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La storia della Calabria

    Una storia dell’insediamento umano in Calabria

    Una considerazione superficialmente visiva della Calabria potrebbe far reputare che in buona parte a fatti ambientali — natura dei suoli e linee del rilievo e clima in modo particolare — la Calabria deve le configurazioni umane che si è venuta costituendo nei secoli. Ma chi credesse in tal modo avrebbe una più che falsa idea: chè in verità sono solo o in maggior parte i fatti della storia che giustificano adeguatamente le condizioni odierne della vita umana nella regione bruzia. Le grandi zone a seminativo nudo che si alternano con i pascoli, ove una povera coltura a base di cereali e di fave ruota ogni tre anni in media, formano fino ai nostri giorni — e più venivano a formare prima del 1951 — aree ingenti in diverse parti della regione (specialmente sul lato ionico) e in pratica ne investono ora il 25% della superfice: ma tale struttura agronomica non è per niente da ritenere come l’unica conseguibile in tali zone: non è una fatalità. La sua persistenza è dovuta a insufficienza di tecniche, che impedì di dominare o risanare o controllare, ma anzi lasciò peggiorare via via — peggiorare in termini di fruizione umana — l’ambiente naturale ove quella struttura si era, per lo meno una ventina di secoli fa, venuta costituendo. Egualmente il regime idraulico odierno della Calabria, con le negative conseguenze di indole economica, non è esclusivamente un riflesso della natura — per quanto sia (meno che in Sila) la mera esplicazione di forze o fenomeni naturali — ma è in forte misura un risultato della storia del popolamento e di particolari forme di uso economico (il taglio dei boschi) a cui la regione è stata destinata in epoca di guerre o di dilatazione cerealicola. E così pure la distribuzione e la consistenza dei luoghi abitati non è un riflesso della topografia, ma di eventi squisitamente umani.

    La regione emerge di colpo nella storia

    Quella che da dodici secoli si chiama Calabria, fu abitata sporadicamente lungo le coste e sui monti che spalleggiano le coste, nella età della pietra scheggiata (le stazioni finora studiate sono alcune caverne fra il capo di Cirella e gli speroni di Praia, ove è stato rilevato materiale mousteriano, e la caverna del Romito in comune di Papa-sidero, ove nel 1961 il Graziosi mise in luce una splendida incisione rupestre di toro, insieme a figurazioni di non agevole interpretazione e una punta d’osso decorata) e con minore rarefazione in età neolitica e — specialmente a sud dell’istmo mediano — nella prima età del ferro che ha dato, fra diversi, i notevoli giacimenti ai bordi della pianura sibarita (a Torre Mordillo) e sui limiti del Poro (a Torre Galli) e nella zona di Locri: insediamenti i cui inizi sono databili a una decina di secoli avanti Cristo. Ma la regione entrò decisamente, improvvisamente nella storia nella seconda metà del secolo Vili a. C., con la colonizzazione greca: che fu qui, precisamente, colonizzazione dorica. Poiché la costa orientale della Sicilia — quella ove il grande Etna, il monte fiammeggiante, aveva sicuramente esercitato un richiamo da lungi sui marinari greci — era già fortemente punteggiata da basi di popolazione ionica, cioè calcidesi, megaresi e corintiache, e in particolare i calcidesi tenevano con salda mano lo Stretto di Messina (ove Zankle era stata fondata — in una zona già frequentata da siculi — fra il 757 e il 755 e poco dopo, verso il 744, con la partecipazione di un rilevante nucleo da Messene, lo fu Rhegion), i dori delle zone più interne o più aspre — come l’Acaia e la Locride — che iniziarono per ultimi la migrazione verso l’Italia si rivolsero alla montagnosa penisola bruzia, e primi fra loro gli achei (ristretti in quest’epoca al Peloponneso settentrionale) si stabilirono lungo il golfo più fondo e accogliente della Calabria, dove due fiumi di buona portata primaverile e discreta continuità di corrente — in quanto scendevano uno (il Coscile) dal serbatoio calcare del Pollino e l’altro (il Crati) dai monti selvosi della Sila — si congiungevano e avevano creato, con i loro depositi, una bella, aperta pianura. Qui gli achei — insieme a un contingente di trezeni, poi espulsi — crearono nel 710 o giù di lì Sybaris, e da qui si spansero poi a nord, lungo il mare, fino a Metapontion. In quel medesimo giro di anni, e cioè verso il 708, una seconda corrente achea sbarcava un centinaio di km. più a sud, ove il rilievo presilano fa avanzare più fortemente la penisola nel mare ionico e vi fondava Kroton, su di un breve risalto: areata e munita posizione. In ultimo (nel 678 o nel 672 secondo la tradizione) dei coloni provenienti dalla Locride (probabilmente l’orientale, cioè l’opuntia) si erano fermati su la punta sud orientale della penisola, a capo Bruz-zano (il cui nome era, in quei tempi, di capo Zephirion perchè formava un buon riparo ai venti di ovest) e da qui in seguito — cioè due o tre anni più avanti — con il probabile aiuto dei tarentini si erano imposti ai nuclei di popolazione primitiva che viveva nella fascia pianeggiante e fertile un poco a nord: e perciò trasferitisi in essa vi avevano costruita Lokroi (che dalla prima sede di quei coloni fu specificata con Epizefiri). È naturalmente probabile che la colonizzazione vera e propria, a cui si è ora accennato, sia stata in qualche modo preseminata da minuscoli e instabili impianti di fondaci, nei punti favorevoli della costa. E perciò le date precise, dianzi indicate, che la tradizione annalistica locale dà per la fondazione di ciascun centro coloniale, si riferiscono a un periodo risolutivo della colonizzazione — sancito dal carisma di riti religiosi — meglio che a un periodo aurorale. Di conseguenza l’indicazione riportata dagli annalisti, delle provenienze e delle origini dei coloni, riguarda le comunità etniche che finirono per dominare di numero in una fase più matura della colonizzazione. Ma nei primi lustri i coloni giunti da oriente non dovevano neanche sormontare, per numero, la popolazione locale. Come ha scritto or è poco il De Franciscis, è chiaro che almeno nel primo secolo di impianto la loro forza non consisteva nella quantità, ma in una loro più progredita civiltà, con armi migliori, barche in grado di tenere il mare per notevoli e perigliosi itinerari e merci di scambio di elevato valore.

    I principali stanziamenti preistorici finora posti in luce in Calabria.



    Figura di bovidé, graffito nella caverna del Romito.

    Le popolazioni che la colonizzazione greca trovò in Calabria verso la fine del secolo Vili e specialmente un po’ dopo, quando i dori iniziarono la regolare pene-trazione dei distretti montani, erano di stirpe mediterranea (cioè precisamente di schiatta sicula) e già conoscevano l’uso del ferro. I loro nuclei più notevoli e meno regrediti (ricordo la tradizione riferita da Antioco di Siracusa — in Fragni, hist. graec. I, pp. 181 e 182 — e ripresa da Aristotele in Poi. VII, 10, ediz. Ross, secondo cui il favoloso re Italo aveva decisamente spinto l’evoluzione degli Enotri, che tenevano questa regione, da nuclei pastorali nomadi in comunità agricole, con istituzioni stabili) dimoravano con probabilità nella parte meridionale della penisola e in modo speciale fra i golfi di Gioia e di Locri: poiché questa è una zona rimasta a lungo priva di stanziamenti greci e l’ultima a venire occupata dai locresi, che con queste popolazioni fornite di una discreta vitalità furono costretti a fare i conti e a intrecciare relazioni. Forse vi fu anche, in questa zona, una più aperta assimilazione fra i due gruppi : per cui è precisamente da una consuetudine di uno o due secoli con essi che i locresi potrebbero avere derivato vari istituti che erano al di fuori della loro originale civiltà, ma che li distinguevano già verso il quinto secolo — e Polibio (XIII, 5-10) ne raccolse l’eco nei racconti locali — come il matriarcato e la prostituzione sacra, la venerazione delle divinità terrestri (e in particolare infernali come Persefone) e il posto saliente dato al culto dei morti. In sostanza è da accogliere il parere del Pugliese Carratelli, secondo cui in tale area sono chiari gli indizi dell’esistenza di una cultura locale in grado di trasfondere fermenti operosi e elementi distintivi in quella dei coloni. Del resto le necropoli preelleniche della Calabria, studiate specialmente da Paolo Orsi in tre lustri di instancabile lavoro, dimostrano sicure relazioni con le culture egee.

    Caulonia: rovine di un tempio dorico.

    Lungo le sponde orientali della Calabria i coloni greci avevano riconosciuto sicuramente quello che oggi potremmo chiamare uno spazio vitale per le loro esigenze di produzione e di mercato. E dalla costiera ionica, per le principali valli e i più agevoli passi montani, la colonizzazione si dilatò poi in un secondo tempo (cioè nel sesto secolo) sul versante del Tirreno. I motivi di questo spandimento sono mercantili e militari: le basi elleniche della Calabria, come quelle siciliane e campane, vivevano largamente di traffici (anche quando le colture agricole presero discreto risalto intorno a loro): traffici tra i paesi natali e i popoli che veleggiavano nel mare Tirreno, cioè cartaginesi ed etruschi. Ma la chiave della porta naturale di transito fra il mare orientale e il Tirreno era tenuta da ionici: cioè da Rhegion su la riva aspromontana e Zankle su la riva peloritana dello stretto marino. La potenza monopolistica — focolaio ovunque di ostilità — di questi ioni, ha costretto quindi le basi doriche di Calabria a cercar nuove direzioni e passi per giungere al Tirreno: la qual cosa — come una acuta opera del Vallet ha qualche anno fa lucidamente indicato — fu risolta da ciascuna di loro con la costituzione di gemmazioni, in funzione di scali, al di là — cioè a occidente — dello sbarramento montano della cordigliera bruzia. E per prima forse Sibari — a cui era riserbata così notevole, ma non lunga fioritura — fondò presso le foci del fiume che porta oggi il suo nome, la base di Laos: quella da cui con ogni probabilità dovrebbero aver salpato le navi di Sibari verso settentrione per fondare agli inizi del sesto secolo, su la piana corsa dal fiume Silaros (l’odierno Seie) la città del mare: Poseidonia. Un po’ a sud, secondo una ipotesi avanzata di recente, giacevano poi due minori scali sibariti: Scidros si potrebbe trovare nella zona di Belvedere e Clampetia in quella di Amantea. Fortunata direzione di penetrazione anche quella della valle del Crati, ove i sibariti, forse ellenizzando un villaggio indigeno, crearono — a guardia sicuramente dei transiti per la valle — il posto di Pandosia (nella zona odierna di Santo Stefano di Ro-gliano?): e da qui la via era aperta per la valle del Savuto, fino al cui termine in mare, ove si trovava l’omerica Temesa e veniva scavato un giacimento di rame — ora inidentificabile, ma documentato da Strabone (VI, i, 5) — giunse per qualche tempo l’influenza sibarita.

    Parimenti numerose furono le gemmazioni di Crotone, che nel suo più vicino raggio d’azione, configurato dai bassi terrazzamenti marnosi del bacino del Neto, conquistò ed ellenizzò rapidamente diversi villaggi, fra cui Macalla (di identificazione incerta) e Petelia (da riconoscere nell’odierna Strongoli). E vicino al mare, una trentina di km. più a nord, Crimisa: ove la costa avanza nell’esile e acuminata punta di Alice. Più a sud poi, sul litorale, verso gli inizi del secolo VI (o poco prima) impiantò al di là del capo Stilo, ove tre fiumi univano le foci in breve spazio e in posizione avanzata verso i siculi già ricordati, la base di Kaulonia (ma l’abitato originale era forse preellenico) e a metà della vasta insenatura intermedia che assottiglia la penisola bruzia a una trentina di km., costruì Skylletion. Inoltre, al di là del morbido rilievo che fa da scheletro a questa strettoia della penisola e ai margini della piana per cui scorre il fiume Amato, Crotone fondò poi — verso la metà del secolo VI — la base di Terina (con ogni probabilità nella zona ove si trova ora l’abbazia di Santa Eufemia Vecchia).

    Unicamente vicino al mare settentrionale piazzò le sue posizioni avanzate Locri, forse per due motivi: che essa non era favorita da buone pianure intorno a sè (come i prossimi centri ellenici da Crotone a Metaponto) e che — una volta istituiti amichevoli rapporti con le popolazioni sicule — la penetrazione in un’area di rilievi alquanto aspri le fu più facile. E perciò, ellenizzando nella prima metà del secolo VI un insediamento siculo su di un elevato terrazzo naturale che — ai bordi settentrionali del rilievo del Poro — domina il mare da più di 500 m. di altitudine e da 4 km. di distanza, creò Hipponion (l’odierna Vibo). E presso i bordi meridionali del monte Poro, là ove il fiume Mesima sbocca in una aperta pianura litorale, verso la metà del secolo VI impiantò l’abitato di Medma o Mesma, che si annu-cleava presso l’odierna Rosarno, su di un terrazzo (« piano delle vigne ») leggermente sopraelevato sul fiume che ha conservato fino ad oggi il suo nome. E infine al termine meridionale della medesima piana, presso le foci del secondo fiume che vi sbocca — il Petrace, il cui nome era a quei tempi Metauro — i locresi conquistarono, forse nella seconda metà del secolo VI, una base dei calcidesi che serviva ad allacciare le frequenti navigazioni fra Zankle e Cuma: cioè Metauros (che è da identificare con l’odierna Gioia Tauro).

    Gli stati greci in Calabria nel sesto secolo a. C. : situazione fra il 580 e il 550.

    Sibari

    Le zone controllate da ciascun centro della costa ionica fra i secoli sesto e quinto si stendevano così come fasce, scaglionate una dopo l’altra, di traverso alla penisola, da costa a costa, cioè fra un mare e l’altro: i loro confini però rimasero alquanto elastici in quei due secoli, in conseguenza dei conflitti politici fra le principali sedi coloniali della riviera ionica, e delle aspirazioni via via più decisamente autonomistiche che manifestarono le basi da loro create su l’opposta riviera. E i motivi dianzi accennati della formazione di questi spazi vitali impressero loro una tale configurazione, che ciascuna zona (ad eccezione di quella estrema di Reggio, bagnata per così notevole fronte dal mare) includeva su uno dei due versanti una grossa valle e su l’altro una discretamente aperta piana, che avevano ovunque il loro punto delicato di saldatura in uno o due itinerari di transito — non più che piste per portatori o animali. Ciascuno di questi itinerari doveva rimontare un valico, per lo più sagomato in aspri rilievi e di frequente ricoperto da nevi nei mesi invernali e periglioso in primavera quando le fiumare si gonfiano: per cui la reale operosità loro si limitava forse da aprile a ottobre. Da Sibari una via saliva con probabilità per la valle del Coscile agli altipiani di Campo Tenese (950-1020 m. di altitudine) e calava di là per la valle del Lao al porto omonimo, e una seconda via, costeggiando l’Esaro (a Sant’Agata fu rinvenuta un’ascia di bronzo con un’iscrizione arcaica) avrebbe usato il valico meno disagevole dello Scalone, di neanche 750 m., per dar l’accesso a Scidros — se l’ipotesi che ubica tale villaggio a Belvedere è giusta —: questi due itinerari avevano una lunghezza di 70 o 80 km. Una terza via poi — di 130 km. per lo meno — deve aver rimontato la valle del Crati fin presso a Pian del Lago (ove sono state rinvenute monete di questa età) per giungere, lungo il Savuto, a Temesa. Diversamente, da Locri alla odierna piana di Gioia forse una sola via era più frequentata: quella del piano di Melia (intorno a 950 m.) che pare documentata da ripostigli di monete coniate nel sesto secolo, scoperti nella zona di Cittanova. In ogni modo l’area di transito più corto, più facile e aperto in ogni stagione, era quella della pronunciata insellatura istmide, dominata dai croto-niati, ove la via da Skylletion a Terina — di una trentina di km. — richiedeva, al dire di Aristotele (Poi. VII, 10, ediz. Ross) una mezza giornata di marcia.

    Come dimostrano in modo particolare le autorevoli e suggestive opere di J. Bérard e di T. Dunbabin, ciascuna di tali zone di influenza formava un minuscolo Stato: e il gruppo di quegli Stati giaceva nel cuore della Grecia italiota in quanto veniva a toccarsi con ogni altra sezione della grande area di colonizzazione: cioè la tarentina a levante, la campana a nord e la sicula a sud ovest. In questa posizione mediana, che la ripartizione politica della stretta penisola in fasce tirate da mare a mare valse a potenziare splendidamente, è da vedere uno dei motivi della fortuna dei paesi greci in Calabria, nell’antichità. La topografia politica di cui la carta a pag. 113 dà una schematica figurazione, va riferita a neanche due secoli dopo l’inizio del fenomeno coloniale: quando cioè gli originali capisaldi di colonizzazione dorica erano divenuti fiorenti città. Primeggiava fra esse Sibari, posta in mezzo ai fiumi Crati e Coscile che, in tale periodo, sfociavano separati in un invaso lagunare, facile riparo per le imbarcazioni e punto favorevole a operazioni mercantili. L’abitato doveva affacciarsi ad oriente a questo minuscolo bacino e stendersi in direzione opposta per notevole area: Strabone (VI, 1, 13) a metà del secolo VI parla di una cinta di mura di 9 km. Intorno, a semicerchio, si apriva la maggior pianura della Calabria ionica, di cui pochi secoli dopo più di un autore esalta la fertilità: e dei coloni che venivano da una regione come l’Acaia, cosi ostile a una buona agricoltura, dovevano in verità aspirare specialmente a terra da coltivare.

    Statuetta di Persefone (prima metà del sec. VI a. C.): dal Museo Nazionale di Reggio.

     

    Maschere votive arcaiche (seconda metà del’sec. VI a. C.): dal Museo Nazionale di Reggio.

    Pinax di Locri con Plutone e Persefone (sec. VI a. C.): dal Museo Nazionale di Reggio.

    Pinax di Locri, con processione nuziale (le donne portano i corredi della moglie alla casa del marito) dal Museo Nazionale di Reggio.

    Da Sibari poi dipendeva una regione vasta e variforme per caratteristiche naturali. Nella bassa valle del Crati e nella pianura litorale ove giaceva superba la città, forse serpeggiava già a quel tempo l’insidia della malaria: ma la sua azione nociva si limitava con probabilità a un’esigua zona. Boschiva era largamente l’area dei monti della Sila, e il regime dei fiumi in conseguenza risultava abbastanza regolare. Inoltre le informazioni più dirette — cioè degli scrittori dell’antichità: Strabone, VI, 1, 13 e Diodoro, XII, 9, 2 — concernenti Sibari, descrivono il suo agro come ben coltivato e drenato nelle aree più basse : e questi drenaggi dovevano toglier via i ristagni di acque e perciò impedire il diffondersi delle anofeli. La pianura era coperta nella stagione primaverile da frumenti e presso la città si dispiegava una fascia di orti. Su le prime colline bordeggianti la pianura erano coltivati la vite e l’olivo. Ma più in alto i densi boschi di cui i monti erano rivestiti fornivano legni di diverse qualità (da utensili domestici come il pioppo, da armi come l’orniello, da costruzione come l’abete e il faggio) congiuntamente a pece, e a buona quantità di miele e di cera. Frequenti poi erano le aree destinate ai pascoli — i cui allevamenti fornivano molta copia di lane e di cuoi — sia lungo i fianchi della Sila, sia nella grossa valle interna del Crati. Sui fianchi nord orientali della Sila infine, venivano lavorati diversi giacimenti di minerale argentifero. E Sibari, ove queste produzioni confluivano, vide costituirsi quindi un riguardevole mercato. Ma già per vocazione Sibari era una base di traffici marini a cui giungevano le mercanzie nobili (ceramica, stoffe, profumi, suppellettili di pregio, vasi istoriati ecc.) dei porti orientali — Mileto specialmente — e da cui queste merci, in due giorni di viaggio, venivano portate su per le valli del Coscile e del Crati e al di là della catena paolana agli scali sibariti del Tirreno, per irradiarle verso i paesi campani o etruschi. Così la divulgazione dei prodotti orientali risparmiava il giro non breve (intorno a 500 km.: pari a 7 giorni, per lo meno, di navigazione) e il transito non facile dello Stretto di Messina: transito disagevole per le correnti marine e per l’ostilità degli ionici. E con tale ritmo crebbe la potenza di Si bari, che questa diventò nel sesto secolo la prima città greca d’Italia, e sicuramente la più popolata della Penisola (superando a questo riguardo i principali centri etruschi). Di guisa che, se pur c’è della esagerazione e della ingenuità nelle informazioni che due o tre secoli dopo gli storici riferiscono su lo stuolo del suo esercito, si può prestare fede ai dati di Eforo (in pseudo Scimno, 341) secondo cui la popolazione di Sibari era nel sesto secolo di 100.000 anime, e di Stra-bone che nello stato di Sibari includeva 25 centri abitati, e di Diodoro da cui si sa che Sibari fu molto benevola verso le popolazioni locali preelleniche accogliendone gruppi fra le sue mura.

    Crotone

    Con Sibari una sola città potè veramente competere: Crotone. Piazzata su di una elevazione protesa nel mare ionico — probabilmente già abitata da una stazione enotria, che in prossimità aveva un luogo di culto, ereditato in seguito dagli achei — Crotone era famosa nell’antichità per la prestanza fisica della sua popolazione e in particolare per la destrezza degli uomini — prova della salubrità della zona! — onde superò ogni polis greca nel numero dei vincitori olimpici (tra i ludi del 588 e quelli del 480 i crotoniati conquistarono 12 lauri, e strabilianti cose si dicevano del più noto fra i suoi atleti: Milone). Per un primo tempo però Crotone, governata da un ceto di agricoltori, e non da quello mercantile come Sibari, rimase in ombra di fronte a Sibari e ne subì un po’ la potenza: infatti gli spandimenti di Crotone sono timidi in direzione dell’altopiano della Sila e lungo la riviera ionica giungono a nord fino al Fiumenicà; ma più pronunziati si mostrano, come si è accennato, in direzione meridionale. Qui però Locri, per quanto più recente, formava uno schermo al dilatamento crotoniate: e la rivalità fra i due centri fu inevitabile. Ma nella guerra che ne fu la conseguenza l’esercito di Crotone fu vinto (pare fra il 540 e il 530) lungo un fiume che si potrebbe individuare nell’odierno Stilaro, e i locresi spinsero più a nord la loro influenza, incorporando nella loro sfera Kaulonia. La sconfitta dei crotoniati però non fu decisiva, perchè negli anni che seguirono si manifestò a Crotone una gagliarda rinascita che fu ispirata con probabilità da Pitagora. Questi, venuto a prendere dimora a Crotone verso il 530, iniziò presto la divulgazione delle sue dottrine e raccolse intorno a sè una forte e numerosa associazione di fedeli seguaci, reclutati fra le classi più elevate della città. L’azione del gruppo si volse via via, almeno in parte, dallo speculare religioso e dagli studi scientifici (e sono da ricordare i suoi rapporti con la scuola locale medica, resa nota da Alcmeone) verso problemi e disegni più apertamente politici, di guisa che Pitagora, non soddisfatto di questo orientamento, lasciò Crotone, dopo una residenza di quasi vent’anni, per recarsi a Metaponto. Ma il seme da lui versato dava già i suoi frutti: i crotoniati avevano ora rivolto le loro mire politiche in direzione nord, verso la ricchissima Sibari, e la solida struttura conferita al loro stato dagli influssi delle teorie di Pitagora, li poneva in condizione di tentar la sorte. La rivalità fra i due centri aveva con probabilità origini mercantili, in quanto Sibari era congiunta da una salda relazione con il grande scalo di Mileto e Crotone era legata con la pari-menti florida isola di Samo: quindi è naturale che la già dura contesa fra i due empori egei, per conquistare il primato dei traffici, si riflettesse pure sugli scali italioti loro amici. Sibari per altro, un po’ infiacchita dai soverchi agi — che non dovevano avere a fine unico la comodità o lo splendore in sè, ma anche il bisogno di osteggiare, con un elevato grado di vita, l’atmosfera pesante della regione — o con maggior probabilità indebolita politicamente da rivalità interne per il sorgere di una numerosa classe che agitava idee democratiche contro il debole governo delle famiglie aristocratiche, non potè regger nella disputa con la grande rivale. Nel 510 i crotoniati, con un grosso esercito guidato dall’olimpionico Milone, dopo aver annientato in campo aperto, presso il fiume Traente (l’odierno Trionto) le forze sibarite, espugnarono e misero a fuoco la grande città, inalveando sopra le sue rovine il Crati, dopo averlo deviato dal suo corso naturale, che cinquantanni più avanti Erodoto (V, 45) dichiarerà ancora visibile.

    Frammento di metope da Sibari (metà del sec. VI a. C.): ora nel Museo Nazionale di Reggio.

     

    Con tale vittoria Crotone diveniva la prima fra le città della Grecia italiota: lo stato sibarita finì per venire incorporato in buona parte nell’area di influenza di quello crotoniate e questo manifestò la sua autorità egemonica pure in forma religiosa, con l’istituzione, a 10 km. a sud della città — dove il capo Nao strapiomba in mare — di un grande santuario dedicato a Hera (sarà descritto più avanti da Stra-bone, VI, 1, 12, e da Livio, XXIV, 3, 3) che diventò la principale sede di culto in onore della comune potentissima dea, e per i coloni greci e per le popolazioni indigene. E quella fra la fine del sesto secolo e la metà del quinto secolo, l’epoca della maggior fortuna crotoniate: dopo l’eclissi che a Siracusa provocò la fine della dinastia dino-menide nel 466 e i torbidi che di riflesso ne seguirono nei principali centri della Sicilia ionica e a Reggio e a Taranto, i crotoniati indeboliscono Locri schierandosi in aiuto dei fermenti autonomistici di Hipponion e di Medma, e apertasi così la via, si inseriscono con ardito disegno nello Stretto di Messina, ove appoggiando la fazione degli oligarchi conservatori di Zankle, che osteggiavano le origini e l’ispirazione democratiche del reame creato nel 488 sui due lati del bosforo da Anaxilas di Reggio, scardinano verso il 461 quest’ultimo. In tale modo le due principali vie di transito e di traffico greco dal mare ionico al Tirreno — cioè la via di terra per la depressione di Marcellinara, e quella marina dello Stretto di Messina — sono in mano di Crotone. E in questa fase che l’abitato crotoniate deve aver raggiunto notevole ampiezza slargandosi ad ovest nella pianura terminale del fiume Esaro.

    a) testa di Sfinge in terracotta da Kaulonia (Marina di Monasterace, seconda metà del sec. VI a. C.);


    b) testa fittile da Medma (Rosarno, fine del sec. VI a. C.): ora nel Museo Nazionale di Reggio.

    Reggio e Thurioi

    La predominazione di Crotone non dura però più di una quindicina di lustri. Verso la metà del quinto secolo Atene è nel pieno della sua potenza e mira a stabili conquiste verso l’occidente: solo Crotone potrebbe segnare uno scoglio per i piani ateniesi. Ma la sua giovane e non abbastanza radicata fortuna è precisamente in quegli anni minata da una crisi interna: cioè da un’agitazione dei democratici contro il governo nobile e conservatore dei pitagoreti, che infine è eliminato. E di questa condizione profittano rapidamente i vicini rivali: in primo luogo le popolazioni dello Stretto scuotono verso la metà del secolo la sua influenza. Poi i sibariti, che dopo la distruzione di buona parte del loro abitato non l’avevano però integralmente evacuato (forse un’aliquota di loro si era rifugiata a Laos) arrischiano, ma invano, per due volte (nel 475 e nel 452) di rialzar il capo: e la seconda i crotoniati durano cinque anni per farli rinunziare ai loro disegni. Si ricordi inoltre che Locri aveva resistito alla pressione crotoniate, conservandosi autonoma, anche in virtù dell’austerità militaresca ed economica a cui l’aveva educata la sua dura legislazione (Demostene ci informa: contro Timocrate 140-141, che i locresi avevano riveduto o ringiovanito solo una legge in due secoli). Perciò quando, dopo il 450, Atene inizia — con abili azioni diplomatiche — a impostare il suo piano di dilatazione verso la Sicilia e la penisola italiota e vede lo Stretto di Messina rimanere ostile ai suoi desideri di controllo, perchè gli zanclei si erano appoggiati saldamente a Siracusa (la principale nemica di Atene), è naturale che la maggior linea di forza dei disegni politici degli arconti — o meglio di Pericle che li ispirava — tesi a chiudere in un cerchio la Sicilia, sia stata rivolta verso l’area che in quegli anni dava indizi chiari di indebolimento: e cioè l’area crotoniate. E sicuramente per questa ragione che fra il 446 e il 444 gli ateniesi crearono nella piana di Sibari, più o meno sul luogo ove giacevano le rovine di quella città, o un po’ verso l’interno, il nuovo abitato di Thurioi. Una città costruita di colpo secondo un piano fornito da Ippo-damo di Mileto, e popolata con greci di ogni stirpe (arcadi, achei, elidi, beoti, spartani, ateniesi ecc.).

    Arula con scena di combattimento omerico (metà del sec. VI a. C.) rinvenuta a Locri: ora nel Museo Nazionale di Reggio.

    Cornice del Tempio Marafìoti a Locri (sec. V a. C.) ora: nel Museo Nazionale di Reggio.

     

    La sua topografia, nota da una descrizione di Diodoro (XII, 10, 7) era configurata a reticolo regolare, con maglie di vie intersecantisi ad angolo retto — un ristretto numero di principali destinate al traffico, fra cui si inserivano diverse minori, incaricate di ritagliare gli isolati — e con la piazza principale, l’agorà, nel centro. Pericle fece ogni sforzo per conferirle una robusta consistenza: intorno a Thurioi si riformò in parte il vecchio stato sibarita — che quindi fu perduto per Crotone — a cui fu data (ad opera del pensatore Protagora) una costituzione su basi democratiche, che secondo una informazione di Aristotele (Poi. V, 7, ediz. Ross) escludeva la formazione delle grandi proprietà agricole, e vi si creò un centro di cultura (che effettivamente vide convenire Erodoto ed Empedocle e diversi retori e oratori). Ma la fortuna di Thurioi sarà brevissima: già prima della sua edificazione eran nate opposizioni fiere fra gli oriundi sibariti e i nuovi coloni, e questi ultimi avendo prevalso, i primi furono costretti a spostarsi sul fiume Trionto e a impiantare una nuova Sibari. Poi Thurioi si rivelò divisa anche interiormente fra i nuclei della sua popolazione parteggianti per Atene, e quindi democratici, e i nuclei filospartani, quindi aristocratici. Verso il 438 per consolidare il suo spazio vitale Thurioi aspirò pure a una conquista in direzione di quella zona, di pertinenza un po’ discutibile, ove era sorta la base ionica di Siris, che i sibariti e i metapontini insieme avevano distrutto un secolo prima: ma l’iniziativa provocò un conflitto con Taranto con esito sfortunato. Per rifarsi Thurioi si volse quindi ai paesi interni, specialmente lungo la valle del Crati: ma qui la sua dilatazione trovò la resistenza delle popolazioni italiche — i Brettii — che già Sibari aveva ammesso nel suo stato iniziandoli a forme più progredite di civiltà e che dopo la rovina di Sibari si venivano spingendo fortemente giù dai fianchi meridionali del Pollino e della Montea. E verso la fine del quinto secolo il disastro della grande spedizione ateniese in Sicilia, che nei disegni di Pericle doveva significare il risolutivo colpo di maglio delle sue iniziative politiche in occidente, ebbe riflessi negativi su la vitalità di Thurioi e fu in realtà l’inizio della svalutazione della Calabria.

    Testa di Dioscuro dal tempio Marasà di Locri (sec. V a. C.): ora al Museo Nazionale di Reggio. Questo volto pensieroso e patetico non porta — come diverse parti superstiti del medesimo tempio — una eco par-tenonica, ma prelude già chiaramente alla plastica del secolo seguente. Il De Franciscis lo reputa opera di una scuola artistica locale.

    Vasetto a figura di menade (sec. IV a. C.): dal Museo Nazionale di Reggio.



    Locri

    Dopo tale crisi la penisola diventa un’area di facile penetrazione della vincente Siracusa e fino verso la fine del quarto secolo il ruolo di maggior rilievo sarà tenuto dal più conservatore dei suoi centri: Locri, che era rimasta fino a quei tempi un po’ in ombra, Avanzi del tempio di Hera al capo Nao, io km. a sud di Crotone dedicandosi in special modo alla coltivazione degli alberi e all’allevamento dei cavalli, ma intrecciando già relazioni con Siracusa, a cui aveva serbato l’amicizia e forse dato aiuti, nei giorni incerti della spedizione ateniese. Perciò Locri fu largamente remunerata dai siracusani e diventò uno degli scali più animati della Calabria (da alcuni anni è stata scoperta la zona artigianale e mercantile a poca distanza dal mare): forse il suo risalto in quest’epoca è dovuto pure alla sua positura nella parte meridionale della penisola, che evitò per ora a Locri la pressione delle tribù italiche a cui a poco a poco soggiacevano i turiensi e i crotoniati. Però Locri rimane troppo rigidamente fedele a Siracusa (che fra il 398 e il 367 e poi di nuovo fra il 346 e il 290 controlla lo Stretto di Messina) e non svolge alcuna azione autonoma: quindi non riesce a diventare per la Calabria un fulcro di vitalità regionale, a esercitare cioè — come avevano già fatto i crotoniati e i sibariti — quella che oggi diciamo una leadership. E per tale ragione il suo declino si manifesta più adagio e in modo meno catastrofico, onde del suo abitato i depositi fluviali e i sedimenti litorali rivestirono alquanti secoli più in là gradualmente gli avanzi e furono in grado di conservare fino a noi le tracce del perimetro di mura — lungo 7,5 km. — una vasta area residenziale e mercantile su la cimosa litorale e, sui primi terrazzi quaternari, i resti di vari templi e un grande deposito di famosi, splendidi ex-voto.

    In verità l’epoca sicuramente più luminosa fino a oggi della storia della Calabria, volgeva nel quarto secolo a. C. irrimediabilmente al termine: e ciò in modo speciale per due ragioni, che nel medesimo periodo avevano cospirato a deprezzare il valore umano della regione.

    Avanzi del tempio di Hera al capo Nao, 10 km a sud di Crotone.

    Locri: zona archeologica. Il tracciato delle mura è quello riconosciuto da P. Orsi nel 1909.

    La prima è da vedere nel radicamento via via più forte su la scena della regione, delle popolazioni italiche, formate qui dai Bruttii (o, nella denominazione greca, Brettii) : il valore di una regione non riposa nelle sue condizioni naturali, ma sta quasi esclusivamente nel grado civile dei suoi abitatori. E di fronte alla magnifica civiltà portata dai greci e impiantata robustamente e floridamente in buon numero di basi su la snodata costa della penisola e di là diramata per le piane litorali, e le aree di transito fra i monti — se pure in queste ultime con rarefazione — le popolazioni italiche, che provenienti da nord filtrano per i fianchi rilevati della valle del Crati (e per la catena paolana specialmente) e disturbano e rendono più onerosi i rapporti delle basi greche fra i due mari, sono comunità rozzissime, con cultura materiale povera e socialmente primitiva, con orizzonti ristretti.

    A tale ragione, decisamente locale, si aggiunge la mutata relazione della penisola riguardo ai traffici mediterranei: la Calabria era stata per i greci un buon ponte naturale per l’avanzata a ovest: cioè una fascia di dilatazione coloniale e una zona che aveva prestato pure — in particolari situazioni politiche — delle vie di transito, non agevoli e comode ma sicure e discretamente brevi, per le sue valli: ma le grandi navigazioni fra i secoli Vili e VI avevano reso famigliare il vasto bacino mediterraneo, e ogni sua più riposta parte e ogni sua asperità o pericolo di correnti e di venti, ai popoli — come i greci, i puni e gli etruschi — che su quel mare avevano iniziato ad ampliare i loro orizzonti: e in conseguenza di ciò la penisola di Calabria rimane, verso il quinto secolo, scartata o tagliata fuori dai grandi itinerari marini e anche dalle aree ove più frequentemente si manifestano gli incontri o gli scontri fra i principali complessi politici di quel bacino. E vero che la via marina congiungente il mare ionico col Tirreno ha continuato a costeggiare il suo estremo meridionale: ma qui si è venuta delineando già prima del quinto secolo (e l’azione dianzi ricordata di Anaxilas vi aveva dato dal 488 fino al 476 il definitivo suggello) la formazione di una regione particolare — la potremmo chiamare « peloritano-aspromontana » o meglio « regione dello Stretto » — che si rivela già animata da correnti di vita pluriformi e plasmerà via via strutture sociali diverse da quelle della Calabria propriamente detta. Una regione, per di più, che fino da ora ha — e serberà in futuro — il suo polo su la riviera peloritana, per il maggior rilievo preso da Messina, magnifico porto naturale e porta di accesso della Sicilia.

    Vedi Anche:  Usi, costumi e tradizioni di oggi e di ieri

    I Bruttii scendono verso il mare

    Di queste condizioni, per cui la penisola fra l’Aspromonte e il Pollino risulta circondata nel quinto secolo da specchi di mare il cui valore scema, chi tira vantaggio sono i Bruttii che sciamano dopo il quinto secolo un po’ dovunque per le valli interne e giù per i fianchi esterni dei monti, e svincolano gradualmente tali zone dalle influenze elleniche. L’elemento bruzio, la cui vita si fondava su esercizi pastorali e con probabilità su di una primitiva agricoltura itinerante, aveva a poco a poco, annu-cleandosi politicamente, creato una confederazione il cui maggior centro era a qualche chilometro dal villaggio di Pandosia — ma in un punto più saliente e avanzato verso il Crati — e cioè a Consentia (l’odierna Cosenza). Fra i loro villaggi di qualche rilievo sono ricordati Aufugum e Argentanum, Bergae, Besidiae, Clampetia, Ocriculum, Lymphaeum. E infine, nel quarto secolo, la confederazione iniziò a premere sui greci, costringendoli a stipulare con essa concordati e via via a limitarsi ai margini costieri e ad allestire, anche con il ripetuto intervento di personalità militari e politiche chiamate dalla madre patria (come Alessandro di Epiro fra il 336 e il 331 a. C.) o dalla Sicilia (come Agatocle fra il 297 e il 290 a. C.) una faticosa azione di ritenuta, in genere vana: Hipponion resta in mano bruzia fra il 330 e il 295 e fra il 288 e il 260, e Crotone è cinta d’assedio nel 320 e Thurioi nel 288. Poi in questo rapido declino — ad ingrandire il suo moto ma non a determinare i suoi eventi: perchè non era motivo, ma in buona parte conseguenza loro — emerse già in quest’epoca la calamità che per l’ampiezza e la continuità della sua azione non sarà esagerato chiamare la grande maledizione storica (si guardi bene: storica e non naturale!) della Calabria fino a qualche lustro fa: cioè la malaria. I cui agenti patogeni dopo il quinto secolo iniziarono a spandersi fortemente su la riviera ionica : buon ambiente per loro, ove le guerre fra i vari centri e la svalutazione economica della regione avevano infiacchito l’iniziale opera di domesticazione e di conquista delle condizioni naturali che fino al secolo sesto dava così notevoli risultati. Là dove il colono, non più guidato da una polis governata bene ma lasciato a sè, trascurò — come, dal quinto secolo in avanti, un buon numero di indizi prova — i canali di drenaggio o rallentò i suoi sforzi per evitare il paludamento dei torrenti o lasciò decadere le maglie di irrigazione, e quindi compromise il regolare e sicuro scorrimento idrico, il plasmodium — al cui irradiamento quest’area disponeva il clima migliore — ebbe agio di diffondersi largamente. E l’evoluzione della società greca dopo il terzo secolo, con la formazione di un regime di capitalismo agricolo basato su l’uso della schiavitù, che in breve si dilatò e dominò ovunque nei paesi litorali della Calabria, diminuendo il numero della popolazione colonica e sostituendolo con torme di braccianti che nessun legame avevano con la terra, era fatto per aumentare la divulgazione della malaria. Questa perciò indebolisce e rarefa la vita su le coste e rende via via più frazionata e inefficiente la briglia contro l’elemento bruzio che nel terzo secolo, ellenizzando gradualmente la sua cultura, penetra già fra le popolazioni italiote dei centri del litorale e vi riattizza le non sopite dispute civili.

    Avanzi delle mura di Hipponion (sec. quinto a. C.).

    La brutale conquista e dominazione di Roma

    Sono questi conflitti a richiamare verso la regione Roma, che non desidera di meglio per giungere al mare ionico: di guisa che nel 285 a Thurioi e a Crotone si insedia un corpo militare laziale e cinque anni dopo Reggio è costretta ad allearsi a Roma. Naturale quindi che i Bruttii, per non venire ingoiati dai romani — che già avevano spedito a domarli un minuscolo esercito nel 282 — abbian dato aiuto a Pirro, nei suoi disegni di formare un regno meridionale italico (o ionico) e che perciò si sian affiancati a quelle città elleniche che vedevano in Pirro il loro estremo salvatore: o meglio — come ha chiarito giustamente il Pugliese Carratelli — si sian uniti al demo coloniale che rivaleggiava in quelle città la frequente inclinazione dell’aristocrazia ad accogliere la protezione romana pur di conservar le sue privative. Ma vinto il re epirota nel 275, i Bruttii furono conquistati definitivamente da Roma: che si atteggiò invero in modo ben diverso nei riguardi loro e degli elleni. Verso gli ultimi (le cui oligarchie — per i motivi ricordati — erano favorevoli ai suoi presìdi e la cui cultura e relazioni consigliavano di agire con più cautela) Roma manifestò per ora un atteggiamento di buon vicinato, che mascherava per altro, con un’abile penetrazione mercantile, la macchinazione di una conquista integrale. Ma verso i primi fu repressiva. Nei centri e nelle comunità rurali dei Bruttii — che il cortigiano e conservatore Livio (XXX, 19, 10) designa come « multi ignobiles po-puli » — si erano anche, probabilmente, rifugiati elementi poveri della popolazione urbana costiera: quelli colpiti dalla crisi economica che, in conseguenza della accennata evoluzione della proprietà rurale, già da un paio di secoli veniva provincializzando (ed esaurendo perciò) la vitalità degli abitati schierati su le piane rivierasche. E per di più con la confisca, a vantaggio dei coloni romani, di vaste aree da essi dianzi tenute e usate pei loro pascoli stagionali — cioè la metà meridionale di quella che gli autori romani chiamano Silva e che è da identificare con gli odierni distretti di Catanzaro, Nicastro, Vibo e Serra, divenuti un po’ dopo il 270 ager publicus (Dionigi di Alicarnasso, XX, 15) — i Bruttii si videro tagliate le più elementari fonti di vita. V’era perciò più d’una ragione per stimolare i loro spiriti antiromani: e quindi,’ per quanto vinti, i Bruttii morsero il freno per diversi anni e l’occasione buona per insorgere alla dominazione romana fu la guerra punica, nel cui corso (fra il 218 e il 202) la totalità dei Bruttii e il maggior numero dei centri elleni — meno qualche minore villaggio — si schierò per Annibaie, che infatti per tre inverni (206-203) pose a Crotone e lungo la riviera istmica ionica, la sua base. Ma vinto anche Annibaie, la punizione di Roma sui bruzi insorti e sugli elleni che avevano sperato di fermare, con l’aiuto di Cartagine, il loro declino, fu — secondo l’abitudine dei romani contro chiunque prendeva le armi per salvare la sua libertà — umiliante e spietata. Nel 186 furono vietati quei culti collettivi (come il dionisiaco) pur largamente praticati dal demo italiota e presso l’elemento bruzio, che potevano, con le associazioni dei loro adepti, alimentare o nascondere manifestazioni politiche antiromane: e fino a età imperiale i bruzi furono esclusi — poiché infidi — da ogni partecipazione militare e destinati come servi dei funzionari mandati in lontani dipartimenti. Roma poi creò, in veste di nuclei coloniali (ad es. nel 194 a Crotone e a Temesa e neanche un anno dopo col nome di Copia in prossimità della insicura Thurioi, nel 192 a Hipponion col nome auspicale di Valentia, e nel 124 in agro di Skylletion con l’intitolazione di Minervia) basi militari nuove, special-mente nella zona di insediamento italiota, con lo scopo di vigilare la regione. Invero il fuoco della rivolta non si era realmente spento, e divampò un’ultima volta quando, reclamando, libertà per i servi ed equità per i poveri, Spartaco vi si rifugiò nel 71, braccato da ogni lato da truppe e navi, e la corse facendovi reclute dal suo estremo meridionale fino a nord del Pollino: ma pure questo rivolgimento fu dominato nel sangue e la regione rapidamente si intorpidì e rinchiuse in sè. Così ogni resistenza ai romani terminò e la regione fu inretita in una decisa azione di latinizza-mento: azione più rapida nelle parti tenute dai Bruttii, ove Roma ebbe minore esitazione a stabilire, con severi controlli, il suo idioma e ove l’influenza culturale degli elleni, per lo più fresca e superficiale, non potè osteggiare la penetrazione del latino (anzi l’originale idioma osco delle popolazioni bruzie, la rese più facile). Ma quella azione è stata ben più lenta nei centri ellenici ove Roma lasciò vivere idioma e istituti originali — che Strabone (VI, 1, 6) rileva in efficienza a Reggio agli albori della nostra èra — paga di una sovranità effettiva. Però l’ellenismo svanì anche qui a poco a poco dopo l’instaurazione della monarchia: sia perchè le oligarchie italiote miravano a fondersi o assimilarsi più integralmente alla potenza che le tutelava e sia perchè la popolazione rurale era ora formata da schiere di schiavi venuti da ogni mercato. E in questo modo per la regione dei Bruttii — a cui però ufficialmente il nome di Brutium fu dato solo fra il 364 e il 382 d. C. : prima gli autori scrivono in Bruttiis, come dire « nel paese dei bruzi » — la dominazione di Roma fu l’inizio di un’epoca di grave oscurità.

    Sì che neanche quella popolazione si risvegliò quando la guerra civile fra i difensori e gli insidiatori del Parlamento romano sfiorò più volte i suoi porti che videro sostare le navi di ambo le parti : i bruzi e gli avanzi dei greci e le torme di schiavi (fra cui pure aveva avuto, nel 63 a. C., fautori e contingenti pronti a muoversi la congiura di Catilina, sostenitore qui della ripartizione delle proprietà latifondiste) rimasero inerti e assonnati a una vicenda di cui sfuggiva loro la portata perchè non muoveva le corde di elementari aspirazioni o rivendicazioni. E la prostrazione in età imperiale fu sicuramente più dura per le comunità italiote, a motivo dello spandersi inesorabile della infezione anofelica : nel quarto secolo della nuova èra già un buon numero di centri ellenici sui litorali non dava più segni di vitalità e solo qualcuno sopravviveva (come Crotone) ma privo di ogni rilievo economico e ristretto a umile mercato locale. In realtà il morbo plasmodico aveva reso a mano a mano più rade di popolazione le aree litorali e verso il quarto secolo — quando il cristianesimo vi penetra — quel pochissimo di energia che la regione svela, ad eccezione di rari punti sul mare, si manifesta nelle aree interne. La cosa è naturale: la Calabria era già da tempo, sostanzialmente, paese bruzio: di una popolazione i cui centri di forza non si potevano scaglionare lungo il mare, ma fra i monti o nei fondi valle interni, ove si svolgevano il pascolo pendolare e una rudimentale e stagionale agricoltura. Questo rifluire del centro di vitalità regionale dal mare verso il cuore rilevato della penisola è quindi evidente fra il secondo e il quarto secolo : ma era stato già aiutato e per così dire sospinto dal corso della via consolare romana, abitualmente chiamata Popilia, aperta qui a fini di controllo militare intorno al 128 a. C. dal console Annius Rufus, e che congiungeva Napoli con Reggio (più precisamente con Catona, ove aveva base il trajectus con la Sicilia) penetrando nel paese dei Bruttii per il bacino di raccolta del fiume Lao — nella piana irrigua del Mercure siedeva l’abitato di Nerulum — e scorrendo per 4/5 fra monti e lungo valli interne (cioè il valico di Campo Tenese per sfociare a Muranum, poi la valle del Coscile fino ad Interamnium — nella zona ove ora è la stazione di Spezzano — e indi, da Ca-prasis — che è Tarsia — la valle del Crati fino a monte di Consentia, e da qui per il catino di raccolta del Savuto — ove la stazione ad Sabatum è da identificare in Rogliano — fino in prossimità di Temesa, e più avanti, dopo una ventina di km. sui bordi interni della piana di Terina, per la fiancata interna del Poro da Hip-ponion a Nicotera, che è già ricordata in « itinerari » del primo secolo). I pochi punti ove la strada si approssimava al mare erano unicamente nella parte meridionale della penisola e verso il mare Tirreno — lo ionico invece è disertato —: in rispondenza cioè dei due o tre scali marini (e in particolare il porto di Hipponion, ora più abitualmente chiamata Vibo) ove venivano caricate notevoli partite di legnami silani o della Serra e, data la gran quantità di materiale ligneo, era stata impiantata una industria di costruzioni navali : scali marini rimasti in opera perchè vicini al fretum siculum, l’animatissimo Stretto di Messina.

    E per questa via interna che si scaglionano i rari mercati degni di qualche nota in età romana: ad esempio Cosenza, di cui Varrone (Rerum Rustie., I, 7, 6) e Plinio (XIV, 8, 9 e XVI, 50, 2) citano le prelibate frutta e i buoni vini. Questa pure è la via che da Reggio — ove già s’era fermato nel 60 san Paolo, veleggiando da Siracusa a Roma come detenuto (Atti degli Apost., XXVIII, 13) — l’Evangelo più frequentemente risale per spandersi nella penisola bruzia: e se si escludono i porti — cioè Reggio, Locri, Skyllation, Crotone — che furono anche qui le prime basi di penetrazione della nuova fede, i principali focolari cristiani del Bruzio li vediamo però insediarsi unicamente sul filo di questa via, sopra cui sono operosi verso la metà del secolo sesto gli episcopati di Tauriano, Nicotera, Vibo, Temesa e Cosenza. (Diversamente rimane infeconda, perchè basata su uno schema di studi che non aveva più eco nella società locale, l’istituzione nel 537 da parte di Cassiodoro, delle comunità monasteriali di Vivarium e di Castellense negli aviti latifondi lungo la riviera di Skylletion). I punti di forza locali della nuova fede venivano così a potenziare quel genere di società agricolo-pastorale che i bruzi avevano fortemente divulgato nella regione, e che rimasto signore della penisola — per il declinare e lo svanire della società italiota, sul litorale ionico — fra il secondo secolo a. C. e il secondo d. C., ha invertito in modo radicale il valore umano della regione: l’ha spinta a guardare verso l’interno e a volgere la schiena al mare, ha ristretto le sue aperture e le sue relazioni verso i paesi vicini, ha in una parola eliminato la vocazione marinara della Calabria. Chiusa in sè quindi, per l’emergere della società bruzia, la Calabria verso il quarto secolo è divenuta veramente un’isola e tale è rimasta per il persistere di quella società, per molti secoli: potremmo dire fino alle soglie dei nostri giorni. E perciò pienamente giustificata da questa evoluzione, la singolarità che la Calabria sia la regione della Penisola che ha il più notevole svolgimento di coste in relazione con la sua ampiezza areale, ma sia pure una delle regioni della Penisola ove — se si toglie la fascia più a lungo ellenizzante dello Stretto — ha minore salienza lo spirito marinaro.

    Croce reliquiario di stile bizantino (proprietà arcivescovado di Cosenza). Secondo la tradizione fu donata da Federico II al duomo di Cosenza il 30 gennaio 1222. E d’oro, con smalti, granati e filigrane: opera insigne e di enorme pregio per valore intrinseco e storico-artistico. Forse opera di un orafo bizantino che si trovava nel periodo normando, alla corte siciliana, da cui l’avrebbe ereditata l’imperatore svevo.




    La via consolare romana — aperta verso il 128 a. C. — che rimase efficiente per lo meno fino a età normanda, e (segnati ciascuno da un disco nero) i monasteri bizantini — abitualmente chiamati « basiliani » — istituiti fra i secoli VII e X.

    Apertura a oriente e rianimazione nei primi secoli bizantini

    Una qualche rianimazione però (dopo la turbinosa incursione, lungo la via consolare, di Alarico nel 410: estremo fondo della depressione in età imperiale) una qualche rinascita e un riaffacciarsi timido a più aperti orizzonti, recò — sia pure gradualmente — verso la fine del sesto secolo, la dominazione bizantina. Per merito di essa furono ripresi i traffici marini con l’Oriente, e da così ricostituiti rapporti il Bruzio ebbe pure in frutto la sperimentazione di colture speciali — come il gelso e il congiunto allevamento serico — che avrebbero avuto notevole rilievo per la vita economica locale nei secoli venturi. Congiuntamente le diocesi bruzie alleggerivano a poco a poco i legami con la chiesa di Roma finché nel secolo Vili il conflitto tra gli imperatori iconoclasti e il papa romano portò all’istituzione dei riti greci pure in Calabria. L’opera deH’amministrazione bizantina invero si esplicò in modo particolare nel campo giuridico e militare, e risentì quindi della oscillazione e degli ostacoli in mezzo a cui la dominazione orientale si destreggiò in Italia meridionale: ma di fronte a tal instabilità fu — insieme a quella dei mercanti — giovevole per la vita della regione l’azione svolta da quei monaci che iniziarono a giungere qui verso il 640 (lasciando la Siria e l’Egitto, invasi in quel periodo dagli Arabi: e un ultimo flusso giungerà nel secolo X dopo la conquista araba della Sicilia) e crearono numerose comunità. Scopo principale di questi monasteri era la conservazione della cultura ebraica e ellenistica, e in special modo cristiana orientale : ma la loro influenza non si limitò a un risveglio locale della erudizione, e su le maglie civili della società bruzia fu sicuramente rilevante, in quanto la natura propria del monacheSimo orientale dava a tali comunità un maggior ascendente su popolazioni come le bruzie che (per non ovunque spenta eco delle tradizioni di orfismo) sentivano con molto calore le manifestazioni mistiche (quelle per cui si distinguerà tipicamente il beato Nilo di Rossano). I monaci provenienti dai paesi orientali erano con ogni probabilità richiamati a questa regione — come nei distretti orientali della prossima Sicilia — dalla presenza su la riviera ionica e agli estremi meridionali della penisola (ove i Bruzi erano meno densi), di popolazioni che avevano conservato — nei centri specialmente — l’originale lingua coloniale: e anche li traevano lì in modo particolare i ricordi materiali, non totalmente perduti, e i fasti di mille anni prima. E noto infatti che quei monaci venivano in genere dalle classi socialmente più elevate di Siria e di Egitto, cioè quelle più vivamente legate a tradizioni culturali ellenistiche: e quindi componevano una élite monastica. Per cui nei secoli di maggior vitalità — cioè fra il nono e l’età di Ruggiero II — i loro monasteri si distinsero per autorità religiosa e per notevole pregio di arti coltivate (sarà bastevole citare il codex purpureus di Rossano). Ma questi monasteri poi —1 e ciò giustifica la loro reale influenza — non rimasero contenuti alle aree conservative di idioma greco (ove pur sorsero i più famosi, come il Patirion a 5 km. a ovest di Rossano, il San Giovanni di Stilo, il San Bartolomeo di Sinopoli, il San Filareto di Seminara ecc.) e irraggiarono con numerosa diaspora per ogni zona del Bruzio interno, e in qualche caso crearono dei veri e propri aggruppamenti monastici, come il Mercurion nella valle del Lao, di recente studiato dal Cappelli.

    L’abside di S. Maria della Roccella (2 km. a sud-ovest di Marina di Catanzaro) : grande chiesa romanica (fine sec. XI) ora in stato di rovina. Denota qualche somiglianza con le strutture siciliane.

    Precisamente in quest’epoca di ultima reviviscenza ellenica la regione estrema d’Italia perde, negli usi comuni, il vecchio nome di terra dei Bruttii o Brutium, per quello di Calabria, che nell’antichità aveva designato la terra degli Iapigi (cioè l’odierna penisola salentina) e che verso il quinto secolo si era a poco a poco dilatato a una parte — cioè l’odierna regione dei Lucani — di quella che era stata la terza regione d’Italia nella ripartizione di Augusto. Il cangiamento del nome si manifestò gradualmente in relazione al ritrarsi verso il Bruzio dell’elemento bizantino (che evacuò dopo il 670 le principali posizioni nella penisola salentina) di fronte alla pressione dei longobardi. Ma la conquista di questi — spingendosi giù da Salerno — avanzò dopo qualche lustro anche nella valle del Lao, e da qui — schivato per la vecchia strada romana il gruppo del Pollino — calò nel secolo Vili fino a Cosenza, che fu poi sede fino al secolo IX di un gastaldato. L’avanzata longobarda però fu arrestata qui — su la soglia di Rogliano e i bordi nord orientali del rilievo silano — e i bizantini verso la fine del secolo IX riprendevano Cosenza. Ma questa, e in genere la valle del Crati, rimasero anche dopo tale rioccupazione poco permeabili agli influssi bizantini: cosa in realtà naturale in quanto la regione fra la Sila e il Pollino formava già da molti secoli un blocco umano bene individuabile, cioè il cuore economico e culturale della popolazione bruzia.

    Testa di ponte degli arabi: ha inizio la risalita della popolazione verso i monti

    Singolare ventura quella della Calabria in questo periodo: le forze che da opposte origini — cioè longobardi e bizantini — vi si dirigono e costringono in loro dominazione i bruzi (per cui perfino il nome che essi avevano dato al paese, scompare) potrebbero, ciascuna per conto suo, richiamare nella sfera di complessi politici più vasti l’asserragliata e povera società bruzia. Ma il guaio è che tali forze vi giungono insieme e quindi si urtano fra loro e vi smorzano a vicenda i loro impulsi: per cui la regione diventa per esse una zona di logoramento. E il guaio aumenta quando fra loro s’interpola verso la metà del secolo IX una terza, più mobile e volitiva e robusta: cioè gli arabi. Le incursioni arabe iniziarono verso l’84o: come era naturale, su l’estremo della penisola, di fronte a Messina e a Taormina.

    La Cattolica di Stilo. Ha conservato il nome bizantino originale (« universale ») che si dava alle chiese parrocchiali. Costruita nel sec. XI secondo moduli greci (pianta quadrangolare, tipica forma e disposizione delle cupolette ecc.) ereditati dalla tradizione basiliana.

    Interno della Cattolica di Stilo: è ben visibile la tecnologia costruttiva bizantina.

    Ma nessun distretto della Calabria fu conquistato in modo stabile dagli arabi, che crearono solo diverse basi sopra le sue riviere: specialmente quella del Tirreno (sul lato orientale, il caposaldo tenuto più a lungo — per un po’ meno di cinquantanni — fu Siberene, l’odierna Santa Severina, che per la sua positura a nido d’aquila sul Neto aveva assunto un discreto rilievo come piazza militare dei romani contro i Bruttii). Lungo il Tirreno — ove gli arabi si insediarono prima a Tropea — il loro punto di forza diventò dopo 1*840 Amantea, che già aveva operato da insormontabile bastionata dei bizantini per fronteggiare l’avanzata dei longobardi. Per tal motivo vi si formò un emirato — che durò fino verso L885 — da cui, come da vari punti del litorale fra capo Spartivento e capo Cimiti, gli arabi partivano per i colpi di mano nella regione interna (Cosenza patì blocchi e depredazioni più volte, le più gravi nel 902 da parte di Ibrahim ibn Ahmad e nel 976 da parte di Abn al Qasim; Vibo fu devastata due volte: 850 e 983). Ma Amantea in particolar modo servì loro da elemento di giunzione per le diverse basi che essi avevano seminato lungo le riviere del Mezzogiorno.

    Così come veniva usata lungo le sue rive dagli islamici a mo’ di testa di ponte per puntate o disegni di conquista verso il nord, la Calabria agiva pure in quest’epoca per più avanzata e — per grazie di natura — munita piazzaforte bizantina ai confini occidentali dell’impero. E questo stato di cose lasciò sulla regione salientissimi riflessi: per sfuggire l’invasione dal mare aumentò fra i secoli nono e decimo lo spostamento, la ritirata (che diventa poi quasi una fuga) delle sue popolazioni — un moto già iniziato qualche secolo prima per conseguenza dell’infezione plasmodica — dalle pianure litorali o dai fondi valle verso le salutari e sicure alture terziarie, a volte veri scogli inespugnabili per natura, ove era facile trovare un’ubicazione riparata o defilata dagli orizzonti marini: un moto da cui tirano le origini in questo periodo alcuni di quelli che nei secoli venturi sono divenuti i principali centri della regione — ad esempio Catanzaro, Gerace, Stilo, Rossano, Ni-castro ecc. — e che doveva poi per una decina di secoli almeno fissar non solo le configurazioni più appariscenti dell’insediamento in Calabria, ma isolare gli uni dagli altri i paesi e distrarli dalle vie di più facile comunicazione e traffico, e chiuderli ciascuno in sè (foggiando nelle popolazioni una particolare psicologia di fiera timidità) e iniziare con l’avida e disordinata ricerca di terra da coltivare un minuto ma continuato diradamento dei boschi, gravido di male conseguenze. Quindi la nuova funzione di poderosa bastionata che la Calabria veniva a tenere verso il secolo X per i bizantini, finì per isterilire la vita della regione a quei termini di isolamento a cui già l’avevano portata i bruzi. Le uniche zone ove in realtà l’isolamento fu meno risentito erano i punti della costa del Tirreno frequentati abitualmente dagli arabi: cioè lo Stretto di Messina (in quest’area Reggio fu tenuta per qualche mese nel 918 e per qualche anno dopo il 950), la costa del Poro e la riviera di Amantea, ove probabilmente per stimolo loro si animò qualche industria (come mostrano gli stucchi decorati di Terreti e alcuni esemplari di ceramica a Tropea e di maiolica ad Amantea).

    Ma gli arabi non furono in grado di spingersi più a nord: la forza, per quanto un po’ esausta, dei bizantini li arrestò e verso la fine del secolo nono li espulse da Amantea, così come fra 1*885 e 1*887 aveva già respinto, con la spedizione di Nice-foro Foca, i longobardi a nord del Crati, ricostituendo più o meno territorialmente l’unità della regione: che agli inizi del secolo X formò un thema a sè, ordinato secondo le più tipiche tradizioni bizantine e con principale sede a Reggio. Ma in questo periodo di più sicura dominazione, insieme con l’impianto di una discretamente disciplinata amministrazione civile — che invero si manifestò pure mediante un duro fiscalismo — e con la ripresa di una notevole opera di riellenizzamento, svolta con special riguardo nelle strutture religiose (verso la fine del secolo X la liturgia è orientale — meno che nei distretti ex longobardi del Vallo del Crati — e la ripartizione vescovile dipende dai metropoliti orientali che siedono a Reggio e a Santa Severina) non riuscì però ai bizantini di immagliare un efficiente sistema militare, a difesa dei paesi fra il Lao e il Crati : e fu perciò che in quel secolo una parte della popolazione di Cosenza, per timore delle incursioni arabe, iniziò a rifugiarsi sugli elevati terrazzi del Vallo del Crati, originando i cosiddetti « casali ». Precisamente a motivo di questa debole maglia militare, i bizantini furono soverchiati fra il 1048 e il 1060 da una forza più fresca e solida e in fase di dilatazione: quella dei conquistatori normandi. Continuando la spinta a meridione, che con i longobardi si era smorzata di fronte al Crati, questi avevano avuto buon gioco a scavalcare i bizantini e a distrugger i loro pochi capisaldi. La presa di San Marco Argentano nel 1050 e la creazione qui di una formidabile piazza d’armi intorno a un fortilizio, segnò l’inizio della conquista della penisola bruzia da parte dei conti d’Hauteville le Guichard: in una decina d’anni l’operazione militare era ultimata e si potè credere che per la Calabria si aprisse un’epoca di rinascita. Mileto, sul fianco orientale del Poro e lungo la vecchia via romana — che aveva continuato a funzionare perchè, come ho già rilevato, congiungeva i principali centri di diocesi — diventò verso il 1060, per iniziativa del conte Ruggiero, il capoluogo della contea di Calabria ed ebbe qualche tempo di splendore con la costruzione di edifici religiosi e di corte e di amministrazione (la zecca) ove furono largamente usati i materiali degli edifici rovinati dai saraceni nel vicino centro di Vibo (da cui per di più fu portata a Mileto l’illustre sede episcopale). Ma l’occasione che si era così presentata alla Calabria, svanì rapidamente col trasferimento dei conquistatori normandi in Sicilia (nel 1061). Come era stata per gli arabi una testa di ponte, la Calabria fu per i normandi unicamente un ponte di lancio: e dopo l’ingresso a Palermo nel 1072 e l’occupazione totale della Sicilia nel 1091, in questa fu stabilita pratica-mente — e sia pure solo nel 1130 ufficialmente — la sede della corte del giovane reame.

    La chiesa di S. Marco a Rossano (sec. XI) simile per struttura e dimensioni a quella di Stilo. Qui sono ben visibili le minuscole absidi semicircolari con bifore dal capitello a stampella.

     

    Chiesa del Patirion fondata negli anni fra il iioi e il 1105, alcuni km. ad ovest di Rossano, in una zona ove erano già numerose laure di eremiti. Le tre absidi sono la parte più caratteristica per i motivi decorativi di origine normanda.

    Il battistero di Santa Severina, di impianto originalmente bizantino (Vili o IX sec.): pianta circolare da cui sporgevano minuscole absidi rettangolari.

    La conquista del conte Ruggiero: un’apertura alla civiltà del nord

    La Calabria ritornò quindi a quella condizione di dipendenza politica della Sicilia a cui era stata già vincolata fin verso il 902 dai bizantini. Ma nell’unità della monarchia sicula, la regione ebbe un periodo discretamente lungo di vita — possiamo dire — ordinata, quieta, sicura. Non brillante però. Con l’isola i rapporti della Calabria, specialmente nella sua parte meridionale, furono alquanto animati fino verso il 1260 e in genere fertili: rapporti quasi esclusivamente economici e giuridici. La Calabria, liberata dal fiscalismo bizantino, vide riaperta la libertà dei traffici marini e terrestri (il grande Federico favorì gli israeliti e l’istituzione di fiere —    tra le principali del regno — nel 1234 a Reggio e a Cosenza) e aiutata la sua produzione agricola: in modo particolare a sud l’allevamento serico e a nord quello dei cavalli. Si ha l’impressione anche di un’opera in qualche modo tesa a riorganizzare gli insediamenti: si riedificano abitati distrutti, come nel 1235 Vibo (con una topografia a maglie regolari e con la nuova denominazione di Monte Leone) e si aggruppano in più robuste unità le popolazioni sparpagliate dianzi in casali remoti e insicuri, come a Castrovillari (Castrum Villarum) intorno a metà del secolo XII. E in quest’epoca inizia ad instaurarsi nella regione — creando nuovi rapporti sociali — il feudalismo, che pure aveva nel notevole esaurimento e nel bisogno di protezione del paese, e in modo particolare nella proprietà latifondista (già ben radicata fino a 500 m. di altitudine) elementi favorevoli ad allignare. Ma il sistema feudale vi si stabilì — come ha indicato giustamente il Pontieri — in forme rispettose degli ordinamenti giuridici bizantini (a loro volta derivati da quelli romani) e non nocive nei riguardi economici, perchè veniva tenuto a freno per ora dalla autorità reale. L’amministrazione regionale e locale fu impiantata su nuove basi con l’istituzione di due giustizierati: a nord quello (più decisamente bruzio) chiamato di Val Crati — che includeva, insieme col bacino di quel fiume, anche i rilievi padani fino al fiume Savuto e il versante ionico presilano, per lo meno fino al fiume Corace — e a sud quello (più imbizantinito) a cui fu dato il nome di Calabria, che si inarcava fra l’istmo di Nicastro e il bosforo di Reggio. E non ultima novazione fu il rivolgimento che riguardò la vita religiosa: poiché i normandi, per rinsaldare la loro conquista e indebolire i fautori della dominazione bizantina, ripigliarono verso il 1080 —    premuti a ciò pure dal papa Urbano II che li aveva fortemente favoriti — l’opera di latinizzamento della Calabria: quindi si misero a revocare via via le chiese dal primato di Bisanzio restituendole a Roma, e — per controbilanciare l’autorità e l’influenza dei monasteri bizantini — dierono impulso alle grandi formazioni monastiche occidentali. Si formano così in una prima fase le abbazie benedettine di Cetraro, di Santa Eufemia, di Mileto e di Bagnara lungo la riviera del Tirreno; e agli inizi del secolo XII quella certosina di Santo Stefano in Bosco presso l’odierna Serra; e un po’ dopo quelle cisterciensi del Vallo del Crati, cioè la Sambucina, la Mattina e Camiliano, e infine Corazzo (in prossimità di Castagna) sul fianco meridionale della Sila — abbazie che non erano propriamente, come i monasteri bizantini, luoghi di irradiazione di cultura: ma avevano specialmente, e in realtà svolsero per due o tre secoli per lo meno con buoni risultati, la funzione di aiutare o stimolare la rinascita agricola dei paesi intorno. Di tale ambiente religioso sarà poi, verso la fine del secolo XII, una manifestazione eccezionale — ma non avulsa dalle tendenze e dalle aspirazioni della Calabria coeva — la figura del mistico cisterciense Gioachino da Fiore, con probabilità servo della gleba per nascita. La formulazione del suo messaggio, il cui contenuto è fortemente rivoluzionario nei riguardi della chiesa ufficiale, ebbe un’influenza sociale di alternativa agli istituti feudali e serbò i suoi fermenti per diversi secoli nei paesi del cosentino.

    Interno del battistero di Santa Severina: il giro di otto colonne di granito, provenienti in parte da edifici pagani, che reggono una cupola a spicchi.

    Il duomo di Gerace, ricostruito agli inizi del sec. XI su sostruzioni bizantine e poi rimaneggiato in età sveva E la più vasta chiesa della Calabria. Impianto basilicale — che i conquistatori normandi venivano nel sec. XI sostituendo a poco a poco a quello quadrangolare o circolare di ispirazione bizantina — con navate divise da file di colonne classiche provenienti da Locri.

    Baronaggio e guelfismo: iniziano le guerre interne e la povertà dilaga

    Ma le cose mutano dopo il 1260 (se non già qualche lustro prima) quando alcuni dei principali baroni — i Ruffo, i Morano, i De Amicis — si rivoltano agli svevi e aderiscono al guelfismo solo perchè ne sperano di ricavare un alleggerimento del controllo reale e una maggior libertà d’azione. E il guelfismo porta nel meridione gli angioini, che vi governano fino al 1442: e con essi la regione veramente ripiomba nelle disgrazie e nel frazionamento civile.

    Guelfismo e ghibellinismo non sono qui vive forze politiche, ma sono posizioni personali e locali, con le loro clientele, pronte a venire invertite ad ogni occasione buona: sono — come ha definito giustamente il Pepe — lontane origini di quel camaleontismo nelle manifestazioni politiche, di cui la regione è stata malata nei tempi a noi più vicini. L’unico vero motivo di una qualche consistenza nelle azioni politiche dei più grossi feudatari è in quest’epoca lo sforzo separatista: per cui, come si    erano schierati per gli angioini verso    la metà del tredicesimo secolo con lo scopo di limitare il peso del centralizzamento    svevo, così un centinaio di anni più avanti, nel pieno fervore della guerra del Vespro, quei medesimi feudatari parteggiano più per gli aragonesi che per gli angioini. Quella guerra fu di tremendo travaglio per la regione, corsa quasi ogni anno da bande di armati, largamente ferita da reiterati colpi di mano e devastazioni lungo le sue coste (Gatona: l’estremo villaggio del continente, che a motivo della sua ubicazione meritò un ricordo da Dante, fu devastata nel 1283 e la prossima Reggio in quel medesimo anno subì un assedio da parte di Carlo I con 10.000 cavalleggeri e 40.000 fanti e un centinaio di navi, e uno, che finì in una resa, da parte di Federico III nel 1313; nel 1269 gli angioini recano distruzione ad Amantea e nel 1288 gli aragonesi a Belvedere; nelle numerose spedizioni marinaresche di Ruggiero di Lauria fra il 1285 e il 1297 sono rovinate Nicotera, prima, e poi Squillace nel 1296 e Crotone l’anno dopo). E poiché gli itinerari stradali dell’antichità erano, dopo così notevole oscurità di secoli, in deplorevoli condizioni

    — e invero chi si arrischiava di portar un esercito di fanti in un paese di montagne, e insicuro e poco noto? — la guerra fu, in modo particolare intorno alla Calabria, una guerra navale. Di conseguenza, per fornir materiale alla costruzione di navi, la Calabria fu spogliata di un certo numero di suoi boschi: secondo un appello di    Carlo I ai    suoi    baroni, del 1278, la    Calabria avrebbe dovuto allestire più navi di ogni altra zona del reame, pari cioè a un quarto della flottiglia reale. E i suoi numerosi e minuscoli giacimenti di argento e di rame, da molti secoli rinvenuti nel bacino del Trionto, furono voracemente lavorati per trarne materiali da monetazione. E le vene di piriti, in quel periodo riconosciute a Mesiano e a Stilo, sui fianchi della Serra, furono in forte misura scavate per la richiesta di armi.

    Vedi Anche:  Forme e tipi di insediamento

    Il portale della chiesa di S. Francesco (1252) a Gerace, in forme roma-nico-ogivali. E scolpito in calcare locale.

    Quando la guerra termina agli inizi del quindicesimo secolo la regione è inaridita nelle sue fonti di vita e dominata da un baronaggio forte e oppressivo, decisamente autonomo dai re : e la terra che nei primi anni della conquista angioina era stata ripartita fra un gran numero di baroni francesi, nel volger di un secolo si era raccolta nelle mani di poche famiglie feudali fra le quali emergevano i Ruffo e i Sanseverino, i Caracciolo e gli Spinelli. Nei riguardi delle popolazioni o meglio delle loro comunità — le università — la gestione dei baroni è una trama di usurpazioni e di abusi: le università rurali sono in pieno declino e dissolvimento e la loro principale funzione di coordinare le rotazioni di coltura e di prato fra le famiglie rurali e di disciplinare l’uso comune dei pascoli stabili e dei boschi aperti è presa ora dal barone, che frequentemente vieta ai legali usufruttuari di seminare o arare per due o tre anni i loro campi, perchè le sue mandrie vi possan pascolare liberamente. Nè, come ha indicato chiaramente il Pontieri, a questa anarchia riescono a metter riparo — pure con le loro iniziative piene di energia —gli aragonesi dopo il 1442: negli ultimi trent’anni di dominazione angioina, Cosenza — che si era conservata libera dal peso feudale e compiva ogni sforzo per difendere i suoi vecchi monopoli e favori bizantini (forse ratifica di più remoti usi) sui boschi e i pascoli della Sila — era stata rovinata da truppe di mercenari fomentate da baroni locali (specialmente verso il 1416), e Reggio aveva visto scomparire nel suo porto buona parte dei traffici con i siculi e con gli orientali. Ma anche il fiscalismo reale tiranneggiava, e nei pochissimi centri che avevano conservato la libertà e perciò erano legati unicamente al sovrano, come Cosenza e Catanzaro, Reggio e Crotone, Castrovillari e Monte Leone, Nicotera e Tropea, la pressione fiscale causò non di rado fiere rivolte di plebi: specialmente a Cosenza e a Catanzaro fra il 1458 e il 1464, ove le plebi furono per qualche anno sospinte da un animoso e spregiudicato barone di origine iberica: Antonio Centelles, che sperava di formare uno stato nel cuore della regione (con la contea di Catanzaro, il marchesato di Crotone ecc.): piano faticosamente osteggiato e infine spento nel sangue da Ferrante, verso la fine del 1465.

    Il portale e le parti originali della facciata dell’Abbazia della Sambucina fondata nel 1141 da Bruno, abate del monastero cisterciense di Chiaravalle di Milano, e costruita verso la line di quel secolo dal monaco Luca da Casamari.

    Gli aragonesi mirano quindi inizialmente a domare il baionaggio e, in paiti-colare dopo il i486 — cioè dopo la congiura dei baioni che 111 Galabna aveva avuto uno dei più vivi focolari — deprimono 1 grossi feudatan e frantumano 1 glandi feudi, revocano i feudatari ostili al re sostituendoli con nuovi signori tratti dalla famiglia reale o da famiglie ispaniche fedeli, e favoriscono la ricostituzione dei demani (come quelli di Si la). In realtà queste iniziative nescono a dai e qualche buon risultato fino a quando le guide del reame sono tenute da uomini seri o fortunati: come Ferrante, che nei centri più popolati o meglio ubicati riguardo ai traffici — ad esempio Catanzaro e Reggio — fa leva su le classi mercantili e artigianali per infiacchire la forza dei nobili e limitare i benefici e le pretese mai moderate del clero, e con la protezione reale vi consente un’amministrazione locale più libera, ove la voce delle classi popolari per lo meno è udita. Per quanto neanche uno dei centri «regi» che già ho nominato sia stato in grado di conseguire un notevole risalto in seno alla regione, l’amministrazione reale però in qualcuno di loro stimolò una timida rinascita, specialmente economica: cioè un ritorno di diverse correnti di traffico nei porti (quello di Crotone è ripristinato e guarnito dei primi moli verso la fine del secolo) e una ripresa qua e là di estrazioni minerali già praticate nell’antichità, ma sporadicamente ripigliate in età bizantina o sveva (ad es. quella del ferro a Stilo — ove in quegli anni si individuò pure qualche filone, mediocrissimo, di oro e di argento — quella del piombo nel bacino del Trionto e quella del sale a Lungro) e un riorganizzarsi dell’artigianato locale, come quello ad es. della filatura e della confezione di stoffe in lana o in seta, per cui aveva conquistato da qualche tempo un discreto nome e qualche agiatezza Catanzaro (nel 1470 artefici catanzaresi furono chiamati a Tours, per insegnare l’arte ai francesi). Verso la fine del quindicesimo secolo — che è il periodo migliore per l’industria di Catanzaro, ove la produzione dà in maggior quantità broccati, damaschi e velluti, e ove funzionano pure opifici di tinteggiatura — i mercanti di qui si recavano annualmente a primavera a Reggio, nel cui porto convenivano da Messina veneziani e genovesi, fiamminghi e spagnuoli. Esaurite le esigenti richieste di costoro, e ritornati a Catanzaro dopo la domenica di Pentecoste, i mercanti vi tenevano poi una fiera per i negozianti dei centri vicini, che aveva la durata di una quindicina di giorni e ove si vendevano i materiali di seconda qualità.

    Faccia duomo di Cosenza, consacrato nel 1222.

    La facciata della chiesa di San Domenico a Cosenza, del 1448.




    Il duomo di Tropea: costruzione normanda del sec. XI, ma danneggiata poi fortemente da sismi e riabilitata nel sec. XVI.

    Questi complessi traffici e lavorazioni avevano richiamato a Catanzaro — fino da epoca sveva — numerosi israeliti, che già tenevano una forte base a Reggio, ove svolgevano in genere opera finanziaria e imprenditoriale. Banditi e perseguitati in epoca angioina, essi erano tornati in Calabria con gli aragonesi (provenivano per la più parte dai paesi settentrionali d’Africa o dalla penisola iberica) e rapidamente animarono fiorenti comunità che si aggrupparono in bene riconoscibili ghetti, edificando in ciascuno una sinagoga (le comunità più numerose erano a Reggio e Gerace, a Cosenza e Rossano, e minori nuclei poi a Seminara, Vibo, Nicastro, Catanzaro, Bisi-gnano, Acri, Crotone e Santa Severina). Nel 1481 — secondo il Dito — il loro numero era in Calabria da cinque a sei centinaia di persone.

    Ma gli spiragli di rinascita che paiono ridestare la vita della regione dopo la metà del quindicesimo secolo sono tiepidi e fugaci : con il decadere della autorità regale dopo Ferrante, il baronaggio riottoso e privo di ogni coscienza politica rialzò il capo con maggior violenza e potè spremere più tranquillamente le popolazioni inermi e spaurite e già inselvatichite da molti secoli di povertà. Uno degli scopi dei baroni è l’incorporazione delle terre che erano state rivendicate e recuperate dai primi re aragonesi, e venivano ora gestite mediante l’amministrazione dei demani. Ma tale gestione era forte e dava luogo a lamenti: di questo si giovano i grandi feudatari, per istigare le comunità contro il re, fino a provocare rivolte di contadini — s’è già parlato di una — che si chiudono abitualmente con la devastazione di villaggi e paurosi massacri. Il culmine della rivolta già ricordata si era avuto nel cosentino, quando gli irrequieti Casali, cioè i paesi nei dintorni di Cosenza — specialmente sul fianco silano — che a essa erano legati da motivi di integrazione economica, si unirono a Cosenza nella azione (le cui fila erano tirate in realtà dai baroni locali) tesa a usurpare i demani regali della Sila: ma questo moto era stato spento nel 1461 con un saccheggio spietato dall’aragonese Roberto Orsini. E nuove rivolte di contadini esasperati per i gravami fiscali scoppiarono qui nel i486.

    La loro repressione dissanguò molte aree della regione e provocò una diminuzione del bestiame — in particolare dei bovini che vivevano per sei mesi nei pascoli degli altopiani e per sei mesi nelle steppe lungo la riviera ionica —: cioè di una delle fonti di vita principali della Calabria. Ma — qualunque sia stato il loro oscuro stimolo — quei moti furono in questa epoca le sole fiammate sprigionate da energie locali per uno scopo abbastanza chiaro e inappellabilmente giusto: quello di vivere in modo più umano. Si potrà dire a ragione che le plebi contadine — e anche le artigiane dei principali luoghi, come Catanzaro — non erano coscienti nè della forza che, insieme, potevano metter in gioco nè delle forze a loro estranee — cioè i baroni — che da questo secolo in avanti iniziarono a servirsi delle classi meno abbienti per aizzarle e spingerle contro i governi che miravano a disciplinare il baronaggio, o a usarle come bande di manovra fino ad abituarle ad un regime di violenza e di anarchia con cui la fama della regione si configurerà in Italia per vari secoli dopo il quindicesimo. Ma se qualcosa non v’era da sperare o da rivendicare, qualcosa di visibile e a portata di mano, chi avrebbe fatto rivoltare queste plebi ? Più impoverita nelle sue fonti di vita economica e spiritualmente depressa è una popolazione, meno si muove: o si agita solo per rivendicazioni elementari, di agevole e rapido conseguimento. E quindi, che una plebe — come quella rurale di Calabria — che diversi secoli di oppressione avevano reso abulica e debole, si schieri apertamente e sfidi le più crudeli punizioni per liberarsi della povertà e spezzar la catena degli abusi, è già una manifestazione di vitalismo: elementare e — dirò meglio — primitiva, come dimostrano poi i riflessi che la repressione dei suoi gesti lascierà sedimentare nel suo animo ignorante — con la negazione e col cupo disprezzo per i canoni giuridici e l’autorità governativa, che eromperà infine nel brigantaggio —: ma non perciò meno carica di significato e di rilievo. Se quella vitalità, che non si può negare, non emerse in forme civili ma degenerò nella anarchia, di questo è responsabile per buona parte il baronaggio. A cui giovò certamente il frequente mutare di famiglie regali — e quindi di direzioni politiche — sul trono di Napoli e la gran distanza fra Napoli e la Calabria (verso la fine del quindicesimo secolo un viaggio per strada da Napoli a Cosenza aveva una durata di 10-12 giorni; e per mare da Napoli a Reggio richiedeva almeno 5-7 giorni).

    I due giustizierati della Calabria intorno alla metà del sec. XVI e — nel medesimo periodo — le «terre» di amministrazione realee alcuni grossi feudi.

    Era naturale che ogni nuova gestione dinastica iniziasse — anche solo per svolgere la sua autorità — un’opera di imbrigliatura o decantazione o controllo del baronaggio. Ma così radicata e vasta era la forza di quello, che ogni iniziativa tesa a diminuirlo e a disciplinarlo fu vana: ci si provò per l’ultima volta la dominazione iberica, nel 1503 impostasi dopo un lungo periodo di guerre con la Francia, che avevano colpito pure in più luoghi e dolorosamente la Calabria (ricordo le battaglie di Seminara del 1495 e del 1503). E con i primi spagnuoli ci fu — specialmente ai tempi del viceré Pietro da Toledo — uno sforzo per addivenire alla istituzione di una struttura governativa più moderna: ma anche tale iniziativa — perchè svolta in forme contraddittorie e con strumenti inadeguati — si chiuse nel peggior modo pensabile. Una relazione a Madrid del Toledo, scritta intorno al 1536, ci dà della Calabria un quadro nero: nella amministrazione civile, e in special modo in quella giudiziaria, la vendita degli uffici fra il ceto baronale era cosa usuale, e per colmo di iattura questi uffici cadevano in mano a persone di bassa estrazione. Quindi non v’era scampo alla prevaricazione e alla delinquenza, che invero — quando scendevano sul capo di popolazioni umili e inermi e di chiunque non era nella aureola degli ambienti baronali — venivano di regola coperte da un simulacro di legalità. Neanche le disposizioni legali perciò potevano avere esecuzione: per il motivo inoltre che vi si opponevano le numerose consuetudini e diritti assegnati da diversi secoli a molte comunità. E tali circostanze dovevano fomentare ulteriormente le tendenze particolaristiche della società locale: quindi i disordini della amministrazione e le chiusure tra paesi vicini.

    La chiesa della Consolazione ad Altomonte. Costruita, per iniziativa di F. Sangineto, gran giustiziere del reame angioino, ad opera di artisti probabilmente senesi, fra il 1336 e il 1380: ora in stato miserevole.

    Gerace: finestra a bifora policroma di una casa medioevale, incorniciata da massi di calcare bianco un po’ poroso (di estrazione locale) e di tufo vulcanico nero importato dalla regione etnea.




    Finestra a bifora di una casa medioevale a Squillace.

    La fosca dominazione ispanica

    La soluzione che la corte ispanica usò per domare il baronaggio fu quella di trasferir a Napoli, con vari e onorevoli richiami, i baroni. E così ai tempi del Toledo e più avanti, le famiglie dei baroni lasciarono a mano a mano la regione o meglio smisero di dimorarci abitualmente, assegnando ad agenti o notari locali la cura dei loro feudi e la raccolta dei loro proventi: non ebbe termine però, con questo esodo, quel clima sociale disumano che la loro azione aveva creato nel maggior numero delle comunità (le terre infeudate erano, verso i termini del secolo sedicesimo, 312 su un totale di 326 comunità). Per di più la corte ispanica pose la gestione delle comunità costituenti demani (una quindicina: fra cui le località di maggior rilievo) in mano di nuovi funzionari, di origini forestiere — cioè in genere spagnuoli — e per lo più mediocri, ignoranti delle condizioni della Calabria, dediti a ogni forma di rapina, avidi e protervi. A questo modo le forze locali furono ulteriormente depresse, e si esaurì quel po’ di bene che una gestione comunale discretamente autonoma aveva dato con gli aragonesi ai principali centri — specialmente a Catanzaro e a Cosenza — iniziandovi la formazione di una classe dirigente. In sostanza l’amministrazione ispanica spolpò la regione col più duro fiscalismo, a cui non fu in grado di congiungere la minima iniziativa di stimoli economici.

    Carta economica e demografica della Calabria verso la metà del secolo XVI. (Sono indicati, a tratti, i limiti dei due giustizierati).

    Il castello di Vibo: la sua edificazione fu iniziata (forse nel luogo dell’acropoli di Hipponion e in parte con materiali dei vicini templi ellenici) da Ruggiero d’Hauteville e fu completata da Federico II. Ultime aggiunzioni sono dovute agli angioini.

    E il maggior guaio fu nella seconda metà di quel secolo quando, per i nuovi orientamenti politici e militari spagnuoli, si ebbe un grosso fenomeno di rifeu-dazione — cioè di riassegnazione di numerosi feudi revocati dal re per insubordinazione o per esaurimento di famiglie — a nuove famiglie, a volte locali e a volte spa-gnuole, ma prive in genere di esperienze politiche e nel maggior numero dei casi facinorose e grette, che nel feudo vedevano solo un bene da spogliare, e che non di rado, disertato il feudo e inurbatesi per lustro nella capitale, lasciavano in loco una gerarchia di incaricati o agenti — parimenti spietati — con l’unico scopo di riscuotere le rendite. Funzione quest’ultima che — per ricavare un loro utile — quegli incaricati eseguivano infischiandosi di ogni convenzione scritta, e cioè con la limitazione o la violazione di già riconosciuti benefizi o costumi particolari (specialmente per quel che riguardava i ritmi delle colture, gli artigianati locali, l’uso dei pascoli e dei fiumi ecc.) taglieggiando le comunità con decime o prestazioni abusive e osteggiando in ogni modo i traffici. In tali condizioni di amministrazione, che sono continuate fino ai tempi napoleonici, si può capire agevolmente a qual disarticolazione, disfunzione e strazio potè giungere la vita della regione verso il termine del sedicesimo secolo : e forse non è esagerata — pur nel suo classicheggiante stile — la quasi funebre doglianza (« Cala-briae planctus » come lui scrive testualmente) con cui un francescano di quei tempi, Gabriele Barrio, chiude la panoramica storica di una notevole opera di erudizione e descrizione della regione : « non modo ordinariis exactionibus fatigatur, sed injustis etiam ac gravibus extorsionibus vexatur. Qiiare multi etiam vineas exciderunt ob nimiam earum census aestimationem. Adde quod utraque regionis maritima plaga annis singulis gravissime a pyratis infestatili’ ; unde oppida pagique crebro diruptioni, sanguini et igni traduntur ; segetes exuruntur ; vineta olivetaque ceteraeque arbores exciduntur ; pecora ac pecudes et, quod miserabilius et infelicius est, utriusque sexus et omnis aetatis homines praedae dantur. Qua ex re oppida pagive civibus vacui sunt, et agri multis locis rudes sunt et inculti. Nemo est, qui maria tueatur, itinera a praedonibus et latronibus infestata securitati det » (De antiquitate et situ Calabriae, Roma 1571, lib. I, cap. 22).

    Gli avanzi del castello di Roccella.

    L’anarchia baronale e il pesante carico fiscale stabilito dagli spagnuoli, special-mente dopo la metà del secolo avvizziscono a poco a poco le scarne fonti di vita e le industrie tipiche: la produzione di grano non basta più per la popolazione (che negli anni della relativa ristorazione aragonese aveva dato segni di aumento) e — meno che da Crotone — quel po’ che di rado si esporta è opera del contrabbando. Il vino s’imbarca, ma in quantità non rilevanti, specialmente nei porticciuoli della riviera padana e pure a Tropea e a Scilla. Non c’è però esito di oli la cui produzione si limita ai bisogni locali. Le oasi a coltura legnosa sono segnalate solo, a guisa di umile fascia, intorno ai villaggi. E le coltivazioni del frumento — tendenziale fenomeno già rilevato da più di un secolo — si restringono via via a favore dei pascoli: anche per il motivo che il baronaggio, a cui l’industria ovina conveniva fortemente, richiamando vetusti canoni feudali e in spregio a una precisa disposizione di Ferrante (del 1466) tesa a lasciar circolare e aumentare la produzione agricola, creava frequentemente intralci al libero mercato dei frutti rurali. Di guisa che solo mediante il pagamento di elevate quote di denaro, in veste di donativi, le principali comunità si tenevano aperti i mercati: e questo è il motivo per cui l’industria della seta ebbe particolare rilievo e fiorì con migliore respiro (nel 1555 la sua produzione fu pari a 1280 q.) nei luoghi non infeudati, ma dipendenti dal sovrano. Bisogna notare anzi che nel periodo degli spa-gnuoli, unicamente l’industria della seta (e più di rado la laniera) che da un paio di secoli si era divulgata visibilmente — pur conservando sistemi di lavorazione rudimentali — nel bacino del Crati (specialmente a Rogliano, Spezzano, Acri, Montealto e Altomonte) e più a nord a Rossano e a Castrovillari e nei villaggi vicini, come pure nei distretti rurali meridionali di Monte Leone e di Gerace, e nei paesi rivieraschi di Tropea e di Amantea, non dà segni di declino: il suo principale focolaio di Catanzaro, per il concentrarsi in misura non trascurabile di famiglie nobili verso la metà del secolo, si va a poco a poco configurando — cosa prima non evidente — come un nucleo fortemente consumatore. Ma il suo numeroso artigianato (intorno al 1520 vi funzionano più di 500 telari) non ha per lo più neanche un minimo di scorte finanziarie per procurarsi il materiale grezzo, e deve chiedere anticipi sul lavoro ai mercanti. E questi sono in ogni caso di provenienza forestiera, e non locali. Quindi l’arti-gianato serico vive in realtà ai servizi del ceto baronale. Inutile poi dire dei traffici, in parte languenti: di Crotone ad esempio — unico punto di imbarco del grano, per diverse migliaia di tomoli annualmente — il Toledo scrive che era « muy abun-dante de lodo genero de victuallas » il cui smercio però era osteggiato da agenti di baroni. E dove poi esistevano, i traffici venivano svolti non da calabresi, ma da fiorentini e lucchesi, da genovesi e savonesi ecc., di cui solo un esiguo numero era stabilito in Calabria: il resto dirigeva le operazioni da Napoli. Inoltre costoro non risultano unicamente mercanti — per quanto i traffici sian la base del loro operare singolo 0 in società (come è dei due fratelli fiorentini Alfonso e Lorenzo Strozzi che insieme a Pier Ant. Bandini fra il 1575 e il 1580 tirano su una società per l’esportazione serica). Vìa intorno al primo mestiere qualcuno di loro vede conveniente associarne e effettuarne diversi: ad esempio la gestione di un banco finanziario o l’incarico dell’amministrazione finanziaria di un distretto o l’impresa di un qualche arrendamiento (che sono le diverse iniziative svolte da Giovanni Ravaschieri fra il 1565 e il 1577): e in special modo il prestito alle comunità, i cui indebitamenti nel corso del secolo appaiono notevoli e frequenti. In realtà il culmine, o almeno uno dei risultati più significativi di questa operosità mercantile, consiste abitualmente nella costituzione legale di un feudo — come è il caso dei Casali cosentini venduti nel 1644 per 204 mila ducati al senese Vincenzo Salviati, operatore dell’azienda della famiglia Medici — o nell’affìtto di un feudo (come fa nel 1596 Giovanbattista Spinola per una vasta area di proprietà della famiglia Grimaldi, coi paesi di Gioia, Gerace ecc.). Ma in qualunque modo, buona parte dei capitali che erano frutto di scambi mercantili o di congiunta speculazione finanziaria o di finale investimento in feudi, non veniva reinvestita nella regione : e invece ne usciva.

    Il castello di Santa Severina: la sua costruzione fu iniziata da Roberto d’Hauteville, su avanzi probabilmente di un castello bizantino. Nel secolo sedicesimo i feudatari Carafa lo ingrandirono.

     

    Un particolare del castello di Santa Severina: il mastio con il viadotto d’accesso.

    Fortilizi e sistemi di difesa nel secolo XIII e nel secolo XVI. (Sono indicati, a tratti, i limiti dei due giustizierati).

    Infine una ben chiara sventura, in quei centri o zone ove l’industria della seta aveva raggiunto con gli aragonesi una saliente vitalità per i bisogni locali e per le richieste da Napoli (documentate in misura significativa fino verso il 1570) fu la diminuzione o l’esodo degli israeliti, che dal 1510 in avanti si videro colpiti da intimidazioni o persecuzioni. Sicuramente nella zona intorno a Reggio e a Catanzaro gli israeliti, col prestito di capitali e l’assicurazione agli agricoltori che avrebbero rilevato integralmente la loro produzione, avevano svolto una buona azione per divulgare le piantate di gelso e aiutato lo sforzo di alcuni proprietari agricoli per migliorare le colture: che da promiscue ai seminati (come usualmente nei villaggi di Aspromonte) o agli oliveti (come frequentemente nei comuni presilani) si erano mutate qua e là in piantate chiuse e integrali. Ma l’operosità degli israeliti — che ad esempio a Reggio era fondata su posizioni molto salde — dava noia specialmente ai genovesi, venuti indietreggiando a poco a poco, per la loro competizione, dagli ultimi lustri del quindicesimo secolo, e che perciò ponevano ogni cura a squalificare o danneggiare i rivali. E con la dominazione ispanica la condizione degli ebrei diventò dura e pesante : dopo una fase di requie negli anni della gestione di Pietro da Toledo, l’ignobile fanatismo degli spa-gnuoli contro gli ebrei si riattizzò rapidamente, e nel 1540 le loro comunità venivano sbandite dal regno meridionale (ma già dal 1512 erano state eliminate da Reggio e paesi vicini, per iniziativa dei genovesi).

    ” Calabriae planctus

    Si profila per altro in tale vicenda una nuova faccia dell’oppressione ispanica, che non riguarda più solo la vita giuridica o economica locale, ma anche la religiosa. E per una regione di tradizioni religiose così singolari come la Calabria la cosa avrà gravi conseguenze. Come si è già rilevato, con la dominazione dei normandi si era iniziata per parte della chiesa romana — che favorì perciò con energia la conquista di Ruggiero — un’azione di concorso e poi di logoramento e infine di dissolvimento delle comunità orientali: la predicazione di Gioachino da Fiore fra il 1178 e il 1201 fu con probabilità — come ha ritenuto il Bonaiuti — l’estrema voce di quella mistica tradizione. Nel quattordicesimo secolo la vita religiosa della regione è già dominata da Roma, e si va adagiando perciò in un’inerzia da cui riemerge, con la colorita superstizione, il contenuto magico della base religiosa delle tribù italiche. E religiosamente apatico quindi, l’ambiente ove verso la fine di quel secolo fa ingresso una comunità di Valdesi provenienti dal Piemonte occidentale che si stanziano, per richiamo di signori che miravano al popolamento dei loro feudi, su alcuni punti della catena paolana: e cioè prima a Montalto, intorno a cui creano i villaggi odierni di San Vincenzo, San Sisto ecc. e poi sul versante che guarda il Tirreno ove formano diversi villaggi: come Guardia, Fuscaldo ecc. Le relazioni coi loro paesi di origine (da cui li divideva una ventina di giorni di navigazione e di itinerari montani) rimasero forti e forse vi fu più d’una immissione di nuove famiglie nel secolo seguente. Ma quando il Bruzio fu in mano dei fanatici spagnuoli le condizioni dei valdesi, che erano coltivatori di terra, sicuramente volsero in male: dopo una prima presa di relazioni coi luterani nel 1526 (a cui partecipò un pastore Giorgio di Calabria) col sinodo di Chanforan del 1532 i valdesi si erano inseriti nella Riforma, e quindi la loro opera evangelica, così come altrove, pure in Calabria diventò più aperta e manifesta. Da qui la persecuzione: che fu ordinata dal cardinale Ghi-slieri — poi papa Pio V — con il pieno favore degli spagnuoli, e fu spiccia e atroce. Tra la fine del 1560 e l’estate del 1561, con l’aiuto di delinquenti comuni locali che per tale operazione erano stati indultati, i valdesi furono prelevati di casa in casa o inseguiti nei boschi cacuminali del rilievo padano ove s’erano rifugiati, e trasferiti in buona parte a Cosenza : i loro campi furono devastati e i loro villaggi dati a fuoco o rovinati. A Montalto i capi e quanti non si erano inchinati ad abiurare furono ammazzati, e in una decina di giorni le esecuzioni degli inquisitori giunsero a 2000 : « eran serrati in una casa — scrive un testimone oculare — e veniva il boia e li pigliava a uno a uno e gli legava una benda avanti gli occhi e poi lo menava in un luogo spatioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare e con un coltello gli tagliava la gola et lo lasciava così. Di poi pigliava l’altro et faceva il simile». Ma i valdesi di Guardia, che, in un po’ meno di un centinaio, avevano resistito più a lungo, furono sterminati lì per lì — dopo l’arresto — nel loro paese, cioè (come scrive qualche giorno dopo una informazione romana) « scorticati vivi e poi fenduti in due parti e a questo modo appesi a pali piantati per tale uopo lungo la strada per la lunghezza di 36 miglia: spettacolo spaventevole agli eretici e di grande confermazione dei cattolici ». Altri, fra una e due migliaia, infine uscirono dai carceri solo mediante l’abiura: ma i gesuiti furono mandati a sorvegliarli rigorosamente nei loro paesi in rovina, e a educare i loro figli. Sicuramente esiguo fu perciò il numero degli scampati o dei fuggiaschi: ma da questi ebbe origine nel fortilizio calvinista di Ginevra una comunità di calabri, che verso la fine del secolo manifestò una vitalità non trascurabile, e di cui fu elemento di singolare rilievo il teologo cosentino Valentino Gentile.

    Gli avanzi del castello di Amantea (l’ultima sua ricostruzione fu ad opera degli aragonesi) e l’abitato moderno ai suoi piedi, da una foto aerea.

    Il castello di Cosenza, di origine arabo-normanda, ampliato ai tempi di Federico II.

    Pur fra tali martiri e la metodica spogliazione della regione, la Calabria è in questi secoli una terra di immigrazione: vi giungono, specialmente fra il 1448 o giù di lì e il 1478, e con nuclei più elastici probabilmente fino al 1533, rilevanti gruppi di albanesi, che vi si stabiliscono nelle aree più vuote di popolazione: e cioè le zone intorno alle pianure di Sibari e di Nicastro, che i morbi plasmodici da un migliaio di anni avevano fortemente spopolato, e i versanti silani rivolti al mare ionico — ove le incursioni turchesche già avevano iniziato a infierire — e i poveri, aridi, caotici rilievi che fiancheggiano a oriente il monte Pollino e infine, a poca distanza dai comuni valdesi, la zona più selvatica della catena padana. I villaggi creati dagli albanesi (molto miseri : con poche abitazioni in muratura e numerose « pagliare ») furono così una cinquantina, e intorno a essi gli immigrati iniziarono il dicespuglia-mento dei pascoli e una rudimentale semina degli incolti. Alquanto oscura è finora l’informazione sui patti sottoscritti dai coloni albanesi con alcune grandi famiglie feudali — come ad esempio i Sanseverino per le comunità di Spezzano, S. Lorenzo, S. Sofia, S. Giorgio, S. Cosmo ecc. — e con qualche monastero — ad esempio quello bizantino, ora un po’ in declino, di S. Adriano presso cui fu costruito il casale di S. Demetrio — per avere la facoltà di stanziarsi qui: quel po’ che conosciamo lascia credere che essi abbian chinato la schiena a ogni sorta di vincoli (fra cui quello di non muoversi dai loro villaggi) pur di por fine a una catena di peregrinazióni e di pericoli. Le fonti bruzie di quei tempi li descrivono come violenti e primitivi, responsabili di molti furti e omicidi: e questo è sicuramente vero. Ma a tale riguardo vien naturale una domanda: cosa recavano di novità a una società agricola come quella bruzia, gli albanesi ? Partiti dai loro paesi in conseguenza della guerriglia fra Scanderbeg e i sultani, e chiamati a popolare zone deserte, aspre, insicure, la loro esperienza agricola o pastorale era con ogni probabilità più regredita di quella — pure così elementare — dei bruzi. La panoramica così è completa: la Calabria ufficiale della dominazione spagnuola — cioè la minorità di baroni e funzionari che governa — sfrutta o intralcia le comunità migliori, reprime e spoglia le plebi rurali animate di pur rozzissima vitalità, stermina i gruppi che riecheggiano istanze o idee nuove, e accoglie nei suoi contadi delle popolazioni ignoranti e scarsamente civili. E nei suoi centri vede fiorire una pletora di conventi (a Cosenza ve ne erano una quindicina).

    Avanzi del castello di Morano (di origine normanda). Nel fondo il Pollino spruzzato di neve.

    Il castello di Roseto di Capo Spulico (sec. XVI, nella struttura ora conservata).

    Ciò che resta del castello di Reggio: due torri e una sezione di cortina, nella struttura del sec. XV.

    Che meraviglia se una regione così piagata e impoverita vede nascere e diffondersi per ogni sua parte l’unica forma di rivolta che si può manifestare nei paesi primitivi e a cui — per una deformata interpretazione delle classi dirigenti o baronali — fu dato il nome di banditismo? E cosa di meno strano se quella regione diventa la preda più facile, o meglio la base più aperta, per le puntate dei turchi contro i domini spagnuoli in Italia? Banditismo vero, o più precisamente brigantaggio, la rivolta delle popolazioni bruzie diventa per degenerazione e sarà frequente dagli ultimi lustri del secolo sedicesimo in avanti, in occasione di particolari perturbazioni naturali o politiche. Un buon numero di banditi o pregiudicati provenienti dalla Sicilia

    — a sentire la relazione già ricordata del Toledo, del 1536 — viveva « jatandose de los delictos que an cometido » presso molti baroni di Calabria, che da parte loro se ne servivano per guardia personale o per azioni di forza. Questi banditi però non sono da metter in un sol fascio con quelli che si presentano tali unicamente perchè antagonisti del baronaggio, e che sono in realtà contadini espropriati o sfiniti da debiti o fuggiaschi a punizioni inflitte dai baroni, e che la fame muoveva alla disperazione di gesti feroci e ai colpi di mano. Nel 1576 bande discretamente disciplinate prendono Reggio e dichiarano che vogliono liberare il popolo dai nobili; e qualche anno prima — fra il 1560 e il 1563 — un singolare capo di bande, rude ma non privo di iniziative politiche, cioè Marco Berardi (che si fa chiamare re Marcone) si era formato un minuscolo stato vicino a Crotone e guidava un esercito che gli spagnuoli misero più di una stagione ad eliminare. E così pure un secolo più avanti, coi moti del 1648 — ultima ripercussione di quelli di Masaniello, che però in Calabria pare abbian avuto eco solo nei centri più popolati e con nuclei artigiani, delle aree prossime ai paesi lucani (fortemente conquistati dal moto) come Cosenza, Rossano e Cassano, e più a oriente Strongoli — vediamo emergere e agire, vicino a un nobile idealista come Matteo Cristiano, vari « briganti » che in realtà erano capi non mediocri di bande di insorti e pare sian stati non discari alla popolazione.

    Crotone: una sezione di bastioni della formidabile cinta costruita a difesa degli assalimenti turcheschi da Pietro da Toledo nel 1541.

    Una soluzione: l’evasione

    Però, specialmente in quest’ultima epoca, quando l’esperienza convinse che la rivolta portata fino al cosiddetto brigantaggio non risolveva le strettoie della povertà e non scuoteva la pressione feudale, fu alquanto elevato il numero di bruzi che per vivere — se non anche per cercar fortuna — lasciarono i loro paesi e le bande locali a cui erano astretti, per militare (cosa già iniziata a fare un buon secolo prima) nei vari eserciti scorrenti per l’Europa: in modo particolare in quelli spagnuoli e tedeschi. E probabile è pure che alcuni gruppi di cosiddetti banditi abbian avuto rapporti con i turchi della costa tripolina o tunisina: la cosa è quasi sicura per il re Marcone. In ogni modo, nel giuoco della controffensiva turca contro gli spagnuoli la Calabria ha una parte di primo piano: i turchi, che venivano costituendo degli stati discretamente solidi sopra la vicina costa africana, miravano a fare della protesa penisola una base di ponte. Di qui i colpi di mano su Reggio (una decina fra il 1512 e il 1560) fino alla grande incursione — una vera operazione militare — del 1594. E di conseguenza per gli spagnuoli la regione via via finì per riassumere, un po’ come ai tempi bizantini, il valore di fortilizio e baluardo contro gli islamici : perciò la si attrezzò di un buon numero di torri di guardia scaglionate su le coste (in totale 114, per lo più molto robuste). Ma per le plebi di Calabria, a onta della predicazione della chiesa romana che rinfocolava l’odio contro gli islamici, le operazioni dei corsari turchi devono avere preso il valore — in più di un caso — di una guerra di classe: di modo che il baluardo antiislamista della Calabria risultò discretamente sguarnito dalle diserzioni. E dagli ultimi lustri del secolo sedicesimo in avanti furono numerosi i servi del feudo che traevano occasione dalla apparizione di navi turche su le marine bruzie, per farsi imbarcare : era un modo per sfuggire il torchio baronale. I patimenti corporali e morali da cui — secondo i memorialisti di quel secolo — erano fiaccati gli schiavi cristiani, rispondono a verità: ma è anche vero che presso i turchi si aprì per molti di questi schiavi uno spiraglio di risalita sociale. E documentato che a Costantinopoli esisteva verso la fine del sedicesimo secolo, nel quartiere degli arsenali « un grossissimo casale » (così come lo definì l’ambasciatore veneto Paolo Contarini nel 1583) chiamato Calabria nuova, in onore deH’ammiraglio Ulug Alì — oriundo bruzio — che in quegli anni dirigeva con maestria la ricostruzione della flotta, e ove — con i riti cristiani — vivevano molti calabresi emigrati di loro iniziativa fra i turchi. E negli anni della dominazione spa-gnuola sono frequenti i calabresi che giungono a posizioni di rilievo presso le corti di Tripoli o di Tunisi o di Algeri, come ammiragli (ricordo Cicala) o come ministri (Sidi Mustafà a Tunisi, Hossein Kapodan a Tripoli) o come mercanti.

    Guardia Piemontese: la «porta del sangue », quella per cui irruppe nel paese la forza armata dell’Inquisizione, che massacrò nel 1561 i Valdesi.

    La cinquecentesca torre di guardia cosiddetta di Fiuzzo, davanti a isola Dino, sul litorale di Praia.

    Se può venire naturale di pensare che fino al diciottesimo secolo gli impulsi di quello che si usa chiamare banditismo e la evasione verso l’Islam sian stati, per lo meno in parte, fenomeni esplosivi mediante cui esprimono iniziativa e deliberazione le forze più indomite e vive di una classe oppressa, è perchè il baronaggio non consentiva diverso modo di dilatazione ai ceti rurali o artigiani. E chiaro in ogni modo che la regione misurò a quei tempi il fondo del suo decadimento. L’abate Aceti che nel diciottesimo secolo eseguì una riedizione del volume già ricordato del Barrio, vi premise un sunto di eventi che — per il secolo prima — francamente sgomenta. Per il periodo fra il 1621 e il 1694 l’erudito abate non ha da segnalare che sciagure umane o calamità naturali: nel ’21 un morbo epidemico di cui muoiono numerosi fanciulli; nel ’24 una grave inondazione del Crati; nel ’38 e di nuovo nel ’59 e infine nel ’93 rovinosi moti sismici e centinaia di morti; e specialmente fra il 1683 e il 1691 una sequela disastrosa di piogge e inondazioni nella estrema parte della penisola, a meridione della Sila, associate a freddi così rigidi da restare congelato il Crati e molte case distrutte per la neve; fra il 1672 e il 1694 diversi anni di carestia e fame paurosa; e nel 1656 e nel 1668 la peste che decima i principali centri e in modo particolare Catanzaro (ove prima della peste — portata dagli orientali nella stagione della fiera — si censivano 2657 fuochi e l’industria della seta, nell’abitato o intorno, aveva un migliaio di telari a cui erano occupate 7 mila persone; ma che dopo la peste vide la sua popolazione decurtata di un terzo, e l’industria in declino e chiusa la tradizionale fiera). Per colmare il quadro, nel 1644 la vendita ai mercanti toscani dei Casali cosentini: sventura non meno grave di quelle elencate, perchè annichiliva la base economica di uno dei principali centri.

    Vedi Anche:  Le industrie e i traffici

    E spiragli di aurora non si sa dove cercarli: pure il focolaio cosentino di erudizione umanistica nato con gli aragonesi e da cui in pieno rinascimento era venuto il Telesio a rompere il vieto cerchio delle convenzioni scientifiche e a rivendicare la libertà dell’indagine speculativa e a spiegare coraggiosamente la natura secondo i propri princìpi, si era svuotato di ogni animazione. E il più giovane seguace di Telesio, ben più robusto per vigore speculativo, il Campanella, languiva nel trentennale carcere con cui la Spagna aveva posto fine alla sua congiura (1599): al suo disegno cioè — permeato di schietta forza contadina — di riscattare la povertà della regione con una predicazione appassionata e il miraggio di uno stato comunista.

    La torre di guardia cinquecentesca di Torre Melissa.

     

    Baroni indebitati e plebi oppresse

    In realtà non è forse esagerato dire che quasi ogni cosa, dopo gli ultimi lustri del secolo XVI, crolla o deperisce in Calabria: pure la popolazione si contrae — ma i dati relativi a noi pervenuti sono minori del vero, e quindi da ritenere con cautela e utili solo a una certa orientazione, in quanto desunti da enumerazioni a scopi fiscali, a cui la popolazione aveva la naturale tendenza a sfuggire per esimersi da onerose imposte — si contrae da 160.330 fuochi (pari a 800.000 ab.) che venivano denunziati nel 1561 e da n 1.300 fuochi (pari a più di 555.000 ab.) contati verso la fine del secolo, a 103.450 fuochi (cioè qualcosa come 518.000 ab.) nel 1648 e ulteriormente — dopo la paurosa peste — a 81.640 fuochi (cioè intorno a 408.000 ab.) nel 1661. Solo il baronaggio non crolla mai. Però nel borioso e violento baronaggio da più di un secolo si è inserito un germe, naturale quanto rovinoso: quello della progrediente indebitazione. Tranne rari casi — ad es. Vincenzo Ruffo che intorno al 1610 si era dato a iniziative di industria serica — la classe baronale non solo è abulica e ignora i problemi delle proprie popolazioni ma, in modo particolare nelle grandi famiglie — esempio i Sanseverino, i Carafa, i Pignatelli — rivela uno stato finanziario in notevole crisi (verso i termini del secolo sedicesimo ad es. Nicola Sanseverino che disponeva di introiti per 180.000 ducati, era però oberato di debiti per un milione e 700.000 ducati, e Scipione Spinelli, con 30.000 ducati d’introiti, aveva 90.000 ducati di debiti). Questi debiti, che derivano da mala amministrazione e da frodi degli agenti residenti sui feudi — che per contro si arricchiscono — e da vanità e sperperi per la vita ufficiale di corte, sono già un segno di decadimento. E va forse noverata, a motivazione aggiuntiva, la crisi finanziaria da cui, per riflesso del declino ispanico, rimasero colpiti in quegli anni i genovesi: onde isterilì quel po’ di mercatura svolta da essi per le rare vene dalla regione. Ma l’esaurimento finanziario della nobiltà si riverbera rapidamente su le comunità, vi aumenta la pressione fiscale e quindi i vuoti: a parte la umiliante condizione finanziaria di vari centri dipendenti unicamente dal re, che erano costretti a difendere periodicamente, a suon di denaro, le loro condizioni lievemente previ-legiate di non dipendere da baroni. In quanto che la corte di Napoli, per colmare le rilevanti e frequenti richieste di denaro che venivano da Madrid, di volta in volta decideva la alienazione dai demani e la riduzione in feudo — cioè la vendita — di qualcuno fra i centri che le pertinevano — specialmente di quelli meno fertili per il fisco —: ma il paese così scaduto a feudo aveva la facoltà di invocare la clausola della prelazione, cioè di riscattarsi e ricomprar la sua indominicazione al re. Operazione però veramente onerosa, che svenò in più di un caso le finanze locali: ad esempio nel 1572 Seminara si riscattò per 100.000 ducati e nel 1628 Reggio non fu in grado di procurarsi 82.000 ducati per riavere il suo comune rurale di Sambatello. In ogni modo, secondo l’inchiesta eseguita nel 1620 dal marchese di Belmonte — utile e scrupoloso rilievo « statistico » che potrebbe considerarsi come la prima « inchiesta » nel Mezzogiorno — la maggior parte dei comuni bruzi è coperta di debiti (ma per timore o intrallazzo, quei comuni non avevano denunziato i loro crediti verso i baroni!). E un’acuta, anonima « relazione » di poco più di trentanni dopo — edita dal Mercati — descrive come la violenza rapinatrice dei baroni, con la compiacente partecipazione o con la aperta complicità degli amministratori locali, è venuta via via a incamerare pure in rilevante misura quegli « usi civici » dei comuni rurali, cioè quelle terre di pascoli e boschi in proprietà collettiva, da cui i più poveri traevano rimedio alle paurose deficienze della loro condizione, insieme con una illusione di rivalsa di fronte alla autorità signorile.

    Diagrammi demografici (da rilevazioni di « fuochi ») di alcune località, nel periodo della dominazione ispanica.

     

    Diagrammi demografici (da rilevazioni di « fuochi ») di alcune località, nel periodo della dominazione ispanica.

    La zona ove questa usurpazione fu — a partire dal secolo sedicesimo — più larga e continuata, è sicuramente l’altopiano selvoso della Sila che formava una vasta regione di demani (intorno a 95.000 ha.) violata prima in rispondenza delle sue fiancate periferiche, e poi in diverse aree interne, specialmente sui fondi pianeggianti degli impluvi. Qui, a frequenti ma brevi schiarite nella foresta, aperte — fino in età angioina, se non più remota — da contadini che praticando gli usi civici a volte si creavano (nelle terre chiamate « corse », cioè libere ai pascoli) un minuscolo seminato, non cintato ed episodico, si aggiunse a fare inizio con la dominazione di Madrid, una sequenza via via più numerosa di incendi o tagli della foresta provocati da comunità religiose, da baroni o da loro avidi curatoli, per destinare le superfici diboscate ai pascoli estivali dei loro poderosi armenti. In un centinaio d’anni le superfici così usurpate ai demani — e in sostanza ai benefici di pastura collettiva e ricolta del legno minuto e semina occasionale per la popolazione cosentina — risultano perciò fortemente cinte di « difese » abusive (verso il 1780 l’ampiezza delle terre chiuse, nella regione della Sila, è di 86.000 ha. per un decimo destinati a colture di cereali, ortaglie e lino). Da qui sorgono liti ingarbuglia-tissime e interminabili — iniziate nel 1534 e culminate nel 1687 (con una soluzione che rese praticamente stabile l’occupazione feudale) e poi ripigliate nel 1752 e infine nel 1782 — contro gli usurpatori, da parte delle comunità spogliate del godimento dei tradizionali usi civici, e dal fisco del re che aveva nella regione diverse privative (una sulla raccolta delle nevi, smerciate per fare sorbetti; una su l’estrazione della pece ; e in particolare alcune « camere riservate », cioè boschi chiusi e destinati a fornire legname per la marina reale e per quella mercantile). Per due secoli e più quindi, la regione della Sila sarà agitata da queste liti, che l’esasperazione contadina porta verso il moto sociale o risolve, nella sua primitività, con il brigantaggio. L’anonima relazione edita dal Mercati descrive così — intorno al 1650 — la plebe di queste zone: « la gente di bassa mano non può essere più miserabile. E nata e destinata agli stenti.

    Bernardino Telesio (1509-1588).   

    Tomaso Campanella  (1563-1639).




    Vive di tristo pane e di pura acqua. Per occasione di nulla si mettono alla strada e la vicinanza della Sila, dove sono infiniti ridotti per simil gente disperata gli invita ai ladronecci e alle rapine, le quali per la provincia sono frequenti in modo che nissuno ardisce cavalcare da un luogo a l’altro senza la scorta d’huomini armati ».

    In così lacrimevole quadro — che gli studi del Villari e del Cingari sono venuti negli ultimi anni a lumeggiare bene — la regione vive fino verso la metà del diciottesimo secolo, quando con la devoluzione del reame meridionale alla famiglia Borbone (Carlo III giunge a Napoli nel 1734) la Calabria può avere l’impressione che un po’ della nuova aria portata dai nuovi regnanti con le riforme civili, giunga fino a lei. In realtà così sgretolate e depresse erano le condizioni della regione che a poco valsero le buone iniziative: la Calabria ignorò per più lustri strade carrozzabili e ben sistemati porti — e già il disordine idraulico e superficiale della sua montagna dava segno di delinearsi in modo imponente per il progredire della richiesta di terra da coltivare da parte delle sue popolazioni, aumentate via via di numero (pur fra il falcidiare di calamità naturali e morbi epidemici) nel torpore dell’ultimo secolo: il letto della povertà, si sa, è fortemente prolifero. Questo aumento demografico per cui la popolazione a metà del diciottesimo secolo si era già portata a un po’ meno di 650.000 ab., e nel 1775 sfiorerà i 725.000, ebbe come conseguenza una, non dirò rivalutazione (chè il suo valore intrinseco rimase quello che era) ma una dilatazione topografica della agricoltura e una contrazione dei pascoli — che furono in larga misura conquistati dai seminati — e in modo più notevole una riduzione della foresta che fu aperta per far spazio ai campi sui versanti dei rilievi e, in forma meno episodica di uno o due secoli prima, sugli altopiani. (Ad es. fino dal 1525, per migrazione dei contadini dei Casali intorno a Cosenza, fuggenti la inumana pressione fiscale, si era venuto costituendo in Sila, a un migliaio di m. di altitudine e a fianco del monastero gioachi-mita, il villaggio di San Giovanni in Fiore che dopo due secoli aveva già 4.000 anime. E la medesima migrazione aveva dato origine, qualche km. più a nord, al villaggio di Savelli — parimenti elevato — che a fine del diciottesimo secolo accoglieva 1.800 anime). Questo espandersi dei coltivi non ebbe però per riflesso la formazione di una proprietà agricola media, fornita di capitali e atta perciò a influire nella vita agricola regionale.

    Montalto Uffugo: la facciata della chiesa madre con portali di pietra del sec. XVIII scolpiti da maestranze locali

    L’instaurazione borbonica: si profila una vaga forma di borghesia rurale

    La crisi del baronaggio — una crisi che dilaga dopo la instaurazione di Carlo III e determina per lo più in quella classe una dichiarata ostilità a ogni iniziativa tendente a una limitazione o modificazione dei diritti feudali, anche quando tale operazione potrebbe aver mutato a poco a poco il feudo in libero possesso — consente invero, nei principali centri specialmente, una migliore configurazione (e nei centri minori una prima nucleazione) della borghesia, che finora era stata molto trascurabile cosa. Ma la borghesia bruzia — come quella della maggior parte delle regioni meridionali — una volta uscita dal vivaio rurale, o preferiva rivolgersi alle professioni legali o, se aveva inclinazione a qualche impresa economica, si limitava a esercitare affitti o appalti e più abitualmente prestiti a larga usura : quindi la sua spinta per una apertura della vita economica regionale fu debole, per non dire inavvertibile. A guardar bene, tale classe non aveva neanche, quando nel corso del secolo XVIII prese a delinearsi meno nebulosa-mente — nè per lo più ebbe agli inizi del secolo seguente, quando progredì in forte misura — la minima idea di mutare, nelle strutture agricole bruzie, gli antiquati rapporti di produzione e inaugurare forme di coltivazione più moderna. E via via che la vita agricola, in modo diretto o mediante affitti, si trasferì in sua mano, le condizioni dei contadini si inasprivano, perchè diveniva più pesante e vigile nei riguardi di questi l’amministrazione dei nuovi conducenti (che non di rado uscivano da famiglie di agenti baronali) e perchè furono istituiti più duri sistemi di ripartizione della produzione (verso la fine del secolo appaiono frequentemente dei contratti in base a cui i proprietari riscuotevano per lo meno i 2/3 della produzione totale di un anno). In ultima analisi, per una rilevante parte della borghesia l’ambizione principale era di giungere a vivere more nobilium (nel caso migliore comprando un feudo con relativo titolo).

    Rimaneva e doveva perciò durare a lungo il duro conflitto, vecchio di secoli, fra la proprietà latifondistica — in mano dei baroni o del clero, ma praticamente esercitata da affittaioli e agenti e a poco a poco ora passante in mano di questi ultimi — e la minima, povera proprietà contadina originata da enfiteusi: una polvere di campi, di pochissimo valore economico. Ciò non esclude che l’abbastanza lunga fase di tranquillità con cui s’apre il secolo della instaurazione borbonica, porti qua e là ad una timida ripresa di lavoro, specialmente nei centri. Un viaggiatore inglese, Henry Swinburne, che viaggiò minutamente nel maggio 1777 per i paesi della zona ionica, da quelli della pianura sibarita a Reggio, e l’anno dopo — provenendo da Messina — rimontò la penisola per via di terra da Tropea a Nicastro, a Cosenza, a Castrovillari ecc. fino ai confini settentrionali del temuto Campo Tenese, poteva notare una qualche animazione di industrie locali (setifici fra Villa e Reggio, nei villaggi del Poro e nei villaggi catanzaresi, lanifici a Taverna, Morano, Tropea, lavorazioni di ceramica domestica a Squil-lace, Nicastro, Seminara ecc.) che, pure non costituendo una novità — in quanto conseguivano risultati economici umili a paragone di quello che era stato l’artigianato ai tempi aragonesi — dimostrano però che lo squallore della amministrazione iberica non aveva ovunque spento ogni vitalità. Ma l’industria serica non si era più riavuta dal declino risentito nel corso de l’ultimo secolo: localmente la rarefazione del denaro — ora in genere investito a comperar terre frumenticole — e poi le gravità fiscali e gli aumentati abusi dei baroni che proibivano ai contadini di smerciare a lor libertà la seta, ed esteriormente la spaventevole crisi di Messina — conseguente alla rivolta antispagnuola del 1674 — che fermò per alquanti anni il traffico della seta della Calabria, l’avevano infiacchita e impoverita: intorno al 1785 a Catanzaro, il numero dei telari in opera era di 270 (da un migliaio — come si è visto — di un poco più di un secolo prima) e la produzione più raramente usciva dai porticciuoli bruzi.

    Aieta: resti della facciata del palazzo dei marchesi Cosentini (sec. XVI). Eì l’esempio più elegante di costruzione signorile rinascimentale in Calabria.

    Terranova di Sibari: rovine del palazzo (secolo XVII) dei prìncipi Spinelli.

    Però in questi porticciuoli, dopo il 1750, un certo traffico aveva ripreso: la Calabria era priva di vie carrozzabili — che la vecchia via longitudinale romana era a poco a poco scaduta dopo la conquista angioina a una pista mulattiera — ma aveva, lungo il suo amplissimo giro di riviere, un notevole numero di scali, per lo più scarsi di arredo ma discretamente adeguati per le esigenze di questa età: Diamante e Paola, Pizzo e Tropea, Gioia e Scilla sul lato occidentale, e su la costa ionica Reggio e Soverato e Crotone sono, nel secolo XVIII, porti di carico per minuscole partite di seta e più rilevanti quantità di olio (di frequente raccolte nei mercati un po’ interni : come a Vibo e Catanzaro la prima, a Seminara e Corigliano il secondo) e qualche volta per le uve da tavola (tipicamente Scilla). A Crotone confluivano pure i formaggi e le pelli delle mandrie incrocianti fra la Sila e i litorali di Marchesato, e il legname silano, che venivano mandati ai porti francesi o a quelli veneti.

    Il cataclisma del 1783 dischiude la Calabria ai problemi della cultura civile

    Ma la catastrofe sismica iniziata il 5 febbraio e continuata fino al marzo 1783, che colpì specialmente la parte meridionale della penisola distruggendo in modo integrale o parzialmente qualche centinaio di villaggi e danneggiando inoltre in modo grave le proprietà rurali — sconvolti i campi, perduti i raccolti, disarginate le fiumare, scomparsi in gran numero i trappeti ecc. — e rovinando il volto urbanistico, ispirato ai moduli aragonesi, che ogni glomerazione (in ciò immobilizzando i suoi proventi rurali) si era dato con qualche ampiezza e a volte non volgare fasto negli edifizi destinati alle classi dirigenti e abbienti, fece ripiombare la Calabria in uno stato indescrivibile di anarchia e di inquietudine. Però l’entità della catastrofe mise i problemi della regione in pieno rilievo fra i cultori delle discipline naturalistiche e vi trasse specialmente geologi (come il napoletano Sarconi, il francese de Dolomieu, l’inglese Hamilton, il tedesco Munter) che ne iniziarono lo studio delle condizioni fisiche. E per altro verso provocò una sequenza di visite, di inchieste, di relazioni svolte da economisti, da giuristi, da politici e in genere rivolte ad illuminare le ragioni della vita economica chiusa e meschina e della selvatica intelaiatura sociale, riallacciando le cause naturali a quelle più propriamente politiche, come lo spirito culturale del secolo voleva. È da quegli studi e relazioni — ricordo la ottima « Memoria » per il ristabilimento delle industrie olearia e serica, con cui Domenico Grimaldi ripigliava autorevolmente i temi con acume, cura e ampiezza esaminati da quindici anni nei suoi scritti sulle condizioni dell’agricoltura locale (1769) sugli oleifici (1773) sui setifici (1780) su le situazioni idrauliche e le bonificazioni (1781) ecc., e i vari «Pareri» di Ferdinando Galiani che consistevano in un piano per la ricostruzione e il riordinamento amministrativo ed economico della penisola mediante la libera alienazione dei feudi da parte dei baroni, in modo da metter in moto la circolazione del denaro, la cui deficienza formava uno dei più pesanti elementi condizionatori della povertà della Calabria — è da queste scientifiche e illuministiche iniziative che i problemi della Calabria per la prima volta riecheggiano con autorità al di fuori di essa. Ma in verità da un po’ prima di questa data, una schematica illustrazione delle sue condizioni era stata rivelata e divulgata presso la cultura dei paesi più civili dai primi moderni viaggiatori del Mezzogiono. Dei viaggiatori d’oltralpe che la curiosità illuministica per le cose nuove stimola ad inoltrarsi a meridione di Napoli, a cui s’erano fermati i viaggiatori del rinascimento (e ancora nel 1802 uno scrittore francese, il Creuzé de Lesser dichiarava che « l’Europe finit à Naples, et même elle y finit assez mal : la Calabre, la Sicile et tout le rest est de l’Afrique ») lo Swinburne, che ho già ricordato, è stato sicuramente quello che guardò meglio nella vita sociale. Ma prima di lui, nel 1771 aveva già dato qualche buono schizzo sulla Calabria (specialmente ionica) il von Riedesel — ad esempio la lugubre descrizione di Crotone, circondata da un deserto di steppa malarica: « il più infelice paese d’Italia e forse del mondo » — e dopo lui, nel 1778 l’abate di Saint Non le aveva dedicato, sia pur coloristicamente, una minuta descrizione. E negli anni seguenti, pur fra le rovine del sisma, un’informazione discretamente precisa e insieme sobria, sarà fornita dai viaggi un po’ rapidi ma nuovi per la motivazione — vedere cioè fino a che punto sian selvaggi i bruzi — di un tedesco: il Bartels (nel 1786) e di un inglese: lo Hill (nel 1791).

    Fiumefreddo: rovine del palazzo (sec. XVII) dei prìncipi Pignatelli.




    Paola: palazzetto baronale del sec. XVIII



    La corte borbonica, da parte sua, credette di curare la catastrofe contingente e le dure conseguenze di molti secoli di caos, con la istituzione di una speciale « Cassa » (detta « sacra » perchè formata con la requisizione di beni e rendite della chiesa romana, che aveva in proprietà un sesto per lo meno della Calabria meridionale) a cui assegnò il compito di dividere equamente fra i coltivatori non proprietari i beni incamerati e di giungere a una migliore ripartizione dei gravami fiscali (fino a quel tempo ricadenti in notevole parte sui ceti miseri) e di iniziare a metter in opera quei lavori di utilità comune (strade, ponti ecc.) che erano stati invano caldeggiati da una cinquantina di anni in qua. Ma la perfida gestione finanziaria e la deficienza di un piano razionale di lavoro costrinsero l’impresa a rovinare in mezzo a contrasti d’ogni genere. In realtà, giovandosi del totale scompiglio sociale e degli intrallazzi dei procuratori fiscali che avevano parte nella gestione della Cassa, l’unico gruppo che ne trasse un utile fu la borghesia che — più dei baroni indebitati — potè fare in questa occasione gran raccolta di terre, con i sistemi meno onesti. E perfino la costruzione di una carrozzabile regionale, reclamata fortemente dai più noti economisti — e insieme dalle popolazioni — come il rimedio più urgente e utile per lenire le pietose condizioni agricole del Bruzio, non ebbe che un breve inizio con la apertura di una prima sezione — che però si fermava a Lauria, cioè a nord dei confini settentrionali della regione — di quella che avrebbe dovuto formare la strada delle Calabrie, da Salerno a Reggio, in parte sul tracciato della via romana. L’esecuzione di questa via in Calabria sarà opera del regime napoleonico.

    San Bruno: i resti della Certosa (fondata nel 1094), e precisamente la facciata della chiesa, riedificata nel 1595 e rovinata dal sisma del 1783. Notare i pinnacoli ai due estremi del timpano « ruotati » per effetto del moto sismico.

    Ma se per dure consuetudini, per disordini e abusi e favoritismi nelle cose governative, per violenza delle classi dirigenti e per reiterate calamità naturali la vita rimase lenta e opaca sì che verso il declinare del secolo (nel 1791) il Galanti aveva una impressione fortemente negativa della Calabria e poneva in un unico fascio villaggi e città del Bruzio — giustamente, perchè una disparità di vita fra centri e contadi non era appariscente — e assomigliava Catanzaro ai centri mediocri delle Puglie e descriveva Cosenza come un borgo poco men che selvaggio, è pure a dire che la borghesia veniva a poco a poco avanzando per forza economica, anche per il motivo di aver saputo esprimere dal suo seno un nucleo non trascurabile di uomini colti mediante cui era pervenuta al controllo della vita comunale — ponendo in secondo piano una parte della nobiltà locale —. Per quanto resa florida in molti casi da poco scrupolose speculazioni a scapito dei patrimoni della Cassa, nella zona meridionale, e con depredazione dei demani silani, nella zona settentrionale, tale classe non di meno desidera conseguire una migliore qualificazione delle sue strutture: nel ricambio di una o due generazioni si può irrobustire con l’ingresso di molti legali e notari, di diversi medici e farmacisti, di alcuni periti rusticani e urbani (e a Catanzaro pure di qualche negoziante e di qualche abile artigiano serico) e verso la chiusa del secolo manda i suoi figli a frequentare gli studi universitari a Napoli — ove molti di quei giovani conoscono le nuove correnti della cultura europea e vi si infervorano. Ma in loco, continuando un modo di operare comune al baronaggio, la borghesia converte abitualmente a suo favore la legge a forza di denaro o di soperchierie, non di rado corrompe i giudici e distrugge quindi ogni idea di diritto (sono parole di Giuseppe Spiriti, un acuto scrittore locale del tempo), e poi domina con mentalità schiavista le classi contadine, e toglie loro perfino — con l’avocazione delle proprietà dei conventi e dei monasteri — le numerose e non certo inutili istituzioni di carità da cui la popolazione più misera aveva prima desunto non dimenticati benefizi. Si crea a questo modo una grave frattura, un pauroso iato fra la borghesia — cioè i « galantuomini » — e la base contadina, che giunta alla disperazione è dominata in quegli anni verso i « galantuomini » da una acerba, rudimentale, cupa inimicizia. E questa inimicizia esploderà nei duri e sanguinosi conflitti del 1799.

    La conquista napoleonica: l’eversione della feudalità

    La rivoluzione francese, con i suoi riflessi meridionali — e pur tra la fanatica opposizione delle popolazioni rurali, che vedevano nei francesi gli amici dei temuti e osteggiati « galantuomini » e che iniziarono, specialmente sui monti fra il bacino del Lao e l’istmo mediano, una forma di primitiva guerriglia a cui fu dato un po’ sbrigativamente, nei rendiconti francesi, il nome di banditismo — aprì anche per la Calabria una storia nuova: il cui primo, veramente autorevole segno fu l’emanazione nel 1806 della legge sulla eversione dei feudi. Questa doveva sancire — con la eliminazione giurisdizionale di quelli — la fine del regime feudalistico e aiutare, con la nuova destinazione dei suoli costituenti i feudi, il risveglio delle forze popolari. Due anni dopo la legislazione eversiva fu perciò completata da una che regolava le spartizioni — o quotizzazioni — dei demani usurpati dai baroni e specialmente dei complessi feudali, e poi le sistemazioni fondiarie e le costruzioni di unità residenziali — cioè villaggi — per contadini (a tale riguardo è da ricordare il piano per la creazione di villaggi rurali nella Sila, che però non potè in quegli anni attuarsi per l’ampiezza dei problemi agricoli, idraulici e viabili inerenti). La spartizione delle terre feudali, veniva quindi stabilita ad uso della popolazione povera, di qualunque professione — anche l’umile artigianato, che era fortemente inserito nella società rurale — nella misura minima di due tomoli a famiglia (meno di un ettaro): e una parte a volte non lieve — come in Sila — dei demani fu conservata per gli usi civici di pascolo, raccolta di legna ecc. L’assegnazione delle quote ai proletari fu alquanto spedita: ma per la brevità della dominazione napoleonide, l’ideata riforma rurale non potè conseguire i risultati sperati: le quote erano in genere di minuscola superfice, nude di alberi e prive di vie, e di frequente avevano giacitura in zone aride o argillose. E quando le condizioni erano migliori, coltivarle poteva diventare conveniente solo con una piantata d’alberi (viti o olivi) che però richiedevano una sistemazione a terrazzi o opere di viabilità: ma le classi rurali erano prive di capitali e potevano fare ricorso solo a quei crediti a strozzinaggio che la deficienza di denaro in circolazione causava. Quindi un poco per volta, o perchè la «quota» non dava una produzione in frumento bastevole per la famiglia o perchè allettò la povera gente il fascino del denaro sonante, un discreto numero di contadini (in modo particolare dopo il 1820) mise in vendita le sue quote, e di conseguenza la borghesia potè iniziare una nuova fase di raccolta di terre, per via di facili compere. Questo fenomeno di ammasso fondiario fu notevole specialmente nel Marchesato e più o meno ovunque su le ondulazioni terziarie del versante ionico, e pure in diverse aree delle piane occidentali (es. quelle di Rosarno e di Scalea) e degli altopiani meno rilevati (es. il Poro). E così la proprietà dei galantuomini radicò più fortemente il tradizionale latifondo: quello che rimase in vita fino a qualche anno fa e da cui poi in qualche zona, come ad esempio nel distretto di Crotone, derivò il latifondo a subaffittanze minime (« tenagghia ») che in termini economici è più iniquo, cioè più inefficiente del primo.

    San Bruno: i resti del chiostro della Certosa (sec. XVII) distrutti dal sisma del 1783.

    Le zone economico-agricole in età napoleonica nei due dipartimenti di Calabria, secondo l’inchiesta statistica coordinata da Luca Samuele Cagnazzi nel 1812 ed edita nel i960 da U. Caldora.

    Se i risultati economici della eversione della feudalità furono così diversi da quel che si era sperato — per la immaturità agronomica e la povertà di quanti fruirono della originale spartizione dei beni feudali — rimase però il germe in quegli anni seminato, e il miraggio della terra in proprietà personale agì per più di un secolo energicamente sugli animi dei contadini (partecipando pure fra i motivi che dopo il 1875 li avrebbero spinti in folla oltreoceano) perchè le novazioni napoleoniche avevano creato una situazione da cui non si poteva regredire, come ha lucidamente posto in rilievo un recente studio del Caldora. E infatti il ritorno dei vecchi governanti dopo il 1814 non segnò la fine dell’istituto della quotizzazione, per la ragione che i benefici di tale istituto volgevano ora chiaramente a una direzione diversa da quella che gli avevano dato i napoleonidi: volgevano cioè a favore di quei galantuomini che, dopo il ’15 e per lo meno fino al ’40, furono in realtà le più salde basi della autorità e dello stati-cismo borbonici. I cinque o sei lustri che, dominati da questa classe, portano verso gli anni della unificazione nazionale, sono in Calabria di miope e misera tranquillità, o meglio di stagnazione sociale, pur tra fermenti di natura istituzionale (la Carboneria ha qui uno dei più operosi focolari e i moti del ’21 vi si riflettono in modo rapido e con calore, e sono spenti solo dalle esecuzioni di Catanzaro del ’23) e a volte conati di rivendicazioni contadine, da cui uscirono qua e là azioni locali di qualche rilievo (il cui eco però si ingrandì trascorrendo verso il nord della Penisola e richiamò le sfortunate spedizioni dei fratelli Bandiera nel ’44 e nel ’57 quella del Pisa-cane). Questa perdurante chiusura, impastata di selvatica dignità e timidità — come si rivela ai viaggiatori forestieri (ad es. a Edward Lear nel ’47) — fu la migliore condizione per alimentare la favola (divulgata nella sua miglior versione dal Courier nel 1806) della Calabria come regione di briganti feroci e pittoreschi: favola perchè, se pur atti di guerra simili per stile a selvaggi colpi di mano di briganti — ma in realtà istigati da fautori del Borbone — vi furono negli anni della occupazione francese (ad es. nel 1807 a Campo Tenese) però i viaggiatori del Bruzio dopo il ’15: e cioè il lombardo Giuseppe Sacchi nel ’38, e gli inglesi R. Keppel Craven nel ’21, A. J. Strutt nel ’41 e il già ricordato Lear sei anni dopo, per quanto paurosi di incontrarli, dichiarano di non aver sentito neanche l’odore di un vero brigante.

    Le nuove classi: galantuomini e contadini

    Ma in tale stagnazione la borghesia — ora già discreta di numero — più per i suoi domestici e correnti bisogni o con le sue paesane ambizioni, che in virtù di sue iniziative, dà animo in ogni centro a quelle forme di tradizionale artigianato o minima ed esclusivamente locale industria, che — come si è già visto — non erano ovunque svanite e ora avevano pure la facoltà di una mediocre rinascita per i benefici fiscali interni e per la protezione daziaria ai confini dello Stato, che limitava l’ingresso dei manufatti concorrenti dal nord Italia e dai paesi di oltralpe. Per merito di questi antiquati orientamenti economici il numero delle imprese artigianali aumentò in modo rapido in Calabria, e molte fra le più tipiche — cioè l’industria serica, specialmente nella parte meridionale della regione e nella valle del Crati, e la laniera fra Catanzaro e Rogliano in modo particolare, così come la lavorazione dei vini e in misura più forte degli oli nei paesi della costa, e poi l’estrazione del liquame radicale di regolizia nel Marchesato, del sughero nelle boscaglie del fianco meridionale silano, del sale intorno a Lungro ecc. — si risvegliarono un poco, almeno nei quantitativi di produzione, dalle oscurità fra cui si erano perdute negli ultimi secoli : ma non videro la minima miglioria nelle strutture, cioè nei sistemi e nelle apparecchiature di lavorazione (a meno che in qualche industria sostenuta con denari inglesi, come la serica di Villa San Giovanni, da cui intorno al 1860 uscivano 2000 q. di filati annualmente). A queste già tipiche branche di operosità si era aggiunta però, fino dal 1782, un’impresa di siderurgia per iniziativa statale (e che quindi viveva in funzione di forniture militari) nell’altopiano delle Serre, con i due opifici di Mongiana e di Ferdinandea che lavoravano la limonite dei giacimenti del monte Stella, traendo dai prossimi boschi di faggio e di abete il carbone per riscaldare i forni e le macchine a vapore, con una produzione di 1500 t. di ghisa e di ferro in verghe e di 600-700 t. di proietti in palle, annualmente.

    La valle del Crati presso Terranova, poco a monte della piana di Sibari.

    Crotone: il baronale palazzo Barracco.

    E così, a parte il migliaio di persone legate a questa industria pesante — che invero, per la sua costituzione doveva poi sentire facilmente l’eco degli eventi politici — si può stimare (con l’aiuto di diverse fonti locali) a per lo meno un ventesimo della popolazione operosa della Calabria quella addetta, negli anni fra il ’40 e il ’60, alle produzioni locali di beni d’uso: cioè (esclusi rari casi) a un autarcico artigianato. Una forma economica in sè e per sè forse dotata di qualche stabilità, ma chiusa, rudimentale e ritardatissima, di cui l’unificazione nazionale dopo il ’60 e l’apertura di una rete sia pur elementare di strade, provocò alquanto bruscamente una crisi. Secondo una recente relazione del Cortese, si può parlare quindi, per la vita in Calabria negli anni fino al 1860, di un incronichirsi — molto più sentito ora, dopo la fertile ventata napoleonide — della vecchia asfittia economica della regione. Più sentito dalle classi della nuova borghesia, che verso il ’40 ebbe le prime avvisaglie della crisi cerealicola da cui rimase colpito negli anni seguenti il mercato meridionale, e che dal deciso ampliarsi dopo il ’52 di tale crisi al mercato serico e laniero ricavò un convincente stimolo per orientarsi — almeno coi suoi elementi più maturi — in favore dell’unificazione col progredito reame subalpino.

    Perciò le condizioni di penosa primitività fra cui viveva buona parte della popolazione di Calabria iniziarono a risultare ora con più chiara e cosciente sagoma: i viaggiatori che ho dianzi ricordato e gli scrittori bruzi di questo periodo — che, meno rari di prima, si volgono a esaminare e discutere i problemi economici regionali di maggior rilievo : cito ad es. L. Grimaldi, G. A. Pasquale, V. Padula — scrivono che i contadini di Calabria dimorano abitualmente in case di « terraloto », non mangiano pane di grano, conoscono la carne solo nei giorni di grande festività (quindi due o tre giorni l’anno), si cibano specialmente di legumi, ignorano gli strumenti agresti e « uniche armi loro sono [come venti secoli prima] il digitale, la falce e la forca quando si miete, la zappa, la vanga e la scure quando si semina ». Era, come la descrive il Padula da cui ho desunto le ultime parole, una società decisamente ripartita e fasciata nelle sue gerarchie — da cui pure l’interno della famiglia veniva coordinato —  : i galantuomini in alto, i loro agenti in mezzo, qualche gradino più giù i massarotti che pigliano buoi o terre in affitto dai primi, e sotto i mezzadri a conduzione parziaria —    ora torchiati ben più di cinquantanni prima — e in condizione più miserabile i braccianti (« vi mostro un Cristo di carne » esclama il Padula descrivendo la loro vita) insieme ai giumentari, pastori ecc. in continuata, squallida migrazione con le stagioni, dai monti alla costa e da questa ai monti. In realtà la storia nuo^ della Calabria — quella che scuoterà a poco a poco queste feudali strutture — è iniziata solo quando a metà di agosto 1860 Garibaldi sbarcò a Melito, e in quindici giorni la penisola bruzia si liberò dai presidi del Borbone.