoria si spiega col fatto che le presenze degli stranieri negli alberghi piemontesi non rappresentano che una assai modesta aliquota, rispetto al totale delle presenze. Si calcola che il rapporto tra le presenze di stranieri e quelle di Italiani, sia di 1 a 5. Eppure gli stranieri entrano in folte masse nella nostra regione. Quasi un terzo degli stranieri entrati nel 1958 in Italia per via stradale è passato per gli undici transiti che dalla Francia e dalla Svizzera immettono in territorio piemontese. E in territorio piemontese è entrato pure un terzo degli stranieri giunti in Italia per ferrovia. Si aggiunga, che anche a prescindere dall’apertura dei nuovi trafori valdostani, tale rapporto è destinato ad aumentare perchè, da qualche anno a questa parte, il movimento degli ingressi per strada ha superato quello degli ingressi per ferrovia. Nel 1958, per via ordinaria, sono entrati in Italia, attraverso il Piemonte, 1.609.821 stranieri: per ferrovia solo 827.491. S’è eletto or ora «attraverso il Piemonte»; in realtà la grande maggioranza degli stranieri che entrano in Piemonte, vi transitano soltanto, non vi si fermano. Ciò non significa che tale passaggio sia assolutamente infruttuoso per il commercio locale. Soprattutto gli stranieri in uscita hanno convenienza a fare gli ultimi acquisti a Torino o a Cuneo.

    Come è facilmente comprensibile, nel movimento degli stranieri figurano in primo piano i Francesi: seguono a distanza i Tedeschi, gli Inglesi, gli Svizzeri, i Nordamericani, i Belgi, gli Olandesi, gli Svedesi. In complesso, l’attrezzatura turistica piemontese è adeguata ai bisogni cui deve soddisfare. Anzi, quanto a numero di alberghi, di pensioni e di locande, il Piemonte è eli poco inferiore alla Lombardia, e supera tutte le altre regioni d’Italia. Ma in Piemonte gli esercizi alberghieri hanno una grandezza media, minore di quella del resto d’Italia. Il 77% di essi, è costituito, di fatto, da esercizi non superiori alle 10 camere. Particolarmente poco numerosi sono gli alberghi di lusso e di prima categoria, mentre sono ben più frequenti gli esercizi inferiori di modeste dimensioni. Un gran numero di questi minori esercizi è dato dagli alberghetti e dalle pensioncine di montagna, dove affluiscono d’estate impiegati ed operai in ferie con le loro famiglie, d’autunno i cacciatori, e d’inverno le comitive di sciatori : una clientela, insomma, che non ricerca sicuramente gli alberghi di lusso. Sono abbastanza numerosi, rispetto ad altre regioni, gli uomini d’affari e le persone in viaggio per motivi professionali. Sul totale però non rappresentano che una aliquota assai modesta. Vi è infine la classe degli immigrati singoli, generalmente meridionali, che vivono in locande o pensioni. Il fatto che questi immigrati senza famiglia sostano a lungo in locande o in pensioni può forse spiegare la maggior durata delle presenze medie in questi modesti esercizi, rispetto alle presenze medie negli alberghi e nelle pensioni di categorie superiori.

    Una delle seggiovie che alimentano il turismo nella montagna piemontese (Bardo-necchia).

    La ricettività alberghiera, per numero e per qualità di esercizi, varia di molto, da zona a zona, a seconda dell’intensità e del genere dell’attrattiva turistica. Così, per esempio, vi sono intere province, come quelle di Asti e di Vercelli, che dalle statistiche non risultano avere avuto nel 1958 clienti in alberghi di lusso, o di prima categoria. Per contro, la provincia di Torino ha ospitato in alberghi di lusso, o di prima categoria, un numero di clienti superiore a quello accolto in alberghi di seconda categoria e in pensioni di prima categoria. Praticamente, il grosso degli Italiani e degli stranieri, che scende ad alberghi e pensioni di classe superiore, si divide fra Torino, i centri sciistici della sua provincia, la sponda piemontese del lago Maggiore e la valle d’Aosta.

    La funivia che attraversa la catena del Bianco, nel tratto Courmayeur-Rifugio Torino.

    In Torino e provincia, dove alla fine del 1958, si contavano 301 alberghi, si è avuto nello stesso anno un afflusso di 495.359 turisti italiani e 137.777 esteri, che si trattennero per un complesso di 1.964.844 giornate di presenza. Sempre nel 1958, tra Baveno, Stresa e Pallanza, si sono divisi 32.049 turisti italiani, e 85.472 turisti stranieri, per un insieme di 334.142 giornate di presenza, delle quali quasi 144.000 nella sola Stresa. Quanto alla valle d’Aosta, che pure nel 1958 ha totalizzato più di 120.000 turisti, per un quarto stranieri, è da ricordarsi la presenza di località, come Courmayeur, in cui le giornate di presenza superano quelle di alcune tra le più rinomate stazioni turistiche del Trentino e dell’Alto Adige. Minore di quello delle Alpi trentine, il movimento di ospiti delle Alpi piemontesi è tuttavia il triplo del movimento segnato dalle Alpi lombarde.

    Stando ai quasi 4 milioni e mezzo di presenze, risultanti per il Piemonte dalle statistiche ufficiali per il 1958, e calcolando una spesa minima di 3000 lire al giorno tra vitto e alloggio per ciascun turista, se ne dedurrebbe che le entrate per il turismo, nei luoghi di soggiorno e cura del Piemonte, siano ammontate nel 1958 a più di tredici miliardi. Ma la cifra si può dire senz’altro inferiore al vero, sia perchè non tiene conto dei molti ospiti alloggiati in case private, sia perchè, soprattutto nei centri vicini alla frontiera, sono assai numerosi gli escursionisti, che pur non sostando neppure una giornata, fanno ugualmente qualche spesa. Altro e più arduo discorso, sarebbe quello relativo alla ripartizione di tali benefici per località e per categorie di addetti. Ricorderemo soltanto che a Torino, delle entrate del turismo locale vivono circa 13.000 persone nel solo campo alberghiero. Quanto ai motivi di richiamo che alimentano il turismo in Piemonte non se ne fa qui esplicita menzione, nella speranza ch’essi risaltino abbastanza chiaramente dai cenni descrittivi che seguiranno.

    Vedi Anche:  Evoluzione della crescita demografica