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Monti, poggi, pianure e coste

    Monti, poggi, pianure e coste

    Se la Toscana è paese tutt’altro che uniforme, ciò è dovuto in primo luogo al rilievo, i cui diversi aspetti danno alla regione una costante varietà di forme e creano una fisionomia suggestiva e mutevole da parte a parte. Monti, poggi, pianure, sembrano rincorrersi l’un l’altro nel paesaggio toscano e compenetrarsi a vicenda, accostando le forme tra loro più contrastanti: basti pensare alle Apuane che scendono precipiti da duemila metri sulla piatta fascia costiera della Versilia, alle ondulate conche della Garfagnana, del Mugello, del Casentino, dominate dappresso dalle più alte vette dell’Appennino settentrionale, alle colline che degradano e affondano le loro pendici nelle pianure interne, al Monte Amiata sovrastante alla Maremma. Solo nella Toscana centrale e meridionale un paesaggio di collina, pur non uniforme, resta tuttavia come nota dominante su vasti tratti.

    In un paese come la Toscana, ove l’uomo da millenni modifica e ricostituisce per gran parte il ricoprimento vegetale, regola il disordine idrografico, colma e bonifica le paludi, si può dire che il rilievo sia il solo fatto naturale, insieme al clima, che non sia stato profondamente alterato. Esso costituisce un quadro immutabile attraverso i tempi, nel quale si sono via via impresse le impronte dell’agricoltura, degli insediamenti, delle strade.

    La catena appenninica, portandosi col suo asse principale verso est in corrispondenza del tratto romagnolo-marchigiano, lascia una vasta area al versante toscano, dove, con il progressivo formarsi di rughe montuose dal Tirreno verso l’Adriatico, si è sviluppato un complesso sistema di vallate interne variamente orientate, si sono costituiti gruppi montuosi isolati dagli altri, come quelli dell’Antiappennino, delle Apuane, del vulcanico Amiata, si sono formate fasce di colline recenti, legate alle invasioni marine, si sono depositati lembi più o meno estesi di pianure, risultato della violenta erosione e dei conseguenti depositi dei corsi d’acqua torrentizi. Si dovrà perciò per descrivere il rilievo toscano, distinguere innanzitutto diverse zone, alle quali corrispondono diversi tipi morfologici. Ed occorrerà anche premettere alcune notizie sulla storia geologica e sulla varietà dei suoli. Basti per ora ricordare che la Toscana si può considerare per due terzi collinare e per un quinto montuosa, mentre solo un decimo del territorio è occupato da pianure. Ma tutto ciò dice poco: collina, montagna, ed anche pianura, sono termini generici che vanno visti nelle loro forme e nelle vicende della loro formazione.

    La serie del macigno al Corno alle Scale nell’Appennino Pistoiese.

    Il Monte Forato nelle Alpi Apuane.

    La storia geologica

    Nella regione toscana, come meglio vedremo, i geografi usano distinguere una parte appenninica, più elevata, da una antiappenninica, corrispondente alle Colline Metallifere, meno alta e dalle linee più dolci; questa partizione non ha senso in geologia, perchè tutti i rilievi toscani, sia quelli costituenti la dorsale, sia le Alpi Apuane e le Colline Metallifere, sono Appennino tanto nei riguardi della costituzione quanto della struttura. Le differenze, semmai, riguardano la durata dei fenomeni di denudamento subiti dalle singole parti, in relazione all’epoca in cui queste si sollevarono.

    Rispetto alle regioni vicine, la Toscana mostra un maggiore varietà di lineamenti orografici e morfologici, e poiché questi riflettono la costituzione geologica, ne segue che più varia deve essere anche la natura dei terreni affioranti. In Emilia predomina, su tutte le formazioni, quella alloctona delle argille scagliose, con i suoi inclusi e con le monotone serie arenacee e più spesso argillose e marnose, che la ricoprono; ne segue un paesaggio instabile, dominato dalle frane e da un lentissimo colamento generale verso la pianura padana, prosecuzione del movimento gravitativo che condusse l’alloctono ad occupare la posizione attuale. In Umbria il paesaggio diventa man mano più aspro, passando dalle morbide colline del Trasimeno e di Città della Pieve alle cime della dorsale umbro-marchigiana, ai Sibillini ed ai Monti della Laga. Ma fondamentalmente la serie    stratigrafica è più monotona    di quella toscana, e monotono è anche l’assetto, in pieghe regolari poco fagliate. Nel Lazio, infine, o almeno nella sua parte settentrionale, predominano in maniera assoluta gli altopiani tufacei delle regioni vulsina e sabatina, interrotti solo dagli edifici vulcanici dei Monti Cimini e dall’isolata scogliera calcarea di Monte Canino.

    In Toscana il paesaggio cambia più rapidamente: come in Umbria le quinte montuose si alternano a bacini interni ex-lacustri, ma la serie stratigrafica è più varia, anche per il fatto che alcuni dei suoi termini possono presentarsi metamor-fizzati, oltre che in facies normale. In alcune zone predominano calcari cristallini, in altre le potenti serie del macigno e della formazione marnoso-arenacea; zone sedimentarie neogeniche si alternano ad altre ove affiora la formazione alloctona delle argille scagliose, e non mancano, infine, a differenza dell’Emilia e dell’Umbria, edifici vulcanici e spianate di tufi.

    I terreni che formano questa nostra regione possono essere ripartiti in tre gruppi: quelli facenti parte della serie autoctona, affioranti cioè nella stessa zona in cui si depositarono i sedimenti da cui ebbero origine, subendo successivamente solo fatti di deformazione e sollevamento; la formazione alloctona delle argille scagliose, costituita da una serie in gran parte scomposta e caoticizzata, condotta nella posizione attuale da un lento moto gravitativo, causato dal progressivo sollevamento dei sottostanti terreni autoctoni; e infine da un neoautoctono, comprendente terreni di età terziaria media e superiore, depositatisi sui precedenti al termine dello spostamento gravitativo.

    La storia geologica della Toscana, nella sua parte nota si iniziò verso la fine dell’Era Primaria, tra il Carbonifero superiore e il Permiano, età comprovata dalla flora a felci e dalla fauna marina contenute dagli strati più bassi della formazione detta del verrucano del Monte Pisano e di Jano.

    Sempre al verrucano, che trae il suo nome da una località del Monte Pisano, appartiene anche una serie di filladi, quarziti e breccioline semimetamorfiche (anageniti), di età triassica superiore stando ai resti di anfibi e rettili contenuti, e separata dalla precedente da una lacuna. Si può ritenere, pertanto, che la Toscana, dopo la fase marina carbonifero-permiana, abbia attraversato un lungo periodo di emersione, in clima arido, trasformandosi in una regione desertica con lagune salmastre.

    Verso la fine del Triassico, nel Norico, il mare invase nuovamente questa piatta regione, senza tuttavia raggiungere notevole profondità: il clima si manteneva arido e caldo, e nelle lame d’acqua mantenute in vita da una costante tendenza all’abbassamento, ma soggette a una forte evaporazione, si depositavano letti di anidrite. Di tanto in tanto, col mutare della profondità, la concentrazione delle evaporiti si arrestava, e queste venivano sostituite da formazioni organogene che successivamente si dolomitizzarono. In tal modo si costituì una potentissima serie dolomitico-anidri-tica, che peraltro non affiora ma si osserva solo in profondità, nei sondaggi, in zone ove formazioni impermeabili sovrastanti l’hanno preservata dall’azione delle acque di infiltrazione. Ove mancava un tetto impermeabile la serie dolomitico-anidritica, prima per effetto di azioni di idratazione e dissoluzione e poi di collasso, dette origine al caratteristico livello del calcare cavernoso che si presenta come una breccia a elementi dolomitici, con tasche di gesso, residuo del l’originaria anidrite.

    Al termine del Triassico la profondità del mare andò aumentando, e tale rimase per tutta la restante parte dell’Era Secondaria; per lungo tempo la sedimentazione fu prevalentemente calcarea: si formò dapprima il calcare nero ad Avicula contorta del Retico, poi il calcare massiccio semicristallino del Lias inferiore e quello marnoso e con lenti di selce del Lias medio. Seguono, nel Giurassico medio e superiore, le marne gialle e rossastre a Posidonomya alpina e una serie diasprina formata da accumuli di radiolari, corrispondenti all’epoca in cui il mare raggiunse la sua profondità massima. Col Cretaceo la sedimentazione ritornò calcarea: troviamo dapprima il calcare a grana fine tipo maiolica, con selce nera, e poi la potente serie degli scisti varicolori, generalmente di colore rosso vivo, la cui parte superiore fa già parte, però, del Terziario inferiore. Di quest’ultima età è anche il piano sovrastante, di spessore assai vario, del calcare nummulitico, formato in buona parte da minute brecciole, originate da accumuli di gusci di foraminiferi.

    Le masse ofiolitiche del Sasso di Castro e di Monte Beni, emergenti dalle argille scagliose nei pressi del Passo della Futa.

    La formazione successiva, dell’arenaria macigno, ha una grande importanza, costituendo da sola a causa della sua grande potenza, la maggior parte della dorsale appenninica. Si tratta di un’arenaria formata da grani di quarzo e feldspati con laminette di mica, derivante dalla distruzione di affioramenti granitici. Per spiegarne l’origine si pensa che nell’Oligocene terre di questa natura si trovassero emerse e soggette a forte erosione nella zona dell’alto Tirreno, e che le scarpate di queste aree continentali alimentassero, con innumerevoli nuvole di torbida, l’antistante zona di fossa, corrispondente alla zona occupata oggi dall’Appennino settentrionale, dando origine alla serie clastica dell’arenaria macigno, che supera in genere i duemila metri di spessore.

    In alcune parti dell’Appennino Tosco-Emiliano, fra la valle del Reno e l’Umbria, la sedimentazione della serie autoctona si continuò durante il Miocene con la formazione marnoso-arenacea, anch’essa di grande potenza e la cui parte marnosa diventa proporzionalmente più abbondante procedendo verso nordest. Nel resto dell’Appennino settentrionale, e nella parte centrale e meridionale della Toscana, la serie si chiude col macigno e i terreni che compaiono superiormente non hanno, con questo o con gli altri livelli più antichi nessun legame stratigrafico, ma solo rapporti di sovrapposizione tettonica o di trasgressione: appartengono cioè alla formazione alloctona delle argille scagliose o alla serie neoautoctona.

    A far parte dell’alloctono troviamo terreni della stessa età di quelli della serie triassico-oligocenica che abbiamo descritta, ma rappresentati da livelli litologicamente diversi e provenienti quindi da un diverso bacino sedimentario. Questo avrebbe occupato parte dell’alto Tirreno, cioè la zona ove si manifestarono le fasi precoci del corrugamento appenninico, e furono anzi questi movimenti che determinarono, si pensa, il fenomeno dell’alloctonia. Nel corso di questo spostamento orizzontale, che raggiunse e superò in qualche punto i cento chilometri, la serie si staccò dal substrato e gli elementi plastici o rigidi che la costituivano perdettero il loro ordine, si scomposero e si mescolarono, in masse giustapposte o a struttura caotica. Di queste masse conosciamo però l’età: ve ne sono di giurassiche come quelle scistose inglobanti le rocce ofiolitiche, serpentine, gabbri e diabasi, in parte intrusive e in parte di effusione sottomarina; altre cretacee, come i calcari a Campionella e l’arenaria pietraforte; altre ancora eoceniche, come il calcare marnoso detto alberese per il suo colore biancastro, o come certe frequenti alternanze di scisti e calcari.

    La formazione alloctona ebbe dunque origine lontano dalla sua attuale zona di giacitura, ma sarebbe un errore assimilarla a una vera falda di ricoprimento come quelle che costituiscono le Alpi occidentali: la traslazione non avvenne in profondità sotto forte carico, ma in superficie per fatti gravitativi. Si sarebbe trattato, per così dire, di un enorme colamento, scomposto in più fasi e determinato dal progressivo estendersi da sudovest a nordest del corrugamento appenninico, attraverso una ripetuta surrezione di elementi tettonici positivi, — le cosiddette rughe appenniniche —, che sollevandosi successivamente avrebbero determinato uno « scarico » verso nordest della massa alloctona, che si andava sovrapponendo ad essi per effetto dei movimenti precedenti. Nel corso dello spostamento le parti litoidi della formazione si scomposero in grandi e piccole zolle, mentre quelle argillose si deformarono plasticamente. A seconda delle modalità del sollevamento, in molte zone la colata alloctona superò la zona di attuale dorsale traboccando verso la pianura padana, mentre in altri casi fu arrestata dalle rughe stesse, già troppo innalzate.

    Un affioramento di pietraforte presso Rignano sull’Arno.

    Ritornando alla serie autoctona, questa, come abbiamo già detto, in alcune zone si presenta con aspetto diverso da quello indicato, per effetto dei fenomeni di metamorfismo originati da fatti di carico e di spinta, che hanno fatto subire alle rocce una notevole trasformazione. Nella Montagnola Senese e soprattutto nelle Alpi Apuane, dove la serie è completa, al posto del ricordato calcare massiccio troviamo i marmi; i calcari marnosi del Lias medio sono stati trasformati in cipollini, gli scisti varicolori nei cosiddetti scisti superiori filladici, e così via.

    Nel corso della traslazione dell’alloctono, e in epoca immediatamente successiva, ebbero luogo le fasi principali del corrugamento e del sollevamento appenninico; la dorsale assunse la sua conformazione attuale, ma contemporaneamente le zone sollevatesi per prime, nell’area tirrenica e nella parte centrale della Toscana si abbassarono e furono invase dal mare. Le terre emerse nel Tirreno scomparvero definitivamente, mentre nelle altre zone la trasgressione che iniziò la sedimentazione del neoautoctono si estese dalla costa verso ovest, ricoprendo la formazione delle argille scagliose, o direttamente i livelli autoctoni. La trasgressione si iniziò nel Miocene inferiore e medio, a seconda delle zone, come è testimoniato da certe arenarie dei dintorni di Volterra e di Mandano, e si chiuse alla fine del periodo, con una fase lagunare in cui si depositarono le argille con gessi o salgemma della vai di Cecina e di altre località, e le ligniti picee di Casteani e Ribolla.

    All’inizio del Pliocene il mare si estese nuovamente sulla regione, in maniera ancora più estesa, giungendo a lambire le catene dei Monti del Chianti e di Monte Albano, mentre più a sud potè spingersi sino alla Valdichiana ed ai Monti di Città della Pieve. I maggiori rilievi si presentavano come isole: il Monte Pisano a nord, le Cornate di Gerfalco nella Catena Metallifera, poi i Monti del Grossetano e, più ad est, il Monte Civitella e il Monte di Cetona. I sedimenti pliocenici sono prevalentemente argillosi nella loro parte più antica e sabbioso-conglomeratici in quella più recente.

    Verso la fine del Pliocene il sollevamento appenninico fu completato dalle fasi più tarde, che si continuarono anche nel Quaternario antico, come è testimoniato dalle deformazioni che interessarono i depositi lacustri dei bacini interni. Infatti il sollevamento dei grandi elementi tettonici positivi, formati da abbozzi di pieghe e da faglie e indicati col termine di rughe tettoniche, costituenti le quinte montuose dirette da nordovest a sudest nella Toscana settentrionale e da nord a sud in quella meridionale, fu accompagnato dall’affossamento delle zone interposte fra una ruga e l’altra con formazione di conche lacustri. Bacini di piccole dimensioni occuparono la conca di Aulla in vai di Magra e la Garfagnana, altri più grandi il Mugello e il Casentino, ma dimensioni ancora maggiori ebbero i laghi della conca di Firenze-Pistoia, del Valdarno superiore e della Valdichiana. Ultima reliquia di questa fase lacustre è l’attuale Trasimeno.

    Un affioramento ofiolitico: le masse di diabase di Piazza al Serchio (Garfagnana): si noti a sinistra, la struttura a cuscino, caratteristica delle eruzioni sottomarine.

    I laghi poi si colmarono, trasformandosi in pianure interne, e per effetto dei movimenti che ancora continuavano, i torrenti incisero fortemente i depositi occupanti le conche, terrazzandoli e mostrandone la natura. Le serie lacustri sono generalmente argillose e con lenti di lignite in basso, e sabbioso-ciottolose nella parte più alta, come si osserva assai bene nelle forrette valdarnesi.

    Anche la linea di costa era diversa nel Quaternario antico; ancora insulari erano il promontorio di Piombino e il Monte Argentario, che poi furono uniti alla costa da cordoni litorali. Ma le zone costiere, da poco abbandonate dal mare, e alcune aree interne impaludarono, e tali rimasero a lungo, terribili focolai di malaria: a nord dell’Arno, fra il Monte Pisano e Monte Albano, si mantennero le paludi di Bientina e di Fucecchio; impaludò la Valdichiana e paludi costiere estesissime durarono per secoli nella zona fra Piombino e Follonica, nella pianura dell’Ombrone e in quella dell’Albegna. Sino dai tempi granducali si iniziarono però, come meglio diremo in seguito, le grandiose opere di bonifica per drenaggio o colmata, che hanno portato al risanamento completo della regione.

    Non possiamo chiudere la storia geologica della Toscana senza ricordare i piccoli depositi glaciali, che si formarono nel Periodo Glaciale del Quaternario antico, poco sotto le vette più alte dell’Appennino tosco-emiliano, e soprattutto i fenomeni vulcanici che ebbero luogo in questa stessa epoca. Il maggior vulcano toscano fu l’Amiata, la grande montagna isolata che domina tutta la Toscana meridionale, di natura acida, trachitica ; e pure acide, di vario tipo sono anche le lave di Roccastrada, di Campiglia Marittima e dell’isola di Capraia, e quelle dei piccoli affioramenti di Orciatico e Montecatini Val di Cecina. Ultime manifestazioni di carattere telemagmatico, sono date dai soffioni boraciferi di Larderello e da alcune sorgenti termali che lasciarono estesi depositi di travertino. Nella parte meridionale della Toscana, infine, intorno a Pitigliano e Sorano, troviamo le lave basiche e i potenti letti di tufo testimonianti l’attività periferica dell’apparato vulcanico vulsino. Come ultima roccia magmatica, intrusiva, ricordiamo, per terminare, il granito, che forma la parte occidentale dell’Elba e le isole di Montecristo e del Giglio.

    La distribuzione dei terreni

    A parte il granito, che abbiamo ora ricordato, la parte più profonda dell’imbasamento autoctono, affiora per la massima parte lungo la costa e nel Senese. Il ver-rucano antico, carbonifero-permiano, compare solo a Jano e al Monte Pisano, mentre quello triassico, oltre che in queste località si presenta, ben più estesamente con le sue anageniti e i suoi scisti filladici, nelle Alpi Apuane, nel Gruppo di Monticiano-Roccastrada nel Senese, nei Monti dell’Uccellina, all’Argentario e nelle zone collinose presso Grosseto e Mandano. Si tratta in genere di rilievi modesti, coperti di macchia fitta in qualche punto quasi impercorribile.

    Il calcare cavernoso accompagna il livello precedente nelle zone ricordate, e compare inoltre alla base degli affioramenti mesozoici posti fra Rapolano e il Monte

    di Cetona. Nelle Alpi Apuane e alla Montagnola Senese i terreni secondari si presentano in facies metamorfica in zone assai estese, e nel primo caso formano quasi completamente la piccola accidentata catena. In un maggior numero di gruppi, invece, la serie dei terreni mesozoici compresi fra il Retico e il Cretaceo compare in facies normale; gli affioramenti più importanti sono quelli della Pania di Corfino in Gar-fagnana, della vai di Lima e della valle del Serchio, nel tratto compreso fra Castel-nuovo Garfagnana e Ponte a Moriano. Altri minori compaiono a Montecatini e Monsummano, nei Monti di Oltreserchio ed ai Bagni di Casciana. Più a sud, nella zona delle Colline Metallifere, si trovano affioramenti alle Cornate di Gerfalco e a Campiglia Marittima; mentre nel Senese il più importante forma il rilievo isolato del Monte di Cetona e altri, generalmente piccoli, si presentano a Rapolano, al Monte Zoccolino e fra Sinalunga e Chianciano. Quasi tutti emergono dal Pliocene, e nell’epoca in cui questo si depositava dovevano presentarsi come scogliere appena emerse nella zona di basso fondale che separava il golfo della Valdichiana dal mare aperto che si stendeva nel Senese. Nel Grossetano terreni mesozoici affiorano al Monte Civitella e nei pressi di Roccalbegna a sud dell’Amiata, nella parte settentrionale dei Monti dell’Uccellina e intorno a Gavorrano e Roselle.

    Le rupi di Roccalbegna.

    Molto più sviluppata e continua è la distribuzione della serie terziaria, formata dai calcari nummulitici e soprattutto dall’arenaria macigno. I primi non costituiscono un livello uniforme ma di spessore variabile, mentre il macigno si presenta come una potentissima e monotona pila di strati prevalentemente arenacei, con distribuzione continua in tutta la dorsale appenninica, dalla valle del Taro al Trasimeno. Per quanto complicato da disturbi tettonici, l’assetto della serie arenacea è monoclinale, con immersione verso nordest; ne segue un profilo asimmetrico, ripido verso il Tirreno, dolce dall’opposto lato.

    Oltre che nella dorsale, il macigno affiora, sia pure meno estesamente, nella parte centrale della Toscana e lungo la costa tirrenica. Di macigno è formata in gran parte la « ruga » del Monte Albano e dei Monti del Chianti sino a Sinalunga, il promontorio di Piombino e le colline di Punta Ala e di Monte Ballone, comprese fra Follonica e Castiglione della Pescaia. Il macigno affiora a est di Roselle, presso Grosseto, nei piatti rilievi di Scansano e Magliano posti fra l’Ombrone e l’Albegna, e infine intorno a Mandano, quasi al limite della regione.

    La formazione abbastanza simile al macigno, ma di età più recente, nota col nome di marnoso-arenacea, ha una distribuzione più limitata: essa compare infatti solo nella zona assiale dell’Appennino, fra Porretta e la vai Tiberina, cioè, per quanto riguarda la Toscana, nell’alto Mugello e tra la Falterona e il Passo dei Mandrioli.

    Il monotono paesaggio argilloso della Val d’Orcia. In fondo l’Amiata.

    Lo sperone di tufo di Sorano (Grosseto)

    Più varia la distribuzione dell’alloctono, che la surrezione delle rughe appenniniche ha portato quasi dappertutto a « traboccare » verso la Pianura Padana, tranne nei punti di maggiore sollevamento, che non poterono venir superati, come si verificò fra le valli del Lamone e del Savio; in questa zona, infatti, l’alloctono non si sovrappose alla serie autoctona, e sul macigno seguono in serie continua i termini sedimentari successivi, sino al Pliocene. In corrispondenza delle valli del Savena e del Marecchia si verificarono, invece, le massime punte di avanzata della coltre alloctona, che raggiunse il margine della Pianura Padana.

    Nelle conche interne dell’Appennino l’alloctono è rappresentato in parte da masse esotiche di natura ofiolitica, come in Garfagnana, a Prato e in vai Tiberina, o di calcari marnosi e di arenaria pietraforte, come nei pressi di Firenze, mentre nei Monti di Livorno, in vai di Cecina, a Larderello, ecc. hanno un grande sviluppo gli argilloscisti con ofioliti. I rilievi mesozoici delle Colline Metallifere emergono da un alloctono formato in gran parte da alternanze caoticizzate di scisti argillosi e calcari di tipo svariato. Terreni di uguale natura formano anche la coltre alloctona della parte meridionale della Toscana, ma in essa sono comprese anche potenti masse di pietraforte o di calcari marnosi.

    I terreni terziari più recenti, miocenici e pliocenici, ricoprono in trasgressione i precedenti, estendendosi oltre che nella regione costiera e in quella delle Colline Metallifere, anche neH’interno, soprattutto sulla sinistra dell’Arno e nelle vallate dell’Ombrone, dell’Orda e dell’Albegna. I terreni miocenici si ritrovano in lembi nei Monti Livornesi, nella valle del Cecina e nelle colline a est di Chiusdino e di Roccastrada. A sud di questa località compaiono nelle zone di Paganico e di Cini-giano, ma il limite massimo della trasgressione si trova molto più a est, come è mostrato dai depositi lignitiferi posti sulla destra dell’Elsa, fra Poggibonsi e Siena, e da quelli affioranti lungo l’Orda a sud di Montalcino. Nella valle dell’Albegna, sabbie e conglomerati miocenici formano una buona parte delle colline situate fra Marsiliana e Mandano.

    I terreni pliocenici si estendono in misura molto superiore: nel bacino dell’Arno sabbie e conglomerati pliocenici affiorano nelle colline delle Cerbaie, a Cerreto Guidi e Fucecchio, e intorno ad Orciatico. Nelle valli dell’Elsa e dell’Era, procedendo verso sud prevalgono le argille, che col nome locale di mattaioni costituiscono tanta parte della zona posta intorno a Volterra. Nella parte interna dei bacini dell’Ombrone e dell’Orda sabbie e ciottolami formano un orlo continuo alla base delle ultime propaggini dei Monti del Chianti, o intorno ai gruppi mesozoici posti fra Rapolano e il Cetona, mentre in tutto il resto della vastissima zona predominano le argille: è lo squallido paesaggio delle crete del Senese e della Val d’Orcia, coperte di grano in primavera, arse e fessurate dal sole in estate, trasformate in un mare di fango nella stagione piovosa.

    Nelle altre zone della Toscana meridionale i depositi pliocenici compaiono, sovrapposti a quelli miocenici, intorno a Campagnatico e Sasso d’Ombrane, e inoltre, con argille gessifere, sulla destra dell’Albegna, intorno alla collina dell’antica Saturnia. Lembi minori sono conservati, infine, anche nella Val di Fiora, a est di Mandano. Il limite massimo della trasgressione pliocenica è indicato dai depositi della Valdichiana, posti a circa novanta chilometri nell’interno, rispetto alla costa attuale.

    Vedi Anche:  Strutture agrarie e vita rurale

    Sulla distribuzione dei depositi lacustri e vulcanici è stato già detto a suo tempo; a proposito di questi ultimi si può aggiungere che è nella zona di Pitigliano e Sorano che si iniziano i grandi altopiani di tufo, che costituiscono tanta parte del Lazio.

    La Toscana è regione frequentemente colpita da terremoti, di cui si hanno testimonianze storiche fin dal Medio Evo. Non sono mancati in passato le vittime umane e i crolli di edifici e di interi villaggi, e tuttavia non si sono mai avute scosse disastrose come in altre parti d’Italia. Una delle aree più colpite è certamente quella di Sansepolcro, ove si ricorda che alla metà del Trecento morirono in una serie di scosse successive oltre duemila persone. Come ricorda il Baratta, «nel 1414 una gran parte dell’abitato di Sansepolcro fu da un altro terremoto di bel nuovo atterrata e, sotto le rovine, trovaron la morte più di duecento persone: forse fu per effetto di questa istessa scossa che caddero a Firenze duecento comignoli e precipitò pure qualche muro: sappiamo inoltre che essa fu sentita a Pisa, a Lucca ed in molti luoghi della Toscana».

    Il Gavone di Sovana: un’antica strada etrusca scavata nei tufi.

    Altre aree di sismicità intensa e frequente sono quelle del Mugello, ove anche in anni recenti si ebbe il crollo di alcune case, dei dintorni di Firenze, del Senese, della Valdelsa, di Radicofani. Anche l’alta Garfagnana e l’alta Lunigiana, come pure la costa livornese sono considerate dal Baratta, nella sua carta delle aree sismiche in Italia, come zone di intensa sismicità. Mediocre invece e leggera la sismicità delle colline intorno all’Amiata e a Siena, dei Monti Metalliferi, di altre piccole isole sparse qua e là nella regione.

    Il rilievo: l’Appennino e le sue conche

    Si comprendono in questa prima zona la catena principale dell’Appennino ed i contrafforti che da essa si staccano e che sono detti talora, per la posizione quasi a corona delle montagne più alte, del Subappennino. Tra questi e l’asse della catena sono racchiuse alcune ampie conche orografiche, molto ben individuate, come la Lunigiana, la Garfagnana, il Mugello, il Casentino, la Val Tiberina, che portano nel cuore della montagna forme ondulate e spesso piane del terreno (antichi bacini lacustri).

    Pur facendo parte dell’Appennino appare invece opportuno considerare a sè, dal punto di vista geografico, per il suo isolamento e le sue forme alpestri, il gruppo delle Alpi Apuane.

    L’Appennino toscano fa parte deH’Appenino settentrionale ed è costituito da una serie di catene relativamente parallele, con direzione generale da nordovest a sudest, corrispondenti a grandi rughe tettoniche originatesi, come già si disse, progressivamente dal Tirreno verso l’Adriatico.

    La roccia di gran lunga dominante nella catena principale è una arenaria, il cosiddetto macigno, che per la sua erodibilità, insieme alle marne ed alle argille, dà luogo, in genere, a forme piuttosto arrotondate. Tale infatti è l’aspetto di molte vette appenniniche che, pur circondate da erti versanti, mai presentano i dirupi, le guglie, le precipiti pareti delle montagne calcareo-dolomitiche o cristalline.

    La rapidità dell’erosione ha tuttavia scavato valli dai ripidi e franosi versanti, con stretti profili a V, talora vere e proprie forre, che si contrappongono alle forme più arrotondate delle parti alte, dove anche si notano qua e là i resti di antiche superfici di erosione. I contrasti da parte a parte sono accentuati talora dal variare dei tipi della roccia, specie ove all’arenaria si sostituiscano le argille scagliose, i calcari o le rocce verdi: ne sono esempi caratteristici la profonda, incassata valle della Lima nei calcari mesozoici, l’erto, isolato Sasso di Castro nelle pietre verdi, le depresse conche argillose nella fascia inferiore della catena.

    La catena appenninica nella montagna pistoiese.

    Le altitudini raggiunte dalle vette appenniniche sono più considerevoli nel tratto nordorientale, dove tuttavia le cime più elevate sono spostate di poco dallo spartiacque ed appartengono al bacino padano: così l’Alpe di Succiso (m. 2016), il Monte Cusna (m. 2120), il Cimone (m. 2165), situati pochi chilometri a nord del crinale principale. In questo primo tratto, dal Monte Gòttero (m. 1640) al Corno alle Scale (m. 1945), si susseguono numerose le vette oltre i 1500 metri, tra le quali, per ricordare solo le più note, il Monte Orsaro (m. 1830), il Monte Sillara (m. 1861), il Monte Bocco (m. 1791 ), il Monte Alto (m. 1904), dominanti l’alta e media Lunigiana, e quindi, al limite della Garfagnana, il Monte Sillano (m. 1874), ^ Monte Prato (m. 2053), il Monte Giovo (m. 1991) e l’Alpe delle Tre Potenze (m. 1940). Domina l’alta valle della Lima la compatta catena che dal Libro Aperto (m. 1937) si continua fino al Corno alle Scale, e poi al Monte Orsigna (m. 1555).

    Il crinale si mantiene quasi sempre sopra i mille metri, con carattere sovente impervio, ma non molto aspro: i punti più bassi corrispondono ai valichi del Brattello (m, 953), della Cisa (m. 1059), di Lagastrello (m. 1200), del Cerreto (m. 1261), delle Radici (m. 1529), dell’Abetone (m. 1388).

    Dal Monte dell’Uccelliera (m 1814) verso sudest la catena si deprime sensibilmente e la linea delle vette più alte non corrisponde a quella dello spartiacque, che si spinge con la valle del Reno nel cuore delle montagne pistoiesi (Passo dell’Oppio, m. 821; di Prunetta, m. 958). Le Piastre (m. 740) e la Collina (m. 923) e, quindi, Monte Piano (m. 704) e la Futa (m. 903) costituiscono comodi e frequentati valichi fra le cime circostanti che raggiungono al massimo i 1300 metri (Monte La Croce, m. 1319).

    Supera di poco i mille metri anche il crinale appenninico del Mugello a sudest della Futa, inciso da poco profondi solchi, quali il Giogo di Scarperia (m. 882), la Colla di Casaglia (m. 913), il Passo del Muraglione (m. 907). Il rilievo si alza poi di nuovo nel nodo orografico del Falterona (m. 1654) dal quale si stacca, a separare il Casentino dal Valdarno di Sopra e dalla valle della Sieve, il grande contrafforte del Pratomagno, che alla Croce raggiunge i 1592 metri di altitudine. La catena volge quindi più marcatamente a sudest avvicinandosi all’Adriatico, e non raggiunge più altezze rilevanti se non nell’Alpe di Serra (m. 1234), poco lungi dal Fumaiolo, la cui vetta sorge però sul versante Adriatico, e nell’Alpe della Luna (m. 1454). La denominazione di Alpe riprende anche nel contrafforte che si spinge verso sud tra l’alta valle dell’Arno e quella del Tevere, nella cosiddetta Alpe di Catenaccia (m. 1415) e, poco più a sud nell’Alpe di Poti (m. 974).

    Comprese tra le rughe appenniniche sono, come si è detto, varie conche, venutesi a formare con i movimenti orogenetici del versante tirrenico seguiti al sollevamento principale dell*Appennino alla fine del Terziario. In queste conche, già occupate dal mare, che nel Pliocene penetrava profondamente verso l’interno della regione, si formarono all’inizio del Quaternario, dei grandi laghi, scomparsi poi sia per colmamente, sia per erosione della soglia verso valle : banchi di depositi lacustri sono ancora ben visibili in più parti al di sotto delle alluvioni fluviali recenti.

    Tali bacini presentano forme dolcemente collinari, terrazzi incisi da stretti solchi torrentizi, piani fluviali di varia estensione, talora con aspetto di estese ed uniformi pianure. Essi costituiscono comunque delle aree ben individuate e separate, con forte accentramento di popolazione, fiorente attività agricola e spesso industriale, che si contrappongono alle circostanti ben più povere aree montuose. Ma della loro importanza regionale diremo trattando delle divisioni interne della Toscana.

    Prima fra tutte, seguendo l’Appennino da nordovest a sudest è la Lunigiana, all’estremità nordoccidentale della regione, corrispondente al bacino medio e superiore del fiume Magra e compresa tra la catena appenninica centrale ed il contrafforte che si spinge da questa verso il mare e il fiume Vara. La seconda è la Garfagnana, compresa tra FAppennino e    le Apuane,    il bacino cioè del    Serchio. Si presentano ambedue come ampie vallate cui affluiscono numerose le valli minori; una parte centrale è formata da colline prevalentemente sabbiose e ghiaiose e da brevi piani alluvionali.

    La conca del Mugello.

    Più a sudest si apre la conca del Mugello, percorsa dalla Sieve e dai suoi affluenti, racchiusa tra la cresta spartiacque dell’Appennino e il complesso dei rilievi sub-appenninici dei Monti della Calvana, di Monte Morello, di Monte Giovi, poco a nord di Firenze. Una breve striscia pianeggiante lungo la Sieve è circondata, specie verso nord, da una serie di colline e di ripiani terrazzati, cui seguono, con improvviso cambiamento di profilo, i più ripidi versanti arenaceo-calcarei dell’Appennino. L’antico specchio lacustre, esteso forse trecento chilometri quadrati, era sbarrato da una soglia a valle di Vicchio e qui l’emissario scavò il solco che diminuì un po’ per volta l’ampiezza del lago sino alla sua completa sparizione. Restano ancora di questo vasti e ben visibili sedimenti.

    Tra il Pratomagno, il Falterona e l’Alpe di Serra si estende invece, a guisa di grande fossa, il Casentino, cioè l’alta valle dell’Arno, di poco più    ampia del Mugello. Le acque che traboccavano dalla conca verso Arezzo incisero la stretta gola di Santa Marna ed iniziarono così lo svuotamento del bacino, riducendo i sedimenti lacustri ad una serie di terrazzi e di colline che caratterizzano oggi la parte centrale della valle tra i trecento ed i cinquecento metri. L’aspetto generale è così, grosso modo, simile a quello del Mugello.

    L’Appennino sopra Badia Prataglia.

    A un’altra zona affossata corrisponde il Valdarno di Sopra, tra il Pratomagno e la catena del Chianti, dall’Incisa sino alla pianura aretina. Anche qui un grande lago, che si continuò per un certo tempo in quello della Valdichiana, occupò la conca, colmandosi via via con le alluvioni dei numerosi immissari. Mentre la stretta soglia meridionale si andava alzando di livello per i depositi dell’Arno casentinese, si scavava invece una gola in direzione della Sieve, che fece affluire le acque verso la pianura di Firenze. Anche questa conca presenta oggi una serie di dolci colline sul fondo, resto delle antiche colmate lacustri, e una serie di brevi piani alluvionali circondati da ripidi versanti. Delle altre conche più esterne alla catena e prevalentemente pianeggianti, come quella di Firenze, della Valdichiana, della valle Tiberina, si dirà tra breve insieme alle altre pianure della regione.

    Le Alpi Apuane

    Considerate da taluni come Antiappennino, da altri come parte delFAppennino proprio, è comunque preferibile parlare delle Alpi Apuane come di un gruppo a sè per la sua particolare costituzione geologica, per il suo isolamento dagli altri rilievi, per la sua morfologia che ricorda da vicino quella prealpina ed alpina e che ben consente l’uso della denominazione di Alpi. Come scrive il Milone, « tormentato nelle forme, per la natura calcarea e dolomitica delle sue rocce, e per la complicata genesi; irto di creste e di picchi, di burroni e di forre, di valli anguste e canaloni profondi, anche per l’efficacia erosiva delle piogge abbondanti sulla roccia calcarea; biancheggiante per le molte cave e gli sparsi detriti di candido marmo, il gruppo delle Apuane sembra quasi una regione alpina in terra toscana ».

    Alpi Apuane: il Monte Sagro.

    Il gruppo, che si estende su una superficie di un migliaio di chilometri quadrati, tra la pianura costiera, la Garfagnana e la Lunigiana inferiore, è limitato a sud dai colli che scendono sul Serchio e collegato a nord all’asse appenninico da un contrafforte che si deprime alla foce dei Carpineti a 842 metri. Intorno al Monte Pisa-nino, che è la cima più alta (m. 1945), si distribuiscono numerose altre caratteristiche vette, più o meno staccate tra loro, intorno ai 1800 metri. Si alzano nel cuore della catena la Tambura (m. 1890) e il Monte Cavallo (m. 1895), fronteggiati dalla cuspide isolata del Monte Sagro (m. 1749), che domina per un largo tratto la pianura costiera. Sul versante del Serchio, la Penna di Sumbra (m. 1765) incombe con le sue strapiombanti pareti sulla stretta valle della Turrite Secca. Più a nord, il Pizzo d’Uccello (m. 1881) ripete con la sua calcarea pallida roccia i colori e le forme dolomitiche, mentre a sud la Pania della Croce (m. 1859) e la vicina Pania Secca (m. 1711) e il Corchia (m. 1677) presentano forme larghe e massicce ed insieme precipiti e franose.

    Queste vette, cui devono aggiungersi per le loro aspre forme, malgrado la minore altitudine, il Monte Matanna (m. 1317), il Forato (m. 1223), che deve il nome ad un grande arco naturale, e il Torrione del Procinto (m. 1117), continuano verso sud la parte più mossa del gruppo, con forme tra le più alpestri di tutto l’Appennino. Numerosi erti valichi, le cosiddette foci, e valli fortemente erose, specie sul versante marittimo, danno airinsieme di queste « alpi » appenniniche un singolare movimento ed una costante varietà di paesaggi entro brevi spazi. Non mancano anche le forme di origine glaciale, di cui diremo meglio tra breve.

    Dai crinali più alti si scende verso ovest, lungo i ripidi versanti costellati sovente dalle cave di marmo, come nelle pareti del Monte Altissimo (m. 1589), dominante gran parte della Versilia, alle anguste valli che penetrano profondamente con andamento radiale nel gruppo (canali) e sboccano attraverso strette soglie nella pianura.

    I sollevamenti recenti e la vicinanza del livello di base hanno reso più forte su questo versante l’azione escavatrice dei rigidi e irruenti corsi d’acqua. Vari contrafforti, tra ottocento e mille metri d’altitudine, le cui creste piane e uniformi rappresentano certamente dei resti di spianamenti erosivi della parte media della catena, si spingono tra valle e valle verso il mare, così che il versante marittimo assume nel suo insieme forme mosse e precipiti ad un tempo. Si tratta dunque di una montagna « giovane » il cui sollevamento principale risale forse a trenta o quaranta milioni di anni, dove sono ancora molto vive le forze dell’erosione.

    Anche nel versante interno, assai meno ripido, che scende nella Garfagnana o nella Lunigiana, valli strette e lunghe, più o meno parallele tra loro, con andamento trasversale o divergente si alternano a contrafforti, spesso più arrotondati e regolari, ma dai fianchi sempre ripidi e scoscesi. Una fitta rete di torrenti anima così il paesaggio di queste montagne, che, per la loro costituzione calcarea in alto, presentano ad un certo livello lunghe serie di abbondanti sorgenti. Da tutti i lati, tranne in quello marittimo largo pochi chilometri, il gruppo degrada infine in colline, costituite da rocce meno resistenti e meno sollevate di quelle del gruppo centrale.

    Nel gruppo si può dunque distinguere un nucleo centrale più alto e più aspro costituito da un complesso autoctono di rocce metamorfizzate, dove le argille e le arenarie si sono trasformate in scisti cristallini, i calcari hanno acquistata la struttura saccaroide tipica dei marmi, la dolomia, poco ricristallizzata, ha dato luogo a una roccia grigia detta localmente « grezzone ». Tutt’intorno si estendono terreni alloctoni di una vasta falda di ricoprimento, di origine sedimentaria e non metamor-fizzata, che danno luogo appunto a una morfologia più depressa.

    L’aspetto delle Apuane è stato reso in varie parti più nudo e aspro dall’opera dell’uomo che ha scavato dove ha potuto nell’inesauribile riserva di marmo del sottosuolo e ha creato enormi accumuli di detriti biancheggianti al sole, i cosiddetti ravaneti, che occupano talora vasti tratti dei versanti.

    Alpi Apuane: il Canalgrande.

    Monti e colli dell’Antiappennino

    A sud dell’Arno fino al Monte Amiata, tra il mare, la Valdichiana e il Tevere, una serie di rilievi, variamente ondulati, con forme più dolci di quelli dei monti appenninici, e assai meno elevati, dà l’impronta al paesaggio della Toscana centromeridionale. In luogo delle catene regolari ed allineate, che abbiamo visto nell’Appen-nino proprio, gruppi montuosi sparsi emergono qua e là su basse colline, raggiungendo solo nell’isolato Monte Amiata i 1700 metri di altitudine e restando nelle altre vette maggiori poco sopra i mille metri.

    Prevalgono i terreni arenaceo-marnosi, ma compaiono gruppi calcarei e, verso sud, vari terreni vulcanici; si hanno presso Gavorrano anche affioramenti granitici. Le acque del mare hanno poi depositato, durante le invasioni marine plioceniche, vasti sedimenti, sollevatisi poi per movimenti orogenetici alla fine del Terziario fino a novecento metri di altitudine, dei quali sono oggi testimonianze le larghe serie di dolci colline e basse montagne che sembrano appoggiate tutto intorno ai più antichi terreni.

    Di paesaggi veramente montani, in questo Antiappennino toscano, non vi è che il vulcanico cono dell’Amiata, quasi al confine laziale, che domina le valli dell’Orcia, del Paglia, del Fiora, ed è visibile fin dall’arcipelago e dai monti di Firenze. E la «Montagna» per eccellenza della Toscana meridionale, formatasi nel Quaternario con l’accumulo per un’altezza di circa settecento metri di materiale eruttivo, soprattutto di lave trachitiche, su un basamento di precedenti terreni sedimentari eocenici.

    Alla parte centrale della regione antiappenninica è stato dato il nome di « Colline metallifere» (impropriamente Catene) per la ricchezza, come vedremo, di alcuni minerali (piombo, zinco, rame, argento, pirite, ecc.). Colline e non montagne, anche se superano alla cima delle Cornate i mille metri (m. 1059): infatti il passaggio ondulato ben poco richiama le forme montuose.

    Oltre a questi principali nodi orografici dell’Amiata e delle Cornate, da cui si dipartono quasi a raggiera vari contrafforti, altri minori possono qua e là riconoscersi, come i monti del Chianti, allineati in una breve catena culminante al Monte S. Michele (m. 893), sul margine dell’Appennino proprio, il Monte Cetona (m. 1148), isolato massiccio calcareo, la cui vetta domina sul margine sudorientale della regione tra Toscana    e Lazio, il    Monte Labbro    (m. 1193) poco a sudovest dell’Amiata, il Monte Civitella (m. 1107) tra il Fiora ed il Paglia.

    Intorno a questi maggiori rilievi si estende il paesaggio più propriamente collinare, degradante in dolci ondulazioni verso i corsi dei fiumi. Sono colline di varia natura, fra cui caratteristiche quelle che a sudovest di Firenze, nel Senese, lungo l’Ombrone e l’Orcia e qua e là in vari tratti sparsi, sono costituite prevalentemente da argille azzurrognole e da sabbie marine, con frequenza di conglomerati ghiaiosi. Queste colline in particolare, fortemente umanizzate, hanno lasciato traccia nelle pagine di tanti scrittori e pittori che hanno illustrato e ritratto il paesaggio toscano. In qualche tratto, tuttavia, la coltre argillosa determina un paesaggio spoglio ed inospitale, dove prevalgono caratteristiche forme di erosione, di cui diremo tra, breve.

    Paesaggio dell’Antiappennino intorno a Radicofani.

    « La campagna Sanese presenta agli occhi del pittore e del filosofo il prospetto il più bello che la Natura abbia saputo formare. Molte catene di colline che l’una dietro l’altra si succedono rivestite per la maggior parte di alberi e di piante di ogni specie, che sono qualche volta interrotte da valli amene e fertili bagnate da piccoli torrenti che con vaghi meandri le raccamano, presentano agli occhi del paesista dei quadri i più vaghi e i più dilettevoli che la più viva immaginazione possa concepire.

    Il Monte Amiata.

    Il filosofo poi non fermandosi, come è suo costume, nella sola superficie delle cose, ma ai loro più remoti nascondigli penetrando, trova di che istruirsi nelle viscere di quelle verdi colline ora esaminando i diversi marmi che in sè racchiudono, e che hanno abbelliti molti palazzi anche della più remota Europa, ora esaminando i ricchi metalli che d’ogni specie in molte di esse s’incontrano, or le acque minerali e salutifere, or le piante, or i fossili più curiosi. Diverse colline però formate di una terra cenerina spogliate per la maggior parte di alberi e di piante formano per così dire lo scuro del quadro, e rassomigliano a quelle contrade che un fuoco divoratore abbia devastato di fresco e ridotte in mucchi di squallida cenere » (Candido Pistoj).

    Pianure interne e costiere

    Il paesaggio di pianura può considerarsi in Toscana quasi un’eccezione, occupando nell’insieme, come già si è detto, circa un decimo del territorio. E non si tratta di una sola continua pianura, ma piuttosto di lembi pianeggianti non molto estesi, staccati l’uno dall’altro e sparsi lungo la costa o nelle conche interne. Pur poco esteso, il paesaggio di pianura ha però grande importanza nella vita regionale perchè, essendo appunto distribuito qua e là tra territori montuosi e collinari, rappresenta una serie di importanti aree di attrazione e di sviluppo urbano ed economico.

    Nella Toscana interna carattere di pianura ha per largo tratto il bacino di Firenze-Pistoia, attraversato dall’Arno, dall’Ombrone pistoiese, dal Bisenzio, da altri torrenti minori. Come le conche appenniniche già ricordate, anche questa, che corrisponde grosso modo ad una zona di sinclinale, fu occupata da un vasto lago, il cui emissario correva verso il mare in direzione ovest, verso la piana di Empoli. L’abbassamento del livello marino determinò da parte del fiume l’erosione di una gola, quella che è detta oggi la « Stretta della Gonfolina », ed un approfondimento dei larghi meandri che si erano venuti in precedenza formando e che si presentano oggi appunto infossati. Da questa gola le acque del lago fluirono verso il mare, prima che lo specchio lacustre potesse colmarsi di alluvioni. I torrenti appenninici trasformarono poi la conca con l’erosione dei vecchi depositi lacustri e l’abbandono di abbondanti alluvioni, in una pianura paludosa, circondata da dolci colline. Solo l’opera dell’uomo ha in sèguito posto fine al disordine idrografico.

    Durante il Villafranchiano, cioè, nel Quaternario inferiore, il mare giungeva fin presso il lago di Firenze ed il vecchio Arno aveva dunque dopo di questo un corso assai breve. Ma in sèguito, nel Pleistocene, il ritiro delle acque marine verso ovest allungò il corso del fiume su un lungo tratto a debole pendenza e provocò così il deposito di alluvioni fluviali su quelle marine. A questi depositi contribuirono anche i torrenti delle vicine montagne, assai ricchi di materiali, e venne così a formarsi una pianura stretta e lunga a carattere paludoso, con corsi d’acqua disordinati e vaganti, ma affluenti comunque all’Arno: la pianura del Valdarno di sotto, oggi prosperosa di attività economiche, agricole ed industriali.

    Intorno all’attuale Fucecchio rimase isolata, pare in tempi storici recenti, un’area paludosa, circondata da lembi di alluvioni più ampie, che impedivano lo scolo delle acque verso il mare. Il padule così formatosi fu prosciugato in parte nel secolo scorso con la costruzione del Canale Maestro.

    Varia poi da Pontedera fino a Pisa ed al mare, costituendo la più ampia area piana della Toscana, con una debolissima pendenza media. Da un lato le piatte alluvioni si continuano col Padule di Bientina, intorno al Monte Pisano, che resta così un’isola staccata dalle altre montagne, e prosegue dall’altro lato lungo la costa fino ad incontrare la pianura del Serchio e la fascia litoranea della Versilia. Anche qui, sui depositi marini emersi si accumularono materiali recenti dei fiumi vaganti, creando aree paludose all’interno e lungo il mare.

    Vedi Anche:  Storia della Toscana

    La pianura di Firenze-Pistoia.

    Breve pianura interna è poi quella Aretina, solcata da un lato dall’Arno, ove questo sbocca dal Casentino per volgere poi verso il Valdarno. E questa una pianura di spartiacque tra il lago quaternario del Valdarno superiore e quello della Valdichiana: a separare i due laghi si depositarono qui le alluvioni dell’Arno formando una bassa soglia sufficiente a deviare le acque verso nord, dove nel frattempo si andavano approfondendo le gole epirogenetiche di Rondine presso Arezzo e di Pontassieve verso Firenze.

    Anche la pianura della Valdichiana occupa il fondo di un vecchio bacino lacustre, dalla forma allungata, che confluiva nel Quaternario medio e superiore verso il Tevere. Questo bacino è uno dei più periferici rispetto alla catena assiale appenninica e uno dei più recenti: i depositi lacustri, prevalentemente sabbiosi, distribuiti su una lunga striscia dai dintorni di Marciano fino al lago di Chiusi, poggiano sugli strati marini del Pliocene, che dopo il deposito subirono vari movimenti di sollevamento. Questi movimenti orogenetici furono in realtà abbastanza cospicui e spiegano appunto la formazione della conca lacustre, che raggiunse una lunghezza di circa cinquanta chilometri e una larghezza di quindici.

    Con il progressivo colmamento del lago si determinò nella nuova pianura una grande incertezza idrografica e le acque, stagnanti in una malsana palude, affluirono in parte verso il Tevere in parte verso l’Arno. Dopo aver cercato di far affluire nell’antichità le acque verso sud, l’uomo cercò, airinizio dell’epoca moderna, una sistemazione del torrente Chiana e di altri corsi minori, costruì il Canale Maestro della Chiana, creò verso Chiusi un vero e proprio argine spartiacque, sicché ora tutta la conca, bonificata e appoderata, appartiene al bacino dell’Arno: se ne dirà più ampiamente in seguito parlando delle bonifiche.

    La pianura costiera apuana vista da Bocca di Magra.

    Della Val Tiberina, che occupa la conca più interna della regione, appartiene alla Toscana solo il tratto superiore, intorno a Sansepolcro. Si tratta anche qui del colmamento di un vecchio specchio lacustre ad opera delle alluvioni dei torrenti appenninici, in particolare del Tevere.

    Tra le pianure costiere si deve innanzitutto ricordare quella deltizia dell’Arno, che ha subito negli ultimi secoli notevoli variazioni a causa dello spostamento del corso del fiume, di cui si dirà meglio, e dell’avanzamento entro il mare che pare abbia raggiunto in media quasi cinque metri all’anno. Sarebbe dunque questa la pianura più recente della Toscana, formatasi in gran parte in epoca storica. Pare che Pisa si trovasse nell’antichità romana a soli quattro chilometri dal mare, mentre oggi ne dista oltre il doppio. Si tratta tuttavia di un delta poco sporgente perchè i materiali sono stati rimaneggiati e distribuiti dal mare per un lungo tratto intorno.

    Come una striscia pianeggiante, larga da tre a dieci chilometri, si presenta la fascia litoranea ai piedi delle Apuane, dal Serchio alla Magra: vi si possono distinguere una zona pedemontana, dove si sono accumulati i materiali portati a valle dai ripidi torrenti apuani, e una zona bassa e litoranea, sabbiosa, con piccoli e brevi cordoni di dune. Nella fascia centrale rimasero stagnanti le acque in acquitrini e paludi ormai bonificati dall’uomo: ne restano traccia nei laghi di Massaciuccoli e di Porta.

    A sud dell’Arno, nella Toscana marittima, strette pianure costiere riprendono intorno alle foci del Cècina fino alle colline di San Vincenzo e si allargano nel retroterra del promontorio di Piombino che, come si dirà, è rimasto fino al Quaternario un’isola marina. Il golfo del Tirreno si è qui ritratto davanti alle fini alluvioni del fiume Cornia, che hanno formato una piatta, umida pianura, ricca di stagni, che penetra per una ventina di chilometri nell’interno. Altro golfo marino colmato è quello di Follonica-Scarlino, attraversato dal torrente Pècora.

    Siamo ormai in Maremma ed è qui che si estende un’altra tra le più vaste pianure toscane, quella di Grosseto o dell’Ombrane, dalla città capoluogo o dal fiume che l’attraversa sul margine meridionale. Dal caratteristico delta dell’Ombrone la pianura si spinge con insensibile pendenza verso nord tra le colline ove prosperano celebri centri etruschi, come Rosselle e Vetulonia: a dieci chilometri dal mare l’altitudine è appena di due o tre metri. Ancora restano, pur sempre più ridotti, alcuni dei molti acquitrini che, avanti la sistemazione idrografica da parte dell’uomo, occuparono per gran parte il territorio. Ma del tutto debellata è ormai la malaria che rese questa pianura tristemente nota. Un altro breve tratto di pianura può ancora riconoscersi intorno alle foci dell’Albegna, ai margini della laguna di Orbetello.

    Nelle Apuane: il Monte Tambura da Vagli di Sopra

    Monti dell’arcipelago e delle coste

    Nel Mare Tirreno, che limita ad occidente la Toscana (la denominazione di Mai-Ligure per il mare a nord dell’Elba è qui del tutto fuori uso) sorgono numerose isole, varie di ampiezza e di aspetti, cui si dà il nome di Arcipelago Toscano.

    Sono isole in maggior parte montuose, se si eccettua quella di Pianosa, e pare costituiscano l’ultimo resto di un’antica terra, la Tirrenide, che continuava dalla Toscana sino alla Corsica ed alla Sardegna e la cui sommersione iniziò probabilmente già alla fine del Miocene. Isole montuose erano, fino a tempi geologici recenti, cioè fino al Quaternario, anche il Monte Argentario, i Monti di Piombino, i Monti del-rUccellina, presso Talamone, saldatesi poi al continente con brevi lembi di terra creati dai corsi d’acqua e dal mare.

    L’isola d’Elba presso Cavo.

    Maggiore fra tutte è l’isola d’Elba: frastagliata ed incisa da profondi seni marini, a causa di recenti movimenti di sommersione che le hanno dato una forma assai mossa e articolata, essa è formata da terreni diversi che contribuiscono a loro volta alla singolare varietà di aspetti. Le due insenature di Portoferraio e di Procchio a nord, cui corrispondono a sud quelle dei golfi Stella e di Lacona e del golfo di Campo e il profondo seno di Porto Azzurro ad est, articolano il corpo dell’isola in diverse sezioni ben distinte, cui corrispondono differenti e complicati caratteri morfologici e geologici. Terreni antichi molto vari dai paleozoici ai mesozoici, dove abbondano i giacimenti di minerali ferrosi e dove prevalgono forme collinari intorno ai quattrocento metri, costituiscono la parte orientale; una serie mediana, pure collinare, con abbondanza di rocce eruttive, coperte parzialmente da suoli sedimentari, formano invece la sezione centrale, mentre quella occidentale è formata dalla grande cupola granitica del Monte Capanne, culminante a 1019 metri. Il rilievo si immerge per lunghi tratti nel mare, con coste alte e rocciose, con ben visibili segni dell’erosione marina, mentre nel cuore delle molte insenature si estendono piccole spiagge sabbiose e ciottolose, ben note ai turisti.

    I monti granitici del Giglio emergono dal mare di fronte all’Argentario, culminando a 498 metri (Poggio delle Pagane). Assai più compatta ed uniforme dell’Elba — solo verso nordovest ai graniti si sostituiscono terreni calcarei — quest’isola ha coste alte e scoscese con frequenti scogli e poche insenature, terminanti in brevi tratti di spiaggia.

    A nordovest dell’Elba sorge dal mare la selvaggia vulcanica Capraia, dalle coste alte e ricche di grotte: è costituita da una serie di rilievi alti fin oltre quattrocento metri, tagliati da brevi corsi d’acqua (vadi), con un piccolo lago craterico detto « lo Stagnone ». Una sola lunga dorsale montuosa, forse da collegarsi a una serie allineata di bocche eruttive, scende ripida sul mare ad occidente, mentre degrada lentamente verso levante. L’isola è ricoperta di macchie e di pochi campi coltivati.

    La Gorgona che, come si è detto, è la più settentrionale isola dell’arcipelago e la più piccola, appare costituita prevalentemente da scisti gneissici, ha un rilievo collinare culminante a 255 metri sul mare e, malgrado le coltivazioni curate dai detenuti, è in gran parte ricoperta da una macchia selvatica.

    L’isola di Pianosa, culminante a ventisette metri, è costituita da una specie di tavolato di terreni miocenici cui si sono sovrapposti depositi marini pliocenici e lembi di panchina quaternaria.

    Montecristo, la cui grande massa granitica emerge dal mare con ripidi pareti fino a 645 metri di altitudine, è del tutto dirupata ed inospitale, con coste quasi ovunque inaccessibili. Vi abitano temporaneamente solo alcuni guardiani.

    Alcuni chilometri ad ovest affiora un piccolo banco calcareo, detto « Formica di Montecristo» o «Scoglio d’Africa»; lo circondano bassifondi rocciosi assai infidi ai naviganti. L’isola più meridionale, quella di Giannutri, di natura calcarea e lievemente ondulata (m. 97), ha coste alte, fasciate da scogli.

    Rilievi granitici nell’impervia isola di Montecristo.

    Tra i rilievi costieri, un tempo isole, che, a guisa di erti promontori, si spingono verso il mare, più caratteristico ed imponente è il Monte Argentario, alto 635 metri, e unito al continente da due cordoni sabbiosi che racchiudono la laguna di Orbetello.

    Più a nord, le alluvioni del Cornia hanno saldato con un tratto di pianura al continente il Monte Massoncello (m. 268) e gli ultimi rilievi che costituiscono il promontorio collinoso di Piombino. Analoga situazione costiera hanno i Monti dell’Uccellina, culminanti al Poggio Lecci (m. 415), una rupestre serie di rilievi coperti di fitta macchia, che rappresentano una propaggine deH’Antiappennino, da questo separati da una breve striscia pianeggiante.

    Le coste

    La natura e le caratteristiche del litorale toscano sono diverse da parte a parte: nell’insieme dalla Bocca di Magra all’Argentario, l’attuale linea di costa si può considerare il risultato di una massiccia opera naturale di interrimento a danno di lembi periferici del Mar Tirreno, opera in atto dalla fine del Pliocene e tuttora in corso. Nel suo progressivo avanzamento verso la linea di costa, come si è detto, ha finito col raggiungere e successivamente comprendere alcuni resti non sommersi della Tirrenide, come il Monte Massoncello, al cui piede sorge Piombino, i Monti deH’Uccellina e, ultimo in ordine di tempo, il Monte Argentario.

    A questi salienti rocciosi ed alle estreme propaggini delle colline interne che si affacciano al mare si alternano tratti di litorale sabbioso, ora più ora meno ampio, che si allargano nelle zone di sbocco dei principali corsi d’acqua della regione.

    Gli arenili hanno assunto qui, per azione del moto ondoso e soprattutto delle correnti, una forma falcata aperta verso il mare e variamente accentuata. Talvolta il loro regolare andamento è interrotto dalla presenza di apparati del tizi, in genere triangolari, come avviene alla foce dell’Arno e, più ancora, alla foce dell’Ombrone.

    La tendenza generale ad un’espansione della terraferma non va intesa in assoluto. Per limitarci alle rilevazioni effettuate nell’ultimo secolo, si può notare che la linea di costa ha subito anche ripetute flessioni, non sempre compensate da nuovi accumuli naturali e solo in parte sanate dall’intervento dell’uomo con la rigenerazione artificiale delle spiagge.

    Dalla Bocca di Magra a Livorno s’incurva una costa bassa e sabbiosa, l’estrema falda della pianura alluvionale creatasi ai piedi delle Alpi Apuane e del Monte Pisano con le alluvioni, rimaneggiate dal mare, della Magra, del Serchio, dell’Arno e di altri minori corsi d’acqua.

    Lo sviluppo regolare della falcatura, ampia una sessantina di chilometri ma non molto pronunciata, è interrotta però dalla prominenza in mare del delta dell’Arno e, in misura molto lieve, dal lobo meridionale della foce del    Serchio.    La costa,    tuttavia, nel suo complesso non appare    più frastagliata, come doveva essere invece prima di raggiungere la sua curva di equilibrio.

    Ancora all’inizio dell’era volgare, infatti, una parte dell’entroterra versiliese e pisano era occupata da estese lagune, separate tra loro e dal mare da lingue sabbiose e cordoni di dune. Le torbide dei fiumi locali, Serchio ed Arno in primo luogo, portarono ad un loro progressivo interrimento. Tali lagune, se erano nate in conseguenza di un particolare modo di depositarsi dei materiali alluvionali in acque marine poco profonde, erano nel tempo stesso la testimonianza dell’instabilità delle foci dei medesimi Arno e Serchio, foci che dal    Wurmiano in poi si sono reiteratamente    spostate verso il nord fino a raggiungere    le posizioni attuali.

    Nel Medio Evo, o almeno fin verso il Mille, una sensibile contrazione delle torbide portò alla formazione di numerosi stagni paludosi alle spalle delle dune costiere; del bacino più vasto è un resto l’attuale lago di Massaciùccoli. Dopo il Mille riprese l’avanzata ed il consolidamento del litorale e si andò sviluppando il delta dell’Arno, fluente al mare lungo una nuova direttrice, imboccata nel X secolo.

    Tale apparato deltizio, come quello del Serchio, è progredito di molto nel corso di questo millennio, conglobando via via i cordoni litoranei di precedente formazione. Si è potuto stabilire che in poco meno di una ventina di secoli la linea di spiaggia è avanzata in qualche tratto di oltre sei chilometri, con un incremento annuo di quattro metri e mezzo. L’antico Porto Pisano, costruito alla foce reietta dell’Arno, andò scomparendo, vani essendo rimasti tutti gli sforzi dell’uomo di frenare il suo naturale, progressivo ed inarrestabile interramento. L’attuale Bocca d’Arno è stata fissata artificialmente nel 1606 con il Taglio Ferdinandeo, opera che assieme ad altre rettifiche anteriori e posteriori del corso inferiore del fiume ha conferito allo stesso un tracciato del tutto diverso da quello che aveva assunto, da Pisa al mare, dopo il X secolo. La maggiore linearità di questo tracciato e la presenza di arginature hanno favorito un più rapido deflusso delle acque e, contemporaneamente, un più rilevante trasporto di materiali in sospensione verso la foce.

    Erosione recente della costa presso Marina di Carrara.

    Non sempre però l’intervento dell’uomo ha portato ad un incremento del litorale. Là dove la costruzione di moli e dighe ha impedito la naturale distribuzione e sedimentazione delle torbide fluviali, la linea di costa ha subito sensibili arretramenti. È il caso della spiaggia a sud di Marina di Carrara, alla quale le opere portuali negano più abbondanti apporti dalla foce della Magra (e ne beneficia la spiaggia a nord) e del litorale immediatamente a nord del porto di Viareggio, cui il libeccio non può più far giungere liberamente le torbide del Serchio e dell’Arno (ed anche qui ne beneficia il litorale opposto). Se in questi settori l’intervento dell’uomo è stato determinante per le variazioni della linea di spiaggia, altrove esse sono dovute a cause strettamente naturali. Dal 1830 sono in fase di ritiro i lidi a destra ed a sinistra della foce dell’Arno e l’arenile che dallo sbocco della Magra si estende fino a Marina di Massa. Il fenomeno è accentuato in corrispondenza della foce del Serchio. Il lobo settentrionale del delta dell’Arno si è ridotto invece di tre quarti di chilometro in un secolo, mentre nello stesso intervallo di tempo la spiaggia ad ovest di Marinella (in territorio ligure, ormai) è stata corrosa per una profondità di oltre mezzo chilometro.

    Sorte analoga avrebbe forse subito l’arenile a sud di Bocca d’Arno, se il fenomeno non fosse stato controbattuto con la creazione di opere di difesa in pietra; i danni inferti dal mare al centro balneare di Marina di Pisa erano stati però nel frattempo considerevoli. Le cause generali del regresso del litorale proprio in corrispondenza delle foci fluviali vanno indubbiamente ricercate, a detta degli studiosi che si sono occupati dell’argomento, a variazioni climatiche di durata pluridecennale e di ricorrenza ciclica. Un diverso regime dei venti condiziona in primo luogo le quantità delle precipitazioni sulla terraferma; la portata dei corsi d’acqua ne riesce influenzata, come pure il carico dei materiali trasportati dalla corrente. Il sovrapporsi di venti di un altro quadrante ai venti dominanti tradizionali non manca poi di creare mutamenti nella distribuzione lungo la costa delle torbide fluviali. Anche un succedersi insolito di piene considerevoli può modificare la morfologia della zona di foce (com’è il caso dell’Arno), esercitando una più intensa azione corrosiva sul lato interno dei lobi deltizi; il materiale così asportato non trova adeguata compensazione, perchè la velocità della corrente fluviale sospinge in acque marine più lontane la massa dei detriti in sospensione. Anche per le suddette ragioni i tratti di litorale della Toscana settentrionale, ove la linea di spiaggia rimane stabile o addirittura registra degli avanzamenti, sono proprio quelli discosti dagli sbocchi fluviali, come, ad esempio, il tratto tra Marina di Massa e la macchia di Migliarino (arenile settentrionale di Viareggio escluso) ed il tratto che da Tirrenia giunge a Livorno. Stazionaria è la situazione morfologica costiera anche tra la foce del Serchio e Gombo.

    La creazione del porto artificiale di Livorno, avvenuta nel XV secolo, ha mutato profondamente la fisionomia del litorale proprio nel punto ove, ad un arenile basso, dunoso e nel complesso rettilineo, si avvicenda una costa alta, rocciosa, fra-stagliata. Fino al Medio Evo si estendeva qui un’ampia laguna, che il toponimo Stagno ricorda, comunicante con il mare attraverso un porto naturale aperto nel cordone litoraneo che la delimitava. Era qui che sorgeva il già menzionato Porto Pisano, dal quale era possibile raggiungere il corso inferiore dell’Arno e Pisa grazie ad un canale artificiale lungo una ventina di chilometri.

    Coste alte a Castel Sonnino presso Quercianella.

    Da Livorno alla foce del torrente Fine la costa ha uno sviluppo di circa 25 chilometri. Qui arrivano al Tirreno le ultime propaggini delle colline oligo-mioceniche e plioceniche che costituiscono gran parte dell’ossatura della Toscana interna alla sinistra dell’Arno. Accanto a formazioni di « macigno » si estendono terreni argillosi di origine marina, con l’aggiunta di depositi, pure marini, del Quaternario, come il calcare arenaceo detto « panchina ». Gli scogli di Calafùria sono noti per l’impeto con cui il mare si avventa qui contro la terra. L’erosione dell’acqua salata ha creato neH’arenaria macigno una moltitudine di alveoli di forma e dimensioni diverse, come quelli del « Sasso Scritto », che già abbiamo ricordato.

    Tra la foce del torrente Fine ed il piccolo centro industriale di San Vincenzo ritorna l’arenile con dune e pinete, meno folte però che sul litorale pianeggiante a nord di Livorno e nella Versilia. Anche questa zona, formata principalmente dalle alluvioni del fiume Cècina, la cui foce divide in due parti disuguali la spiaggia lunga una trentina di chilometri, era paludosa fino al secolo scorso. Le bonifiche l’hanno redenta ed hanno permesso il crearsi di numerosi insediamenti, anche se di modesta entità, neH’immediato retroterra o addirittura sulla costa, che si presenta leggermente falcata.

    La linea di spiaggia è in questo settore in lenta espansione oppure stazionaria, tranne che in corrispondenza della foce del Cècina, dove il regresso, interrotto da sporadici avanzamenti e, dalla temporanea formazione di barre sabbiose con un conseguente restringimento della bocca del fiume, è tuttora in corso, restando però nel limite di qualche decina di metri. Il guadagno massimo si è avuto a sud del Fine (un’ottantina di metri in poco meno di un secolo e mezzo), mentre un lieve ritocco ha interessato l’arenile prossimo al promontorio di Piombino.

    Questo promontorio era anticamente un’isola, collegata al continente da una piattaforma sottomarina, sulla quale si andò cementando la « panchina ». Col sollevamento della costa, il Monte Massoncello si trovò ad essere unito alle pendici del Monte Gabbro da un cordone lungo mezza dozzina di chilometri. Ad est di questo cordone era nato un ampio golfo che le alluvioni del fiume Cornia, che vi sboccava, andarono progressivamente colmando e le braccia deH’uomo bonificando.

    Accumuli di scorie ferrosi, vere collinette alte anche una ventina di metri, si ritrovano lungo il litorale sabbioso che dal promontorio di Piombino conduce, con una leggera falcatura, a Follonica. Localmente si chiamano « loppi » e risalgono all’epoca etrusco-romana. Le onde del Tirreno li hanno in più parti erosi, come pure hanno fratturato e qua e là asportato il caratteristico cordone litoraneo che si allunga parallelamente alla spiaggia, mai allontanandosene più di una cinquantina di metri. La formazione rocciosa che lo compone è simile alle altre panchine quaternarie già menzionate.

    Il Golfo di Follonica, che si apre tra l’aggetto collinoso di Piombino e Punta Ala con un arco di una quarantina di chilometri, è orlato a nord da un arenile sabbioso assai fine. Più che la Pècora, dev’essere stato il fiume Cornia a distribuire le sue alluvioni lungo questo tratto di costa. La Pècora infatti perde le sue torbide entro il vasto Padule di Scarlino, oggi quasi completamente bonificato, ultimo resto della laguna creatasi alle spalle del litorale in epoca etrusca.

    Nell’ultimo secolo l’erosione marina ha intaccato per una profondità di qualche decina di metri la spiaggia che sta ad ovest di Prato Ranieri, mentre ha avuto effetti più blandi o addirittura non si è fatta sentire più ad oriente, ove il litorale è protetto dai venti del terzo quadrante dalla prominenza di Punta Ala. La costa orientale del Golfo di Follonica è nel complesso più alta, perchè giungono al mare le colline arenacee che culminano con il Poggio Ballone (m. 630).

    Ad est di Punta Ala, superato il piede del Poggio Peroni, riappare la spiaggia sabbiosa nella grande falcatura che si estende fino alla foce dell’Ombrone. La pianura retrostante costituisce il cuore della Maremma Grossetana. L’instabilità idrografica cui meglio si accennerà parlando della Bruna e dell’Ombrone, è stata sempre grande in questo settore. Il variare della linea di spiaggia è stato più spesso una conseguenza piuttosto che una causa del mutato assetto del retroterra.

    Prima del Wurmiano il mare doveva penetrare profondamente al di là dei suoi limiti attuali, sino a lambire le falde dei colli che circondano da tre lati la piana di Grosseto. Ma per limitarci ai tempi storici si può ricordare l’esistenza del Lacus Prilius, o lago Prelio, una vasta laguna separata dal mare da un tombolo lungo diversi chilometri, creato dalle correnti con le alluvioni dell’Ombrone. Questa zona, paludosa già nell’epoca romana (la Via Aurelia la evitava, allontanandosi sensibilmente dalla costa), fu occupata nel Medio Evo da un lago di acqua dolce chiamato Piscaia, in sèguito colmato con le torbide della Bruna e dell’Ombrone.

    Le scogliere di Talamone.

    Tra Castiglione e l’aggetto deltizio dell’Ombrone si estende per una quindicina di chilometri la bella pineta del Tombolo, sviluppatasi sui più recenti accumuli di rena che in numero di ben diciassette accompagnano, a forma di pennacchio, la linea di spiaggia, che su di loro si è appunto appoggiata durante le varie fasi di avanzamento. Gli studiosi ritengono che il primo tombolo sia andato concretandosi nell’epoca etrusca, mentre la prominenza triangolare del delta sia creazione più nuova, posteriore al Mille. Dal XIII secolo in poi i depositi alluvionali si sono protesi verso il mare aperto per ben quattro chilometri e mezzo, portando alla formazione di stagni costieri, ora in gran parte prosciugati, tra tombolo e tombolo. Il vertice di tale apparato deltizio è ora in sensibile regresso, mentre continuano a progredire i lati esterni dei due lobi e specialmente il lato meridionale, che si appoggia alla scarpata rocciosa dei Monti dell’Ucceílina. La costa è qui alta, dirupata, priva di facili approdi ma ricca di scorci spettacolari.

    Vedi Anche:  Confini e caratteristiche generali

    Il litorale grossetano presenta a sud della Bocca d’Albegna il caratteristico promontorio del Monte Argentario. Originariamente esso era un’isola, che un canale di pochi chilometri separava dal continente. Le correnti marine hanno operato la saldatura con il litorale fronteggiante, sbarrando il canale in due punti mediante dighe sabbiose, tra le quali è rimasta imprigionata una laguna. La diga più antica è quella meridionale, il Tombolo di Feniglia, larga in un punto oltre un chilometro; l’argine settentrionale si chiama Tombolo di Giannella ed è dovuto alle alluvioni dell’Albegna. La linea di spiaggia, all’attaccatura con l’Argentario, è in costante regresso. La laguna di Orbetello è divisa in due parti da una lingua sabbiosa su cui sorge l’omonimo centro; un prolungamento artificiale permette di raggiungere comodamente via terra il Monte Argentario. Sia lo specchio di Levante che quello di Ponente sono comunicanti con il mare libero; il secondo anzi comunica pure con la foce dell’Albegna.

    Le coste dell’Argentario sono dovunque alte e frastagliate; a sud e ad ovest sono dirupate e precipiti. Tra Punta Lividonia ed il canale navigabile che interrompe il Tombolo di Giannella la riva è più accessibile.

    Ad oriente del Tombolo di Feniglia si eleva un piccolo promontorio su cui anticamente sorse l’etrusca Cosa (poi colonia romana) e nel Medio Evo Ansedonia. Ai piedi del colle si intravvede, ormai completamente interrato, l’alveo del primitivo Porto Cosano, che per molti secoli fu uno dei più attivi scali commerciali del Tirreno.

    Da Ansedonia alla foce del Chiarone la costa è pressoché rettilinea e misura una dozzina di chilometri. In effetti si tratta di un cordone sabbioso che isola dal mare il lago di Burano, uno specchio d’acqua ora non molto vasto, ma che un tempo costituiva solo una parte di una laguna molto più ampia. Un canale artificiale, lungo sette chilometri, fa defluire nel Tirreno le acque eccedenti del lago. Esso è opera antichissima, quasi certamente romana, anche se il nome di «Tagliata etrusca», dato al tratto terminale che, ai piedi del poggio di Cosa, si apre la strada entro la viva roccia per raggiungere il mare, può lasciar pensare ad un’origine più remota.

    Tra le isole dell’Arcipelago Toscano la maggiore è, come si disse, l’Elba, che ha un perimetro costiero di 118 chilometri: ora massicci promontori, ora sottili punte rocciose delimitano profonde insenature, nelle quali si trova una sabbia fine come lungo gli arenili del continente, ma anche una ghiaia minuta che lascia limpide e trasparenti le acque antistanti. Portoferraio, dominato da un promontorio rupestre e fortificato, domina l’entrata dell’ampio golfo dallo stesso nome. Più ad occidente, al di là dell’aggetto di Capo d’Enfola, si aprono le bellissime insenature di Biòdola e di Procchio; al margine della seconda sorge Marciana Marina, dominata da un anfiteatro di colline, estreme propaggini del Monte Capanne. La costa prosegue alta e rocciosa tutt’attorno alla base di quest’ultimo. Tre golfi movimentano a sud la forma dell’Elba: quello di Campo, quello di Lacona ed il Golfo Stella. La maggiore sinuosità della parte centrale dell’Elba, sia a nord che a sud, può essere spiegata con la difformità dei terreni geologici che la costituiscono, a differenza della porzione occidentale, quasi completamente granitica e quindi più compatta.

    La rupe di Anse-donia con la Torre di San Biagio.

    Le sinuose coste dell’Elba presso Procchio.

    Data la natura delle coste, le variazioni della linea di spiaggia sono state in tutta l’Elba insignificanti, almeno nel periodo storico. Ad oriente esistono però testimonianze di una sommersione recente, geologicamente parlando: le vallecole che scendono al mare continuano a svilupparsi anche ad una certa profondità e distanza dalla costa. Tranne Pianosa, come già si disse, tutte le altre isole dell’Arcipelago sono montuose e prive quindi di litorali piatti ed ampi.

    Aspetti fisici particolari

    Forme di erosione : calanchi, biancone, balze. — Il rilievo toscano si presenta, come si è detto nelle pagine precedenti, con aspetti molto diversi, che vanno dalle forme più aspre a quelle ondulate e pianeggianti. Il principale modellatore di queste forme, in relazione naturalmente all’entità del sollevamento e al tipo dei terreni, è costituito dalle acque terrestri, che, dilavanti e incanalate, scorrono copiose, almeno in certe stagioni, portate da piogge spesso temporalesche e violente. Si è parlato di solchi profondi e stretti provocati da un rapido approfondimento dei corsi d’acqua lungo i versanti appenninici e apuani e delle valli aperte e dolci deH’Antiappennino, ove alla debole incisione del fondo — per la minor portata dei fiumi e la minore pendenza —, si è accompagnata una notevole demolizione dei versanti. Ma è proprio in quest’ultima parte della Toscana, dai profili più aperti e dai rilievi più dolci, nelle colline prevalentemente argillose e sabbiose del Senese, del Volterrano, del Valdarno di Sopra, che si possono osservare forme di erosione particolarmente aspre, non molto estese ma assai caratteristiche: calanchi, balze, pilastri.

    Calanchi nelle argille plioceniche della Val d’Orcia.

    Così nei terreni delle colline plioceniche, ove le argille sono relativamente omogenee, si è avuta in più parti la formazione di lunghe serie di strette vallecole, divise da lame e creste sottili e aguzze, che, l’un l’altra parallele o a guisa di ventaglio, scendono ripide verso il fosso di raccolta delle acque, forme cioè che ripetono, pur su estensioni più ridotte, quella dei calanchi romagnoli, e che si osservano, per esempio, sulle colline di Certaldo, intorno a Monte Oliveto a sud di Siena e qua e là in altri luoghi.

    Pure caratteristiche sono le forme di erosione nelle sabbie e nelle argille plioce- . niche delle colline della Val d’Era, dette localmente mattaione.

    Una regione particolarmente soggetta all’azione di erosione delle acque dilavanti è poi quella delle « Crete Senesi », le maligne Crete che per larghi tratti si presentano nude o quasi nude di vegetazione, secche e screpolate in estate, viscide e fangose durante le piogge, con un aspetto desolato e incolto. Qui una serie di piccoli rilievi a cupola, che ricordano i Baci Lands americani, si succedono come tante collinette di pochi metri di altezza, tanto più regolari quanto più sorgono in terreni a debole pendenza. Queste forme sono spesso comprese sotto il nome di biancane, che indicano in realtà tutte le superfici argillose prevalentemente esposte a sud, che biancheggiano sotto il sole. Esse sono diffuse nei terreni pliocenici, soprattutto della vai d’Arbia e dell’Ombrone, tra la vai d’Era e la vai di Cècina, presso Porciatico e sotto Volterra.

    Paesaggio delle « Crete Senesi ».

    Le Balze di Volterra.

    « Una regione arsa e screpolata nell’estate, sterminata distesa di viscida fanghiglia neH’inverno. In questo strano paese, formato da un labirinto di basse collinette o mammelloni, solcato da burroni di acque melmose, la vegetazione non può fare a tempo a stabilirsi. Sul triste suolo continuamente smosso e desolato alligna appena qualche filo d’erba e il paesaggio acquista un carattere di indicibile sterilità e squallore. I tratti di terreno con diversa costituzione litologica ed anche solo quelle rare località dove gli alberi sono riusciti a consolidare il suolo, emergono come isole dal triste mare di argille grigiastre ».

    Queste parole, contenute nella vecchia descrizione d’Italia del Fischer, anche se un po’ letterarie, colgono comunque un aspetto reale del paesaggio toscano: ma non si tratta di superfici molto estese, anche perchè l’opera di bonifica dell’uomo è intervenuta sempre, ove possibile, a consolidare i terreni e a ridare loro quel manto vegetale che lo stesso uomo aveva distrutto in passato.

    Ove invece le argille siano protette da un mantello superiore di terreni più resistenti, come la panchina, formata da sabbie gialle indurite, o siano intercalate da sabbie, da marne, da conglomerati di varia compattezza, più facilmente vengono a formarsi, per il continuo cedimento delle parti sottostanti di minor resistenza e il successivo franamento degli strati superiori, pareti ripide, talora verticali o quasi, con banchi sporgenti a guisa di tetti, pareti che arretrano via via, determinando una rapida erosione del rilievo collinare. Tra queste forme più note sono le balze di Volterra, formatesi ove il terreno, costituito da un basamento di argille grigie e turchine, è sormontato da grossi banchi sabbiosi, talora ben cementati.

    Piccole cupole di erosione nelle argille dei dintorni di Volterra.

    Depositi lacustri di Poggitazzi (Valdarno superiore). Le paretine sono incise in alternanze di sabbia e ciottolami, mentre in basso predominano le argille.

    Presso San Giusto, a un chilometro circa a nord di Volterra, queste sabbie, altrove asportate in gran parte dall’erosione, rimangono abbastanza compatte intorno a 350-400 metri di altitudine, sicché le acque hanno facilmente eroso le argille sottostanti creando delle pareti ripidissime, alte finanche un centinaio di metri. Il processo di arretramento è stato notevolmente rapido: nel VII secolo una chiesa, detta di San Giusto al Botro, era stata costruita presso le balze, ma nel 1140 essa andò in rovina inghiottita dalle frane. Ricostruita più lontano rovinò di nuovo all’inizio del Seicento. Nulla l’uomo riuscì a fare per arrestare l’opera distruttrice delle frane, malgrado i tentativi di costruzione di muri, di ripari, di sostegni di ogni genere: anche un convento, quello di San Marco, precipitò nel 1710 nel burrone, insieme a una parte delle mura etnische. La vecchia chiesa di Badìa, costruita nel 1030 e parzialmente crollata dopo il 1895, resiste ancora a pochi metri ormai dal precipizio. Ma non è facile stabilire esattamente la velocità del fenomeno, perchè non si conosce la distanza dall’orlo della parete degli edifìci costruiti nei secoli scorsi. Il paesaggio delle balze costituisce comunque uno degli aspetti più originari e caratteristici della Toscana, reso noto anche dalla vicinanza di un centro storico ed artistico quale Volterra.

    Altre balze, ma di dimensioni minori, si trovano presso San Cipriano, dove rimangono a tratti banchi di coperture sabbiose, a tratti invece argille scoperte.

    Aspetto pure caratteristico hanno i pilastri e le pareti di erosione del Valdarno di Sopra che si osservano nei terreni incisi lungo il basso versante del Pratomagno, tra Reggello e il fondo valle: si ha qui, ove giungevano le acque dell’antico lago pliocenico, un’alternanza di strati lacustro-alluvionali di varia grossezza: sabbie, argille, ciottolame, in genere poco cementato. Nella rapida incisione di questi ripiani le acque hanno creato pareti quasi verticali, sostenute dagli strati più resistenti e, al di sopra, da un fitto mantello vegetale. L’arretrarsi delle pareti ha poi isolato talora torrioni e pilastri, alti una diecina e più di metri. Queste forme si ricollegano come aspetto alle cosiddette piramidi delle fate che si trovano soprattutto nei terreni morenici di altre parti d’Italia, dove tuttavia la presenza di un masso superiore ha esercitato una maggiore protezione dalle acque piovane, creando forme più sottili e slanciate.

    Calanchi presso Radicofani.

    Altre forme caratteristiche di erosione dovute all’azione di diversi agenti esterni, sono state segnalate in varie parti della regione, ma si tratta in generale di fenomeni locali di scarsa diffusione: così le caratteristiche nicchie nelle sabbie e argille plioceniche della Val d’Era, dovute all’azione di piccoli corsi d’acqua sboccanti alla sommità di ripide brevi pareti; così le cavità di disfacimento nel Verrucano (una arenaria grossolana) del Monte Pisano, ove le pur compatte superfici rocciose appaiono corrose e rigate in fitti solchi del tipo dei tafoni, con fori a sezione all’incirca circolare, profondi anche dieci o venti centimetri. Altre nicchie sono state poi segnalate nella trachite del Monte Amiata, ove sono note le cosiddette anime di sasso, cioè gli inclusi rocciosi contenuti nella stessa roccia.

    Ricorderemo anche tra le forme particolari di erosione, per il nome espressivo che portano e che le hanno rese note come esempio di alveoli naturali, quelle del Sasso Scritto presso Calafùria, poco a sud di Livorno, e altrove nelle arenarie costiere e nei calcari soggetti agli spruzzi di acque marine. Nella stessa fascia lungo il mare è diffusa una roccia calcarea di recente formazione, detta panchina, che non deve essere confusa con quella ora ricordata perchè deriva dal deposito di carbonato di calcio insieme a piccole conchiglie e detriti: essa scende sotto il mare frastagliandosi in scogli molto erosi, emergenti spesso dalle acque. In questa fascia appunto sono state rintracciate tipiche marmitte di forma cilindrica ed a pentola, profonde non più di un metro, formatesi allo sbocco in mare di piccole correnti, fenomeno questo che testimonia probabilmente un locale abbassamento della costa.

    Grotte, voragini e altre forme carsiche. — In alcune rocce calcaree mesozoiche della Toscana, talvolta anche nei gessi e nei travertini, compaiono con una certa frequenza forme di carattere carsico, anche se in genere non molto estese. Una cospicua circolazione sotterranea ha luogo nelle erte e piovose Alpi Apuane, dove abbondano le grotte e le caverne. Tra le più note sono la cosiddetta «Buca della Vestricia » nel massiccio delle Panie, formata da un pozzo profondo 316 metri, e 1’« Antro di Corchia », detto anche « Grotta Eolo », o « Buca della Ventaiola », per la forte corrente di aria che vi soffia, una grotta suddivisa in tre rami, lunga 1800 metri e profonda ben ottocento, la più profonda voragine italiana, il cui fondo fu raggiunto dagli speleologi nel i960. Altre ancora sono la «Tana dell’Uomo selvatico», profonda più di trecento metri, la « Buca Larga », profonda 250 metri con un’enorme pozza terminale, la «Buca della Miniera Bassa», la «Tana che urla», la «Buca del Vento», sopra Forno Volasco. Cunicoli e grotte si alternano nella «Tana delle Fate di Soraggio », nella Pania di Corfìno, e nella «Tana a Termini» in vai di Lima.

    Fenomeni carsici nelle Alpi Apuane (Monte Tambura)

    A sud delle Apuane, nel Valdarno di Sotto, sui margini della pianura, sono la « Grotta Giusti » di Monsummano, lunga duecento metri, ben nota per le sue acque termali, la « Grotta Maona » e la « Grotta Martinelli » presso Montecatini. Altre si trovano nei monti calcarei della Calvana, dove quella della « Fonte Buia » si sviluppa per circa 350 metri; la « Caverna di Fichino », presso Casciana Terme, si apre invece nel travertino. Alcune grotte sono poi dovute all’azione delle acque marine sulle coste rocciose, quali quelle che si osservano nell’Argentario, nell’isola di Giannutri, presso Talamone e altrove.

    Frequenti sono anche le forme superficiali, sia nelle Apuane, sia nei più bassi e ondulati rilievi dell’Antiappennino : le doline abbondano nella Montagnola Senese, intorno a San Gemignano, nei Monti di Cetona, presso Massa Marittima, ed anche nella Calvana. Nelle colline della Toscana costiera meridionale si osservano numerosi campi solcati e le doline di piccola dimensione (meno di un metro), depressioni vaste, probabilmente di origine carsica, almeno in parte, si hanno nel retroterra di Orbetello e, soprattutto, intorno a Massa Marittima. Si dà un esempio di polje nella depressione del Pian del Lago, di circa cinque chilometri quadrati, presso la Montagnola Senese: agli inghiottitoi naturali si sono sostituiti, per smaltire le acque, vari canali affluenti ad un emissario sotterraneo.

    Forme glaciali. — Le impronte lasciate dal glacialismo quaternario, quando numerosi ma non vasti ghiacciai occupavano le conche più alte della catena assiale appenninica e delle Alpi Apuane, non sono in Toscana molto rilevanti. Sull’Appennino vero e proprio queste si osservano soprattutto sul versante settentrionale, cioè in quello Adriatico, dove si trovano circhi e apparati morenici cospicui e caratteristici, mentre sul ripido e più soleggiato versante toscano restano tracce più deboli e incerte. In qualche località, tuttavia, come alla testata della valle del Sestaione, sotto l’Alpe delle Tre Potenze, restano taluni piccoli circhi dalla tipica struttura e un laghetto che un tempo era certamente più esteso. Presso la foce di Campolino si hanno anche varie rocce levigate e alcuni ripiani che ricordano l’opera di un ghiacciaio.

    Sulle Apuane, i cui versanti sono tutti toscani, le forme glaciali sono in qualche caso abbastanza tipiche e ben conservate: sono stati riconosciuti dei circhi a nord-est nella Pania Secca, ad est del Monte Pisanino, intorno a Campocatino, ma non sempre si tratta del risultato della sola escavazione glaciale. Nel profilo delle parti più alte delle valli, specie se esposte a nord, molti solchi rivelano l’azione modellatrice sui versanti di pur piccoli ghiacciai e si riconoscono qua e là rocce lisciate e depositi morenici, anche se ormai molto incisi e asportati dalle acque. Ciò si osserva talvolta anche sotto l’attuale livello dei boschi e delle colture. Non manca anche qualche piccolo lago di sbarramento morenico ormai colmato.

    Tutto questo rivela la presenza nel Quaternario di masse glaciali di discrete dimensioni, che forse raggiunsero al massimo cinque-sei chilometri di lunghezza (valle di Arnetola, Fossa Tambura) e la cui fronte più bassa giungeva poco sopra i 500 metri di altitudine. Il limite delle nevi, difficile a precisarsi, era con molte probabilità più basso di un centinaio di metri nelle Apuane che nella catena appenninica principale e si aggirava forse tra 1200 e 1500 metri secondo i versanti. Sempre nel massiccio delle Apuane si osservano interessanti marmitte di erosione fluvio-glaciale, quale quelle ai piedi del Monte Tambura.

    Le emanazioni gassose. — Tra i fenomeni naturali più caratteristici della Toscana sono quelli vulcanici o pseudo-vulcanici, un tempo più appariscenti di oggi, ma ora esauritisi o imprigionati dall’uomo, che si trovano soprattutto nella regione tra Volterra e Massa Marittima: i cosiddetti fumacchi, emanazioni sibilanti di vapore da crepe del terreno, le putizze, soffioni di acido solforoso, le mofete da cui fuoriesce anidride carbonica, i bulicami, piccoli specchi d’acqua fangosa gorgogliante per i gas uscenti dal sottosuolo. Con il nome di lagoni si intendono pure le conche umide e melmose con emanazioni di vapore. Tutte queste manifestazioni del tipo delle fumarole derivano probabilmente dai resti dell’antico vulcanismo e cioè da massi magmatici in profondità non ancora solidificati. Ai vapori di origine profonda si aggiungono naturalmente verso la superficie le acque delle falde freatiche che evaporano per il forte riscaldamento.

    Così descrive il Turatti, l’aspetto della zona dei soffioni come si presentava prima dell’opera di sfruttamento dell’uomo: «Qui, un tempo, il visitatore si trovava di fronte ad uno spettacolo sconcertante: le valli erano ottenebrate da densi vapori maleodoranti e dai fianchi delle colline sbuffavano “ fumarole, mofete, bulicani, fumacchi, soffioni, putizze, solfatare ”, che riempivano l’aria di brontolìi e di acida umidità, mentre un po’ dovunque piccoli laghi iridescenti gorgogliavano sprigionando dalle loro acque colonne di vapore e mefitiche esalazioni che facevano torcere il naso e richiamavano alla mente l’idea di fantastiche quantità di uova fradice. Era la terra dei “ Lagoni Volterrani ” con le sue “ Valli dell’Inferno ”, che sembrava negata alla vita dell’uomo; era il regno di Satana, con i suoi calori e i suoi repellenti odori di zolfo, era un aspetto misterioso della natura che faceva corrugare la fronte ai naturalisti toscani.

    « Al visitatore odierno la terra dei “ Lagoni Volterrani ”, cioè la terra dei soffioni boraciferi di Larderello, presenta un aspetto interamente diverso: tutto è ora ravviato, ordinato, disciplinato ».

    Anche le mofete del Valdarno, da cui esce insieme all’anidride carbonica una piccola quantità di idrogeno solforato, sono state in buona parte catturate per l’industria del ghiaccio asciutto (anidride carbonica gassosa o solida). Nel 1748 Saverio Manetti visitava nell’Aretino alcuni di questi piccoli stagni « che più gagliardamente rumoreggiavano e bollivano » e affermava che « quivi più che altrove esperimentavasi penetrante e forte l’accennato alito zulfureo, che volendosi coll’odorato accostare sopra quelle pozze e scaturigini maggiori di acqua, dove anco più forte vedevasi il bollore, non si poteva assolutamente resistere al detto alito senza il rischio di rimanere offesi, tanto era forte e soffogante. Una ben chiara riprova di questo erane una incredibile quantità di insetti, e d’altri animaletti, parte sbalorditi, parte affatto morti, che trovansi tutte le mattine caduti a quelle ripe, nel voler passare di sopr’alle dette scaturigini di acqua, o accostandovisi quelli per bere. Fui di più assicurato da persone di quei contorni, che nelle mattinate di autunno, e del passo degli uccelli, tro-vansene di quelli morti o sbalorditi intorno alle dette acque fino delle centinaia, sicché quei paesani si servono di questo posto per luogo di divertimento e di caccia, facendo tra loro a gara, nel portarvisi di buon’ora a far preda degli animali rimasti nella notte, per mangiarli o venderli. Io vi veddi solo una quantità indicibile di cavallette, grilli, mosche, farfalle, scarabei, ed altri simili insetti, tutti esangui o morti, restati al confine dell’acqua ».

    I viaggiatori che un tempo entravano in Toscana attraverso la malagevole via di Pietramala venivano colpiti da un altro curioso fenomeno naturale, i fuochi o terreni ardenti, emanazioni gassose descritte in passato da numerosi naturalisti, tra cui lo stesso Alessandro Volta che li visitò nel 1780. Il celebre fisico parla di bocche di « aria infiammabile nativa delle paludi », da altri attribuite alla presenza di olio di sasso, cioè di petrolio: «alla distanza di poco più d’un mezzo miglio al disotto di Pietramala sul pendìo del monte, ewi un terreno come un piccol campo, il quale mirato anche da lungi vedesi coperto da fiamme, che sorgono all’altezza d’alcuni piedi, fiamme leggere, ondeggianti e di color ceruleo la notte, come s’accordano tutti a riferire gli abitanti di quelle vicinanze: in tempo di chiaro giorno queste fiamme non si scorgono che assai dappresso ed appaiono assai tenui e rossigne… Cotali fiamme sono qua e là sparse e disseminate per l’estensione di poche tese d’un terreno che resta scoperto, piuttosto leggero ed arido, e un po’ sassoso; ed occupano segnatamente i luoghi dove questo si trova visibilmente più raro e secco. Talora cambian di luogo, ma più sovente di volume, quando in larghezza, e quando in altezza; qui guadagnai! terreno, e si riuniscono più fiamme insieme, là si ritirano e si disgiungono: si può anzi sopprimerne alcune, ed ingrandirne altre a talento. Altro non ci vuole per far sparire le più piccole che un forte soffio; e per quelle che sono più larghe basta versarvi su tanto d’acqua, che ne ricopra tutta l’estensione, oppure accumular quivi della terra e rincalzarla e comprimerla tanto, che più non dia facile passaggio all’aria infiammabile ch’è sotto. Quest’aria allora rispunta forte e in maggior copia dagli altri pertugi vicini, ond’è che da questi come focolari si levan le fiamme più alte: insomma a misura che si sopprimono alcuni de’ getti, crescon di forza gli altri ».

    Oggi questi fuochi sono ormai scomparsi ed un lungo metanodotto, il primo costruito in Italia (1939), porta a Firenze i gas di Pietramala.

    Tra le sorgenti gassose toscane ricorderemo quelle di Rapolano, da cui scaturiscono con intermittenze ed esplosioni a guisa di geyser, acqua e gas (anidride carbonica, acido solforico, bicarbonati, solfati) e la mofeta pure di Rapolano dove, in una conca profonda alcuni metri e larga varie decine, si raccoglie l’anidride carbonica rendendo l’aria irrespirabile.

    I soffioni di Larderello.