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Dialetti ed usi e costumi tradizionali

    I dialetti e la loro origine aspetti e figure della vita regionale

    Popoli e lingue

    Sulla base dei reperti archeologici, si notano, in epoca preistorica, correnti culturali ed etniche che muovono dalla pianura padana e giungono, attraverso il Trentino, in varie aree della regione bolzanina. La facies archeologica regionale, fin dal periodo neolitico, presenta stretti collegamenti con la pianura e con l’Italia nordoccidentale, ma taluni caratteri sono ivi ritardati. Ad esempio, le statue antropomorfe (Lagundo, Termeno, Santa Vérena) nella regione altoatesina sono un indizio di « staticità culturale » e non risalgono ad un periodo preistorico molto remoto ; esse offrono chiari contatti con le statue monolitiche della Valtellina e della Valcamònica e più ad occidente con analoghe manifestazioni delle aree liguri ed iberiche. Lo strato più antico delle popolazioni atesine, identificabile sulla scorta delle testimonianze storiche e linguistiche, è di tipo preindoeuropeo e può essere qualificato convenzionalmente con l’etichetta ligure-reto-euganeo; tale fondo è rimasto spesso vitale fino all’epoca della romanizzazione ed ha lasciato tracce profonde soprattutto nella toponomastica antica del Trentino e ancor di più nella provincia di Bolzano.

    Un problema tuttora complesso, che ha avuto varie soluzioni, è offerto dalla definizione etnica e linguistica di retico, concetto non sempre chiaro anche per gli autori antichi; qui ha un peso determinante la valutazione delle numerose iscrizioni prelatine in alfabeto etrusco settentrionale che hanno per epicentro la nostra regione; esse ci trasmettono una lingua di tipo etruscoide con sovrapposizione di elementi indoeuropei.

    Alcuni studiosi sono infatti inclini a considerare tali epigrafi, non tanto come una testimonianza linguistica delle popolazioni retiche, quanto come una documentazione dell’immigrazione etnisca — di Etruschi spinti al nord dalla pressione dei Galli — nell’area prealpina ed alpina dei Reti.

    Resta sempre ben ferma — secondo la massima parte dei linguisti — l’affinità esteriore tra etrusco e retico, della quale abbiamo un’eco, ad esempio, nel noto passo di Livio (V, 33, n): «… Alpinis quoque (tusca) gentibus… origo est, maxime Raetis, quos loca ipsa efferarunt, ne quid ex antiquo praeter sonum linguae, nec eum incorruptum, retinerent ».

    Le iscrizioni cosiddette « retiche » sono state rinvenute con maggior frequenza nella valle di Non (si ricorderanno soprattutto quelle recenti, venute alla luce dal 1947 in poi a Sanzeno) e inoltre in località vicine a Bolzano (Settequerce, Tésimo, Collalbo, Vàdena, ecc.), a Caslir in vai di Cembra, una soltanto a Matrei, oltre il Brènnero; un altro gruppo di epigrafi, simili per la lingua, proviene da Magré (Vicenza) e da altre stazioni archeologiche del Veneto centro-occidentale (Rotzo in vai d’Astico, Verona, ecc.), da Feltre e Castelciés (Cavaso, Treviso). Un documento linguistico particolarmente importante, edito ed illustrato negli ultimi anni, è l’iscrizione sul cinturone di Lothen (San Lorenzo di Sebato) che forse presenta una fisionomia assai diversa dalle iscrizioni precedenti (a giudicare dalla scrittura offrirebbe alcuni tratti assai arcaici). Essa segna comunque il limite più orientale delle iscrizioni in alfabeto etrusco settentrionale di Bolzano, mentre al limite occidentale abbiamo ora una breve iscrizione su corno di cervo rinvenuta a Tarces (Malles in Venosta). Presentano caratteristiche lievemente diverse, non soltanto grafiche, ma anche linguistiche, le iscrizioni della Valtellina e quelle della Valcamònica (arricchite dalle recenti scoperte del 1954-56); queste ultime documentano alcuni tratti che le riuniscono al gruppo ligure-leponzio (forme in -al e dativi in -ui di temi in 0). Tra le forme che collegano le nostre iscrizioni con l’etrusco basterà ricordare, come esempio, i preteriti del tipo tina/e, dina/e (Magré e Sanzeno; cfr. etrusco zinace) ed una forma verbale analoga (con -a/e), trina/e (situla di Caslir). Elementi indoeuropei (illirici, celtici, venetici ?) si possono individuare soprattutto nell’onomastica cioè nei nomi di persona e di divinità.

    Pietra con iscrizione venetica da Monte Pore (Bolzano, Museo Civico).

    Menhir da S. Verena sul Renón (Bolzano, Museo Civico).

    I contatti tra lo strato antico « retico-etrusco » e quello più recente indoeuropeo traspaiono anche dai materiali epigrafici e si può pensare che in buona parte le antiche popolazioni anarie ne abbiano subito l’influenza non soltanto culturale. Anche dai reperti archeologici e dai relitti toponomastici si nota infatti un ambientamento illirico particolarmente marcato nella Pusteria (cfr., ad es., la ceramica del tipo Millan) ed un progressivo addensarsi di stanziamenti celtici (Galli Cenomani) soprattutto nel Trentino, ma con intensità varia a seconda delle valli; molto più limitato doveva essere stato invece l’influsso gallico nella regione bolzanina.

    Cippo miliario della via Claudia Augusta (Bolzano, Museo Civico).

    Qualche indicazione sugli strati preromani delle popolazioni è fornito dall’analisi dei nomi di luogo antichi e dei numerosi etnici tramandati dagli scrittori e da altre fonti (soprattutto dal Tropaeum Alpium presso la Turbia, col catalogo delle gentes alpinae domate durante la campagna di Druso e Tiberio del 15 a. C., da Tolomeo, da Strabone, dall’ Epitome di Floro, ecc.). Come si sa, non sempre concordi sono gli autori antichi nell’attribuire popoli alpini, e le loro città, ad una determinata nazionalità ed anche il termine di «Reti» è a volte usato con un senso geografico piuttosto che etnico.

    Gli studiosi di scienze onomastiche, sia pure con l’affinamento del metodo storico-comparativo attraverso una serie di lunghe esperienze, e sempre in concomitanza con i contributi portati da altre discipline, specie dagli storici, propongono sovente soluzioni divergenti nell’analisi etimologica degli strati prelatini nella toponomastica italiana settentrionale e di altre regioni. Ad una tendenza piuttosto accentuata nell’attribuire nomi di luogo ed etnici allo strato mediterraneo preindoeuropeo (reto-euganeo-ligure), fa riscontro una corrente che crede di poter operare esclusivamente con l’indoeuropeo (soprattutto con l’illirico). Molti etnici antichi sono rimasti fossilizzati in denominazioni regionali medioevali e moderne; ad esempio: Breuni (cfr. Brènnero); Venostes (cfr. vai Venosta); Isarci (cfr. il fiume Isarco); Caenaunes (cfr. forse Caines presso Merano, attestato dal 720 come Cainina); Anauni (cfr. vai di Non); Tublinates (cfr. Toblino); nell’area lombarda confinante: Trumplini (cfr. vai Trompia); Cammini (cfr. vai Camònica), ecc. Colpisce la frequenza di determinati suffissi, ad esempio, -etes, -ates (fuori dell’Alto Adige): Brixenetes, Vennonetes, schiatte retiche, mentre quelle vindelicie hanno generalmente -ates: Rucinates, Licates, ecc. Il suffisso -ates è comune tanto in territorio illirico, quanto in quello gallico; non è invece sicuro che -anni spetti all’illirico e mancano spesso criteri sicuri di discriminazione. Importante comunque è la concordanza di parecchi temi toponomici relativi tra la provincia di Trento e quella di Bolzano.

    Vaso cinerario di Vàdena. (Bolzano, Museo Civico).

    Allo strato prelatino appartengono inoltre numerosi appellativi tuttora vivi nei dialetti trentini, ladini e tedeschi (recepiti, in questi ultimi, dal neolatino atesino), che hanno spesso un’area più vasta (ad es., veneto settentrionale, friulano, lombardo, ecc.). Si possono ricordare alcuni esempi di supposte voci prelatine che non spettano al gallico: trentino mula «capra senza corna» (cfr. tedesco atesino mulet), ladino dolomitico e veneto alpino roa «ghiaione»; *camorciu > camoz, camorz «camoscio», ecc.

    Nome locale di origine gallica è probabilmente Tridente (Tridentum), Trento, che equivale forse a « trivio » (cfr. il tipo Tri-gaboloi nel delta padano) ; inoltre : Benacus (il Garda), Brixia (Brescia) e forse Vervasses, etnico da cui Vervò in vai di Non, ecc.

    Tra le voci celtiche dei dialetti trentini ricorderemo soltanto brucus solandro bruch «erica»; benna > bena, benèl «cesta di vimini»; dragium > trentino draz «specie di vaglio»; tamisium > tamìs, tamés «staccio»; *glasina > giàsena «mirtillo»; *trogiu > trentino trózo «sentiero»; ecc.

    E probabile che nel Trentino e nell’Alto Adige non abbia avuto una parte notevole il sostrato veneti co (paleo veneto).

    Bolzano, torre Druso.

    L’età romana e la romanizzazione

    I primi contatti con i Romani risalgono al secolo II a. C. ; essi si intensificarono nel secolo successivo, dopo che Verona divenne colonia (89 a. C.), ed è del 49 a. C. l’erezione di Tridentum a municipio romano.

    Lo sviluppo della romanità è anche qui collegato alla costruzione delle arterie stradali ed è in seguito alla vittoriosa campagna di Druso e Tiberio contro le indomite schiatte retiche (15 a. C.) che Roma penetra profondamente nella regione alpina; risale al I secolo d. C. la costruzione della via Claudia Augusta che congiungeva il Bolzanino con l’Engadina attraverso Maia (Merano) e la Venosta; anche la via del Brennero, dapprima riattata quale mulattiera, divenne alla fine del II secolo, con Settimio Severo, un’importante strada militare, che fu ultimata da Caracalla nel 215. La regione trentina ed atesina fino a Merano presenta tracce del dominio romano nei reperti archeologici ed epigrafici sin dalla prima metà del secolo I a. C. ; monete repubblicane furono trovate oltre che in vai di Non anche a Caldaro e a Vadena vicino a Bolzano. Esse diventano sempre più fitte e cospicue a partire dalla fine del I secolo a. C. e soprattutto nella valle di Non, nel territorio urbano e nella periferia di Trento. Il documento epigrafico romano più antico è la lapide del 23 a. C. di Marco Apuleio (CIL, V, 5027) a proposito della Verruca (Dos di Trento) ; quello più importante e famoso è rappresentato dalla Tabula Clesiana (Museo Nazionale di Trento [CIL, V, 5050]) con cui l’imperatore Claudio, nel 46 d. C., conferisce agli abitanti della vai di Non (Anauni, Tulliasses, Sinduni) la piena cittadinanza romana.

    La conquista definitiva delle Alpi centrali con la guerra retica, portò alla fondazione della provincia Raetia et Vindelicia (quest’ultima più a nord) nella quale fu inclusa una parte dell’Alto Adige congiunta allora col bacino superiore del Reno, dell’Inn e con la pianura danubiana; ad oriente si costituì la provincia del Noricum. La nostra Regione risulta così ripartita fin dal periodo augusteo fra tre unità territoriali ben distinte: l’Italia, precisamente la Decima Regio Augustea (Venetia et Histria), nell’ampia sezione centromeridionale; la Raetia nella sezione nordoccidentale ed il Noricum per un tratto nordorientale (che un tempo si riteneva più limitato). Il confine tra Italia e Rezia era segnato dal castrimi maiense (statio maiensis nei pressi di Merano), cosicché tutta la Venosta era provincia; lungo l’Isarco il confine passava alla stazione daziaria di Sublavione (Colma all’Isarco) sotto la Chiusa, quasi all’imbocco della vai Gardena e nelle vicinanze di Sabiona (Sabio), divenuta poi sede vescovile (a Sabiona succederà Bressanone). Un antico confine tra Italia e Provincia doveva inoltre passare lungo l’Avisio subito a nord di Predazzo o di Moena, ma tale regione era in quell’epoca zona grigia, poiché priva d’incoiato stabile. Il confine tra la Provincia della Rezia e del Norico che si credeva, un tempo, passasse a San Candido, correva invece molto più ad ovest nella vai Pusterìa e poco ad oriente del corso dell’Isarco; forse era segnato dalla Vallarga e dalla valle di Fundres fino a Vandoies lungo il corso inferiore della Rienza o addirittura passava più ad ovest. La Pusterìa risulta inclusa quasi interamente nel Norico.

    Ponte romano a Merano.

    Una notevole importanza per la storia in generale e quella linguistica in particolare hanno anche le circoscrizioni municipali romane; com’è noto, con la frantumazione dell’orbis romanus si hanno sempre più rimarchevoli caratteri individuali nell’uso del latino nelle varie regioni, e nelle singole diocesi (che succedono ai municipi romani); le varietà dialettali trentine (cfr. pag. 253) si possono interpretare in parte come il prodotto di diversi orientamenti dovuti alle circoscrizioni regionali antiche.

    La Rezia romana. Ordinamento dell’impero di Diocleziano.

    Nel municipio di Tridentum, ascritto alla tribù Papiria, era compresa buona parte dell’attuale provincia di Trento e forse la vasta e ricca zona lungo l’Adige fino a Merano; a meno che non sia valida una recente ipotesi (A. Degrassi) di considerare come verosimile una circoscrizione municipale ascritta alla tribù Claudia con centro a Nalles (lo proverebbe una iscrizione rinvenuta a Nalles nel 1924). Tale circoscrizione avrebbe potuto comprendere il corso dell’Adige da Bolzano a Merano; essa è caratterizzata da una serie cospicua di rinvenimenti romani e soprattutto da numerosi toponimi prediali in -anum, tanto che la si può ritenere assai popolata con una rete fittissima di insediamenti antichi. Carlo Battisti pensa anzi ad una deduzione di una colonia di veterani poco dopo la vittoria di Druso e Tiberio sui popoli alpini, a guardia delle vie imperiali e del confine italico. La densità dei fondi romani nell’oasi atesina rilevabili dalla toponomastica è infatti imponente; basterà citare alcuni esempi: Appiano da Appianimi (cioè praedium Appianum) derivato da un Appius; Missiano da Missius; Cornegliano (Girland) da Cornelius; Prisciano da Priscius (cfr. Priscus, cognome nell’iscrizione rinvenuta appunto a Prisciano). Altri esempi sarebbero facili.

    Il ricco filone di toponimi prediali, più che indiziare l’adattamento di elementi indigeni romanizzati ad un sistema onomastico e toponomastico nuovo (latino), ci segnala verosimilmente il forte trapianto di famiglie romane nei fertili declivi atesini. E indicativo del resto il fatto che il tipo toponomastico in -ànum manchi interamente nella Anaunia, popolata, come testimoniano i rinvenimenti, fin dall’epoca prelatina; esso, d’altra parte, si rarefa oltre il confine italico.

    Al municipio di Feltre (Feltria), spettante alla tribù Menenia, apparteneva la Valsugana fino a Pèrgine; una iscrizione confinaria su roccia (I secolo d. C.) in vai Cadin, valle laterale a sinistra dell’Avisio presso Molina, ci segnala con precisione il confine tra i Tridentini (vai di Fiemme) ed i Feltrini (Valsugana) in una zona che è tuttora assai vicina a confinazioni antiche di pascoli tra Fiamazzi e Valsuganotti. A Verona, ascritta alla tribù Poblilia, apparteneva il lembo meridionale della vai Lagarina, mentre erano incluse nell’agro bresciano (ascritto alla Fabia) le Giudicarle, il territorio del Garda (Arco e Riva) e la valle del Chiese.

    Nuova linfa di romanità apportò la Chiesa ed un ruolo notevole anche per la storia linguistica hanno avuto le circoscrizioni ecclesiastiche e le sedi episcopali fondate in epoche diverse nella nostra Regione. Al vescovado di Trento, che risale al IV secolo, si contrappone quello di Sabiona (precedentemente sede di culto mi-trico) fondato da Ingenuino nella seconda metà del secolo VI; la sede passò poi col 967 a Bressanone, divenuto nel 1027 principato vescovile. La Venosta fu cristianizzata da Coirà (dipendente da Milano) e la Valsugana da Feltre. Si attribuisce la primissima diffusione del cristianesimo nel Trentino ai santi Ermagora e Fortunato, ma ciò è leggendario mentre è più probabile che i primi evangelizzatori e vescovi siano stati Giovino, Abbondazio e Vigilio (secolo IV). Leggendaria è pure la fondazione di Sabiona ad opera di Cassiano.

    La germanizzazione

    È accertato che tutta la Regione, e non soltanto l’area meridionale rappresentata da Trento (con eccezione probabile di alcune valli secondarie prive di una popolazione permanente in epoca romana e alto-medioevale), è stata interamente romanizzata e che il latino sovrappostosi agli antichi sostrati, e poi il neolatino, vi perdurò a lungo come lingua usuale delle masse. Nell’Alto Adige l’influenza linguistica germanica è quasi irrilevabile prima del iooo, mentre abbiamo numerose testimonianze della vitalità del neolatino in tutte le valli e del suo lento e progressivo estinguersi — non senza aver lasciato tracce evidenti — in epoche diverse, sotto la potente pressione di vari enti germanizzatori (le signorie politiche tedesche, laiche ed ecclesiastiche).

    L’inizio della penetrazione baiuvara nella regione alpina atesina resta molto oscuro per la mancanza di fonti storiche, e d’altro canto nel processo di germanizzazione scarso rilievo si deve attribuire alle colonie alemanne stabilitesi nelle vicinanze di Teriolae (Castel Tirolo) verso il 401 e nella Passiria e alto Isarco nel secolo seguente (507); analoga osservazione si può fare per le colonie gotiche inviate a presidio del Passo di Resia e del Brènnero nello stesso periodo (Teodorico). Tali insediamenti germanici infatti non hanno avuto alcun peso nello sviluppo linguistico regionale nè alcun rapporto con la posteriore penetrazione tedesca poiché non si rilevano alcune tracce linguistiche del gotico nei dialetti tirolesi che si sono insediati nelle vallate atesine. La prima ondata dei Baiuvari, superato il Brènnero, è giunta nella conca di Bressanone non prima della fine del secolo V; i Romani furono sconfitti dagli invasori alla Chiusa di Sabiona nel 565. Le lotte con i Longobardi di Trento per il possesso della valle dell’Isarco si protraggono per parecchi decenni finché nel 784 il duca longobardo di Trento viene ucciso nella difesa di Bolzano contro i conti bavaresi Gavirio e Idoino. Nella Pusteria la fondazione del monastero di San Càndido nel 770 ad opera di Tassilone II, duca di Baviera, dopo cruente guerre contro gli Slavi, segna l’inizio dello stabile dominio bavarese nella valle. Si costituiscono in quell’epoca i primi nuclei di popolazione tedesca, ovunque circondati dall’elemento indigeno neolatino non ancora in minoranza numerica. L’adozione da parte delle popolazioni locali del tedesco (bavarese-tirolese) è avvenuta di norma lentamente; essa è il « frutto di secolare pressione culturale delle classi elevate tedesche, o intedescate, sulla contadinanza ladina costretta dalla fine del Medio Evo a riconoscere il tedesco come unica lingua. Specialmente nelle masse rurali, in un tempo in cui mancò nell’animo popolare la sensazione di una lotta cosciente fra romanità e ger-manesimo, il passaggio non fu rapido; esso maturò via via in un lungo periodo di simbiosi di elementi più conservativi neolatini e di intedescati o direttamente tedeschi, in massima parte culturalmente superiori, non alieni, specialmente i primi, sotto l’impulso di necessità ambientali, a valersi secondo i casi dell’una o dell’altra lingua » (Carlo Battisti).

    Il Castel Tirolo presso Merano, dal quale la Regione ha preso nome.

    Le testimonianze dirette della vitalità del neolatino nelle valli atesine sono per lo più assai lacunose poiché le cancellerie — anche nella regione attualmente ladina — non ammettono altro uso all’infuori del latino e del tedesco, in un primo tempo, e ben presto soltanto del tedesco; l’elemento indigeno non lascia quasi traccia scritta della propria rustica parlata, non adatta ad usi pratici ed amministrativi, ed una eccezione è rappresentata forse dal registro pastorale di Laces in Venosta del 1348; esso ci offre un bell’esempio di neolatino venostano del secolo XIV, sia pure inquinato da parecchi elementi di koiné italiana settentrionale. Importanti e numerose sono le informazioni dirette che si possono raccogliere dai resoconti di viaggi, da descrizioni geografiche, ecc.; esse si riferiscono per lo più alla Venosta, a Bolzano e al tratto atesino. Ad esempio, F. Faber (1483) afferma che a Bolzano verso la metà del secolo XV gli abitanti parlavano ancora italiano e G. Pirro Pincio, verso la metà del secolo XVI si esprime in modo analogo. Ulrico da Campell, verso il 1570, ci informa che al suo tempo il ladino era ancor vivo a Parcines, al limite della Venosta. Per quest’ultima valle le notizie relative all’uso del romanzo si susseguono anche per i secoli seguenti, tanto che per alcuni paesi si può ragionevolmente supporre che esso sia stato interamente soppiantato dal tedesco soltanto alla fine del secolo XVIII. Alcuni particolari sull’uso dei dialetti italiani nell’Alto Adige si possono desumere anche dalla Landesbeschreibung voti Sudtirol di M. Sittich von Wol-kenstein (circa 1600). Ma la fonte più importante per lo studio della romanità atesina è offerta dai nomi locali che hanno subito un processo cronologicamente assai vario di intedescamento. Si può, ad esempio, stabilire con certezza che la germanizzazione dell’area atesina è in ogni caso posteriore al secolo Vili, poiché nell’adattamento al germanico di migliaia di toponimi latini e neolatini, manca la seconda rotazione consonantica dell’antico tedesco, e l’intedescamento del nome latino è quindi avvenuto in un’epoca in cui tale processo fonetico era già chiuso.

    Il numero dei nomi locali pretedeschi della provincia di Bolzano appartenenti all’infrastrato latino e al sostrato prelatino è veramente imponente. Essi sono stati meticolosamente vagliati soprattutto da Carlo Battisti (e dai suoi allievi) in due opere vastissime: il Dizionario Toponomastico Atesino e l’Atlante Toponomastico della Venezia Tridentina (di cui è prossimo il compimento).

    Dall’esame della toponomastica si può facilmente controllare quanto fosse vitale il neolatino atesino che ha fornito in molte valli ed in molti comuni una percentuale altissima di denominazioni locali. Una miniera di toponimi pretedeschi sono, ad esempio, oltre che la Venosta, anche le valli laterali dell’Isarco, di Lusón e di Funes, la zona di Castelrotto, ecc. (Lusón nel 1350 offre una percentuale del 90% di nomi locali pretedeschi) ; buona efficienza di ladinità nei toponimi si osserva anche a Rodengo.

    La toponomastica ci indizia invece una predominanza alloglotta assai profonda e antica nella vai Pusterìa.

    La pressione tedesca, attraverso la cancelleria, si esercitò contemporaneamente anche nell’onomastica, ed essa è ancora evidentissima nei molti cognomi ladini intedescati, ad esempio: «Pian» Ploner; «Zanon» Sanoner; «Costa» Kostner, ecc.

    Oasi e confini linguistici

    Il confine linguistico fra italiano (dialetto trentino) e tedesco (tirolese) taglia ora la vai d’Adige alla Stretta di Salorno, ma a sud di Bolzano si può parlare di una zona quasi mistilingue. Le condizioni antiche della regione trentina non corrispondono a quelle attuali poiché gli alloglotti erano abbastanza numerosi nel Medio Evo, soprattutto nel Trentino orientale, ma essi non hanno mai formato un’unità compatta, una penisola linguistica propagginatasi dall’Alto Adige. Si tratta invece di colonie più o meno numerose trapiantate in suolo italiano e richiamate dai signori feudali locali (che erano quasi sempre tedeschi) a partire dai secoli X e XI e con intensità massima fino al secolo XIV.

    Tali colonie che costituiscono quindi delle oasi linguistiche, sono state via via assorbite dall’elemento indigeno, ma di esse si hanno ancora alcune sopravvivenze ben conservate specialmente nella valle del Fèrsina (Mòcheni), inoltre tra il Brenta e l’Adige, a Luserna e Lavarone (in via di assorbimento). Fuori della regione tridentina sono dovute al medesimo movimento emigratorio le oasi tedesche dei 13 comuni del Veronese e quelle dei 7 comuni del Vicentino, i cui dialetti sono definiti impropriamente « cimbri » (sono oasi in via di totale estinzione ; si parla ancora cimbro a Giazza nella testata della valle dell’Illasi e parzialmente in alcuni paesi dell’altipiano di Asiago, a Roana, Rotzo e Ronchi di Gallio, ove peraltro la generazione giovane ignora o quasi il vecchio dialetto).

    Vedi Anche:  Valli, città e fiumi

    Un episodio di notevole interesse per le conseguenze linguistiche che ne sono derivate nell’evoluzione di alcuni dialetti neolatini trentini, è la germanizzazione del tratto atesino fra Lavis, alle porte di Trento, e Salorno; qui la romanità della valle subì una interruzione di tre secoli (dal secolo XIII al secolo XVI), poiché mentre a nord di Salorno essa si mantenne in quell’epoca ancora prospera, a sud venne meno in seguito alla fondazione del convento capitolare degli Agostiniani a San Michele (1145) ed all’usurpazione da parte di Mainardo II di Tirolo che si impossessò della giurisdizione trentina di Mezzocorona e di Monte Reale, Giovo, Cembra (1267). Il possesso tirolese crebbe rapidamente e col 1331 esso raggiunse l’Avisio, Faedo, San Michele, Pressano e Lavis; vi affluisce allora l’elemento tedesco proveniente dall’Austria meridionale, dalla Baviera e da altre regioni, tanto che esso costituisce nei secoli XV e XVI i quattro quinti della popolazione complessiva. Le valli settentrionali del Noce e dell’Avisio vengono a perdere i contatti diretti col capoluogo ed i loro dialetti non accoglieranno quindi per secoli le innovazioni provenienti dal centro del principato. A Trento invece l’elemento tedesco non ha mai raggiunto proporzioni degne di considerazione. Dati sul movimento demografico e sulla nazionalità degli abitanti nelle valli trentine in epoca antica si potrebbero forse desumere oltre che dai documenti locali (urbari, pergamene comunali, registri parrocchiali, codice Vanga, codice desiano), anche dallo studio della toponomastica e dell’onomastica.

    Lievi infiltrazioni tedesche si osservano nel Trentino occidentale, e precisamente nel corso superiore del torrente Novella nell’alta valle di Non (Pieve di Revò); il tedesco atesino sconfina ora nella Anaunia nei paesi di Lauregno, Provés e Senale nel mandamento di Cles (staccati dal Trentino). Un nucleo di nomi locali tedeschi si rintraccia nella giurisdizione di Sporo e Belforte in territorio di Andalo; esso ci indizia una colonizzazione che risale ai signori di Belforte o agli Spaur (posteriore al secolo XIII).

    A sud di Trento l’antica oasi tedesca di Folgarìa e Vallarsa era certamente più ampia, e qualche raro cognome tedesco si può notare anche ad Avio. Due centri allogeni in territorio vicino a Trento erano Garniga e Sopramonte; si tratta di colonie di minatori che a giudicare dal nome locale Batter/ali (Wasserfall) doveva comprendere elementi provenienti da territori linguistici basso-tedeschi.

    Veduta di Castel Pèrgine.

    Un’infiltrazione più consistente di coloni alloglotti ebbe luogo nel Trentino orientale; essa ha per centro il Perginese ed il Monte Calisio, noto bacino metallifero. Anche qui sono i feudatari tedeschi (i conti di Tirolo, i Brandenburgo ed i duchi d’Austria) ed i vescovi a richiamare nella zona, appartenente da prima ai castellani di Pòrgine, elementi allogeni adibiti soprattutto per lo sfruttamento minerario; tale industria — com’è noto — fu sempre in mano dei Tedeschi nel Medio Evo e lo fu ancora in epoca recente in alcune regioni dell’Italia settentrionale. La colonizzazione mochena dell’alto Perginese è abbastanza antica; i primi stanziamenti risalgono forse alla prima metà del secolo XII (o prima) poiché in un atto del 1166 appare già tedeschizzata la gastaldia di Frassilongo-Roveda nella valle del T. Fèrsina, ed è in via di germanizzazione anche Vignola e Castagné. I primi coloni erano di certo minatori piuttosto che dissodatori, e tutta la regione lungo le sponde del Fèrsina risulta presto popolata da forti nuclei tedeschi. Un altro gruppo si era poi installato, già nel secolo XII, al margine superiore della valle sulla strada che da Grumo in vai di Cembra conduce a Roncegno per il Passo della Portella. Propaggini di allogeni erano allora stanziate da Pinè fino alle vicinanze del Borgo Valsugana. Lo si può dedurre anche dalle indicazioni offerte da alcuni toponimi (il maso tedesco più orientale nella Valsugana è Maso Puele, tra Ospedaletto e Grigno), ma può sorgere sempre il dubbio che alcuni masi col nome tedesco siano stati fondati da coloni di origine tedesca ma ormai italianizzati. Il confine odierno tra tedesco mocheno e trentino, nell’alto Perginese, è segnato dal corso del Fèrsina; la sponda destra è trentina, quella sinistra mochena (Palù, Fierozzo, Frassilongo, ove peraltro alcuni villaggi sono ormai italiani); Canezza e Sant’Orsola nei secoli XVI e XVII presentano un numero cospicuo di cognomi tedeschi, mentre Viarago non fu mai completamente alloglotto.

    Lo stanziamento di dissodatori in Folgarìa risale forse al 1150 e fu favorito da Varimberto e Penzo di Caldonazzo; l’insediamento della colonia tedesca nell’altipiano di Lavarone fu autorizzato dal vescovo Adelpreto (1156-77); incrementò infine il trapianto dei Tedeschi qua e là nelle valli trentine in genere, ed in modo speciale nel territorio della Costa Cartura (da Folgarìa al Cóvelo di Centa) il vescovo Federico Vanga (1207-18). Attraverso lo studio dei nomi locali e dei documenti d’archivio risulta chiaro che anche nel territorio trentino, ove furono trapiantate colonie tedesche, a partire dalle antiche carte medioevali fino ad oggi, l’elemento toponomastico indigeno italiano è per lo più prevalente ed anteriore alle immigrazioni bavaresi.

    La germanizzazione ebbe una qualche consistenza in casi sporadici, nel contado, attraverso la deduzione di colonie in luoghi appartati e lontani dall’influenza linguistica del capoluogo, ma le infiltrazioni tedesche in comunità italiane sviluppate non attecchirono e non traviarono minimamente l’italianità della Regione.

    Dialetti trentini

    Una precisa definizione dei dialetti parlati nella provincia di Trento non è agevole poiché essi non presentano un’unità idiomatica organica; essi costituiscono, genericamente, un’area linguistica in cui si incontrano e si intersecano varie correnti e sostanzialmente due o tre sistemi dialettali, quello lombardo orientale, quello veneto di terraferma e veneto alpino ai quali si è poi sovrapposto, in epoca più recente, l’influsso di Venezia. Ma non è facile precisare la vera fisionomia — quella originaria — del trentino centrale formatosi con diverse componenti, e varie sono le interpretazioni proposte dagli studiosi anche per chiarire e fissare la posizione del gruppo nordoccidentale, solandro (vai di Sole) e anauniese (vai di Non) che l’Ascoli includeva nella sezione « ladino centrale ».

    Sono prevalentemente lombarde la Valbona con Ledro, il distretto di Tione e la Rendena nelle Giudicane; anche il solandro ha accolto parecchie isoglosse lombarde che lo collegano specialmente col camuno e col bormino, e lo differenziano, in parte, dal confinante nònese; ma la valle di Sole ha risentito considerevolmente anche dell’influsso emanato da Trento e presenta inoltre alcuni caratteri alpini arcaici.

    Nettamente bresciano è il bacino del Chiese e dell’alto Sarca (Storo, Valvestino, Ponte Càffaro, Tiarno, ecc.) ; ivi si può notare che alcune tipiche evoluzioni bresciane (e bergamasche) sfiorano la regione. Ad esempio, il passaggio di s- e di s + consonante a se- e successivamente (nel discorso rapido) ad h- (hemper « sempre », héner « cenere », htela « stella ») è limitato alla riva occidentale del Garda e ad alcuni paesi della Valvestino (Coste, Cadria, Arno, Moerna, Magasa, Turano), mentre altre isofone che hanno come punto di irradiazione la zona lombarda occidentale (Brescia-Bergamo) si infiltrano più profondamente nelle valli trentine occidentali. Tali sono la nasalizzazione e la successiva scomparsa della nasale dopo vocale tonica negli ossitoni (pd « pane », ma « mano », vi « vino », u « uno ») che dal Bresciano e dalla valle di Ledro risale a Tione e dintorni fino a Sténico e si affievolisce nell’alta Rendena, ove però si avverte ancora una nasalità della vocale. La contrazione di -a + i secondario in è (ad es. : nè da nai « andate ») unisce la Valbona con la Rendena, mentre il fenomeno manca alle Giudicarle ; ma confronta anche il rendenese asà « assai », contro Valbona asè come nel ledrano e bresciano.

    Nel Trentino orientale si possono distinguere il fiamazzo (valle di Fiemme), il valsuganotto (Valsugana) e tasino, inoltre il primierotto (valle del Cismón). Il tratto centrale dell’Avisio (Fiemme) offre le caratteristiche di un dialetto di tipo trentino arcaico e alpino con scarse tracce di ladinità secondo la classificazione ascoliana (ma vi sono sostanzialmente assenti i tratti più cospicui che definiscono il gruppo ladino dolomitico). Un confine tra fiamazzo e ladino fassano deve essere individuato lungo l’Avisio a Moena, che appartenne, agli albori del principato vescovile, non a Trento ma a Bressanone (fu poi aggregata, fin da epoca antica, alla Comunità di Fiemme); il tipo fiamazzo u da u si arresta a ritroso del fiume prima di Moena (luna contro luna)] aut «alto» scende lungo l’Avisio fino a Ziano, mentre la palatilizzazione di ca in eia non supera Moena.

    Scorcio panoramico di Moena.

    Il valsuganotto (da Tezze a Lévico) è un dialetto sostanzialmente veneto di terraferma di tipo vicentino rustico (specie il tesino) con notevoli influssi feltrini (cfr. a Striglio, thinque « cinque », gien « viene » da ien come nel feltrino rustico) ; essi si spiegano con l’aggregazione politica e religiosa a Feltre durante lunghi secoli. Nettamente feltrino è infine il dialetto del Primiero (che spetta anche geograficamente a Feltre), sia pure con rare influenze trentine specie nelle classi più alte e che ora adottano per lo più la koinè veneta.

    Oltre che nella fonetica (assenza di iì, ò, maggiore conservazione delle vocali atone finali) i caratteri prevalentemente veneti della Valsugana si possono notare anche nel lessico (in opposizione all’uso del Trentino); ad esempio: Valsugana, brega ma trentino as «asse»; brosa: bruma «brina», ecc.

    Più diffìcile a definire è il nònese (Anaunia) che col solandro dovrebbe costituire un tratto di sutura dell’ampia catena di dialetti alpini (classificati « ladini » dall’Ascoli) e precisamente la sezione che allaccerebbe attraverso un’area intedescata (Venosta, ecc.) il ladino centrale con quello occidentale (Svizzera). Per molti rispetti anche le varietà del nònese si possono considerare « trentino arcaico », ma non si deve forse sottovalutare la recezione, ampiamente documentata, di pochissime innovazioni alpine che non vengono forse dal sud (ad es., lo sviluppo di ka in kja, eia) e che forse non raggiunsero la valle dell’Adige e Trento.

    Rimane la sezione più propriamente trentina, il nucleo idiomatico centrale che comprende la vai d’Adige da Salorno fino ai confini col veronese nella bassa Laga-rina, la vai di Cembra, l’altipiano di Piné, la conca di Pòrgine e Caldonazzo, Lava-rone e Folgarìa, la Vallarsa e Terragnolo (ove il trentino sta sostituendosi in buona parte al tedesco), il basso Sarca col distretto di Vezzano. Si può affermare con certezza che tale sezione, pur non rientrando nettamente nel gruppo lombardo, partecipa in misura maggiore a fenomeni fonetici morfologici, e spesso anche lessicali, galloitalici piuttosto che veneti. Colpisce, ad esempio, la diffusione quasi generale delle vocali turbate ii, ó (luna « luna », cor « cuore »), una spiccata tendenza alla soppressione delle vocali atone finali ed un ritmo musicale della frase che contrasta spesso con quello veneto.

    I dialetti trentini hanno risentito nel lessico più degli altri dialetti settentrionali (ma spesso in misura assai simile al veneto alpino) dell’influsso tedesco (e soprattutto del tedesco moderno); vedi i seguenti esempi: canòpo «minatore» (Bergknappe), stòl « cunicolo », loca « pozzanghera » (Lache), ecc.

    Costumi della val di Fassa.

    Dialetti ladini dolomitici

    Abbiamo incluso i dialetti nònesi nella sezione trentina « nonostante i tratti ladi-neggianti assai ricchi di tali parlate » poiché per ladino intendiamo soprattutto una unità linguistica negativo-passiva, costituitasi in gran parte come residuo arcaicizzante di aree periferiche che conservano fenomeni fonetici, morfologici e lessicali per lo più superati nella sottostante regione prealpina o nella pianura. Tra le innovazioni cospicue del ladino merita però sempre una particolare considerazione il volgere di ca in eia (ciasa, ciesa da « casa ») poiché le prove di una diffusione assai vasta della palatilizzazione nel Trentino centromeridionale, o nella pianura veneta, sono per ora piuttosto malfide e limitate, mentre pare verosimile che tale innovazione si sia diffusa anche nell’area ladina e nell’anfizona cosiddetta ladino-veneta con direzione nord-sud. Non si possono d’altro canto escludere contatti diretti del nònese con la confinante regione bolzanina, un tempo ladina, ed in qualche raro caso fenomeni linguistici atesini saranno di qui rifluiti nella valle del Noce. Più propriamente « ladini » sono dunque i dialetti dolomitici parlati in alcune valli che si protendono a raggera intorno al massiccio del Sella. Essi rappresentano la sopravvivenza della latinità atesina che ha ceduto, come abbiamo visto, alla germanizzazione ed è anzi da osservare che l’influsso tedesco si esercita tuttora con una pressione notevole e pericolosa nelle valli ladine (soprattutto nella Gardena e a Marebbe). Si parla ladino dolomitico nelle valli di Gardena, Badia e Marebbe, Fassa e, fuori dei confini della regione Trentino-Alto Adige, ma in stretta connessione colle valli citate, nell’alta valle del Cordévole (Livinallongo, Colle di Santa Lucia, Rocca Piétore con Laste in provincia di Belluno); Cortina d’Ampezzo e i dialetti cadorini di tipo arcaico ladineggiante esulano dal nostro breve cenno.

    L’area montana e periferica del ladino dolomitico era probabilmente priva d’incoiato stabile prima del iooo (i rinvenimenti archeologici sono quasi irrilevanti), e la colonizzazione per mezzo di contadini dissodatori provenienti dalla valle dell’Isarco e dalla Pusteria è stata promossa dai feudatari locali; non si hanno infatti prove sicure di insediamenti stabili anteriori, e manca una precisa documentazione di continuità negli abitati poiché anche le indicazioni toponomastiche sono del tutto negative. Un’ipotesi, d’altro canto, che non si può respingere a priori, è quella di concepire il ladino centrale (ed il friulano) come una sopravvivenza del latino volgare noricese (Gamillscheg), rifluito con le popolazioni del Norico, sospinte dalle pressioni germaniche e slave, nelle valli dolomitiche (e nel Friuli). Seguendo tale ipotesi dovremmo peraltro spostare indietro di qualche secolo l’epoca di popolamento dell’area ladina.

    Il confine del ladino dolomitico atesino nei confronti dell’anfizona di dialetti ladineggianti che sfumano nel veneto alpino è segnato da una frontiera politico-diocesana che rappresenta il limite di espansione della colonizzazione medioevale isarchese e pusterese alla quale abbiamo sopra accennato. Lungo l’Avisio si può individuare un confine dialettale ormai scialbo a Moena, lungo il Cordévole, a Rocca Piétore (che al pari di Moena appartenne forse, al momento dei primi stanziamenti, ad enti politici brissinesi). Il confine col tedesco lungo la Gàdera passa a valle di Rina; lungo la vai Gardena l’ultima frazione ladina è Pontives a valle di Ortisèi.

    Ragazze di Castelrotto (provincia di Bolzano) nei costumi tradizionali in devota processione.

    Gruppo folcloristico in costume a Campitello (vai di Fassa).

    Tra i fenomeni fonetici tipici del ladino (ma con decorso spesso assai vario delle isofone) basterà menzionare: 1° la conservazione dei nessi con l (pi, ci, fi, bl, gl); ad esempio: planu > pian; plus > più; clamare > clamè; fiamma > flama; ma è da notare che ci e gl passano rispettivamente a ti e di nel gardenese e nel badiotto marebbano; ad esempio: tlamè < clamare; dlacia < glacia; 2° la conservazione di -s che determina importanti riflessi morfologici (plurali sigmatici); i due fenomeni sono peraltro abbondantemente testimoniati in testi italiani antichi dell’Italia settentrionale; 3°la palatilizzazione di a in e in sillaba libera (tale evoluzione si trova, del resto, in molti dialetti gallo-italici e scende fino ai margini dell’Italia centrale); 4° la palatilizzazione di ca in eia (vedi sopra), ecc. Altri tratti forse meno caratteristici, poiché più ampiamente testimoniati nell’italiano settentrionale, sono, ad esempio, la formazione di dittonghi discendenti da e ed o stretti del latino volgare, la velarizzazione di l preconsonantico, ecc.

    Il ladino dolomitico si può inoltre suddividere in due sezioni: a) una sezione occidentale, gardenese-fassana ; b) una sezione orientale, badiotto-marebbana.

    Per il vocabolario non è facile isolare tipi lessicali che siano esclusivi del ladino (centrale e delle altre sezioni, occidentali ed orientali) e che manchino interamente nei dialetti settentrionali gallo-italici e veneti, specie se si tiene conto delle documentazioni offerte dai testi antichi. Il lessico ladino ha accolto un numero assai rilevante di parole mutuate dal medio-alto tedesco e dal tedesco moderno; d’altro canto assai cospicuo è l’influsso esercitato sui dialetti dolomitici anche dal veneto e dal trentino; molte voci sono infatti risalite dalla pianura o dalle prealpi lungo l’Avisio ed il Cordévole, e si sono ormai acclimatate definitivamente nelle Dolomiti (soprattutto nei dialetti fassano, badiotto e livinallese).

    I dialetti tedeschi

    La penisola linguistica tedesca dell’Alto Adige rappresenta sostanzialmente la continuazione del confinante tirolese (bavarese austriaco) anche se lo spartiacque del confine, separa, per il decorso di alcune isofone, la nostra regione dal Tirolo austriaco; si notano inoltre nel pustero alcune importanti concordanze col carinziano, mentre la Venosta risente dell’influsso occidentale (alamanno). Originarie divergenze, dovute a colonizzazioni di varia provenienza e cronologia, sono state spesso livellate. Una caratteristica generale è data dall’aspirata kh per k; ad esempio: dòkht per denkt, khnekhte per knechte, kholt per kalt; altrettanto si dica di st passato a st : steam per Stern, erstn per ersten, ecc. E tipico della zona atesina e tirolese (da Mulles a Matrei) il passaggio di è allungato ad o lungo (khnòchte per Knechte), ma nel versante atesino

    questa tendenza si estende anche ad èr, èl allungati passati ad òr, òl, mentre nell’area austriaca abbiamo nel secondo caso èa: ad esempio, pórg (Berg «monte») nel bolzanino, di contro al tirolese pearg; per il dittongo antico ei ha grande diffusione nell’atesino oa (khloada per Kleider « vestiti »), oppure da ai si ha a (nella Pusteria orientale: ad esempio, safe per Seife); si hanno per lo più i dittonghi ie (pronuncia ie) e ùe in casi quali lieb e guet (per gut). La Pusteria presenta fenomeni fonetici particolari che non trovano riscontro nelle altre valli dell’Alto Adige e del Tirolo.

    Nell’alta Venosta si mantengono diminutivi in li come nello svevo ed alemano, (tedesco moderno = lein), mentre nell’atesino si ha le o l sillabico; ad esempio, atesino haisl « Hàuslein », wàgele « Wagelein », fògele « Vòglein », di contro al venostano iuageli, miieterli, ecc.

    Il territorio delle regole (Valdega, Nova Levante, Nova Ponente, ecc.) offre particolarità speciali che staccano notevolmente codeste varietà dal tedesco atesino.

    Nei dialetti atesini sono molto comuni ed interessanti le voci derivate dal neolatino del sostrato; ad esempio: kaser (casearia) «cascina di montagna»; brente da brènta « mastello, truogolo»; malgrei da malica «malga»; i vai «canale d’irrigazione» da aquale ; interamente neolatina è la terminologia attinente alla coltivazione della vite; ad esempio: pergl «pergola»; patatai «puntone» (nel meranese); guntanell «catinella»; madrailen, cfr. trentino marcie (malaris) «pollone»; fernatsch «vernaccia », ecc.

    Anche le oasi tedesche della Regione offrono un dialetto di tipo bavarese tirolese con tratti arcaici che ci indiziano l’epoca del distacco (dal secolo XI al secolo XIV). Le principali caratteristiche sono le seguenti: dittongazione delle vocali lunghe del moderno alto tedesco già completa nel dialetto di Luserna anche per vocali estreme, i > ai, u>au; passaggio di ìz a kh (es.: melkhdn per melken); b iniziale >p già antichissimo nel bavarese; pronuncia palatizzata di 5 (per cui Etisa dette Etsch « Adige ») ; w nelle oasi si pronunciò bilabiale, per cui si ebbe b : sono tutti fenomeni che ci testimoniano una separazione dei coloni non anteriore al iooo. Altri tratti linguistici segnalano un distacco avvenuto in epoca anteriore al secolo XIII, ad esempio, la mancanza del passaggio di a ad o che si attua nel bavarese alpino a partire dalla fine del secolo XII, e di è (prima metafonia) ad a; vedi, ad esempio, wazzar, wezzerlin (antico bavarese), luserniate wasdr, wesàrle, ma atesino tirolese wosser, wasserl.

    Banda musicale di Dobbiaco.

    Caratteristico cappello di paglia di Longomoso (Renon).

    Richiami al folclore

    L’isolamento dovuto a fattori geografici ha determinato la conservazione di un patrimonio folclorico antichissimo in molte valli, tanto atesine e ladine, quanto trentine, ma anche nell’area alpina tipicamente conservatrice, le tradizioni sono ormai spesso un ricordo delle generazioni passate.

    D’altra parte si nota l’esistenza di usanze comuni in valli anche lontane tra loro, specialmente per quanto si riferisce a costumanze legate al sentimento religioso fortemente radicato nelle popolazioni di questa Regione ed alimentato un tempo più che non oggi da sicura conoscenza del catechismo, della Storia sacra e del significato dei riti liturgici.

    E infatti ormai assai raro trovare determinate manifestazioni folcloristiche sia per festività religiose come quelle del Natale o dell’Epifania in ricordo dei Magi o sorprendere il ricordo di feste tradizionali come la fine del carnevale o della celebrazione delle nozze e di matrimoni. Così anche l’uso di particolari costumi è ormai scomparso quasi del tutto. L’uso di tali costumi in genere di origine seicentesca o dei primi del Settecento e riecheggianti in talune fogge del cappello a cilindro i primi anni dell’Ottocento è del tutto sconosciuto ormai nella Regione a causa dell’ormai cessato isolamento. Permane ancor oggi l’uso di particolari costumi per determinati « corpi » di insieme come, ad esempio, quelli bandistici. Il raduno e la sfilata delle bande paesane, talora accompagnate da speciali addetti, può effettivamente considerarsi come la rifioritura o il richiamo di antiche fogge di costumi, che però nell’uso comune sono ormai del tutto scomparsi.

    Vedi Anche:  Origine del nome e vicende territoriali

    Un richiamo in vita delle antiche fogge del vestire è di questi ultimi anni soprattutto nell’Alto Adige, ove la ricostituzione delle compagnie degli « Schutzen » o tiratori, si riallaccia alla tradizione e all’organizzazione militare di qualche paese alpino come la Svizzera, ove i cittadini aventi obblighi militari, dopo il periodo di istruzione, conservano a casa l’arma e la divisa, pronti ad indossarla al momento in cui ne sia dato l’ordine. Tale ordinamento, che nella Regione non è affatto in vigore, ma che lo è nella Svizzera, trova facile spiegazione nell’isolamento degli abitati di cinquanta o più anni fa. Oggi esso non ha più senso, ma la ricostituzione degli « Schutzen » trova in ciò una spiegazione. La stessa giustificazione poteva darsi un tempo, sempre riferendosi a oltre cinquantanni fa, per l’esistenza di corpi di « pompieri ». Si può dire che allora ogni paese aveva la sua compagnia, formata da un buon numero di iscritti e di mobilitabili, dotati di particolari divise conservate nel magazzino comunale o del paese.

    Cinturone maschile ricamato (Bolzano, Museo Civico).

    La banda sfila per le vie di Fié (Siusi).

    L’usanza era di allenare la domenica a turno gli appartenenti alla compagnia con speciali esercitazioni settimanali, usando un « castello » ancora visibile in molti paesi del Trentino o dell’Alto Adige. Anche di ciò non v’è più la tradizione, scomparsa a causa dell’inquadramento dei vigili del fuoco in una organizzazione centralizzata, per la introduzione di mezzi antincendio più idonei e meccanizzati pronti ad accorrere ove ve ne sia il bisogno e infine per la stessa diminuzione di sinistri di tal genere.

    Gruppo folcloristico in costume a Siusi.

    La ricostituzione di tali « corpi » di vigili, avvenuta di recente è quindi più che una necessità, un richiamo a tradizioni che avevano tempo addietro un sapore folcloristico, oltre che rappresentare una difesa locale, dovuta alla difficoltà di comunicazioni e all’isolamento.

    I costumi che possono ancora trovare qualche uso in taluni piccoli centri atesini e da parte soprattutto di persone di una certa età, poiché i giovani preferiscono seguire i dettami della moda, si richiamano ad usanze da parte degli uomini di portare ornamenti del cappello spesso rappresentato dal mazzetto di setola di camoscio o da una penna. Il cappello resta ancora oggi e più rappresentava in passato l’elemento caratteristico dell’abbigliamento, soprattutto per il colore delle bande aventi un particolare significato.

    Una compagnia di « Schutzen », che anticamente sostituivano i vigili del fuoco.

    Il costume completo, ormai raro a vedersi, si componeva di massima di una corta giacca e calzoni corti analoghi di colore piuttosto scuro, spesso verdone o marrone, di un panciotto più o meno vistoso accompagnato o no a risvolti di colori vivaci e fornito o meno di una specie di bordatura a bretelle con o senza un grosso cinturone in genere di cuoio. Le calze lunghe di lana o di grosso cotone erano spesso bianche o anche colorate, fatte a ferri, talora a disegni. Quanto al colore dei risvolti della giacca o dei cordoni del cappello, applicati ancor oggi su cappelli di foggia moderna, i più significativi sono il rosso per i celibi e il verde per gli sposati, ma con possibilità di variazioni e di intrecci, ad esempio, per i giovani mariti quando la moglie, secondo la frase locale, è « in buona speranza ». Varietà al tessuto di lana dell’abito maschile più diffuso potevano essere il velluto come a Mèltina o le variazioni al piumetto di camoscio o alla penna del cappello, quella di portare sullo stesso anche mazzolini di fiori (semprevivi, giallo, garofani, ecc.) abilmente composti con erbe odorose (spigo, cedrina, ecc.). Elemento spesso decorativo e caratteristico è il cinturone di cuoio nero, impresso a disegni in parte, in parte trapunto e ornati regolari e motivi tradizionali, in bianco, più raramente in colore. Spesso per il ricamo era usata la costola della penna di pavone, ridotta a filamenti con consistenza cornea e analoga resistenza. Il ricamo gira e si rincorre intorno, al cinturone risolvendosi nel mezzo del davanti in un motivo di tipo sacro o col nome del proprietario. Tali elementi fondamentali trovano completamento in vari accessori come gli astucci o guaine di cuoio semplici o multiple per uno i più coltelli da caccia o no spesso ornati e costosi, le borsette di perline e canterie finemente disegnate per il tabacco e gli accessori da fumo e le borse di cuoio robuste e a solida chiusura per le monete o qualche altro accessorio più particolare usato per la caccia.

    Costumi festivi a Castelrotto.

    Donna in costume nell’Alto Adige.

    Il costume femminile si richiama in genere ad una certa severità originaria con elementi tipici di altre regioni delle Alpi o anche di foggia napoleonica, così come è il caso del copricapo maschile a cilindro della vai di Fassa. Non mancano anche sopravvivenze del tardo Cinquecento o del Seicento che si sono definite nella Regione tanto che parrebbe quasi possibile, combinando con una certa intelligenza cuffie e corpetti di Castel Tesino, spadini e spilloni della vai Sarentino, sottane rimboccate e cingoli della Pusterìa per la figura femminile, cappelloni, casacche, stivali e cinturoni maschili, combinare una illustrazione di qualche romanzo storico settecentesco con reminiscenze dei costumi regionali.

    Le donne un po’ ovunque usano un costume rustico con sottana lunga o raccorciata, corpetto o bustino, spesso vivace, con camicia bianca ben visibile, scialletto o fazzoletto incrociati o annodati sul petto con cappello di paglia a larga tesa e con cupola di foggia caratteristica. Sopra la sottana, talora a fiorellini colorati sul fondo piuttosto scuro, un grembiule colorato. Il costume è di frequente visibile durante l’estate al tempo della fienagione. Tale costume femminile, va sparendo perchè la moda che forse qualche anno fa lo aveva ravvivato consigliandone l’uso anche ai « villeggianti » deriva da quelli più tipici e più vari, ma ormai scomparsi nella gioventù, mentre per qualche donna più attempata o in taluni paesi più isolati è ancora il costume della domenica e delle feste. La sottana però è lunga e scura senza fiori, l’aspetto piuttosto serio e compassato, confacente all’età e alla Messa « cantata » o alla cerimonia per la quale il costume è indossato. Una certa variabilità del costume femminile si trova nel copricapo che può variare dal semplice fazzoletto nero o di colore annodato sotto il mento a modelli di larga foggia con riferimenti più antichi o di modello a cilindro, piuttosto raro per le donne o, infine di bassa e semplice cupola e tesa dritta, ornati di nastri.

    Spesso i costumi degli adulti venivano adattati anche ai bambini. Il maschietto di Merano e la ragazzetta sarentina possono essere gli esponenti del genere. Il maschietto porta bravamente i suoi calzoni corti, carnicino da uomo, cinturone e corpetto ; poi, siccome è scapolo, inalbera fieramente le risvolte rosse di diritto e porta il cappellino con la piumetta bianca e il mazzolino di prammatica, oltre ai cordoni rossi che attestano la sua qualità di celibe. La relativa donnina ha l’aria della gallinella, per non dire della ochetta, savia e addomesticata; è graziosa con la sottanina larga e lunga, col fazzolettone incrociato sul camiciotto candido, col grembiulino legato alla vita come una vera massaia grande, spesso di stoffa eguale a quello della mamma, se questa è ancora giovane. La testina è accuratamente pettinata e tirata a pulimento; con i capelli spartiti e una lunga treccia che le gira intorno, è spesso ornata da un gran pettine Impero, di quelli semicircolari alti due dita, di tartaruga o di osso bianco intagliato e decorato di bustini che vanno sull’occipite da un orecchio all’altro.

    Se di questi costumi ormai s’è perduto quasi del tutto l’uso, salvo per « corpi » speciali o per qualche speciale solennità o in taluno dei centri più isolati e lontani dalle strade, permane tuttavia nella Regione in generale e nel contado dell’Alto Adige in particolare il rispetto del giorno festivo, sentito come giorno della Messa e della funzione serale, oltre che della visita mattutina all’osteria per consumarvi una colazione (trippe e vin bianco) dopo la Messa mattutina o la partita all’osteria del pomeriggio. Nei paesi l’abito festivo è di tutti, anche se il costume è scomparso; nell’Alto Adige richiama ancora qualche elemento nel taglio e decorazioni colorate delle finiture e dei risvolti o nei cordoni del cappello, i quali conservano il tradizionale significato. Sull’abito anche festivo gli uomini indossano spesso il grembiule da lavoro con pettorale per salvare il vestito della festa e poter eseguire i lavori indifferibili della stalla e altre occupazioni.

    Uno dei caratteristici tabernacoli lignei.

    Ragazze in costume durante una processione a Castelrotto.

    Tradizioni e feste

    L’uso dei costumi sopra descritti si ricollega oggi in molti paesi della Regione alle processioni, che sono tra le manifestazioni religiose più sentite. Anche se poco hanno di carattere folcloristico, limitato al fatto di indossare gli abiti più belli e più idonei, esse dimostrano il profondo sentimento religioso di queste popolazioni. Ogni gruppo ha nella processione il suo posto appropriato. Alla Croce che la precede, affiancata da portatori di lanterne, seguono i bimbi delle scuole materne, spesso con i lindi grembiulini della divisa, accompagnati e vigilati dalle suore cui ne è affidata l’istruzione, poi via via le classi elementari dai ragazzi più giovani della prima a quelli più grandicelli, giunti alla fine dei loro obblighi scolastici in due ordinate file esterne, mentre in mezzo, distanziati tra loro, sono i maestri. Alle scuole fa seguito il gruppo degli uomini, seguiti nelle processioni più solenni dalla banda del paese, spesso in costume o in divisa. E finalmente il coro salmodiante, di frequente assai educato, il clero e la statua della Vergine o del Santo o, come nella processione del Corpus Domini, il Santissimo. Seguono le confraternite femminili e a chiudere il corteo le donne.

    Gruppo bandistico in costume precede la processione a Vipiteno.

    Tradizionali gli ornamenti arborei e di rami lungo l’itinerario della processione del Corpus Domini, a ricordo della primavera già sbocciata, e gli altari eretti in punti stabiliti per le solenni benedizioni pubbliche. E questa l’unica processione pubblica, attraverso il paese, alla quale intervengono ufficialmente le Autorità: il Sindaco, la Giunta, i notabili in gruppo ordinato dietro al baldacchino sostenuto sopra l’Ostensorio portato dal Prevosto.

    Altrettanto tradizionale, un tempo più di oggi, la processione del Venerdì Santo con la reliquia della Croce. Veniva effettuata la sera a seguito della predica di commemorazione della Passione del Signore. Il buio della notte era rotto dalla illuminazione a candele di tutte le finestre lungo il percorso, dai lumini dei grandi e palloncini dei piccoli partecipanti. Una scena della Crocifissione di estremo verismo, ricostruita all’aperto con le tre croci, i guerrieri a piedi e a cavallo o quella del Santo Sepolcro, allogata in un basso avvolto lungo l’itinerario, rievocavano ai fedeli con un verismo statico, ma efficace, i momenti culminanti della Settimana Santa. A queste processioni della Passione ne fanno riscontro altre, come quella di Caldaro con cavalieri, cavalli e l’asinelio di legno del giorno delle Palme.

    Il profondo senso religioso e la « pietas » che legano gli abitanti dei paesi trovano espressione ancora viva nella partecipazione di molti ai momenti più importanti della vita umana. Il battesimo è cerimonia ancor oggi di tradizione viva. La piccola creatura in braccio alla levatrice o al padrino è portata in chiesa accompagnata dai genitori e dai parenti più intimi.

    Il passaggio da questa a miglior vita di chiunque del paese, anche se morto lontano, è comunicato a tutti dal suono prolungato della più piccola delle campane. E l’« agonia », che un tempo invitava il popolo a unirsi alle preghiere di chi assisteva il moribondo. L’ultimo saluto al defunto è recato nella sera in cui la salma è composta nella camera ardente da quanti hanno conosciuto il defunto e sono amici della famiglia. Si può ben dire che tutti si recano al « rosario » serotino. E alla fine delle meste preghiere, prima che la gente sfili davanti alla salma per l’ultimo saluto con l’acqua benedetta, nel silenzio seguente il brusio delle preghiere, la voce sommessa di un parente molto vicino al defunto, pronuncia le parole: Dio ve ne rimeriti a tutti. E un ringraziamento rotto dalla commozione del momento, ma anche l’avvertimento per tutti che la morte attende gli uomini. Ai funerali del giorno di poi molti partecipano per accompagnare l’amico, il conoscente, il paesano all’estrema dimora in mesto corteo ordinato tradizionalmente.

    Liete le manifestazioni del fidanzamento e delle nozze. Anche se oggi la tradizione è quasi del tutto sparita e le usanze del passato sono state sostituite da più modeste usanze, che delle antiche ricordano solo il corteo dalla casa della sposa alla chiesa per il rito e di qui all’albergo per il pranzo di nozze, vai la pena di ricordare tali vecchi usi, soprattutto tradizionali della Ladinia e del Trentino.

    Le cerimonie nuziali che rappresentano gli avvenimenti più importanti nella vita popolare, ancora oggi sono qua e là conservati secondo un rituale secolare. Gli usi in occasione delle nozze, che normalmente si svolgono in carnevale^ sono forse quelli maggiormente radicati e fastosi anche nelle tradizioni dell’Alto Adige. Si susseguono varie fasi che hanno inizio con la promessa di matrimonio, a cui tien dietro il toccamano davanti al parroco e l’iscrizione per le pubblicazioni fatta di sabato. Nella prima domenica i fidanzati si allontanano dal villaggio di buon mattino per far ritorno sulla sera, ma assistono invece fastosamente vestiti alla Messa della seconda e terza domenica; si ha poi lo scambio dei regali tra i futuri sposi ed i loro parenti: il genere dei doni è stabilito minuziosamente e varia da paese a paese. Una parte importante hanno, oltre che i testimoni, anche i camarits (donzelli, paraninfi) e le ragazze camuffate da vecchie, quando la mattina delle nozze si presentano allo sposo che si reca a casa della fidanzata per condurla all’altare, ed intrecciano commenti spiritosi e salaci dopo una finta ripulsa della sposa. La vecchia che vorrebbe sostituirsi alla giovane sposa è presente anche nei riti nuziali di Castelrotto e di Nova Levante. A Castelrotto, dopo le nozze, il sacerdote benedice del vino e lo offre da bere in una coppa agli sposi (è detta la « benedizione di San Giovanni »). Il passaggio del corteo per il paese è spesso ostacolato da una fune tirata lungo la strada, o addirittura da una barricata (si dice tirare « el zendèl » o, a Centa nel distretto di Lévico, far ria stroppaia), sulla quale si collocano scritte con i nomignoli degli sposi. Un uso nuziale assai singolare, della valle di Fassa, è la baschio, un’autentica commedia popolare che si recita quando una fassana va sposa in altro villaggio (essa ha suggerito lo spunto per un recente e suggestivo cortometraggio). « All’estremità del paese della sposa, diventa di prammatica la costruzione di quella specie di palco o castello di legname, la bastia, detta popolarmente baschio. Quando passa il corteo, c’è li pronta una pattuglia di uomini con un capo, il quale domanda ragione dell’asportazione dal paese del suo più bell’ornamento, e invita la comitiva a giustificarsene presso il ” presidente “, il quale non risparmia motti più o meno pungenti. Se nel corteo non c’è chi sappia rispondere per le rime, interviene un ” avvocato difensore “. Dopo alquanto motteggiare interviene il ” re de sò béna ” scaricato, appunto, da una cesta sul palco; e dopo una nuova esposizione dei fatti e frizzi del buffone o motteggiatore in capo egli sentenzia inappellabilmente essere obbligo di civiltà lasciare libertà d’azione alla brava gente, non senza rammaricarsi di dover perdere ” il più bel gioiello della sua corona ” per il quale egli è in diritto di esigere ” dazio ” e riscatto. Lo sposo o la famiglia paga, e gli attori si riuniscono a bere.

    Giovani sposi nei ricchi e caratteristici costumi a Castelrotto.

    Processione del Corpus Domini a Santa Cristina in vai Gardena.

    «Altrove ancora, altre varianti. All’uscita della sposa dal proprio villaggio, si presenta alla comitiva un manipolo di uomini che vieta il passo; e si inizia contro lo sposo un processo per ratto, al quale intervengono il re, i soldati, i giudici, gli avvocati, i testimoni d’accusa, i cancellieri, ecc. A difesa interviene la sposa, ottenendo l’assoluzione del marito; ma solo per trovarsi accusato con lei di complicità e di diserzione dai parenti propri e dai conterranei che abbandona. A difendere la figlia sorge allora il padre, invocando il diritto di collocare la figlia dove crede meglio; il re concede, ma a patto (riscattabile) che essa non metta più piede nei confini “del regno”. E si ripiglia la strada in pace, verso il villaggio dello sposo. Ma arrivati lì, manco a dirlo, si fanno nuovi incontri, e nuove difficoltà si oppongono al cammino della comitiva. Viene incontro al corteo una commissione preceduta da un suonatore, e composta di due alfieri con la bandiera municipale, e di un buffone con due seguaci, beninteso, tutti in costume, offrendo a nome del paese vin cotto, bianco e nero, col quale si brinda. Le comitive si riuniscono, col suonatore in testa, per un’entrata solenne. In piazza, mentre i banderali fanno il loro triplice sbandieramento in onore della sposa (il panno non deve mai toccar terra), profittando della distrazione, la sposa viene ” rubata ” da amici e portata a nascondersi in una osteria dove le si offre un caffè, e dove naturalmente viene ritrovata dal corteo che si ricompone per presentarsi finalmente a casa dello sposo, e chiedere in sembianze di stanco pellegrinaggio un’ospitalità che viene dapprima duramente rifiutata. Dopo altre discussioni si arriva ad un compromesso: si ammetteranno in casa i pellegrini, purché la padrona di casa possa fra essi scegliere la persona che più le piace. Naturalmente la padrona che è la suocera, sceglie la nuora, non senza farle una lunga predica sui doveri della vita quotidiana nella nuova famiglia, dopo di che si va a pranzo. Finito il pranzo, arrivano sotto le finestre i cantori a recitare una lunga storia che designa a nome uno per uno i commensali. A misura che sono designati questi scendono a far corona ai cantori. Finita la storia con la strofa della ” buona notte “, risalgono tutti in casa, dove si beve e si balla fino a tarda ora » (Amy A. Bernardy).

    Tra le altre solennità celebrate con cerimonie tradizionali si ricorderà il Natale, la vigilia dell’Epifania col canto di tipiche canzoni da parte di fanciulli che, girando di casa in casa, ricevono l’omaggio delle beganate o beghenate (in Rendena indicava insieme il canto e i doni dell’Epifania), la curiosa scena offerta alla fine della Messa dell’Ascensione (in alcuni luoghi della Pusteria) con l’elevazione di una statua tirata da corde attraverso un foro praticato nel soffitto della chiesa; i fuochi della sera di San Giovanni ed in altra ricorrenza ed il lancio delle rotelle infuocate (Sonnwend-scheiben) che ricordano antiche feste del solstizio. Non mancano inoltre nel Trentino tracce di celebrazioni del Calendimarzo (trar marz « tratto marzo »). Una festa importante in vai di Fiemme era quella del Bangeràl o Bandierài, con la nomina dei porta bandiera delle 11 regole della Comunità e di altre cariche.

    Il parco col « banco della resón » a Cavalese

    Resto dell’antica tradizione di queste elezioni e dell’amministrazione pubblica della Comunità di Fiemme, è il « banco della resón » di Cavalese, che sorge in mezzo al magnifico parco della Pieve. E un tavolo di porfido circolare di quasi due metri di diametro; intorno si hanno due ordini di bancali ad anello interrotti per consentire l’accesso agli incaricati dell’amministrazione della giustizia.

    « Tale costruzione risale ad antichissima epoca », scrive N. Franzellin, « e serviva da seggio allo Scario (la massima autorità) ed ai Regolani dei quattro quartieri (della Comunità) quando sul prato della Pieve si radunavano tutti i vicini della Comunità per prendere delle decisioni importanti o per votare qualche nuova legge. Tali riunioni avvenivano generalmente una volta all’anno, il 15 agosto e chiamavansi « Comun general ».

    Nei filò (riunioni) notturni, raccolti generalmente nelle stalle, si raccontavano vecchie storie e si leggevano classici libri popolari (Genoveffa, I Reali di Francia, ecc.). Tra gli spassi carnevaleschi è ancora in uso lo scialo della zobia del pocin (da post-cinium, cfr. italiano pusigno), l’ultimo giovedì di gennaio, ed erano famose, un tempo, le mascherate degli aratori a Tèsero e a Predazzo, quella dei mesi a Cembra e la caccia al Salvanèl a Panchià.

    Ancora qualche riferimento a tradizioni in parte però ormai scomparse si può trovare nell’uso di particolari cibi e bevande, nonché nell’orario e nella successione dei pasti. Di tutto ciò l’elevato tenore di vita e l’ormai scomparso isolamento hanno quasi distrutto il ricordo anche nelle generazioni più mature. Qualche riferimento tuttavia ancora permane nella cucina; in Alto Adige è ancora largamente diffuso il consumo dei « Knòdel » di vario tipo, ma di cui il fondamentale è l’impasto di farina, pane messo prima a bagno nel latte, pancetta e qualche insaccato tagliato a piccoli cubetti. Da tale impasto si ricavano delle palle di varia grandezza e secondo del come debbono essere servite, cioè in brodo o asciutti con spezzatino di carne o anche con l’insalata per le mense più modeste. E ancora pasto tipico dei « masi », ove la scodella fumante viene messa al centro della tavola e ciascuno dei commensali si serve a cominciare dal capo di casa e secondo un certo ordine.

    Anche nel Trentino un tempo più di oggi l’uso dei « canederli » era abbastanza diffuso, specialmente nelle valli aventi più stretti rapporti con l’Alto Adige. Ma base dell’alimentazione trentina era ed è ancora rimasta in varie zone la polenta, fatta di farina media o grossa, rapidamente preparata anche nelle malghe e nelle cucine all’aperto o di fortuna dalle « compagnie » di boscaioli e consumata col latte e più di frequente col formaggio o con lo spezzatino di carne. L’uso della polenta si comprende facilmente a causa della mancanza, un tempo, di forni e delle relative rivendite di pane. Oggi che il pane è quasi ovunque reperibile l’uso della polenta, sostituto del pane, o delle patate lesse, consumate allo stesso scopo, è notevolmente diminuito soprattutto da parte delle popolazioni che non vivono dei prodotti della propria attività agricola. Così anche nelle plaghe come la vai di Non o le zone a vigneto sono ormai consumatrici di pane. E altrettanto dicasi delle malghe o dei boscaioli, giacché anche in quei punti è ormai spesso facile arrivarvi celermente e con facilità.

    Vedi Anche:  Reticolo idrografico, bacini e fiumi

    Danze folcloristiche in costume nel meranese.

    Non molto tipico ormai l’orario dei pasti. Un tempo in quasi tutta la Regione il primo pasto, quello del mezzogiorno era consumato alle n, preceduto da una colazione fatta dai lavoratori dei campi intorno alle 8 e mezza e le 9 dopo tre ore circa di lavoro. Altra merenda intercalata tra il pasto delle ne quello della sera era consumata intorno alle 3, sempre nel caso di lavoratori dei campi o anche di operai. Oggi gli orari, salvo che per alcuni periodi di più intensa attività agricola (es., la fienagione), si sono uniformati e adeguati a esigenze collettive assai più sentite.

    Così può dirsi anche della composizione dei pasti, con riferimento, ad esempio, all’uso della frutta, che un tempo era assolutamente invisibile nelle zone non produttrici e consumata solo quale eccezione fuori pasto. E altrettanto può dirsi del vino, il cui consumo era assai in uso, sia pure in determinate occasioni un tempo, e quale bevanda da pasto oggi. E anche questo un indice del variato tenore di vita medio e della diversa possibilità di collegamenti stradali di un tempo e di oggi.

    La differenza in tal senso spiega anche la diversa importanza delle fiere e dei mercati e lo spostamento sempre più in alto e nei paesi più sperduti degli ambulanti.

    Fiere e mercati vi sono ancora, ma le bancarelle dei venditori di frutta, giocattoli, telerie o scarpe, ecc., vanno scomparendo, perchè chi ne ha bisogno acquista la merce quando serve o quando vi sono i denari o anche « a credito » dal negoziante del paese che sa fino a che punto può fidarsi. L’ambulante vuole i denari, che non sempre sono disponibili.

    Castelrotto. Costumi festivi.

    Volendo dire una parola conclusiva a tali aspetti del folclore e delle tradizioni si può forse sottolineare l’appiattimento della vita e la scomparsa di talune abitudini, anche se esse non erano tipiche della sola nostra Regione, ma simili o addirittura dello stesso tipo di altre zone montuose. La vita della montagna si è trasformata. L’intenso afflusso dei turisti e dei villeggianti ha insegnato usi e costumanze una volta sconosciute; l’intraprendenza dei locali ha fatto aprire negozi di ogni genere, spesso sotto forma di cooperative, in cui si comprano i generi alimentari principalmente, spesso con la comoda forma del credito per i soci, ma anche le scarpe, la padella o i piatti in sostituzione di quelli rotti, o la tela per le lenzuola e via dicendo.

    E i villeggianti hanno importato e diffondono vieppiù la moda. La ragazza e il giovane del paese non apprezzano più i vecchi e tradizionali costumi e vestiti, ma cercano le calze di nylon o il golfetto colorato o le scarpette col tacco a spillo! E che dire in tal campo dell’influsso della radio e della televisione, sul cui video, in certi casi, sono confinati i costumi e le usanze paesane.

    Se tutto ciò può suonare stonato per quelli delle generazioni anziane, rappresenta una conquista dei giovani e segna il graduale innalzamento del livello di vita o di differente organizzazione sociale, che hanno richiesto il sacrificio della tradizione e delle abitudini di un tempo.

    Le leggende

    Altro aspetto della vita folcloristica è l’esistenza di tradizioni leggendarie. Particolarmente ricca di leggende, come si sa, è la Ladinia dolomitica; esse hanno anzi ispirato le narrazioni di K. F. Wolff, il quale ha rielaborato, e spesso ha rimanipolato di fantasia, le antiche saghe popolari anche di altra origine in alcuni fortunati volumi (in traduzione italiana: I monti pallidi, Nel regno di Fanes, ecc.). Più fedeli a volte e genuine nell’ordito fiabesco e nella veste locale, sono invece altre raccolte meno note, dovute soprattutto a G. Alton, Chr. Schneller, Dante Marini, A. Vittur, V. Filippone, ecc.

    Il fondo antico delle tradizioni e leggende ladine è nettamente latino, ma esse rivelano, d’altro canto, contatti col confinante mondo germanico ed infiltrazioni più recenti italiane; non mancano infatti riscontri con fiabe e leggende popolari diffuse soprattutto nel Trentino e nel Veneto settentrionale.

    Le leggende ladine dolomitiche favoleggiano spesso dei Salvans (dal latino Sil-vanus), esseri misteriosi che abitano nelle foreste, nelle caverne e vestiti di pelle di capra o di lepre, innocui ma vendicativi e dotati di forza immane; si vedevano specialmente a Colfosco e molto nota è la storia del Salvati di Pontives, brutto e pericoloso che fu sposato per una scommessa da una contadina bizzarra. Compagne dei Salvans erano le Ganes (o Ag(u)anes, ecc., dal latino aquana, che alla pari di Silvanus della mitologia classica, divinità tutelare delle selve, erano protettrici delle fonti), molto diffuse del resto anche ali’infuori del mondo ladino e note alla letteratura dugentesca italiana settentrionale (è stata proposta anche una connessione delle Aganes con le celtiche Adganae, le matres). Una Gan(n)a della valle di Mezzodì (vai de Mesdì nel gruppo del Sella) sposò un valligiano di Pezzé sotto condizione che il marito non la toccasse col rovescio della mano, ma questi distratto, togliendole un moscerino, le sfiorò la fronte e la Gan(n)a sparì dando un grido e uno sguardo desolato al marito e ai figli che abbandonava. Alcuni nomi di località dolomitiche ci tramandano il ricordo dei Salvans e delle Gan(n)es (esseri analoghi sono i Vivans e le Vivenes, i Pantegans e le Panteganes) e di altri esseri favolosi quali, ad esempio, le Stries « streghe » (cfr. Sass de Stria, Pian delle Stries, ecc.) ; queste ultime non sono però tanto cattive da rubare fanciulli, come le streghe germaniche, ma incutono paura anche ai preti e sono specializzate in danze infernali. Altra celebre leggenda si riferisce al lago di Carezza (Lèc del ergobando « arcobaleno »), abitato da una bellissima ninfa per la quale un Salvano innamorato costruì un meraviglioso arcobaleno. Altre fiabe raccontano ancora della principessa Soregina, fanciulla bellissima che viveva di sole, oppure di orchi, della eroda di Albolina, dei dragoni di Boa e di Mazzìn, del Cavaliere Bracco, eroe leggendario delle valli (era probabilmente Francesco Guglielmo Prack) e di altri fatti in cui si può cogliere un’eco lontana di epiche lotte tra i feudatari locali, narrate e travisate dai cantastorie.

    Un suggestivo scorcio del lago di Carezza anticamente chiamato Lèc del ergobando « arcobaleno ».

    Il Catinaccio.

    Una leggenda, legata al noto arrossamento serale delle Dolomiti, è quella del Re Laurino; mette conto di riassumerla qui (da G. Poli, Venezia Tridentina, Utet, 1927), anche se non trova riscontro in leggende locali.

    « Fra la valle dell’Adige, dell’Isarco inferiore e quella di Fassa sorge il Catinaccio o Rosengarten, come lo chiamano i Tedeschi, che in italiano vuol dire giardino delle rose… (interpretazione letteraria).

    « In mezzo a quel fantastico paesaggio viveva un re nano di nome Laurino, il cui dominio si estendeva a un popolo di nani fedeli, laboriosi e affezionati al loro signore.

    « Le rocce del Catinaccio non erano in quel tempo brulle come si presentano oggi. Il re Laurino, forte di potenza magica, le aveva rivestite con un magnifico manto di rose rifiorenti tutto l’anno. Le rose baciate dal sole olezzavano, e un’aria mite e balsamica si spandeva in un’atmosfera purissima.

    « Il regno di tanta beltà fantastica non era difeso da soldati, nè recinto da mura, ma da un semplice filo di seta. Il re Laurino, giovane saggio e intelligente, viveva solo, senza famiglia, circondato dall’affetto e dalla stima dei suoi sudditi. Stanco della solitudine, pensò essere cosa migliore condividere il regno con una donna e crearsi una famiglia per assicurare in tal modo la continuazione di un governo di giustizia illuminata sul popolo dei nani.

    « Raccolto il Consiglio della corona, seppe che là verso mezzogiorno, dove terminano le Alpi, dove fiorisce l’alloro e sui colli fra il verde delle foglie sorridono i grappoli bianchi, rossi e neri dell’uva, viveva alla corte di un re una giovane principessa bella, gentile e finemente educata. Ai tre membri migliori del Consiglio affidò l’incarico delicato di chiedere la mano di sposa alla principessa.

    « Gli ambasciatori dopo lungo viaggio traverso i monti giunsero finalmente alla meta. Rivolti al comandante della guardia del corpo, chiesero udienza al re. Il comandante Vitige, vedendo i piccoli esseri umani, risponde con parole sprezzanti e li respinge. Questi insistono e ottengono l’udienza desiderata. Il re accoglie l’ambasciata nella sala del trono, ascolta con affabilità la domanda, e dà ordine che sia chiamata Similde. Questa, colpita e confusa per la domanda improvvisa, protesta con gentilezza di non sentire forza bastante per abbandonare la casa paterna, i genitori e il diletto fratello. A nulla valsero le descrizioni delle magnificenze del Catinaccio e della bontà di Laurino.

    « Gli ambasciatori s’incontrarono nuovamente con Vitige, che li apostrofò con parole ingiuriose per la loro domanda sfacciata. Quelli risposero con lo stesso tono. Sarebbero venuti alle mani, se non si fosse interposto a fare opera di pacificazione il nobile e saggio Ildebrando.

    « Vitige, punto sul vivo, rincorse nella notte i nani petulanti e li raggiunse in una selva. Accesasi una zuffa violenta, un nano restò morto, mentre i due superstiti, fuggiti, recarono la triste notizia al loro signore.

    « Laurino, dolorosamente colpito, non sa darsi pace. Dopo molta esitazione decide di ricorrere alla sua potenza magica, e incarica un manipolo di cavalieri di rapire

    Similde. Immenso fu il dolore del padre e di tutta la famiglia. Sette anni visse in prigionia Similde sempre pensando alla cara famiglia e alla patria lontana. A ogni richiesta di matrimonio da parte del re Laurino rispondeva sempre, pur usando modi gentilissimi, con un rifiuto irremovibile.

    « Il fratello di Similde continuò con ardore le ricerche. Dopo sette anni gli venne finalmente la notizia che la sorella viveva prigioniera nel castello incantato del re Laurino. Chiamò a raccolta tutti i suoi cavalieri, propose loro l’impresa e chiese se fossero disposti a seguirlo sulle Alpi. Si stabili di partire al più presto possibile, ma il saggio Ildebrando sconsigliò il principe, osservando che una potenza magica rendeva invincibile re Laurino.

    « Si pensò allora di ricorrere all’eroe Teodorico, che viveva in Verona. Questi accettò l’offerta… « Fatti in fretta i preparativi, la spedizione si mise in marcia. Dopo lunghe fatiche fra burroni e selve inaccessibili i guerrieri giunsero finalmente in una valle verde di prati e di selve. Davanti al loro sguardo attonito si presentava sfolgorante il castello incantato.

    « I cavalieri restano un po’ perplessi ammirando tanto spettacolo, poi si muovono decisi di assalire il castello incantato. Avanzano con precauzione, ma non vedono nè mura, nè spalti, nè guardie. Traverso la strada trovano disteso un sottile filo di seta. Teodorico si ferma e protesta di non voler più avanzare, sostenendo di aver preso parte alla spedizione per espugnare castelli fortificati, o per combattere in campo aperto con armi brunite, ma non per invadere un’abitazione pacifica di gente che non cerca la guerra.

    « Vitige, adirato, non si ferma, e fatti alcuni passi, con un colpo di spada taglia l’esile filo.

    « L’eroe non aveva ancora rinfoderata la spada, che da una macchia di rose balzò re Laurino, cinto il capo di una lucente corona d’oro, armato di scudo tersissimo, di lancia e spada, pronto a punire il temerario che aveva osato tagliare il filo di seta, che segnava il confine sacro del suo regno inviolabile.

    « Vitige non si lasciò intimorire ; affrontò con spavalderia il temerario re dei nani. Nella lotta terribile, fu presto sopraffatto. Teodorico, corso in aiuto di Vitige, assalì il nemico con estremo vigore e seppe così destreggiare, che arrivò a togliergli la cintura magica che lo rendeva invincibile.

    « Laurino, privato improvvisamente della sua forza straordinaria, depose le armi e si gettò ai piedi dell’avversario implorando la sua magnanimità. L’eroe Teodorico stese la mano al vinto re rialzandolo in segno di pace. Il fratello di Similde si presentò allora al re e con imperiose parole chiese conto della sorella rubata.

    « — La tua sorella, nobile cavaliere, abita nel mio castello in magnifiche sale e stanze, nulla le manca di quanto desidera; ha numerose dame e servi a sua disposizione, nè mai le fu fatta la più piccola violenza da alcuno, avendola sempre tutti considerata come nostra regina.

    « — Nano, poche parole, o mi conduci tosto da mia sorella, o ti piglio per un piede e ti sfracello la testa su quella roccia.

    Le Torri del Vajolét.

    « Teodorico intervenne in favore di re Laurino, ma il fratello di Similde e i suoi compagni si facevano sempre più minacciosi, quando s’aprì improvvisamente una porta nella roccia, e Similde apparve sfolgorante accompagnata da numeroso e ricco seguito di dame. Corse fra le braccia del fratello pregandolo e scongiurando di rispettare re Laurino, perchè uomo di nobile carattere, generoso e onesto.

    « La calma ritornò fra gli eroi, le armi furono deposte e, scambiate parole di pace, Laurino, rappacificato, invitò i presenti a seguirlo nel castello per sedere con lui a banchetto. Tutti accettarono la proposta tranne Vitige, che rifiutò di stringere la destra del nano e rimase fuori del castello. Alla sera il castello rifulse insolitamente di luce sfolgorante durante una sontuosa festa, terminata la quale, agli ospiti furono assegnate magnifiche stanze riccamente addobbate. Il silenzio e l’oscurità avvolsero ogni cosa.

    « Vitige, rimasto fuori del castello, quando tutto fu silenzio, si mise a girare nelle vicinanze, come se avesse intenzione di penetrarvi con i suoi compagni armati. Le guardie di re Laurino notarono il movimento sospetto dei nemici e corsero a darne avviso al loro signore. Questi, temendo un tradimento, chiamati a raccolta i suoi fidi, distribuì loro dei mantelli che li rendevano invisibili, raccomandando di seguirlo e, in caso di lotta, di tenersi sempre coperti. Laurino, uscito con i suoi dal castello, affrontò Vitige e, impegnato tantosto un furioso combattimento, ricacciò gli assalitori e li rovesciò giù per le rupi.

    « Al rumore insolito e alle grida gli ospiti, risvegliati, balzarono in piedi sospettando qualche tradimento da parte del re. Decisi di vendere cara la propria vita, si gettarono nella lotta; ma i nemici erano invisibili. Malgrado mirabili sforzi di valore, furono presto vinti e fatti prigionieri. Spogliati delle armi e legati, furono rinchiusi in orride prigioni. Teodorico, sempre persuaso di essere stato vittima di un nero tradimento, si struggeva dalla rabbia. Mandando fuoco dalla bocca, sciolse le catene che gli serravano i polsi, e liberò i compagni. Similde accorse e consegnò un anello che distruggeva la virtù magica dei mantelli, rendendo visibili i guerrieri che li indossavano. Divelte le porte del carcere e uccise le guardie, corsero addosso ai combattenti nani incitando con grida di vituperio, perchè Laurino si difendesse dalla loro ira punitrice per la parola mancata. Venne incatenato, e i nani furono uccisi.

    « Gli eroi meridionali, abbandonato il castello delle rose e i monti, fecero ritorno alla patria trascinando il vinto re. Relegato in un castello, la custodia fu affidata a Vitige. Per impedirgli la fuga Laurino fu legato a una colonna con una lunga corda di cuoio. Per maggiore scorno e umiliazione di quando in quando, liberato dai lacci, era costretto a cantare e ballare per divertire il corpo di guardia e gli amici che convenivano dai castelli vicini. Molti mesi sofferse il misero re dei nani la dura prigionia e gli insulti dei suoi nemici implacabili, lamentandosi della sorte crudele che lo aveva spogliato di ogni bene.

    « Una notte durante la quale i custodi si erano divertiti più del solito in un lauto banchetto, mentre l’infelice prigioniero aveva dovuto cantare e saltare, appare l’occasione propizia per la fuga. Libero finalmente, mentre una quiete sepolcrale dominava tutt’intorno, uscì dalla prigione maledetta, prese la via dei monti, allontanandosi in fretta dalla terra dolorosa dell’esilio.

    « Lasciando le strade comuni e tenendosi fra le selve, potè fortunatamente sfuggire all’inseguimento dei nemici. Dopo diversi giorni di cammino apparvero ai suoi occhi il fantastico Catinaccio e il giardino delle rose.

    « La potenza magica torna nella mente e nelle membra del re. Il castello portentoso sta aperto al vecchio padrone, i nemici sono finalmente spariti, tutto è silenzio, pace e tranquillità, il sole splende con una festa di luce, e le rose in una pompa regale olezzano sui colli, sui margini, sulle torri e sugli spalti. Il re dei nani si ferma, contempla il suo regno e se ne compiace. Però alla gioia si mescola un triste pensiero che gli offusca la mente. Quelle splendide rose, pensa, furono causa di tutte le mie disgrazie, perchè rivelarono ai nemici la via del castello; per la sicurezza mia e dei miei sudditi devono essere tolte; e lancia contro di esse le fatali parole: ” Voi rose, non vi mostrerete più nè di giorno nè di notte La maledizione ebbe piena efficacia. Da quel giorno le famose rose non si mostrarono più nè di giorno nè di notte, e la montagna del Catinaccio brulla e inaccessibile manda le sue braccia stecchite e pallide in alto, quasi voglia, sdegnando la terra, rivolgersi a favellare solo col cielo.

    « La maledizione tuttavia non fu assoluta e completa. Fra il giorno e la notte si dànno due spazi intermedi: il crepuscolo vespertino e l’aurora. Questi due periodi di tempo sfuggirono alla maledizione; onde al sorgere del sole e al tramonto, nei giorni sereni con atmosfera diafana, su le vette del Catinaccio, le rose della leggenda continuano ad apparire nell’antica magnificenza, passando con la luce da un colore aureo, giallo, aranciato e croceo nel rosso vivo e languido con tutte le sfumature immaginabili. La montagna si accende come un vulcano in piena attività; investita da vortici di fiamme rutilanti, manda lampi e bagliori per languire e spegnersi nella quiete della notte, o impallidire sferzata dai raggi infocati del bel sole d’Italia ».

    Un essere favoloso dei Ladini è anche il Bao, un uomo gigantesco che afferra i ragazzi con le dita adunche, ma una sua presunta connessione col Wotan germanico è illusoria (Alton) poiché si tratta verosimilmente di uno spauracchio (cfr. Babàu) dei bambini; uno «spauracchio o folletto in un campo seminato di fave» è, del resto, il Pavarò e la derivazione proposta (Alton) da pavor o da fabareolus è erronea poiché il confronto con altri dialetti dolomitici e veneti suggerisce una etimologia assai più semplice da paleareolus (palea, cfr. il tipo pavaruol, pearguó, paiaról, pagaruol, ecc.), cioè, in origine, uno spaventapasseri fatto di paglia. Alla ricchezza e al fascino delle leggende dolomitiche fa riscontro nella Ladinia una povertà od una scarsa originalità di canti popolari; si possono ricordare i melanconici canti dei falciatori (ciantes de sotus), un tempo accompagnati dalla vidora e la canzone della Marmolada. Non hanno particolare interesse le varie cantilene, filastrocche, indovinelli che ritornano con varianti in quasi tutta l’Italia settentrionale; altrettanto si dica per i proverbi in cui spiccano, per la saggezza popolare empirica, come altrove, quelli che si riferiscono ad osservazioni meteorologiche.

    Nelle fiabe del Trentino è molto comune l’orco ed in qualche paese si favoleggia anche del Teatrico, un essere mostruoso sparuto con sei lunghe gambe, tali da scavalcare montagne e che tiene al suo servizio uno stuolo di cani per inseguire e sbranare bambini disubbidienti o uomini increduli. Non manca alle leggende trentine, ed in particolare fiamazze, il Salvanèl (cfr. il Salvdn ladino), ometto pieno di malizia e di inganni che saltella davanti ai viandanti lungo i faticosi sentieri di montagna (tale folletto è vivo anche nelle fiabe del Bellunese). L’incubo nella fantasia popolare diventa il Calcatràpole o Calcarót, il quale si adagia sullo stomaco dei bambini golosi o dei dormienti che hanno abusato del cibo (analoghe denominazioni che partono dal concetto di « calcare » o « pesare » sono, ad esempio, il romagnolo calcarei o il leccese calcaluru).

    Altri esseri fantastici delle fiabe trentine sono il ladro Calzetarossa (simile al Gambarétol o Comparétol dell’Agordino), il Basadone, una specie di Eolo benefico che soffia continuamente e che trattiene i bambini in casa quando imperversa la bufera, il Barzola, una specie di spauracchio della Rendena, il Basilisco di Mezza-corona, un mostro che vola sopra i monti della valle di Non, lascia cadere gocce di mortifero veleno ed ha un alito micidiale, il Dragone di Campiglio nelle Giudi-carie, ecc. ; è pure nota la fiaba, molto divulgata, del serpente che si tramuta in una bellissima donzella (cfr., ad es., il cantare popolare la Polzella gaia).

    La Marmolada.