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Cultura e tradizioni

    La popolazione: cultura e tradizioni

    Scuole ed analfabetismo

    Che la Toscana sia terra di antica cultura letteraria, artistica e scientifica, è cosa a tutti così nota che sarebbe superfluo ricordare qui le sue tradizioni in questo campo e il nome dei molti poeti, scrittori, pittori, scultori, cosmografi, matematici, nati e vissuti nelle città toscane. Terra senza dubbio di cultura raffinata e spirituale, che si è riflessa nel buon gusto e nell’eleganza dell’artigianato, dell’architettura (quella di una volta almeno, sia nelle città che nelle campagne), degli arredamenti, la Toscana è però anche terra di analfabetismo in una misura che sorprende e fa contrasto con la grandiosità delle tradizioni culturali.

    Nei secoli scorsi i governi granducali, specie quello dei Medici, se potenziarono alcune istituzioni cittadine di carattere letterario e scientifico, se favorirono l’opera di singoli architetti, artisti o studiosi, non fecero certo molto a favore dell’istruzione popolare. All’unità d’Italia, l’analfabetismo raggiungeva quasi i tre quarti della popolazione e al censimento del 1871 risultò del 68 per cento, una percentuale cioè ben più alta di tutta l’Italia settentrionale, di poco inferiore a quella delle regioni centro-meridionali. Nel 1911 si aveva ancora il 37 per cento di analfabeti sopra i sei anni, e la situazione era particolarmente grave per le donne. In molti comuni della Toscana meridionale si superava ancora il sessanta per cento. Nel 1921 si scese al 28 per cento, con forti differenze da parte a parte: i comuni urbani apparivano in situazione migliore con percentuali tra il dieci e il quindici per cento, ma i comuni rurali erano ancora in penose condizioni (quaranta e più per cento). Tutto ciò anche se il governo aveva fatto indubbi sforzi per aprire nuove scuole nelle città e nelle campagne.

    Durante il fascismo si credette di risolvere il problema dell’istruzione togliendo dai censimenti il rilevamento degli analfabeti, cosicché manca per quel periodo ogni dato sicuro. Al censimento del 1951 risultavano ancora trecentomila analfabeti, ma solo poche migliaia in età di obbligo scolastico. Il problema dell’analfabetismo, come si vede, non è ancora risolto, e si è ancora lontani dalle minime percentuali dei paesi più sviluppati. Si deve però tener presente che la maggior parte degli analfabeti è di età matura.

    I problemi dell’istruzione sono particolarmente gravi in Toscana, perchè troppo trascurate nei decenni scorsi l’edilizia e l’attrezzatura scolastiche: le classi si affollano talora in due e persino tre turni giornalieri, in aule spesso misere e poco aereate; talora nelle campagne un solo ambiente raccoglie tutte le classi della scuola elementare. Nel solo comune di Firenze mancano, secondo dichiarazioni ufficiali, ben millecinquecento aule. L’insediamento rurale sparso, in case isolate e lontane dai centri, rende inoltre più difficile la frequenza scolastica.

    Quasi assente lo Stato nella scuola materna, pressoché del tutto affidata a istituzioni religiose; insufficienti gli asili pubblici sia in città che in campagna: nella provincia di Firenze, per esempio, esistono non più di sessanta asili pubblici quasi tutti superaffollati, di fronte a duecentoventi privati. La percentuale dei primi scende notevolmente in altre province, come in quella di Pistoia (3 contro 60) e in quella di Massa Carrara (5 contro 72 nel 1955). I fanciulli che frequentano l’istruzione preelementare non raggiungono nell’insieme un quinto di quelli delle scuole elementari. Questi ultimi — circa 230.000 — frequentano per quasi il novanta per cento la scuola pubblica.

    L’istruzione media inferiore è invece assicurata da scuole abbastanza numerose e di ogni tipo, che raccolgono circa settantamila alunni, ripartiti in cifre quasi uguali fra scuola media e scuola di avviamento. Con il 1963-64 è entrata in funzione la nuova scuola media unificata. I licei classici sono frequentati da circa settemila studenti (un quinto circa in istituti privati), quelli scientifici da cinquemila. La scuola privata ha importanza particolare nell’istruzione magistrale, dove accoglie un terzo della scolaresca, prevalentemente femminile (circa duemila su seimila alunni).

    Cospicua è la popolazione scolastica degli istituti tecnici (dodicimila alunni) ma non altrettanto quella delle scuole tecniche professionali, cui spetta il compito di preparare manodopera specializzata, preziosa nell’economia di una regione moderna (circa seimila alunni). Tra gli istituti professionali specializzati, ricorderemo la Scuola Agraria per vivaisti di Pescia, la Scuola dei marmisti di Carrara e quella di Pietrasanta, la Scuola d’Arte del Legno di Càscina, l’Istituto per Lanieri di Prato, la Scuola del Mosaico di Montepulciano, l’Istituto d’Arte Ceramica a Sesto, l’Istituto Artistico Industriale di Volterra.

    Due università di antica data, quelle di Firenze e di Pisa, oltre alla recente università di Siena, hanno avuto in totale negli ultimi anni quasi ventimila studenti.

    Una via di Collodi.

    L’Università fiorentina comprende dieci facoltà, con circa seimila studenti, e quella di Pisa nove facoltà con altrettanti studenti (un terzo circa fuori corso). Un migliaio di studenti è ripartito fra le tre facoltà senesi. A Pisa ha anche sede la Scuola Normale Superiore.

    Numerose le istituzioni culturali, tra le quali primeggiano per lustro e per antichità la fiorentina «Accademia della Crusca», fondata nel 1582 da Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, 1’« Accademia dei Georgofili », fondata a Firenze nel 1753, la più antica d’Italia in materia di agricoltura, la « Società Colombaria », sorta nella stessa città nel 1735. All’inizio del Cinquecento nacque a Siena 1’« Accademia dei Rozzi » per il culto dell’arte drammatica e nel 1657 l’Accademia delle Scienze detta «dei Fisiocritici » per la diffusione della cultura scientifica. Al 1584 risale la lucchese « Accademia di Scienze, Lettere ed Arti », fondata da Lorenzo Mal-pighi col nome di « Accademia degli Oscuri », e al 1450 1’« Accademia Valdarnese del Poggio », creata a Montevarchi per iniziativa di Poggio Bracciolini, segretario della Repubblica Fiorentina. Per lo studio delle lettere e delle scienze furono fondate a S. Miniato nel 1644 1’« Accademia degli Affidati» divenuta poi «Accademia degli Euteleti » e a Cortona nel 1727 1’« Accademia Etrusca », che nella sua sede di Palazzo Pretorio curò la raccolta di preziosi cimeli bibliografici.

    L’« Accademia dei Discordi» fondata ad Arezzo nel 1623, divenuta poi «Accademia dei Forzati» nel 1683, si è trasformata nel 1810 nell’« Accademia Francesco Petrarca », mentre 1’« Accademia dei Derelitti » di Massa (1773) è divenuta nel 1816 « Accademia dei Rinnovati ». Molte altre istituzioni culturali e società storiche e scientifiche hanno più recente origine e risalgono in gran parte al diciannovesimo secolo. Superfluo ricordare la imponente serie di musei e di biblioteche, che, accanto ai monumenti e a tutte le altre opere d’arte, dànno alla Toscana una ben meritata notorietà e una posizione di primo piano nella storia della cultura.

    Le tradizioni familiari

    Il patrimonio delle tradizioni popolari era una volta molto ricco in Toscana, ma appartiene ormai, in massima parte, al passato. Si sono persi, diluiti dal tempo e dal livellamento della civiltà moderna, costumi, usanze e credenze tradizionali, sia nei ceti rurali che urbani: ne restano traccia nel linguaggio letterario e popolano, in qualche modo arguto di dire, nei motti scherzosi che riguardano la vita di ogni giorno.

    Il popolo toscano, non è legato per mentalità alle tradizioni formali, ai riti religiosi o profani, anche se molto vivi sono ancora, specie in campagna, i pregiudizi e le superstizioni; molte manifestazioni popolari, assai snaturate da quelle che erano in origine sono divenute perciò più che altro occasioni di ritrovo o di escursioni all’aperto.

    A San Gemignano, in Lucchesia.

    Gli usi ricorrenti nelle feste familiari e i rituali con cui si celebravano certe occasioni liete o tristi, erano un tempo assai caratteristici, e velati spesso di un arguto sapore umoristico, ma ai nostri giorni ormai tutto quanto ricorda il passato non è accetto ai giovani, desiderosi di emancipazione e di rinnovamento. In molti di essi si trovava una spiccata spontaneità popolare, senza niente di fastoso, di ricercato o di retorico. La sobria semplicità toscana mira sempre all’essenziale, ed è talora un po’ aspra e cinica, pur non mancando di senso poetico. Diamo qui alcuni esempi di usanze e tradizioni più diffuse e caratteristiche; un quadro generale del folclore toscano è ancora da farsi.

    I riti in occasione del matrimonio sono sempre stati assai semplici. Tra i contadini si rispettava un tempo una rigida procedura: dopo che i fidanzati e le loro famiglie si erano praticamente accordati, si passava alla « chiesta » ufficiale, che veniva fatta dal « cozzone ». Se la cosa andava in porto, questi e lo sposo si recavano a casa della sposa e mangiavano e bevevano per festeggiare l’avvenimento. (I pranzi non mancavano mai e sono forse i soli rimasti!). Poi si faceva 1’«accordo», trattando della dote.

    L’usanza vecchissima della « estimazione » o « estirpatura » è ormai del tutto scomparsa. Il corredo della sposa, « dodici di ogni cosa più il materasso e la coperta ricamata », viene messo a mostra, e una vecchia che sia vedova e sola, perciò non interessata a parteggiare per sè o per una delle due famiglie, fa la stima. Dà un valore a ciascun capo; tira, poi, le somme, e il babbo dello sposo, allora, deve enumerare tante virtù del figlio, estimate questa volta da un vecchio vedovo e solo, che possano equivalere a quel capitale. Capacità al lavoro, bontà, timor di Dio, rispetto ai genitori, amore alla giovane promessa, speranze di miglioramento per l’avvenire. Dopo di che, estimatore ed estimatora devono mettersi a sedere e incominciare quel colloquio che nel Chianti chiamano « del buon giudizio ». « Dio fece l’uomo di fango e di sabbia ma creò la donna da una costola di Adamo, dunque di carne, di materia più nobile di quella che adoperò per l’uomo, e tu, ragazzo che vuoi pigliar donna, intendi.

    « Ma poiché Dio non aveva, per fare la lingua alle donne, che dei piccoli ritagli, egli prese questi piccoli ritagli, li sovrappose, e fece la lingua. I ritagli erano sette, dunque la donna ha sette lingue, una mente, la seconda dice la verità, la terza parla parole buone, la quarta cattive, la quinta è impastata di zucchero, la sesta di roba velenosa perchè cadde per terra e si macchiò, la settima mischia le parole in modo che tu puoi intenderle come ti fa piacere, perchè, a bella posta, hanno doppio significato» (Gazzoli Barbetti). E così via parabole dietro parabole tra l’interesse e le risate generali, finché il vecchio e la vecchia se ne vanno carichi di doni.

    Prima delle « denunzie » gli sposi con i genitori andavano in città a comprare gli « ori », il vestito ed il resto per le nozze. Nelle colline pisane e nei dintorni di Siena era comune, prima del matrimonio, il trasporto del corredo della sposa sopra un carro tirato da bellissimi bovi ornati di nastri e sonagli, mentre in Garfagnana, nella zona di Barga, il corredo veniva portato da una fila di donne con canestri in testa, tutte in fila indiana.

    In qualche paese usa ancora il « serraglio », che consiste nello sbarrare il passo agli sposi nel momento delle nozze con nastri tenuti tesi per i capi da giovani e ragazze. Entrando nella nuova casa la sposa è accolta, secondo la tradizione, dalla suocera che la cinge di un bianco grembiale. Poi, si mangia abbondantemente e si balla: nel lucchese si fa un falò di rami di bosso freschi e scoppiettanti davanti alla porta.

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    Nelle campagne di Lucca e di Pistoia sopravvive talvolta per ischerzo l’antica consuetudine della « scampanata » ai vedovi che si risposano, detta anche « scornata » o « tentellata », o, in Lunigiana, « baccillata » : si fa con tutti i tipi di mestoli, latte, coperchi, bidoni, per otto sere di fila, a meno che il vedovo non riesca, con mance e con banchetti, a fare stare zitti gli importuni.

    Semplici anche i riti in occasione delle nascite: quando un bimbo viene battezzato, ancora oggi talora il vecchio padrino riportandolo alla madre dirà « me lo avete dato ebreo e ve lo riporto cristiano ». E ancora oggi si usa la « scapponata » nel Fiorentino e nel Pisano, ovvero il banchetto al quale partecipa la puerpera, detto anche « cicalio » nell’Aretino, « corteo » nel Cortonese, « riconoscimento » a Rosignano, « spoglio » a Pienza o « impagliata » a Lucca : un gran pranzo, alla fine del quale il piccolo, ben fasciato, viene portato a fare il giro della tavola in braccio al compare, il « santulo », o alla comare, la « santula ». Questi termini conservano ancora nel linguaggio la vivacità e il colore di un tempo.

    In occasione delle morti, usava in varie parti della Toscana che i congiunti e gli amici, al momento in cui arrivava il sacerdote con la processione a prendere il morto, circondassero il cadavere levando alti gemiti, quasi contrastandone la partenza, e ciò si diceva « piangere il morto ». Usava pure il banchetto, detto « il desinare del morto », con cibi tutti di magro, e minestra d’obbligo di riso.

    Un’usanza poetica che merita di essere ricordata, anche se ormai è quasi soltanto un ricordo, è quella in occasione della morte di un bambino nella montagna lucchese: si usava portarlo al cimitero dentro una canestra ornata di nastri e sorretta da una ragazza, e le campane non suonavano a morto ma a festa per indicare che l’anima di lui era volata in cielo perchè « è morto un angelo ».

    Nei casi di morte violenta si usava un tempo seppellire la salma nel luogo del delitto: sopra un cumulo di sassi si piantava una semplice croce, senza retoriche parole di ricordo o di compianto. Caratteristici sono in Toscana, ove esiste la « Misericordia », i funerali : i membri della Confraternita, accompagnano la salma vestiti di nero, con una cappa cinta in vita con un cordone di crine, il cappello tondo a larga tesa pendente sulle spalle ed un ampio cappuccio sul viso munito di due fori in corrispondenza degli occhi.

    Molte feste religiose non sono più sentite come un tempo, e tuttavia alcune costituiscono le principali solennità dell’anno e vengono celebrate in tutta la regione e in tutti i ceti sociali, sia urbani che rurali.

    La celebrazione del Natale ha, come ovunque, carattere intimo e familiare: in quel giorno la mensa del contadino è aperta a tutti, e il mangiare non si nega a nessuno, povero o straniero, amico o nemico che sia. E tanto meno alle bestie: nel Pistoiese e altrove si puliscono le stalle e si riempiono al massimo le mangiatoie per ringraziare gli animali che hanno scaldato la capannuccia di Gesù. Nelle campagne la famiglia, ove ancora sopravvivono i caminetti, usa raccogliersi intorno al focolare, dove arde il ceppo, serbato apposta per quella sera. Nella Val Tiberina, mentre il ceppo arde, i genitori lo percuotono con una mazza e mentre i bambini chiudono gli occhi, lanciano in aria un cartoccio di confetti, lasciando credere che saltino fuori dal fuoco. Nel territorio di Cortona e nella provincia di Siena si bendano i ragazzi e si fanno battere sul tronco in fiamme con le molle, invocando : « Ave Maria del ceppo, Angelo benedetto! L’Angelo mi rispose: ceppo mio bello, portami tante cose! ». Dopo di che piovono sul bambino dolci e regali.

    Il ceppo.

    Il ceppo è detto « zocco » in Lunigiana, dove è costituito da un grosso tronco di olivo ; durante il pranzo natalizio, detto « delle nove pietanze », si usa gettare foglie e olive sul fuoco per trarne auspici. Intorno aH’Amiata il ceppo veniva acceso alla vigilia di Natale e mantenuto fino all’Epifania, quando, portato all’aperto, si lasciava che il vento e l’acqua lo disperdessero. La sera della vigilia, a mezzanotte, uomini e donne uscivano di casa in una specie di processione e simulavano di staffilarsi con mazzi di felci per piangere sulla strage degli Innocenti.

    Ma il « ceppo » toscano, risalente ad un’antica, gentile tradizione, non aveva nulla a che fare col tronco ardente nel caminetto, era cioè una sorta di treppiede piramidale, con tre sottili aste di legno o canne, lunghe circa un metro, legate insieme ad una estremità, con alcuni piani di legno o di cartone, l’un l’altro sovrapposti. « La piramide poteva avere uno, due o anche tre piani a seconda della sua altezza e della sua ricchezza, ed era tutta rivestita con frange colorate, con carte e nappettine e ornata di piccole pine dorate, simmetricamente disposte. In cima alla piramide stava poi una pina dorata, più grossa delle altre o anche un fantoccio; e lungo i fianchi della piramide piccole candele accese e bandierine multicolori. I piani eran coperti di borraccina e spesso il piano inferiore portava il Bambino Gesù di cera o di gesso circondato da pastorelli, angeli e santi. Le mamme li riempivano di doni: portavano giocattoli, ninnoli, dolci, festoni di pietruzze colorate e di pinoli infilati nello spago, tesi fra asta e asta ed i bambini li attendevano ansiosi. Essi sapevano: quando il campanello di casa squillava tre volte, o i servi entravano nella sala dando l’annuncio, il ceppo era arrivato e portava regali ai bimbi buoni. Se la famiglia era ricca, se i bimbi erano diversi, ognuno aveva il suo “ ceppo ”, se poveri, uno, più o meno grande valeva per tutti! Nella vigilia di Natale sotto le “ Logge del Mercato Nuovo ” si teneva il “ mercato dei ceppi ” e tutta la loggia era rallegrata dal luccichio dei trofei variopinti, rivestiti d’oro e d’argento, illuminati da candeline, ed animata dal vai e vieni dei genitori » (Righi Amante).

    Le befane.

    Questa tradizione molto antica, si è ormai perduta e ritorna talvolta come una rievocazione di sapore letterario. Il ceppo è stato sostituito anche in Toscana dal nordico albero di Natale, diventato di uso comune, soprattutto nelle città, e dal « Babbo Natale », che porta ormai i regali in luogo della più antica Befana.

    A Siena il ceppo era ancora diverso, cioè un carretto rudimentale di legno tutto verniciato e pieno di addobbi, che veniva venduto per Natale al mercato: tre rozzi burattini troneggiavano sui carri che i ragazzi trascinavano felici per le vie della città.

    Il Presepe, fatto per la prima volta nel 1263 da S. Francesco nella foresta di Greccio, prese in Toscana il nome di « Capannuccia », e viene ancora preparato dai bambini in molte famiglie.

    In occasione dell’Epifania fino alla metà dell’Ottocento si usava a Firenze trascinare un carro con sopra un fantoccio vestito da donna vecchia e rugosa e un altro carro con sopra un uomo vestito da Giove.

    Feste popolari

    Il carnevale era un tempo ovunque celebrato: così, a Firenze, si facevano carri allegorici che arieggiavano gli antichi trionfi romani, con canti detti « carnascialeschi ». Il carnevale pare fosse assai licenzioso, a quanto testimonia Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, nella sua nota raccolta di tutti i « trionfi, carri mascherati e canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo Vecchio dei Medici fino a questo anno presente 1559». Si ballava «perfino intorno ai Crocifissi, davanti alle chiese, nelle pubbliche strade, senza alcun ritegno », e contro tale usanza si schierò violentemente il Savonarola, i cui seguaci, nel 1512, costruirono addirittura un carro della « morte » per impaurire la cittadinanza.

    La sera dell’ultimo giorno di carnevale si usa fare fuochi e a volte si brucia un fantoccio e gli si spara contro, a volte si porta per le vie una barella con un fantoccio, come a Barga. A Siena, Montepulciano, Volterra e Pescia si usava portare in giro un fantoccio, chiamato « Beo » nome rimasto ad indicare una persona un po’ grulla, dentro un lenzuolo e lo si gettava per aria ogni poco, cantando. Oggi il carnevale dà luogo a cortei mascherati a Viareggio, a Montepulciano, a Castelnuovo di Gar-fagnana, a Carrara, in altre località, ma ha molto ormai di convenzionale e di turistico. A Bibbiena il carnevale conserva sapore trecentesco con il « Bello Ballo », una grande danza popolare, e il « Bello Pomo », un gigantesco falò.

    E ancora abbastanza popolare la festa del giovedì grasso, il cosiddetto « berlingaccio » : nelle campagne in questa occasione si usava un tempo ballare il « trescone » e la « monferrina », si mangiavano le frittelle e la « stiacciata unta » e si eseguivano rappresentazioni rustiche dette « i contrasti », « i testamenti », « le zingaresche », « i bruscelli ». Quest’ultimi sono composizioni in ottave o in sestine, vengono cantati accompagnati dal violino o da altri strumenti a corda o a fiato da una comitiva di uomini mascherati e trattano spesso di caccia. Tra i personaggi c’è sempre un cacciatore perchè l’usanza del « bruscello » risale alla Siena di quattro secoli fa, dove si facevano mascherate che imitavano una caccia notturna con una lanterna appesa ad un albero che si chiamava « bruscello ».

    Il carnevale di Viareggio: sfilata dei carri.

    Il carnevale di Viareggio.

    Durante la Quaresima a Lucca, nella prima domenica, si va al colle di Monte S. Quirico, dove da nove secoli si celebra la sagra di quella chiesa, e si mangia all’aperto a base di frittelle; si chiama la domenica della « tavernella », da una vecchia osteria detta Taverna Latina. E questa la domenica della « pentolaccia », il cui nome deriva dalla pentola che si usa appendere a una corda o a un ramo di un albero e che i bambini, bendati, devono cercare di rompere picchiando con un bastone fino a che il contenuto non ne esce: a volte sono dolci, a volte acqua o segatura.

    A Firenze, tutte le domeniche di Quaresima, in piazza della Libertà, l’antica piazza S. Gallo, hanno luogo le fiere tradizionali dei « morosi », « curiosi », « furiosi », « innamorati », e così.in altri quartieri della città.

    Il giovedì di mezza Quaresima si usava attaccare le scale di carta sulla schiena degli amici; nella Lucchesia le scale si mandavano anche per posta. A Firenze si usava anche far portare in qua e in là una scala vera all’ingenuo che cadeva nella trappola. L’usanza della scala, che appare oggi nelle vetrine fatta di cioccolata, risale all’usanza antica toscana di appendere un fantoccio rappresentante una monaca o una vecchia, ad una loggia o a un muro di casa: a metà Quaresima si saliva su due scale e la si divideva a metà per indicare appunto che metà Quaresima era passata.

    La domenica delle Palme si usava dare ai signori nelle campagne i « palmizi », rami di ulivo, cioè intrecciati a guisa di palma, con nastri e fiori di carta; questa usanza sopravvive ancora quando si distribuisce l’ulivo benedetto.

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    Lo scoppio del carro a Firenze.

    Rappresentazioni sacre vengono fatte ancora in occasione della « Passione » a Grassina, dove sfilano e recitano al chiaro dei riflettori, durante la notte, tutti i personaggi della Passione. Gli spettatori corrono a migliaia, ma sono ormai soprattutto turisti.

    Una tradizione ancora diffusa e seguita tra gli strati popolari cittadini e da quelli della campagna, è quella dello scoppio del carro a Firenze nel giorno di Pasqua. Si dice sia il carro trionfale su cui messer Pazzino de’ Pazzi, condottiero dei Toscani alla crociata di Goffredo di Buglione, percorse al suo ritorno le vie cittadine acclamato dal popolo, che lo riteneva il primo ad avere piantato a Gerusalemme la croce. Vi è chi crede che sia solamente il carro modesto su cui una volta si portava in Duomo il fuoco sacro. La tradizione vuole che a messer Pazzino de’ Pazzi, in premio del suo valore, venissero dati tre pezzetti di pietra focaia tolti al sepolcro di Cristo e da lui recati a Firenze e donati alla chiesa di Santa Maria Sopra Porta, da dove venivano ripresi ogni anno per accendere la prima favilla del fuoco sacro nella mattina del sabato santo. Anticamente la famiglia Pazzi faceva le spese del carro e dei fuochi artificiali ad esso legati.

    Davanti alla porta principale del Duomo, il carro viene portato da buoi inghirlandati. Un filo alto da terra unisce l’altare maggiore al carro e su di esso corre la « colombina » che fa scoppiare i petardi del carro stesso, sprigionando mille bandierine e fuochi di artificio. Se il viaggio si svolge senza intoppi allora il raccolto sarà pingue, se invece la « colombina » si incanta le messi saranno scarse, « gli olivi poveri, le uve malate, vuoti i granai». Quando va tutto bene, i contadini dicono: « la va come una sposa… ».

    Per la festa dell’Ascensione, sopravvive ancora a Firenze la tradizionale e popolare « festa del Grillo ». D’antica data i fiorentini si riversano nella mattinata alle Cascine e frugano nei prati pieni di fiori primaverili per trovare il grillo porta-fortuna. Ne approfittano grandi e bambini per fare un gran correre nel celebre parco e per passare una giornata all’aperto; il grillo ormai quasi tutti lo comprano dal rivenditore. Ci sono ancora dei carri allegorici che sfilano per i bei viali brulicanti di gente e una serie di banchi allineati che, alle tradizionali cataste di croccanti e di torroni, alternano le gabbiette caratteristiche con il grillo canterino, vero o di cioccolata. La festa del grillo a Firenze è un po’ come il S. Valentino in America, e mentre là si regala un cuore alla ragazza amata, qui si regala un grillo: forse anche questa è un’espressione dello scanzonato spirito toscano.

    Si sa che nel 1582 all’Impruneta ci fu una spietata caccia ai grilli che devastavano la campagna: può darsi perciò che l’usanza sia soltanto una conseguenza del desiderio di cacciare i piccoli animali dai campi. Famoso fu Pergento, giornalaio in piazza dei Tavolini, grossista di grilli che il popolo diceva spedisse persino in America.

    Per l’Ascensione ha luogo a Gavinana, nella montagna pistoiese, il « Bacio dei Cristi », che rievoca la riappacificazione delle fazioni dei Cancellieri di Gavinana e dei Panciatichi di S. Marcello.

    Le rificolone.

    La festa di S. Giovanni a Firenze, patrono della città, dava anticamente modo alla capitale di mostrare alle città sottomesse la sua potenza e la sua floridezza con processioni pittoresche, cortei pomposi, carri molto belli con santi, angeli e storie del Testamento. Vi erano anche corse di cavalli tra le più celebri d’Italia, mostre commerciali, giostre e feste danzanti. Si usava portare in giro carri allegorici alti e dipinti, e su uno di essi era un uomo vero vestito da S. Giovanni. Ma una volta il carro traballò e l’uomo non rimase ucciso per miracolo perchè riuscì ad aggrapparsi ad una finestra. Da allora esso fu sostituito da una statua che fu detta il « brindellone » per l’andatura traballante causata dall’andamento dei carri. Il suo passare era oggetto di scherzi; c’era poi la processione «de’ sette baldacchini», che partiva da S. Maria del Fiore ed andava sino a S. Spirito. Poi c’era la corsa dei cocchi che aveva sempre un gran successo popolare.

    I fuochi d’artificio si facevano sulla torre di Arnolfo, ma poi, siccome la piazza era troppo piccola per l’enorme afflusso di gente, si fecero sul ponte alla Carraia e, di recente, sono stati trasferiti al piazzale Michelangelo. Pari al S. Giovanni di Firenze è la festa del S. Ranieri a Pisa, con la luminaria di tutti i palazzi sull’Arno e la sfilata di barche sul fiume trasportanti una gran folla che suona e che canta.

    Ancora in uso a Firenze è la curiosa e schiettamente popolare festa delle « rificolone », durante la quale i bimbi (e qualche volta gli adulti) cantano per le strade, portando su un bastone la propria rificolona, una specie di lampione alla veneziana, una vecchia filastrocca popolare.

    Questa festa ebbe inizio molto anticamente quando, la vigilia dell’8 settembre, i contadini calavano per la messa a Firenze, in occasione della grande festa della Santissima Annunziata. Questi contadini, che gli abitanti della città deridevano per i loro abiti un po’ goffi (« fierucolone    » eran dette le donne vestite alla campagnola), si rintanavano alla sera nei chiostri della chiesa, e allora la ragazzaglia fiorentina, percorrendo via dei Servi piena di banchi e bancarelle preparati per la sagra dell’indomani, andava a dar la baia ai villici, con fischi ed urla, e portando in mano una candela accesa difesa dal vento da una carta. Di qui l’uso di andare a far baccano, l’8 settembre, con le rificolone. Secondo alcuni, le origini della festa risalirebbero invece alla conquista di Siena per opera dei soldati di Cosimo dei Medici, che occuparono la città nella notte del 2 agosto 1554, al lume delle fiaccole.

    Tra le feste popolari primaverili merita di essere ricordata quella delle «nocelle», che si tiene ogni anno, il lunedì di Pasqua, cioè il « giorno del pellegrino » nella pineta di Levante a Viareggio. Occasione anche questa di festeggiare la primavera trascorrendo una giornata all’aperto: mentre i bambini appendono agli alberi le « pisalanche», cioè le altalene, la pineta si riempie di venditori di collane di nocciole, di lupini, di semi di zucca, di brigidini, ecc.

    Una gentile tradizione di Signa è la festa dei Doni, che ricorre ogni 9 novembre e ogni lunedì di Pasqua, in memoria della Beata Giovanna. La festa si svolge con la partecipazione di numerose parrocchie vicine, S. Miniato a Signa, S. Martino a Gan-galandi, Santo Stefano a Calcinala, Santa Maria delle Selve, Porto di Mezzo, che avanzano con dei grossi crocifissi e dietro con i ciuchi carichi di doni (olio, vino, pane, formaggi, ecc.), con in piedi un bambino di tre o quattro anni, vestito di raso e seta, e in testa una fascia sormontata da una stella; in questa occasione si usa dare la libertà a un piccolo uccello, in ricordo dell’opera benefica della Santa.

    Fra le feste a sfondo religioso si deve ricordare la luminaria di Santa Croce a Lucca, che aveva luogo il 13 settembre, e che risaliva a data antichissima, forse ancor prima dell’Vili secolo. Ebbe all’inizio origine popolare, ma divenne poi una festa imposta dal governo a tutta indistinta la popolazione che veniva obbligata a partecipare alla processione con i ceri accesi. A questo scopo venivano fatti addirittura dei precisi censimenti con l’esatta ubicazione dei vari quartieri. Molto severe erano le punizioni per chi non partecipasse o in qualche modo disturbasse la festa: il giorno precedente i banditori ricordavano a tutti — dai 14 ai 70 anni — che l’indomani era la vigilia della « Santa verace Croce ». Clero, governo e popolo si ritrovavano in Piazza S. Frediano, da dove, dopo una funzione religiosa, iniziava il lunghissimo corteo che, col progredire dei secoli, si arricchì sempre più di ceri ricchi e fastosi.

    I « trombetti »’ suonavano ogni genere di strumenti a fiato e venivano mandati in rappresentanza anche da altre città. Il corteo terminava a S. Martino, dove si ammucchiavano tutti i ceri, ognuno con il cartello indicante il peso e il comune di appartenenza: essi rimanevano esposti in chiesa fino all’anno dopo, in bella vista, in onore del Volto Santo.

    Gioco del calcio in costume a Firenze.

    Un’antica e curiosa usanza della piana di Lucca era la processione dei « magri », che si svolgeva la vigilia di S. Lorenzo, cioè il io di agosto: si invitavano allora i giovanotti più magri ad andare a scuotere le noci in un dato luogo. Gli spilungoni servivano da pertiche, i piccoletti da randelli, i più esili per arrampicarsi. In serata poi aveva luogo la processione: i giovanotti più smilzi avanzavano in corteo in maniche di camicia e con i calzoni rimboccati sopra il ginocchio, gambe e braccia nude e in testa un cappello di paglia e un moccolo acceso. Apriva la processione il più patito e allampanato, fra le urla, gli schiamazzi, i commenti salaci del pubblico.

    Il «Palio di Siena». L’ultima parte del fastoso corteo storico: il carroccio col drappellone destinato alla contrada vincitrice.

    Il « Palio di Siena ». Il corteo passa in processione prima di iniziare ia corsa.

    Giochi e rievocazioni storiche

    Tra i giochi popolari, tenuti oggi in vita con l’aiuto degli enti turistici, uno dei più noti è certamente il calcio in costume fiorentino. Questo gioco, di origine molto antica, ebbe il massimo splendore a Firenze sotto i Medici. Il vocabolario della Crusca, nella sua prima edizione del 1612, diceva: «è calcio anche nome di un gioco, proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, con una palla a vento, rassomigliante sì a una sferomachia, passata dà greci a latini e dà latini a noi ». Il campo usuale fu per lungo tempo Santa Croce ; dalle calende di gennaio si giocava fino a carnevale. Erano 54 giocatori appartenenti alla nobiltà cittadina, divisi in due squadre, a loro volta suddivise in quattro gruppi (quindici innanzi o corridori, cinque sconciatori, quattro datori innanzi, tre datori addietro) e compito del gioco era « far passare di porta, oltre all’opposto termine, un mediocre pallone a vento, a fine di onore ». Vinceva chi delle due schiere riusciva a condurre la palla oltre il termine di fondo della squadra avversaria aiutandosi con le mani e con i piedi. Oggi il gioco del calcio, seguito da un corteo in costume, ha luogo una o due volte durante il maggio e il giugno, in Piazza della Signoria. Sembra però che la manifestazione sarà presto soppressa.

    Via certamente più suggestivo e ancor più profondamente radicato nella tradizione e nella passione popolare è il celebre «Palio di Siena». Si disputa il 2 di luglio ed il 16 agosto di ogni anno e richiama nella bellissima città, intorno alla preziosa Piazza del Campo, una quantità strabocchevole di entusiasti senesi e stranieri.

    Il nome deriva da palium cioè mantello, il drappo che si usava donare al vincitore delle gare equestri. Il Palio senese risale alle gare che si facevano in città nel Duecento con le rappresentanze delle varie contrade. Queste associazioni popolari presero il posto, alla venuta del Principato, delle milizie cittadine che esistevano già dal XII secolo e ne ereditarono lo spirito animoso e bellicoso. I rappresentanti si raggrupparono a seconda dei rioni con emblemi ed insegne diverse, e il limite del territorio rispettivo venne fissato con un bando del 1729 dalla Principessa Violante di Baviera che governava Siena per il Granduca Cosimo III dei Medici. Il numero delle contrade fu sempre di diciassette. Qualche volta vennero sdoppiate per sovrabbondanza di popolazione, ma poi si proibirono nuovi gruppi oltre a quelli già esistenti. Le contrade sono quelle dell’Aquila, del Bruco, della Chiocciola, della Civetta, del Drago, della Giraffa, dell’Istrice, del Leocorno, della Lupa, del Nicclio, dell’Oca, dell’Onda, della Pantera, della Selva, della Tartuca, della Torre, e di Valdimontone.

    Vedi Anche:  Storia della Toscana

    Gare equestri ci furono in Siena fin dal 1232, quando si correva il 15 agosto in onore della Vergine Assunta. Nel 1482 le Contrade parteciparono ad un palio, fuori però dallo storico Campo. Fin dal 1499 esse presero parte alla «cacce» dei tori, che usavano in Italia un po’ dappertutto, e furono seguite dalle corse o « pali » con le bufale (« bufalate »). Alla prima di queste, nel 1499, fu introdotto l’uso di donare un « pallio », prezioso, alla contrada e non al singolo vincitore. Dopo le bufalate ci furono le «asinate», che ebbero un certo successo, ma poi, a partire dal 1650, vennero sostituite con corse a cavallo nel Campo; la prima gara si ebbe probabilmente il 20 ottobre 1632 in presenza di Ferdinando II dei VIedici, Granduca di Toscana, e fu vinta dalla Tartuca.

    Una vera organizzazione del gioco si ebbe solo nel 1656, quando si fissò la gara stabilmente per il 2 luglio, in occasione della Madonna di Provenzano. Il primo palio vero e proprio ebbe luogo il 2 luglio 1656 e fu vinto dalla Torre. La direzione del palio, tre anni dopo, vista la sua continuità, fu tolta dall’« Ufficio di Biccherna » e data stabilmente al comune. Il premio è costituito da un drappellone di seta dipinta con la Madonna, stemmi ed allegorie, che la sera prima del palio viene messo vicino all’altar maggiore. Corrono solo dieci contrade per anno, cioè tre a sorte dell’anno precedente e le sette che sono state escluse l’anno prima. Ogni contrada che corre, tre giorni prima ha un « barbero » per correre, preso a sorte, un fantino cioè che può scegliersi e può fare le prove nel Campo. La gara consiste in tre giri intorno al Campo. Precedentemente sfilano i vari rappresentanti delle contrade con le loro « comparse », che recano e sventolano bandiere ed armi con i loro fantini, palafrenieri, alfieri, tamburini, centurioni, il capitano del popolo, la Martinella, i trombettieri di palazzo, gli armigeri del comune, ecc. Il colpo d’occhio è veramente suggestivo e per qualche giorno la Siena di oggi pare veramente rianimarsi come la Siena del Medio Evo.

    La « giostra del Saracino » ad Arezzo.

    La « giostra del Saracino » si svolge nella Piazza Grande di Arezzo il 7 agosto e il 18 settembre di ogni anno. I quattro quartieri in cui è divisa la città, Porta Crucifera, del Faro, di Sant’Andrea, di Santo Spirito, hanno due cavalieri a testa che, lancia in resta, al galoppo, van contro il Saracino, grosso pupazzone che nella mano destra tiene sospeso un tabellone con zone numerate e nella sinistra un « flagello » a tre palle. Il cavaliere deve mirare al centro del tabellone, ma fuggire rapidamente evitando di essere percosso dal « flagello » che il Saracino, girevole alla sua base, gli scaraventerebbe addosso non appena toccato il cartellone. Chi fa più punti vince e ha in dono una lancia d’onore. Questo gioco risale ai tempi delle Crociate e viene rievocato con i costumi dell’epoca. Un’altra giostra del Saracino si disputa a Sarteano.

    Il «gioco del Ponte» di Pisa, rimesso in uso nel 1935, risale ad un antico torneo popolare di mazza e scudo, adottato nel XV secolo dalla repubblica pisana per mettere a prova il valore e lo sprezzo del pericolo dei giovani. Due squadre rappresentanti le due fazioni di Boreale o Tramontano, e Australe o Mezzogiorno (cioè di qua o di là d’Arno) si scontrano per la conquista del Ponte di Mezzo. Il combattimento è preceduto dalla disfida : una fazione invia sul ponte un tamburo per « chiamare battaglia » e quindi un araldo reca il cartello di sfida. Successivamente le squadre si raccolgono sul ponte e gli « assistenti dell’orologio » dànno il segnale di inizio del combattimento, che dura tre quarti d’ora. La squadra che ha guadagnato più spazio sul ponte, spingendosi col Targone (una specie di scudo stretto che ripara tutto il braccio destro), ha vinto. Dopo la consegna del « Palio » ai vincitori, si forma il « corteo della pace » con il « Carroccio » del comune.

    Altri ancora sono le feste e i giochi popolari toscani, in parte ripresi modernamente, in parte scomparsi ormai del tutto: così per esempio il Palio delle Balestre, a Sansepolcro, nel mese di settembre; la Regata Storica e la luminaria di San Ranieri, a Pisa; il Palio marinaro a Livorno, a Porto Santo Stefano e a Marina di Carrara; la Giostra dell’Orso a Pistoia; la luminaria di San Biagio ad Orbetello.La presentazione degli armati alla « giostra del Saracino » nella Piazza Grande di Arezzo.

    La presentazione degli armati alla “Giostra del Saracino” nella Piazza Grande di Arezzo.

    Il « gioco del Ponte » a Pisa

    Erano molto amate durante il Medio Evo le corse coi cavalli. Si cominciarono a correre i palii dei « Barberi » dopo la battaglia di Campaldino avvenuta il giorno di Santa Barbara, poi il 6 luglio, festa di S. Romolo, in memoria della battaglia contro Radagasio re dei Vandali, il 2 agosto per la rotta di Siena, il 26 luglio per la cacciata del Duca d’Atene, per S. Giovanni, S. Pietro, S. Vittorio. Particolare nome ebbe il «Palio de’ Cocchi», istituito da Cosimo I nel 1563, che si correva in Piazza Santa Maria Novella, gioco riesumato con scarso successo e di nuovo abbandonato nel nostro secolo. Per preparare la gioventù al maneggio serviva la cavallerizza Medicea di Piazza S. Marco, ove ora ha sede l’Università. Una corsa di asini al galoppo ha ancora luogo il 14 settembre fra i rioni di Roccatederighi e un « Trofeo del Muletto » con corse di muli viene disputato a Barga, in luglio, durante la « Sagra della Campagna ».

    Regata a Porto Santo Stefano.

    Un’usanza assai crudele si è tramandata a Empoli dalla fine del XIV secolo fino al 1861, cioè il volo dell’asino in occasione del giorno del Corpus Domini. La povera bestia dopo aver bevuto vino e mangiato paste al sugo, veniva calata con delle corde dalla cima del campanile.

    Il « Rodeo della Rosa» è un combattimento tra i butteri, i guardiani cioè dei cavalli della Maremma che si svolge a Grosseto: le squadre, in tipici costumi, cercano di strappare ai cavalieri nemici la rosa che ciascuno porta al braccio e si azzuffano alla fine in una violenta mischia intorno a coloro che hanno serbato intatto il fiore.

    Tra gli spettacoli popolari toscani sono originari di Siena i « bruscelli », che si rappresentano durante l’estate in varie località, sia del Senese, sia della montagna di Lucca e di Pistoia. Essi costituiscono spesso quanto di più spontaneo e schiettamente satirico si conserva nel folclore toscano.

    Un arboscello, che ricorda l’albero paniato che si usava un tempo nelle cacce notturne, viene portato dal capo degli attori nel mezzo della piazza, dove ha luogo lo spettacolo. Così in agosto nella suggestiva Piazza Grande di Montepulciano: « All’arboscello rendono omaggio tutti gli attori allorché entrano in scena o ne escono eseguendo un giro intorno ad esso, a passo di danza, con accompagnamento di musica, prima di recitare la propria battuta e dopo. Ogni battuta è un’ottava che viene cantata su motivo tradizionale. L’argomento più comune del Bruscello è l’amore contrastato di due giovani, oppure un episodio cavalleresco, più o meno storico, come quelli cari al popolo, intrecciati intorno a Ginevra degli Almieri, Pia dei Tolomei, Genoveffa di Brabante, ecc. La rappresentazione comprende scene a forti tinte con lotte, inganni, duelli, pene d’amore e lieta conclusione. Argomenti meno usuali sono quelli tratti dalla vita di Cristo e dei Santi o da leggende religiose. Gli attori, detti bruscellanti (un centinaio circa), sono contadini e operai del paese e dei dintorni, indossano abiti di colori sgargianti ed entrano in scena preceduti da musicanti, alcuni dei quali suonano fragorosamente tromboni e grancasse. Quasi tutti, uomini e donne, sono poeti estemporanei e spesso improvvisano le battute. La rapprentazione, che dura qualche ora, si conclude con una danza alla quale partecipa anche il pubblico » .

    Fiere e mercati

    L’importanza delle fiere e dei mercati è naturalmente diminuita in Toscana come dappertutto col progredire in questi ultimi decenni dei mezzi di trasporto e con l’estendersi della rete stradale che hanno dato all’attività commerciale un carattere più capillare. Ma un tempo era tradizione che i contadini o comunque gli abitanti dei centri minori si recassero una o più volte all’anno alle grandi fiere, ove si vendeva un po’ di tutto, dal necessario per la casa, agli indumenti, agli attrezzi, al bestiame. Il mercato si trasformava così in un giorno di festa, come accadeva, per esempio, per la ben nota fiera del « mestolo » di Arezzo, il 9 settembre di ogni anno. Dai monti e dalle valli dell’Aretino, fin dalla Val Tiberina, scendevano in quel giorno in città uomini e donne, intere famiglie, con i più diversi mezzi di trasporto, in gran parte a piedi. « In breve intorno al Borgo Maestro si affolla una gran quantità di gente e bancarelle di ogni genere: distese di utensili per la casa, di tini, di bigoncie, di oggetti di paglia, di statuette, di vestiario, e di bellissimo bestiame: si fanno le spese per tutto l’anno, per i prossimi matrimoni, per i nuovi nati. Vi è l’uso in questa occasione fra congiunti ed amici di farsi la fiera, di regalarsi cioè un oggetto comprato in essa. Ogni fidanzato poi regala alla fidanzata un panierino, ripieno di noci. Ma il nome viene alla fiera dalla gran quantità di mestoli che vengono venduti e che formano vere cataste: ogni giovanotto nella folla che si accalca lungo il vecchio Borgo Maestro, si munisce di un mestolo e si diverte a dare ’’mestolinate” sulle parti carnose delle ragazze, che amavano un tempo imbottirsi. Non di rado le ragazze rispondevano senza troppi riguardi » (Del Vite).

    In tutti i mercati e le feste popolari di un tempo erano comuni tipiche figure di ambulanti (« i ciarlatani ») e di venditori di semi, di lupini, di pan di ramerino, di « mangia e bèi », di bruciate, di pattona, di migliaccio, di brigidini e di altre ghiottonerie. Ognuno aveva un suo modo di chiamar l’attenzione: «chi si diverte a i’ sseme?», « Son salati i miei lupini», «Un centin, mangiare e bere, senza mettersi a sedere », e così via, altri innumerevoli.