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Le industrie e i traffici

    Le industrie e i traffici

    Se l’illustrazione delle condizioni agricole ha richiesto notevole spazio, è per il motivo che — una volta iniziato (e in qualche zona, come si è visto, è già iniziato) il superamento della povertà e delle contraddizioni odierne della vita agricola — la rinascita economica della Calabria può venire probabilmente con maggior stimolo da un perfezionarsi e riordinarsi, fino a un grado di razionalità moderna, della sua agricoltura. Cioè da un industrializzarsi della vita agricola, più che da una dilatazione industriale vera e propria, che fino a ora ha avuto deficienza di energie finanziarie e di personale qualificato e di cui sono state riconosciute — almeno per lo stato odierno della tecnologia — limitate vocazioni nelle condizioni naturali della penisola: l’esperienza di molti secoli confermata da recenti studi (da cui è desunta la figura a pag. 375) ha chiarito che in Calabria esistono minerali di ogni genere, ma — meno che per il sale di Lungro e il piombo e lo zinco dei fianchi orientali della Serra e della Sila — in riserve o quantità per lo più non forti e in condizioni di lavorazione onerose. Tali cioè che fino a qui — come ha rilevato giustamente il De Soultrait in una inchiesta edita nel i960 — solo in fasi di vita economica chiusa, e con l’aiuto e il sostegno di fonti finanziarie governative, fu conveniente il loro uso. E va infine aggiunto che dei minerali che negli ultimi anni si sono portati alla ribalta della operosità industriale, poco possiam dire per la Calabria: la scoperta dal 1952 in qua di sicuri indizi metaniferi nel rilievo terziario fra il Neto e il Trionto (specialmente a Cariati) così come intorno a Castrovillari non ha dato la spinta, per ora, a una più sistematica fruizione a fine industriale, e niente si sa ufficialmente dei risultati delle ricerche che — iniziate verso il 1955 — mirano ad identificare l’aliquota e a stimare la rendibilità del minerale d’uranio nei grandi rilievi granitici bruzi (per quanto a qualcuno non paia arrischiato prevedere che la produzione della energia nucleare sarà prima o poi di incitamento alla riapertura di già noti giacimenti di grafite, deserti dal 1950, in comune di Monte Rosso in Angitola).

    Anche per questi motivi, umile e rara è l’industria in Calabria: e quella a cui si dà il nome generico di industria lega a sè non più di un decimo della popolazione operosa della regione: cioè 69.000 persone nel 1951, e poco più di 74.000 nel 1961, per 3/4 occupate in imprese estrattive o di manifatture, e per 1/4 in imprese di costruzioni. Ma di tale contingente — che nel 1951 equivaleva a 1,6% degli addetti a industrie e impianti in Italia e che nel 1961 si è ulteriormente depresso a 1,3% — i 5/10 lavorano in aziende di meno di 10 addetti e i 3/10 in aziende che richiamano da 10 a 20 addetti: perciò la maggior parte della mano operaia della Calabria non è in realtà industriale, ma artigianale. E di veri stabilimenti industriali, la Calabria ne ha in questi anni unicamente una decina, con una occupazione in totale da 3.600 a 3.800 persone: pari a 5 per mille della sua popolazione operosa.

    Varietà di industrie fino a età risorgimentale

    Pare strano: ma la penisola bruzia era fra il 1780 e il 1860 la regione più densa di industrie locali del meridione, dopo le zone di Napoli, Caserta e Salerno: e fu un po’ di anni dopo l’unificazione nazionale, che l’industria locale iniziò a declinare. La Calabria oggi non ha siderurgia: ma l’aveva nel corso del Risorgimento quando l’iniziativa della corte di Ferdinando IV creò tra il 1782 e il 1783 un centro siderurgico non trascurabile nella regione della Serra, con i due opifici di Mongiana e di Ferdinandea, che lavoravano il minerale di ferro proveniente dal giacimento sul versante nord orientale del monte Stella. Come si è già avuto occasione di dire a pag. 193, i due opifici, a un migliaio di m. di altitudine e fra quei boschi di faggio e di abete che fornivano il materiale per riscaldare gli altiforni, erano stati impiantati con discreta ampiezza e razionalità di criteri e disponevano nel periodo di maggior fortuna, cioè fra il 1830 e il 1850, di 4 altiforni, macchine a vapore, trombe eoliche, locali di deposito per il minerale e il carbone di legna, case per addetti —    che erano intorno a un migliaio — locali di sperimentazione, affinerie, maglietti, e uno stabilimento per la produzione di armi: e la produzione loro (che negli ultimi anni della gestione napoleonide aveva superato le 2.000 t. di grezzo e le 500 t. di fine) colmava per 1/4 i bisogni di ferro del reame meridionale (il resto veniva importato). Ma punto debole della industria diventò a poco a poco la sua ubicazione: una ubicazione — si guardi bene — molto giustificabile quando il minerale veniva fuso con carbone di legna (come si usò anche nella siderurgia del nord Italia fino agli anni della unificazione nazionale) ma sfavorita quando si iniziò l’adozione del carbone minerale. Poi si aggiunse il rapido esaurimento dei boschi, e infine la contrazione della limonite di Pazzano. Di guisa che verso il 1863 l’impresa fu chiusa: come già si erano spente da vari lustri le aziende per la lavorazione di giacimenti di argento nel bacino silano del Trionto, di piombo a Grotteria e Bivongi, di rame nelle valli meridionali di Aspromonte e sui fianchi della Montea a San Giusto e San Donato, di carbone fra Briatico e Tropea, di grafite a Olivadi e a Polia, di manganese intorno a Squillace, di nitro a Gioiosa e a Siderno, di mercurio a Mileto ecc. che erano state favorite da Carlo III dopo il 1748 e rianimate dai francesi fra il 1808 e il 1812.

    I minerali utili della Calabria. Non figurano segnate le aree con probabili giacimenti di metano, perchè scarsamente noti fino ad ora sono i risultati scientifici delle ricerche a tal riguardo iniziate nel dopoguerra. Il risultato più notevole agli effetti di un uso economico, è stato quello di una falda di metano a 440 m. di profondità, scoperta in agosto 1964 con una trivellazione operata sul delta del Fiumenicà, 6 km. a est di Cariati.




    Una segheria nella Sila cosentina.

    E delle industrie già progredite, prima della unificazione, nella lavorazione dei minerali, rimane florida ai nostri giorni unicamente quella di estrazione del sale minerale a Lungro, da un giacimento ai margini del rilievo calcare del monte Pellegrino che era già noto ai romani ed ebbe qualche uso in età normanda (nel 1145 il conte di Bragallo — odierna Altomonte — assegnò una soma al mese di minerale della propria salina al monastero di Acquaformosa) e in età iberica (vi fa parola il Barrio che nel 1571 — opera cit., lib. II cap. 3 — scriveva: montes sunt nativi salis candissimi, quod lapicidinarum modo caeditur, est pellucidus, densus, concretione sua aequalis, nec lapidosus, intus gemma est salis candidi et translucidi). Ma una metodica e disciplinata lavorazione vi iniziò solo coi napoleonici nel 1812, e dopo una fase di meno regolare escavazione fra il 1825 e il 1860, migliorò verso il 1880 con l’adozione di più perfezionati strumenti di perforazione e di areazione. Ora il giacimento è aperto e scavato su cinque piani di cunicoli (il primo fra 70 e 100 m., il secondo da qui a 130, il seguente fino a 170, il penultimo fino a 200 e il più fondo a 220 m. dalla superfice) e dà lavoro a 300 operai e una produzione di 100.000 q. in media annualmente, desti nati ai bisogni della regione. (In grande declino invece sono i giacimenti di zolfo sparsi per il rilievo miocenico del Marchesato, fra i fiumi Tacina e Lipuda, e spe cialmente in comune di San Nicola, ove non lavorano più di 200 uomini e da cui si ha un’estrazione di 18.000 t. annualmente).

    E oggi la Calabria — se non si tien conto di qualche nuova e fortunata impresa, fondata a iniziativa non di locali, bensì di operatori del Nord in quest’ultimo dopoguerra — ha quasi perduto una industria tessile: ma l’aveva florida e divulgata fino a una quindicina di lustri fa, quando era rinomato il suo arbascio — una ruvida stoffa di lana che aveva il pregio di risultare quasi impermeabile — e Catanzaro con i minori borghi del fianco meridionale della Sila (come Rogliano, Carlopoli, Sersale) e i paesi da cui venivano gestite le maggiori mandrie migranti fra i pascoli invernali della piana sibarita e quelli estivali dei dorsi calcari diramati dal Pollino (cioè Verbicaro Morano, Altomonte, Spezzano ecc.) e gli abitati raccolti su l’altopiano della Serra (come San Bruno, Cardinale, Simbario, Spadola ecc.) erano animati da una tradizionale lavorazione di lana, esercitata in minuscoli opifici e in molte case di agricoltori, e fornivano una produzione di discreto valore per il mercato meridionale. Nè scarso peso deve aver avuto negli anni fra il 1820 e il 1850, nei paesi intorno la piana sibarita — ove se ne svolgeva una coltura — la lavorazione dei cotoni, che fu di qualche rilievo a Rossano e a Castrovillari. Ma queste zone erano rimaste largamente fedeli a sistemi operativi antiquati, su telaio a mano: e fu la mancata adozione di migliori macchine, a cui la carenza di denaro e la frantumazione del lavoro per i numerosi villaggi rurali inibiva l’ingresso, a far deperire a poco a poco, dopo il 1860, tali industrie che erano le più significative dell’area settentrionale della Calabria. La parte meridionale della regione, invece (pur dopo l’inconsiderato e amplissimo taglio dei gelsi, per far combustibile, ad opera dei soldati napoleonici) aveva conservato e favorito con apprezzabili cure e col rinsanguamento di investimenti provenienti da fuori regno — specialmente inglesi — la vecchissima e già notevole industria della trattura e della filatura della seta: ora però, fra il 1820 e il 1840 — come scriveva poco dopo il Marineóla di San Floro — l’industria serica finì di avere per obbiettivo la fornitura di materiale alle confezioni locali e si orientò fortemente alla esportazione del grezzo: quindi iniziò a migliorare i suoi modi di lavorazione per dare una produzione attagliata alle richieste degli stabilimenti d’oltralpe. E così verso il 1840 un centinaio di comuni era in qualche modo associato alla industria: a cui si dedicava un gran numero di rurali (in elevate quantità le donne) con lavorazione famigliare, e in particolare si rivolgevano vari opifici con personale operaio stabile, come quelli di Villa e dei villaggi vicini (che avevano una progredita filatura a vapore) di Catanzaro, di Nicastro, di Vibo, di diversi villaggi istmici (ad es. Curinga e Ga-sperina). Qualcuno infine se ne trovava più a nord, come a Paola.

    Prima che l’allevamento del baco denunziasse una contrazione per infestione dell’atrofia — cioè prima del 1858 — la produzione di seta grezza oscillava intorno a 120.000 kg. annualmente. Nè — a parte il mal delle petecchie, che rovinò per 2/3 le qualità meglio selezionate di baco — l’unificazione del mercato nazionale dopo il 1860, con la sua apertura liberista, colpì molto tale produzione — come invece in Terra di Lavoro, nel distretto salernitano e specialmente a Napoli — : e ciò per la deficienza di buoni porti e di spedite vie di comunicazione che — in contrapposizione allo im-magliarsi di nuove strade fra Napoli e il Nord — aumentava l’isolamento della Calabria con lo schermo degli onnipresenti rilievi e i diaframmi invernali delle fiumare e l’asperità delle coste. Ma a tenere in vita ancor per quindici o diciotto anni l’industria, fu pure la struttura domestico artigianale della lavorazione che — per l’umile tono sociale di numerosa mano operaia — consentiva condizioni salariali favorevoli agli impresari: ad esempio la paga delle filandaie era mediocrissima e intorno al 1880 sfiorava solo i 2/3 di quella abitualmente concordata nel nord Italia.

    Una industria di laterizi ai margini meridionali dell’abitato crotoniate

    La crisi dell’industria locale dopo l’unificazione

    Di modo che l’isolamento ai traffici e la depressione economica della regione furono per le lane e le sete delle sue industrie una forma di protezione « naturale », quando i primi governi nazionali infransero i dazi di protezione del reame meridionale. Vero è che nel 1878 l’Ellena descriveva quelle industrie con molto riguardo e dichiarava intorno a 3.000 persone la mano operaia tenuta dagli opifici di filatura della seta (con egual numero di bacinetti) e stimava a poco meno di 12.000 i telari domestici (con una media quindi di un telaio ogni 8 famiglie). Ma fu dopo il 1878 — cioè precisamente quando la protezione fiscale a mano a mano si rialzava per salvare o aiutare le industrie del Nord a cui l’orientamento liberista era letale — che si iniziò il declino dei lanifici e dei setifici bruzi. E prima che di un’emulazione del Nord, quel declino fu conseguenza del fatto che negli ultimi cinque lustri del secolo la Calabria si vide congiunta con il resto della penisola italica dai due tronchi di ferrovia costeggianti i mari (si rimemori che il treno è il demiurgo di quella generazione) e da una maglia un po’ meno rada di vie carrozzabili: cioè le rivierasche e le minori da queste diramate verso l’interno, per congiungersi con la vecchissima carrozzabile delle Calabrie. In realtà queste vie — e in modo particolare il treno — che stringono le prime relazioni continuate della Calabria con il centro e il nord della nazione, sono quelle per cui le produzioni industriali settentrionali inaugurano la loro penetrazione in Calabria, iniziando come è naturale dai centri principali: che però erano anche i più notevoli mercati o punti di irradiazione di quanto forniva l’industria locale. Da qui una aperta rivalità fra le produzioni industriali del Nord, che disponendo di maggior varietà di generi miravano a conquistare con i vicini mercati del meridione pure i mercati — per quanto poveri — della Calabria, e la industria bruzia che resistè caparbiamente. Ma inutilmente: verso il 1885 la produzione in bozzoli non giungeva a 20.000 q. (per 1/5 fornita dai comuni cosentini e per 1/3 dai comuni fra la piana di Locri e la riviera dello Stretto) e una metà degli opifici per la trattura serica (in totale intorno a 50) rimaneva chiusa per diversi mesi e il numero dei telari famigliari era fortemente scemato. « Vi sono dei luoghi dove le contadine che prima lavoravan in casa al loro telaio, adesso invece van nei campi a zappar la terra » (opera cit., pag. 96): e il divulgarsi della atrofia aveva spronato i proprietari dei migliori fondi — cioè i ben irrigui — nelle pianure rivierasche e sui primi terrazzi quaternari, ad abbatter i gelseti e sostituirli con impianto di aranci. Agli inizi del nuovo secolo l’inchiesta rurale meridionalista non rivela condizioni migliori: la produzione in bozzoli sfiora sì e no i 13.000 q. e degli opifici — in numero analogo a trent’anni prima (cioè 35 nel cosentino e 21 fra la riviera dello Stretto e la zona di Siderno) con un’occupazione di 3.000 persone — l’unico degno di nota è quello di Villa. In ogni modo i lanifici e i setifici della Calabria erano destinati a soccombere a poco a poco col progredire dei traffici, perchè la carenza di denaro della regione e la grettezza delle classi, pur quantitativamente minime, che disponevano di rilevanti capitali ma avevano unicamente premure agricole, impedivano di uniformare la configurazione aziendale della impresa e l’arredamento degli impianti con la evoluzione delle relative industrie nel Nord.

    Cava di argilla e manifattura di laterizi a occidente di Crotone.

    Un vasaio di Rende (nella zona dei Casali cosentini).

    Zuccherificio di Santa Eufemia.

    Le tradizionali industrie si avvizziscono in artigianati

    Perciò la rovina di quella che era stata la principale manifestazione industriale della Calabria provocò una depressione fra le classi artigianali che aprì la via a una delle correnti più numerose di migrazione. Ma a sua volta tale esodo fu ragione di una carenza di mano operaia: per cui — divenuta cara la remunerazione del lavoro materiale un po’ qualificato — rimase in vita in Calabria si può dire unicamente l’industria domestica, che aveva più stretti legami con l’agricoltura e fra le classi rurali il più sicuro mercato. È perciò che l’artigianato predomina oggi nel quadro industriale della Calabria più che in qualunque regione d’Italia: artigiani sono coloro che si dedicano a lavori di vestiario e arredamento famigliare, come falegnami e ramari e figuli ecc. (13.500 persone nel 1961, cioè il 18,2% della popolazione cosiddetta industriale della regione) quelli che lavorano il cuoio (neanche 50 persone) quelli addetti a riparazioni di macchine e attrezzi (5.300 persone, pari a 7,2% della popolazione industriale): generi di impresa, questi ora ricordati, che non esistono in Calabria in forma industriale (si pensi che nella regione operano ai nostri giorni solo cinque o sei buone aziende per la riparazione di macchine agricole). Qualcosa come 4/5 di quelli che lavorano il legno (7.500 persone nel 1961, pari a 10,2% della popolazione industriale) e 3/4 di quanti esercitano la lavorazione di minerali e ferro (in totale 5.700, cioè il 7,4% della popolazione industriale) sono degli artigiani, come lo è buon numero degli addetti a quel pochissimo che rimane delle tratture di seta — che lavorano ora da 60 a 70.000 kg. di bozzoli annualmente — e delle filature di lino (v’è un discreto impianto a Marina di Cropani, che negli ultimi anni ha avuto una produzione di 1.700 q.) o di lavori al telaio. Ciò non toglie che questi sparuti focolari di lavorazione artigianale, serica e di stoffe di lana e di lino (e inoltre l’arte del ricamo e del merletto coltivata in modo particolare nei monasteri) dian produzioni molto originali di buon gusto paesano, che negli ultimi anni sono divenute oggetto di esportazione: specialmente a Tiriolo per i merletti a tombolo, nel medesimo luogo e a Gimi-gliano per gli scialli, a Serra e a Nicastro per i tovagliati, nei paesi silani di Longobucco e San Giovanni in Fiore e lungo il litorale a Cariati per le coperte a disegni, ricalcati su schemi che si ripetono da età bizantina e sono di ispirazione orientale. Così come fini esemplari ha continuato a fornire l’artigianato del mobile, noto già da molti secoli per gli squisiti lavori di intaglio destinati ad abitazioni signorili e a chiese (ricordo quelli usciti da Taverna e da Serra in età baronale).

    Praia a mare: una veduta della zona industriale dove sorgono gli opifici del gruppo Rivetti, cioè le manifatture di lane (tessuti e filati) e di lini (tovaglie e biancheria da casa) e un’officina elettrica.




    Nella piana di Praia, formata dal fiume Noce, poco a nord degli stabilimenti industriali e a cavallo dei confini con la regione lucana si trova una grande industria agricola, creata dai medesimi capitali di quella tessile, su una superfice complessiva di 150 ettari. Consta di un allevamento di bestiame con produzione e lavorazione del latte; di un allevamento di pollame; della coltivazione in serra di fiori, piante ornamentali e generi ortofrutticoli. Le serre rivestono una superfice di 13 ettari.




    E infine, in buona parte artigianale — come in qualunque zona agricola di deficiente industrialità — rimane la manipolazione dei generi agricoli a scopo alimentare, a cui si dedicava nel 1951 il 25% e nel 1961 neanche il 21% (cioè 15.300 unità) della popolazione industriale. Tra le industrie alimentari più legate con l’agricoltura sono da ricordare un po’ meno di una cinquantina di molini discretamente moderni, ma la cui entità di lavorazione in genere non è saliente, e diversi pastifici (intorno a 20) che si adunano nei principali nodi di vie delle aree fortemente frumenticole: quindi a Cosenza i più noti, e ove una impresa richiama un centinaio di addetti — e poi a Castrovillari e Catanzaro, nei porti crotoniate e viboniate, e agli estremi meridionali intorno agli scali di Reggio (che ne ha un buon numero). Però 2/3 della farina da pastificazione, che esorbitano dal grado di capacità di lavorazione degli opifici locali, sono spediti — in particolare dal distretto cosentino — verso la regione napoletana. E artigianale è per lo più l’enologia: mi pare segnalabile solo qualche moderno impianto nella piana di Nica-stro, e il nucleo di opifici, in parte cooperativi, intorno a Ciro che dà i vini più fini della regione. E primitiva rimane abitualmente la lavorazione casearia: ma dopo il ’55 son sorti i primi razionali caseifici della regione silana (ricordo quello cooperativo di Magara, la cui veramente buona produzione di caci tradizionali vien ora largamente esportata a Roma e anche più a nord). Così pure la lavorazione delle carni di maiale è domestica e fortemente rustica — meno in alcuni comuni intorno a Nicastro — e languenti sono i rari opifici per la conservazione del pesce, di cui qualcuno (ad es. a Vibo e a Pizzo, quando la pesca del tonno fioriva lungo la riviera del Poro) ebbe fra le due guerre un quarto d’ora di vitalità. E poi scaduta ai minimi termini negli ultimi quindici anni — dopo le riconfigurazioni fondiarie dei latifondi ionici — l’estrazione della polvere e del sugo dagli stoloni della liquirizia, la cui pianta nasce frequentissima sui litorali ionici e la cui industria, specialmente intorno la piana di Sibari, aveva verso il 1850 un rilievo ora insospettabile (una ventina di opifici — ove però le condizioni di vita erano inumane — con un totale fra 1.200 e 1.500 persone addette per i mesi invernali e di primavera e una produzione fra 1.600 e 1.800 q.): oggi si noverano solo cinque o sei minuscole lavorazioni, per lo più nel Marchesato — va ricordata quella di Isola, con un centinaio di addetti — la cui produzione, smerciata per lo più negli Stati Uniti, in totale non supera annualmente i 200-300 q. in media.

    Le rare, frantumate e sparute iniziative degli ultimi cinquantanni

    Ma anche per le coltivazioni industriali divulgatesi in Calabria negli ultimi lustri è stato per ora poco agevole animare una lavorazione su piano industriale: solo la coltura della bietola ha avuto per risultato la creazione nel ’52 (si noti: con capitale locale) di un primo stabilimento per la produzione di zucchero a Sant’Eufemia, e nel ’59 di un secondo stabilimento a Strangoli: questo e quello in zone ove la bietola ha un elevato contenuto zuccherino (fra 16 e 18%). Impiantati con razionalità e bene attrezzati in strumenti di lavoro, i due stabilimenti adunano attualmente gli 8/10 della produzione regionale (nei tre mesi di operosità da fine primavera ad agosto la mano operaia è in media di 1.200 persone) e ricavano in totale una produzione da 25 a 28.000 t. di zucchero (più quantità minori di melassi — intorno a 6 o 7.000 t. — e una buona fornitura di polpe e pannelli per il bestiame). Ma dopo questi due impianti — che per lo stato industriale odierno della regione sono sicuramente degni di rilievo — non c’è più niente: l’industria per le conserve, a cui dovremmo vedere orientata una regione ove notevoli sono i raccolti di frutta e generi orticoli, è si può dire sconosciuta, e dopo la chiusura (da qualche anno) di due non volgari stabilimenti — uno nella piana eufemiate e uno a Marina di Vibo — solo una lavorazione (ma mediocrissima) esiste ora, a Corigliano, per la produzione di conserva di pomodoro.

    Invero per chi sta ai riferimenti delle statistiche, il posto di maggior rilievo fra le industrie alimentari della Calabria è tenuto da quelle olearie: ma anche qui il grado di evoluzione è trascurabile. Se si escludono una decina di opifici forniti di impianti veramente moderni — va ricordato per lo meno quello di Mesoraca — la lavorazione risulta in genere molto primitiva: il numero dei frantoi è più elevato in Calabria che nelle prossime regioni meridionali più fortemente oleicole: ve ne erano 4.220 verso il 1938 e 2.350 nel 1951, ma di questi i 4/5 a dire poco nel 1938 e i 3/4 per lo meno nel 1951 agivano per forza animale. Le inchieste del 1961 indicano il loro numero a 1.420, per la chiusura di molte installazioni minime: ma anche ora un buon quarto degli opifici sono azionati da animali e non richiedono più di 2 o 3 addetti e non lavorano al di là di 20 q. al giorno. Solo una cinquantina è in condizioni di spremere più di 100 q. di olive a giornata. E per di più la già ricordata abitudine di lasciar stagionare le olive prima di inviarle al frantoio, è motivo di una estrazione mediocrissima in qualità: gli oli veramente buoni in Calabria sono rari e di frequente la produzione locale sa di rancido o di fumo, e richiede una affinazione prima di venire immessa sul mercato. E per questo che la maggior parte degli oli di Calabria è destinata, per una finale manipolazione, agli oleifici liguri. Ma la rudimentale e inadeguata spremitura delle paste di olive nel gran numero di frantoi a trazione animale dà origine a una rilevante estrazione — in una ventina di opifici meglio dotati: ricordo quelli a Catanzaro marina, nella piana eufemiate e nelle piane di Locri e di Gioia — degli oli contenuti come residuo nelle polpe, e a una operosità propriamente industriale di elaborazione di alcuni sottoprodotti. Di questi è da citare per lo meno il furfurolo, un solvente molto richiesto dalla industria petrolifera e dei materiali plastici, per la cui produzione esiste a Gioia un moderno stabilimento — creato da un centinaio di olivicoltori uniti in cooperativa — che può manipolare fino a 250.000 q. di polpe annualmente e dà lavoro a un centinaio di persone in media.

    Ma oltre i rari casi di vera industria che la elaborazione dei generi alimentari è stata in grado di esprimere, cosa è in Calabria ad avere valore di industria, oggi? Tra gli impianti che meritano una citazione — ma si resta per ampiezza di apparecchiature e per occupazione operaia e per valore di produzione di ciascuno di essi, ai primi scalini del fenomeno industriale — figurano una quindicina di opifici per materiali edili, dislocati nei principali nodi viabili di quelle zone che sono di formazione sedimentale terziaria (con enormi coltri di conglomerati o di argille più o meno arenose) : cioè le fornaci da laterizi di Catanzaro (due stabilimenti con una produzione di 10-12 milioni di pezzi annualmente) e di Crotone (due stabilimenti con una produzione leggermente minore) e la maggior industria creata qualche anno fa a Cutro (20 milioni di pezzi) nel cuore del Marchesato, per aiutare la rinascita di questa zona dopo la riforma rurale. Sul litorale di ponente poi, l’impianto di Vibo (3 milioni di pezzi) intermedio fra le due piane eufemiate e gioiese che richiedono ora una notevole fornitura di materiale per le reti di irrigazione e per l’ingrandimento degli abitati.

    Le industrie della Calabria (situazione del 1964). Questa carta può tenere conto solo in parte del censimento industriale 1961, i cui risultati sono stati editi finora con criteri non esaurientemente razionali (per quanto riguarda la Calabria ad es. le industrie olearie, vinicole, di lavorazione delle frutta sono ripartite fra classi diverse a seconda la natura della gestione; poi non si fa distinzione fra artigianati e vere industrie). Perciò questa carta, così come il testo, sono largamente fondati su inchieste personali.

    E infine le cinque o sei, ma un po’ minuscole, fornaci nella valle del Crati — naturalmente intorno a Cosenza — e le due o tre di discreta misura lungo la riviera dello Stretto, ai margini di Reggio. Più funzionale è l’industria del cemento: i due principali stabilimenti a Sala di Catanzaro (con una occupazione di 150 addetti e una produzione di 150.000 t. annualmente) e a Vibo (che dà lavoro a 370 persone e ha una produzione di 250.000 t.) riescono a colmare le richieste della regione, che sono aumentate dopo il 1953 per le nuove opere di edificazione rurale e per i lavori di duplicazione della ferrovia lungo la riviera del Tirreno. E una ventina di impianti minimi si limita a confezionare per i bisogni locali tubi, pali, pavimenti ecc.

    Vedi Anche:  Forme e tipi di insediamento

    Negli ultimi anni poi si sono manifestate — in genere con esito fortunato — diverse iniziative finanziate dal Nord e tese a risvegliare la vecchia tradizione della lavorazione laniera: e tre stabilimenti scaglionati lungo la riviera padana operano ora, uno a Praia a mare, uno 12 km. a nord — già al di là dei confini bruzi — a Porto di Maratea, e infine una cinquantina di km. a sud a Marina di Cetraro: i primi due formano un insieme decisamente moderno (12.000 fusi e 200 telari automatici) destinato a filatura e confezione di stoffe, e l’ultimo ha una buona produzione di cappelli. Questi stabilimenti, che richiamano insieme più di un migliaio di persone, fruiscono in tal zona di più di un vantaggio: l’unica ferrovia che dal Bruzio porta verso il Nord, una regolare dotazione idrica — di cui è motivo la forte piovosità e la costituzione calcare delle aree contermini — e una popolazione molto fervida e fra cui aveva duramente resistito la tradizione di un artigianato laniero, perfezionato dal singolare incontrarsi qui nel sedicesimo secolo di comunità valdesi e albanesi.

    Lo stabilimento di siderurgia Nuove Pignone a Marina di Vibo: architetture nuove per la Calabria.



    Fra i sintomi positivi va infine aggiunta la segnalazione di un discreto ramo che, per quanto frantumato in aziende di configurazione famigliare (a una stima del 1957 erano per lo meno 300 ma solo una decina aveva un personale di più di 10 unità) risulta però animato da macchinari perfezionati e in relazione con un mercato amplissimo: cioè la estrazione di oli essenziali, dagli agrumi e dai fiori, e di sughi da bevanda, che si ammassa nelle località rivierasche della estremità meridionale della penisola fra Locri e Villa, con particolare densità nei comuni di Melito e di Reggio: e in questo nei villaggi di Catona e di Pellaro. In tali opifici la produzione degli estratti di bergamotto è stata negli ultimi anni di 180.000 kg. (per un valore di 2,5 miliardi di lire) esportati per 1/3 in Francia, 1/5 negli Stati Uniti, 1/7 nei paesi tedeschi e 1/8 in Inghilterra ecc. : e pure saliente — ma per la maggior parte convogliata verso le industrie nazionali del Nord — è quella degli estratti da aranci (30.000 kg.) e limoni (3.000 kg.). La fornitura degli estratti di gelsomino — per 4/5 destinati alla Francia — supera i 1.800 kg., e sfiorano i 600 kg. le distillazioni della lavanda, della salvia, del basilico. Quanto ai sughi, la produzione migliore si ha dagli aranci (45.000 q.) e dai limoni (2.000 q.): e anche questa vien esportata verso le industrie di bevande di oltralpe.

    Un interno dello stabilimento Nuovo Pignone: reparto laminati

    Fino al 1960 un solo centro industriale di qualche vitalità

    La dispersione topografica e la deficienza di legami reciproci, insieme con la umile entità aziendale, contraddistinguono lo schizzo industriale — volutamente minuto — che si è disegnato fino a qui e che vien riassunto in una carta a pag. 387: e tale sbriciolamento di iniziative e povertà di energie — si pensi al poco rilievo della industria che usa le produzioni boschive (come si è già riferito a pag. 361) e alla inesistenza quasi di impianti frigoriferi: la Calabria ha solo il 0,5% delle installazioni nazionali per la conservazione dei generi agricoli — è prima d’ogni cosa l’eredità di una vita regionale fino ai nostri giorni ritagliata e scompartita in molti e deboli distretti. In realtà un buon numero delle industrie esaminate fino a qui ha una vitalità solamente stagionale — il fenomeno denunzia bene la fragile intelaiatura economica del paese — e la maggior parte delle industrie con vera continuità di lavorazione è stata creata per iniziativa di società del Nord. Ma queste iniziative risultano fino ad ora poco numerose e di rado coordinate: nei loro riguardi scrive giustamente il De Soultrait (opera cit., pag. 60) che « una impresa o un ristretto numero di imprese oggi non sono in grado di vivere isolate. Per vivere han bisogno di legarsi fortemente in un complesso di industrie diverse: che col dinamismo dei traffici e con la conseguente rete di servizi, con la produzione di materiali destinati a una più particolare rielaborazione e col richiamo di mano d’opera, sia di arra alla operosità stabile di ciascuna azienda e di stimolo alla formazione di nuove imprese. Ora — a meno di una sola eccezione — niente di simile esiste in Calabria ». Il De Soultrait scriveva fra il ’58 e il ’6o: e agli inizi del 1962 qualche segno di risveglio v’è stato con l’allestimento di un impianto industriale per la produzione di materiale ferroviario a Reggio e di uno stabilimento per la fornitura di strutture carpentili metalliche e di caldaie per industrie petrolchimiche a Marina di Vibo. Quest’ultimo è già in opera (dà occupazione ora a 150 operai) e il primo inizia la sua lavorazione nel 1964. Ma fino ai giorni del censimento industriale del 1961, assumendo a termini di relazione il numero della mano operaia e la quantità di cavalli-vapore di cui dispone ciascun operaio, si può dire che l’industria della Calabria formava non più che l’i% della industria nazionale.

    La sola eccezione, cioè il solo centro ove sia veramente chiara una vitalità industriale è ora Crotone, che è pure il principale porto della regione. Il comune di Crotone — un vasto comune ove dimorano pure due migliaia di braccianti rurali — ha una delle aliquote più elevate in Calabria di popolazione dichiaratamente operosa : cioè nel 1951 il 42% e nel 1961 il 37,5% della popolazione oltre i 10 anni di età (lasciando fuor dal novero le donne di casa, di cui in verità una buona parte non si limita a svolgere lavori domestici, ma ha qualche occupazione artigianale, bracciantile ecc.): e un po’ meno di metà di questa popolazione (il 44,6% nel 1951 e il 48,8% nel 1961) lavora in industrie di manipolazione e in impianti di costruzioni, e intorno a 1/4 (il 25,2% nel 1951 e quasi il 25% nel 1961) è legato ad aziende commerciali o ai traffici del porto o a quelli irradiantisi verso la Sila e per le pianure litorali del Marchesato : ma aliquote simili di occupazione — invero poco diverse da quelle di un buon centro industriale del nord Italia — sono uniche in Calabria.

    Gli stabilimenti Montecatini a Crotone.

    La industria di Crotone ia capo a due notevoli complessi : quello elettrometallurgico della società Pertusola — uno dei cinque del genere in Italia — per la lavorazione, mediante elettrolisi, di blenda e minerali di rame, e quello elettrochimico della società Montecatini per la produzione di fertilizzanti: il solo grande con tale destinazione nel meridione continentale d’Italia. Il primo manipola i minerali di zinco della Sardegna meridionale ed è stato ubicato qui nel 1925, dopo l’inizio delle forniture elettriche silane: cioè quando di conseguenza si manifestò una così lata disparità nei prezzi della energia fra il Campidano e il Marchesato, che fu ritenuta meno onerosa e perciò più conveniente la spedizione del minerale iglesiente per via di mare, alla riviera ionica. Lo stabilimento richiama ora intorno a 600 persone e dà annualmente 25.000 t. di zinco (pari a 1/3 della produzione nazionale) più quantità minori di rame e di cadmio, di solfato di rame e di acido solforico. E il secondo che parimenti usa l’energia proveniente dalla Sila, ma anche sfrutta qualche produzione minore del primo (come l’acido solforico) trae i suoi materiali di base dai fosfati nord africani e dalle piriti sud americane. Esso dà occupazione a una mano d’opera molto più numerosa: 1.200 persone, e ha una produzione di fertilizzanti con azoto o con fosforo per 150.000 t. annualmente, pari a 7% delle richieste nazionali, e di 20.000 t. di idrogeno elettrolitico. Le due industrie sono unite con linee ferroviarie al porto a cui giungono i minerali e ove è imbarcata in larga misura la loro produzione: formano quindi, con i bacini artificiali e gli impianti idroelettrici del vicino altopiano e con il porto locale, l’unico esempio in Calabria di una configurazione industriale abbastanza progredita.

    L’unica leva efficiente di industrializzazione: l’industria idroelettrica silana

    L’animatore comune di tale combinazione consiste nella industria idroelettrica a cui va il merito di aver dato negli ultimi cinquanta anni un moderno valore al favoloso altopiano della Sila. L’impianto di bacini artificiali in una regione come questa, che vi si presta a meraviglia — per l’ampiezza ed elevazione dei suoi altopiani limitati a ogni lato da ripidi versanti a guisa di bastionate, e per la poca permeabilità dei suoli e per la numerosa sequenza di fiumi — fu però tardivo. Sino al 1918 la Calabria rimase una delle aree più povere della nazione in energia di produzione locale (un migliaio di kw. nel 1908 e sì e no 5.000 nel 1918, quando l’energia non bastava neanche ai bisogni della illuminazione domestica della regione e per più di un quarto era fornita da impianti termici). Ma già da diversi anni i primi studi relativi a una fruizione industriale della buona vocazione della Sila per la produzione di energia avevano avuto inizio, in un’epoca di estrema depressione in Calabria — cioè verso il 1906 — ad opera di Angelo Omodeo. E la matura elaborazione di un piano — studiato dal medesimo idraulico — per la creazione di bacini artificiali (a cui la carenza di fiumane a deflusso uniforme, impone di dare sui monti del Bruzio un maggior volume che nelle Alpi) indi per la derivazione di conduzioni forzate e la costruzione di adeguati impianti di generazione, si era già avuta fra il 1911 e il 1913. Però l’esecuzione di quel piano — che nel corso dei lavori ebbe qualche variante — iniziò solo nel 1921 e terminò verso il 1933 (qualche aggiunta di rilievo vi fu poi dopo l’ultima guerra) con la costruzione di due principali sbarramenti lungo i tronchi iniziali dei fiumi Ampollino e Arvo — ad altitudine fra i 1250 e i 1280 m. — e la costituzione di due bacini nei loro impluvi (il primo lungo un po’ meno di 10 km. e largo meno di uno, con una superfice di 5,5 kmq. e un invaso utile di 64,5 milioni di me.; il secondo lungo 9 km. e largo in media uno, con una superfice di 9,2 kmq. e un invaso utile di 71 milioni di me.), poi con la formazione di sei minori bacini sul Neto e sul Garga e sul Savuto, con l’apertura di una complessa rete di congiunzioni e derivazioni e restituzioni (per un totale di una trentina di km.) e con l’edificazione di tre impianti per la generazione di energia, a catena lungo il Neto (uno a 800 m. di altitudine, un secondo a 250 e un terzo a 100) e di uno sul Savuto (a 1160 m. di quota) la cui potenza efficiente è in totale di 220.000 kw. Nel dopoguerra poi, e cioè fra il 1948 e il 1955, fu creato un più vasto serbatoio (di 12,6 kmq., con invaso utile di 107,2 milioni di me.) nel piano di Cecità — a un’altitudine di 1140 m. — ove si adunano i rivi che formano il Mucone: e questo bacino anima ora due nuovi grandi impianti di generazione ad Acri e a Luzzi, la cui potenza efficiente è di 168.000 kw. La Sila perciò dà oggi più di un miliardo di kwh. : e se a questo si addizionano i proventi dei minori impianti (una cinquantina) sparpagliati in diverse parti della regione bruzia — nel bacino del Coscile specialmente — si sfiorano i 1350 milioni di kwh., cioè il 27% della produzione totale di energia delle regioni meridionali (fra cui però la regione aprutina dà il 50%). Ma di questa notevole produzione — che sostanzialmente è stata detenuta, fino agli interventi statali del 1962, da una sola società (la Soc. Merid. Elettr.) con regime monopolistico, e quindi venduta a prezzi alti — la Calabria non può far uso integrale. In ultima analisi ne consuma neanche una metà: intorno a 660 milioni — perchè è chiamata a fornire per lo meno la metà del suo generato a regioni finitime (la lucana, la pugliese, il Cilento e dal 1957, dopo la costruzione del grande cavo aereo che supera lo Stretto, pure la Sicilia). Di conseguenza per i propri bisogni la regione dispone di quantità limitate di energia: che neanche per il 20% servono a usi rurali, ma in discreta misura (16%) sono destinate alla trazione ferroviaria e in forte quantità (il 62%) alle industrie: e tra esse in modo particolare — per una metà della erogazione totale — a quella croto-niate dei fertilizzanti, a cui la monopolista Soc. Merid. Elettr. (le cui azioni erano inizialmente in mano della società Montecatini) aveva largito condizioni di favore. E per tale ragione che quel po’ di industria che opera in Calabria si raduna per 2/3 lungo il perimetro della regione silana — come mostra bene la carta a pag. 387 — e che l’unico porto di discreta animazione della penisola è dal 1925 (cioè da quando le stazioni idroelettriche iniziarono a funzionare) il porto più vicino al distretto silano : Crotone.

    Gli stabilimenti Pertusola a Crotone.

    La diga del Mucone che sbarra il lago di Cecità.

    La centrale idroelettrica di Timpagrande margini orientali della Sila (potenza installata: 81.000 kw).

    Fino verso il 1925 il traffico di Crotone era stato debole (20-30.000 t. in media con forti sbalzi di anno in anno) e veniva per lo più smaltito da piroscafi e velieri nazio-nali: le operazioni mercantili erano meschine (esportazione di grani e di legna fino verso il 1910: poi solo di legna, perchè la edificazione in loco dei primi pastifici alimentati dai grani del Marchesato limitò via via l’esodo dei cereali di produzione locale e determinò una importazione di grani duri) e a esse prevaleva la funzione di porto da riparo e di scalo locale. Ma dopo il 1925, la costituzione dei due grossi stabilimenti dianzi ricordati ha rivoluzionato la natura e la direzione del traffico di Crotone che, da base di generi agricoli e forestali è divenuta — come illustra chiaramente un lavoro del Pecora — un riguardevole porto industriale e uno dei più vivaci porti ionici. Questa radicale evoluzione provocò in breve giro di anni un rivolgimento nelle strutture topografiche del porto: al vecchio, minuscolo bacino aragonese che guarda a sud fu aggiunto un bacino di maggior superfice orientato a nord (e però svan taggiosamente aperto agli influssi dei venti e delle correnti litorali, che vi scaricano quindi gli sfasciumi portati in mare 12 km. più a nord, dal Neto) e i moli e le banchinate furono immagliati da binari che li uniscono con la zona industriale — piazzata a qualche distanza dal vecchio abitato — e con la stazione ferroviaria (deficienti però sono rimaste le apparecchiature di carico e di deposito). E si elevò di balzo il volume dei traffici: a un po’ più di 100.0001. in media fra il 1926 e il 1930, a 280.000 t. in media fra il 1931 e il 1935, a 330.000 t. in media fra il 1936 e il 1938, e dopo la parentesi della guerra — che vide a poco a poco contrarsi i traffici a zero — a 350.000 t. nel 1955 e a 380.000 t. di merci negli ultimi tre anni. Ma l’esportazione forma ora solo 1/3 di tale quantità: il resto, cioè la maggior parte, è dato da importazioni. E di queste, le voci principali sono i minerali costituenti il materiale primo di lavorazione degli opifici locali : cioè i fosfati (40% delle importazioni) provenienti da vari porti marocchini (per 2/3) e algerini (per 1/4) e tunisini; le piriti (il 25%) che ora derivano solo per metà dai giacimenti sardi e per metà sono di origine greca (e qualche volta sono venute dal Cile e dal Brasile) e la blenda del Sulcis (10%). Poi i combustibili per le industrie (5-7%) costituiti fino al 1952 da carboni portati da Savona, e negli anni più vicini in maggior misura da petroli, ora forniti rapidamente dagli impianti di Augusta (una navigazione di sole 12 ore). E dal 1952 in qua sono state sbarcate pure forti quantità di cementi, in relazione con le opere di rinascita agricola iniziate nel Marchesato. L’industria inoltre predomina, con le sue elaborazioni, tra i generi in imbarco le cui quantità più salienti (il 70%) sono date da fertilizzanti, mandati specialmente ai porti di Venezia e di Ravenna, per venire da là irraggiati nella pianura del Po, e qualche volta (il metabisolfito) in Inghilterra e Norvegia e fino agli Stati Uniti, poi da acido solforico (verso la Grecia), da zinco verso il porto nazionale di La Spezia per la sua industria navale, e rame e cadmio verso la Francia e l’Inghilterra. Di modo che la vecchia esportazione del legno silano — proveniente in maggior quantità dai bacini del Neto e del Tacina — non dà oggi più di un quarto del traffico in uscita, con direzione verso i soli porti nazionali (ad es. quello di Sant’Antioco, per uso dei giacimenti del Sulcis) e umile è la parte tenuta da quelle produzioni locali (sughero, un po’ di cereali, pasta di olive ecc.) che una volta primeggiavano: fra questi generi secondari il meno trascurabile è stato fino a cinque o sei anni fa lo zolfo del giacimento di San Nicola, che dista poco più di 30 km. dal porto. Il notevole telaio di relazioni che legano Crotone — e più precisamente la sua zona industriale: non il suo hinterland, che pure è in fase di evoluzione — a buon numero dei principali porti nazionali e creano correnti di traffico con vari paesi mediterranei e nord europei, ha schiuso in tal modo una via per riabilitare e ridimensionare, in parte almeno, la vita economica della regione.

    La centrale idroelettrica di Luzzi ai margini occidentali della Sila (potenza installata: 55.000 kw)

    Deficienze di porti e di viabilità

    Ma il resto dei porti che si schierano su le coste della Calabria, è una sequenza di rifugi o minuscoli bacini per lo più inanimati o in condizioni di insignificante operosità: stato a cui si esime solo la riviera dello Stretto, con la sua funzione di base per i legami a correnti continuate con la Sicilia. In verità questa estrema diramazione della penisola italica è così esile e per di più arroccata su rilievi che la dividono in due versanti in contrapposizione fra loro e — dato l’arcaismo delle strutture culturali odierne — frazionano la penetrazione economica da parte degli scali ubicati lungo i due mari, che l’istituzione di un certo numero di efficienti porti non vi è per ora neanche pensabile. Nessun porto di Calabria ha — neanche Crotone, come si è visto — o potrebbe avere un hinterland discretamente grande : perchè la configurazione naturale con i suoi forti speroni diramati da ciascun altopiano e che giungono numerosi sul mare, frantuma la debole vitalità odierna della regione in smilzi distretti che — così nei secoli dello splendore coloniale greco come in quelli della disgraziatissima dominazione spagnuola — defluiscono ciascuno, per i loro più notevoli traffici, verso uno scalo marino determinato e vicino. E così rimasero in vita fino a una decina di lustri fa — ma la maggior loro animazione fu dopo il 1750 e fino verso il 1880 — molte esili correnti di traffico locale tra porti vicini, o da qualcuno di questi porti stabilite con qualche particolare porto della penisola italica (ad es. quelli dei golfi di Salerno e di Napoli, i pugliesi e Livorno) o delle isole vicine (le Eolie e quelli siciliani della riviera ionica fino a Siracusa) o dei litorali greco-dalmati (ad es. Ragusa, Parga, Zancle). La costruzione delle linee ferroviarie e poi di alcune carrozzabili lungo i litorali ha però — fino dal primo anteguerra, e specialmente dopo il 1930 — via via avulso da quegli scali tali correnti, che ora appaiono incanalate e smaltite per via di terra. E quindi un gran numero di mediocrissimi scali si è esaurito. Nel 1946 ne erano rimasti in opera un po’ più di una trentina, ma nel 1952 il loro numero era scemato a 21 e nel 1958 il Pecora ne rilevò in vita solo 12: di cui sul mare ionico non ve ne è neanche uno oltre Crotone. Un meno trascurabile gruppetto si dispone nel breve spazio fra il golfo di Gioia e la riviera dello Stretto e il resto si sgrana a intervalli di 25 o più km., fra la costa del Poro e quella dominata da diverse quinte provenienti dal Pollino.

    Però le aree che gravitano su questi porti non rivestono più integralmente la penisola bruzia: e neanche si può usare per loro il termine di hinterland, ma in ogni caso solo quello di zone di alimentazione. La meglio delineabile di queste è quella che riguarda le produzioni forestali: che dagli altopiani silani mediante la ferrovia locale Policastro-Crotone e specialmente con autoveicoli — la cui penetrazione nella regione forestale è più facile — sono convogliate in maggior quantità a Crotone; e dai rilievi intorno a San Bruno, Mongiana e Fabrizia, così come da quel po’ di boschi che rimane su la Serralta di San Vito, giungono a Vibo; e dai dorsi di Aspromonte finiscono a Reggio. Ma da queste località — in particolare negli ultimi anni — solo 2/10 del legno adunato sui monti vien mandato a destinazione, in assi o tronchi, per via di mare (perchè i 2/3 o poco meno sono esitati col treno). In ogni modo, dopo e a gran distanza da Crotone, i due unici porti per cui si può spender qualche parola sono precisamente quelli connessi con le produzioni forestali : e cioè Reggio, con un traffico intorno a 150.0001. annualmente fra le due guerre, ma ora declinato a neanche 90.000 (fra il 1953 e il 1961) e Vibo, che ha superato di rado le 70.000 t. e ora è sì e no a 50.000. Ma anche in questi porti il legno, che è il maggior genere di esportazione, forma solo un decimo delle merci transitate (da Vibo va ai porti sardi del Sulcis per uso dei giacimenti minerari e da Reggio è mandato ai porti del Levante). E per 9/10 i loro traffici sono costituiti da importazioni: cioè combustibili, cereali e materiali da costruzione. In particolare, a Reggio i carboni provenienti dai giacimenti inglesi (e imbarcati a Cardiff) o tedeschi (e smistati a Rotterdam) e destinati prima del 1957 ad azionare i treni per Metaponto, fornivano fino a qualche anno fa la metà del volume delle merci: ora però il 10% di queste è formato da combustibili liquidi (provenienti da Augusta) per la trazione ferroviaria dieselizzata che nel dopoguerra iniziò ad adottarsi lungo la linea per Battipaglia e verso il 1957 in quella ionica. Per eguale motivo e per le richieste dell’industria locale dei cementi, i traffici di Vibo sono costituiti per 75% da petroli. I cereali importati — per le industrie locali di molitura o di pastificazione — formano poi il 20% del traffico a Reggio e 1’8% a Vibo.

    La grandissima disparità fra quel che parte da questi porti e quel che vi si scarica, è uno dei palesi segni della deficienza economica della regione. Va anche aggiunto però che il maggior volume di scambi fra la Calabria e il di fuori vien svolto attualmente per ferrovia: perchè se vi è regione d’Italia ove la ferrovia ha conservato, per lo meno fino verso il 1955, la forza di apertura e di attivazione che ovunque aveva tenuto agli inizi del nostro secolo — e quindi un così imperante valore economico da limitare od oscurare la vitalità delle vie carrozzabili — questa è precisamente la Calabria. E ben vero che l’animazione lungo le strade carrozzabili è aumentata dopo il 1950: ma attualmente la totalità degli agrumi — cioè intorno a 1.600.000 q. — e quasi l’intero quantitativo delle uve da tavola (più o meno 80.000 q.) e dei fichi essiccati (negli ultimi anni qualcosa fra gli 80 e i 100.000 q.) che la Calabria manda verso il Nord, una notevole parte degli oli da affinare negli opifici del Nord (cioè in media 220-250.000 q.) e dei vini da taglio per diverse regioni (intorno a 150-180.000 hi.) e poi la totalità degli estratti di bergamotto e di gelsomino, sono spediti via con i treni. E i treni recano in Calabria per lo meno i 4/5 del volume della sua importazione odierna che è formata da generi di arredamento e abbigliamento (per un valore fra 800 milioni e un miliardo di lire: in moneta del i960) da alimentari vari — special-mente carni, generi conservati, tonici nervini ecc. per un valore intorno a 3 miliardi di lire — da materiali da costruzione e macchine (per un valore di almeno 7 miliardi) e produzioni medicali (per 50 milioni). Solo la maggior quantità dei petroli (un totale di 80.000 t. negli ultimi anni) e una buona metà (cioè per lo meno 60 o 70.000 q.) di farine per l’industria delle paste giungono per via di mare. E i treni — non le auto — sono abitualmente usati, con una frequenza che non ha l’eguale in Italia, da chi va in Calabria da qualche regione vicina o remota della Penisola, o da chi ne parte in direzione di Nord.

    In realtà la ferrovia ha aperto un centinaio di anni fa una fase nuova nella vita della Calabria: e se quella novità — mi vien da dire repentina — provocò in un primo periodo gravi sconcerti nella vita regionale, come il declino delle industrie locali e una ripresa di forti diboscamenti, essa aiutò anche lo svolgimento di fenomeni che erano il frutto di una iniziale evoluzione nella struttura economica, come (dopo il 1880) la dilatazione della olivicoltura nelle grandi aziende — le cui produzioni per merito della ferrovia defluirono più agevolmente verso il cuore della Penisola — o come più avanti (e in special modo fra il 1900 e il 1912) la emigrazione, che usò di regola i treni per adunare i suoi contingenti ai porti di Napoli e di Messina. Però con i treni scorrenti lungo i più di 300 km. per parte delle due linee rivierasche, la Calabria diveniva una via di transito continentale in direzione nord-sud, fra la penisola italica e la Sicilia: e i transiti animano ovunque intorno a sè, poco o molto che sia. In Calabria fu poco, ma era già meglio che il niente di prima: perchè la regione nei tre secoli prima della unificazione era stata per molti versi un’isola.

    Sviluppo delle ferrovie e delle strade carrozzabili principali, fino al 1920.

    Quando Garibaldi la liberò, vi era solo una vera via carrozzabile di 333 km. : da Villa — erede di Catona, e base già in quegli anni per i transiti dello Stretto — a Palmi e Gioia, lungo la dirupata fiancata di Aspromonte, questa via si dirigeva per la valle del Mesima a Vibo, e da là a poco a poco internandosi per le ondulazioni istmiche — ove una diramazione portava a Catanzaro — rimontava da Tiriolo a Rogliano per il valico di Borboruso (930 m. di altitudine) le diramazioni occidentali della Sila, e fiancheggiando per qualche decina di km. le sue fiancate calava su Cosenza, continuando poi per la valle del Crati fino alle strettoie di Tarsia: da qui per le ondulazioni che chiudono la piana sibarita volgeva al Cosci le, e a monte di Castrovillari si inerpicava lungo la sua aspra valle e ai termini di essa, per temibili strettoie, saliva ai deserti piani di Campo Tenese — il suo punto più elevato, a un migliaio di m. di altitudine — che in inverno sono di frequente chiusi da nevi. Da là sbucava nel bacino di raccolta del Lao, girando così a lato della bastionata del Pollino: e dove con un vecchissimo ponte (il ponte di San Primo) si inarcava sul fiume Lao, lasciava la Calabria per far ingresso nella regione lucana e avviarsi al Cilento. E la via che seguì Garibaldi nei mesi d’estate del 1860 marciando verso Napoli e che in direzione opposta avevano tenuto, dal Guiscardo in poi, gli eserciti giunti a conquistare la Calabria per puntare verso la Sicilia: è quella che si chiama anche ora « via delle Calabrie», già aperta dai conquistatori romani (ne ho parlato a pag. 133) e che più o meno coi decorsi medioevali e solo con qualche variante, era stata sistemata integralmente e cioè apparecchiata di ponti, irrobustita di muraglioni e resa in buona parte carrozzabile, dai napoleonici fra il 1808 e il 1812. Ma era una via paurosa, a sentire le descrizioni di quanti la sperimentarono due secoli fa e anche meno: ad es. il memorialista H. Swinburne e l’erudito J. de Saint Non nel 1778 e poi il naturalista W. Hamilton nel 1783. Anche dopo l’opera di ricostruzione svolta da Murat, il viaggiarvi non fu facile: rimando a quanto scriveva nel 1838 il Sacchi della sua lunga scarpinata fra Laino e Scilla. E questa è la ragione per cui — come ho già rilevato — la Calabria fu nota a ben pochi viaggiatori fra la metà del diciottesimo secolo e l’unità nazionale: la Calabria non era zona di transito, e del centinaio di viaggiatori — a dire poco — che in quel periodo giunsero in Sicilia dal Nord, solo nove (iniziando con J. Riedesel nel 1771 e finendo con B. Hill nel 1791) venivano per via di terra dal Bruzio. Il più gran numero di loro si era imbarcato a Napoli o a Civitavecchia, e tagliò fuori dai suoi itinerari la Calabria.

    Vedi Anche:  Le città della Calabria

    La via delle Calabrie quindi, più qualche suo ramo, per un totale di 420 km. era quel che formava la rete delle comunicazioni carrozzabili in Calabria quando la regione fu inclusa nello stato nazionale: e di 412 comuni fra cui si divideva in quegli anni la penisola bruzia, ben 370 non avevano alcuna traccia di strade. Per la via delle Calabrie che sostanzialmente aveva fine a Villa — da Villa a Reggio vi era qualcosa come una carovaniera lungo il lido, con qualche opera edile di poco rilievo, ma le fiumare che sfociano in quella sezione di costa venivano valicate a guado — una corsa di diligenza partiva a intervalli di 304 giorni per Napoli e fermandosi a non più di venticinque «poste», cioè stazioni con alloggi, vi giungeva in 10 giorni intorno al 1830 e in 8 giorni verso il 1860. Ma era più spedito il viaggio per mare: ad es. fra il 1868 e il 1870 la famiglia Nunziante, per il dislocamento da Napoli ai soggiorni estivi nei suoi latifondi di Rosarno, si imbarcava a Napoli su un battello e, dopo due giornate di navigazione, sbarcava nel porticciuolo di Pizzo, continuando poi in carrozza — per una buona giornata — lungo la via delle Calabrie che dai terrazzi di Vibo s’adima per la valle del Mesima nella pianura di Rosarno. In sostanza l’imma-gliarsi di una rete carrozzabile nel Bruzio inizia solo verso il 1875: e da qui fino agli anni di grande sismicità — fra il 1905 e il 1908 — l’apertura delle strade fu veramente l’opera a cui i governi nazionali si rivolsero in Calabria con maggior zelo e con notevole investimento finanziario: nel 1906 la rete delle strade era già di 3.450 km. Ma il lato debole di questa opera fu la deficienza di un piano di coordinazione: ogni comune interno aveva in genere due richieste da fare, due bisogni da esaudire: primo, unirsi — per ragioni specialmente burocratiche, e qualche volta pure mercantili — con il centro amministrativo del suo distretto, ove sono gli uffici di emanazione statale o provinciale e vi è chi fa (o dovrebbe fare) giustizia, ove si vende meglio il grano, o i formaggi e la lana, o qualche pecora o le produzioni del telaio domestico, e vi è infine più convenienza a far compre. E secondo, congiungersi con la più vicina stazione della ferrovia che già funzionava lungo la costa, per smaltire in modo regolare e rapidamente le produzioni migliori: cioè l’olio e il vino. Per soddisfare almeno una parte di tali premure e servir molti paesi vicini a un unico fine, le strade locali della Calabria sono venute perciò disegnandosi coi profili più strani e riescono — a forza di giri fra valle e valle e fra sprone e sprone — di una esasperante lunghezza: si guardi il corso della carrozzabile che salda a Cosenza i cosiddetti « casali del manco » o di quella che borda a meridione la Sila. Ciascuna seriazione di villaggi descritta a pp. 264-266, ha originato uno di questi bizzarri cordoni stradali.

    Un tipico scalo marino di ricovero della riviera bruzia di ponente: Pizzo.

    Ma in quel primo periodo, la deficienza di una coordinazione fra i numerosi e più volte diversi bisogni dei paesi di un medesimo distretto, insieme con la totale inesperienza del personale edile degli enti locali nella costruzione di vie carrozzabili, furono cagione di molti sperperi: per cui a un dato punto, finiti i fondi in denaro che si erano prestabiliti, molte strade rimasero a metà o frazionate a tronchi isolati o prive di opere edili inderogabili per la loro conservazione: e così buona parte di queste carrozzabili non ultimate — e non più curate — finì in rovina. Poi nel 1905, e in modo particolare tre anni dopo, la urgente esigenza di riedificare i paesi distrutti da una sequenza di sismi, provocò una riduzione dei denari destinati a costruir strade : perciò la fervida — per quanto un po’ caotica — opera di costituzione di una maglia viabile regionale si infiacchì a poco a poco, fino a divenire discontinuata e faticosa. E nel 1915 si aggiunse — a razionare i fondi per la viabilità — la guerra. Ai termini di essa (nel 1920) la Calabria aveva un totale di 4.200 km. di strade: una dotazione ben povera.

    Una ripresa di operosità stradale, notevole nei primi due lustri ma poi rallentata (dopo il 1930) a motivo dei nuovi sperperi corporativistici, si è avuta fra le due guerre: ma diversamente da quel che era stato fino a quegli anni l’orientamento dei piani per la viabilità — che miravano a congiungere, mediante strade in latitudine, i distretti agricoli più chiusi o le numerose aree forestali annidate fra i monti, con le rare dorsali meridiane della viabilità regionale : cioè la carrozzabile delle Calabrie e le due linee ferroviarie litorali — dopo il 1925, pur continuando a stringere o rinsaldare le maglie della viabilità fra i due versanti della penisola, si guardò specialmente a migliorare gli assi longitudinali carrozzabili. E questo non unicamente per ragioni militari — che pure influirono (in quegli anni di allucinazione imperialista) a potenziare le vie meridiane per far più rapido e sicuro il transito in direzione della Sicilia — ma anche perchè dopo il 1925 gli autoveicoli erano divenuti un po’ meno eccezionali in Calabria e verso il 1931 iniziarono a funzionare i primi servizi automobilistici regolari. Perciò fra il ’28 e il ’38 la rete carrozzabile destinata al transito regionale si irrobustì con l’apertura — che in qualche zona fu solo sistemazione o giunzione di tronchi isolati, in opera da alquanti anni — delle strade litorali: lungo il Tirreno per 200 e più km. — da Sapri a Paola e Amantea e (un po’ internandosi) a Nicastro fino a confluire, dove l’Amato sfocia nella sua piana, con la via delle Calabrie — e lungo il mare ionico da Reggio per 260 km. fino a Crotone (ma per 2/3 di tale riviera una carrozzabile funzionava già dal 1880) e poi per un centinaio di km. dal fiume Trionto ai confini lucani su l’inarcata fronte della pianura sibarita. Carrozzabili, le due litorali, la cui costruzione subì ovunque molti intralci per il superamento dei grandi letti fluviali soggetti a divagazione e in continuato rialzamento, che richiesero l’edificazione di notevoli ponti in grado di sostenere la violenza delle paurose fiumane invernali.

    Una nave traghetto in una delle invasature del porto di Villa.

    Da una vecchia fotografia del 1901 : il primo traghetto nel porto di Reggio.

    E così la coordinazione fra queste lunghissime meridiane e le vie che univano da mare a mare i due versanti della penisola migliorò alquanto: di modo che verso il 1940 esistevano già più di venti strade, fra principali e minori, per sormontare la cordonatura di impervi dorsi e vasti altopiani che impalca da cima a fondo la penisola. Non era di certo un numero esagerato di legami fra i due versanti : ma per la quantità del traffico in quegli anni, quelle carrozzabili parevano bastevoli. Ricordo fra le principali, a superamento della catena padana la strada del valico dello Scalone (meno di 750 m.) che in 88 km. porta da Belvedere a Castrovillari e quella, notissima per la maestà dei panorami, che per la Crocetta (a 960 m.) lega Paola al bacino del Crati —    quindi a Cosenza — in 36 km.; più a nord una carrozzabile rimonta la valle del Lao e più a sud una si inerpica per la valle del Savuto, unendosi e questa e quella, come le due prime, con la vecchia rotabile delle Calabrie. Nella Sila erano già aperte fin dal secolo scorso le principali vie diagonali di transito, e cioè una prima strada —    ora di maggior valore per il turismo — che da Cosenza s’eleva fra i pascoli del ripiano silano (ove si lega a nord a rotabili minori risalite da Acri per la valle del Mucone e da Cropalati per la valle del Trionto) e dopo San Giovanni in Fiore cala a Crotone (142 km.) per la valle del Neto; e una seconda strada (135 km.) che dal bacino del Savuto con due rami (quello di Rogliano e quello di Colosimi) sale l’altopiano — qui irradiandosi in diverse rotabili destinate specialmente a smaltire le produzioni forestali o unendosi con minori strade provenienti dai casali cosentini: Aprigliano ecc. — e si lega poi con la prima a poca distanza da San Giovanni in Fiore, da cui infine declina verso il mare fino a Cariati.

    A sud della depressione istmide, agevolmente valicata da tre rotabili — quella di Marcellinara (culmine a 250 m.) e quella di Girifalco (valico a 450 m.), fra cui è stata aperta negli ultimi anni una terza : la cosiddetta « strada dei due mari », molto rapida (46 km.) e di razionale disegno e notevole carreggiata — è da ricordare la strada di San Bruno che insinuandosi da ovest per la valle del fiume Angitola e da levante per quella del fiume Stilare penetra dai due mari nel cuore della Serra e fa da fusto a diverse diramazioni da là pure irradianti verso i due mari (per il bacino d’Ancinale fino a Soverato e per il bacino del Mesima fino a Rosarno). Ed egualmente tipiche per il loro slancio da mare a mare sono quelle inarcantisi sopra la esile ma corta quinta della Limina — cioè la rotabile (di 60 km.) da Rosarno e Cinquefrondi a Marina di Gioiosa per il pianoro di Limina (880 m.); la più frequentata (un totale di 53 km.) da Gioia per Taurianova e Cittanova (e con una via minore da Polistena) a Locri per il pianoro di Melia (935 m.); e la più lunga (un centinaio di km.) da Palmi per Seminara o da Bagnara per Sant’Eufemia fino a Bovalino girando per il piano Alati (1050 m.) — come pure quella, aperta inizialmente per motivi forestali e pastorali, e che poi negli anni più vicini è divenuta più nota come via di turismo, che supera da nord a sud la mole aspromontana fra Delianuova e Melito (72 km.), elevandosi a più di 1400 m. sui panoramici pianori della cupola terminale.

    Il porto traghetti di Villa.

    Paese dai traffici lentissimi e fragili

    Strade, quelle ora nominate (e parimenti le minori con eguale funzione di valico) che sono state di non facile costruzione per la brevità e la strettoia e l’asperità delle valli, la forte inclinazione in pochissimo spazio della maggior parte dei rilievi, la frequenza di superfìci di faglia e di scalini fra terrazzo e terrazzo, così come per la franosità di molte aree anche cristalline (ad es. le zone filladiche lungo la catena padana e il fronte meridionale di Aspromonte, e quelle provenienti da gneis lungo la fiancata occidentale della Sila o i margini meridionali della Serra) ove l’intaglio della sede viabile veniva non di rado ad alterare le condizioni idriche delle coltri superficiali, iniziando una fase di degradazione. L’instabilità dei suoli e l’energia del rilievo richiesero perciò onerose opere d’arte o disegni lunghissimi, con serpeggiamenti e risvolte, per il superamento di gradini e di gole. Di conseguenza la viabilità della Calabria ebbe un costo di edificazione più elevato che in qualunque, finitima o lontana, regione della Penisola: e per tale motivo la più danneggiata fu la viabilità locale, cioè quella gestita dai comuni, a cui la povertà degli introiti inibì frequentemente — e in special modo nelle aree granicole o di mediocre policoltura, più interne — di sostenere gli oneri di gravose costruzioni carrozzabili. E per tal motivo che la Calabria figura fra le rare regioni della Penisola — che sono unicamente regioni del meridione — ove la rete delle strade locali, tenute dal singolo comune o da consorzi di comuni, è molto più rada della maglia destinata ai traffici regionali, cioè delle strade di cui lo Stato o gli enti provinciali dirigono la costruzione o curano la manutenzione.

    Il risultato della discreta operosità viabile svolta fra le due guerre fu l’aumento della rete per più di un migliaio di km. e la sistemazione qua e là nei tracciati o la migliore apparecchiatura delle strade regionali di vecchia costruzione (nel 1930 furono iniziate le prime bitumature). E così nel 1938 la maglia carrozzabile era di più di 5.300 km. : ma di questi solo 1.380 (e cioè neanche il 27%) costituiti da strade locali. Nel dopoguerra e specialmente dopo il ’48 le normali iniziative per la ricostruzione del sistema del traffico, in modo particolare in quelle zone ove ha agito la riforma sociale (come il Marchesato) o in quelle ridestate da una vocazione al turismo (come la Sila e l’Aspromonte) ispessirono — non di gran cosa però — la maglia. Ora lo svolgimento totale delle strade di Calabria è di 6.440 km., pari a 315 km. per ogni 100.000 ab. : un valore che non è neanche meschino di fronte alla media nazionale (di 380). Ma di quel totale meno di un quarto è dato da carrozzabili locali : il che vuol dire sì e no 70 km. di strade comunali per ogni 100.000 persone (la relativa media nazionale è di 165). E questa deficienza di carrozzabili comunali, che precisamente nelle regioni agricole si dimostrano più utili perchè stimolano i risvegli di una società per natura poco mobile, è una delle maggiori pastoie che limitano i legami fra la opaca vita di paese di una buona parte della regione, e la vita che per le principali linee di traffico interregionale transita e scorre lungo la penisola bruzia, con pulsazione divenuta di anno in anno più appariscente.

    Aliscafo in navigazione nello Stretto di Messina.

    Un fenomeno ben significativo per la vita di relazione in Calabria è che fra il 1938 e il i960 il volume dei traffici è molto aumentato — uno degli aumenti più notevoli in Italia — lungo le principali vie meridiane, ma debole di contro (e minore che in qualunque regione adiacente) è stata la sua dilatazione lungo le strade trasversali da mare a mare. Il traffico dei veicoli adibiti a carico di merci è cresciuto fra il ’38 e il ’6o lungo la carrozzabile costeggiante il Tirreno di sei volte per gli autocarri singoli e di venti volte per gli autocarri con rimorchio; e lungo la carrozzabile ionica di cinque volte per i primi e di sei volte per i secondi; e lungo la via interna delle Calabrie di cinque volte e di dodici volte rispettivamente. Incrementi simili si registrano in Italia, per il medesimo periodo, unicamente lungo le strade di Puglia. Con risalto però ben minore di quanto si rileva usualmente nelle regioni del meridione, lungo le strade di Calabria ora segnalate è scemato tra il ’38 e il ’6o il traffico dei carri a trazione animale: nelle regioni finitime il calo è stato ovunque di per lo meno dodici volte, ma in Calabria non ha superato per ora le cinque o sei volte.

    In grado notevole poi è aumentato il numero dei veicoli che portano persone: nel 1953 c’erano 21.000 motoveicoli e poco più di 10.000 automobili, e nel 1963 i primi erano saliti a più di 66.000 e le seconde a 58.000. E fortemente infoltiti pure i servizi automobilistici, la cui rete aveva nel ’38 un centinaio di linee per un insieme di 2.700 km. e nel ’51 più di 170 linee per 7.000 km. e nel ’61 era formata di 318 linee per un totale di 13.000 km., che ora quindi congiungono buona parte dei centri minori ai centri del relativo distretto. Perciò la frequenza dei servizi automobilistici regolari si è rialzata di 5 volte lungo la carrozzabile ionica, di 8 per lo meno lungo la carrozzabile interna, e di 3 o 4 volte — non di più, perchè la costeggiante linea ferroviaria è discretamente servita da treni locali — lungo la carrozzabile occidentale. Così pure da 2 a 3 volte — la misura più alta riguarda le strade litorali — è aumentata nel medesimo periodo la frequenza del traffico degli autoveicoli a uso privato e da 3 a 5 quella dei motoveicoli (anche qui la maggior intensificazione si coglie lungo le strade rivierasche).

    Barche da pesca nel porto vecchio di Crotone.

    In complesso quindi il volume totale del traffico per le vie meridiane del Bruzio è cresciuto da 3 a 4 volte. Ma per quanto così ridestate dal comune fenomeno di rianimazione del Mezzogiorno, le principali carrozzabili bruzie sono fino ai nostri giorni tra le meno frequentate del meridione d’Italia, e il traffico vi cola adagio perchè il disegno continuatamente, stanchevolmente sinuoso — meno che nei tronchi litorali aperti dopo il 1950 — con numerose curve a strettissimo raggio, e il profilo orizzontale ondeggian-tissimo e le pavimentazioni non ovunque ben tenute (solo 2/5 delle principali strade sono asfaltati) e l’ampiezza in genere deficiente della carreggiata, limitano molto la velocità degli autoveicoli: la litorale del Tirreno aveva una media di traffico di neanche 800 t. al giorno nel 1938, salite a quasi 2.570 nel 1950 e a 3.420 nel i960, e la ionica una media di 950 t. al giorno nel 1938, elevate a 2.700 nel 1950 e a quasi 4.200 nel i960. E anche più debole è l’operosità della vecchia carrozzabile interna (700 t. al giorno nel 1938, 2.250 t. nel 1950, 2.800 t. nel i960). Le strade infine da cui sono congiunte le due coste, rialzano il volume della portata a 2 o 3.000 e qualche volta fino a 5.000 t. il giorno, unicamente nel raggio di azione di alcuni fra i più notevoli centri regionali: così fa la via del valico dello Scalone intorno a Castrovillari, e quella cosiddetta della grande Sila nella sezione cosentina — per cui taglia il bacino del Crati •— e quella che annoda i paesi del fianco silano meridionale nei tronchi prossimi a Catanzaro e anche fra Sersale e Fiera di Molerà ove si adunano le produzioni forestali convogliate verso Crotone. Egualmente le strade che uniscono le piane di Gioia e di Locri, in prossimità dei loro mercati oleari e agrumari: cioè Gioia, Polistena, Taurianova e Cittanova, Seminara e Palmi a ovest, e Locri, Bovalino, Gioiosa a levante. Ma per il resto il traffico delle maggiori vie intercostali del Bruzio supera di rado il migliaio di t. Quando si pensa che le principali carrozzabili del meridione registrano oggi da 7 a 8.000 t. al giorno di traffico, sarà chiaro che in Calabria la via carrozzabile non riscuote finora il valore che, per gli scambi regionali, è venuta via via conseguendo un poco più a nord.

    Il treno ha serbato alla regione la funzione di via di transito

    E di conseguenza, il treno ha persistito a dominare negli scambi e nei traffici della regione e le ha serbato quella funzione di via di transito fra il cuore della penisola italica e la Sicilia, che l’unificazione nazionale aveva dato al Bruzio. Però pure le linee ferroviarie manifestano — e per la verità in misura più rimarcata — una disparità di volumi di traffico simili a quelli delle vie carrozzabili, fra le linee meridiane destinate ai transiti e quelle in latitudine i cui servizi si limitano a tenere vivi gli scambi fra i due versanti. Come ho già avuto modo più volte di dire, la prima linea ferroviaria della Calabria fu la ionica, iniziata nel 1866 (in questo anno già funzionava un treno sui primi quindici km. a sud di Reggio) e aperta ai convogli fino al nodo di Taranto nel 1875: una linea di discretamente facile costruzione — e perciò fu iniziata per prima — che si svolgeva su di una frangia litorale piana (meno in qualche sezione: come là ove le diramazioni di Aspromonte giungono fino al mare) e solo accidentata dagli enormi ghiaieti delle fiumare, che rialzandosi poi a poco a poco minarono i ponti. Ma era una linea di puro legamento con la Sicilia e, salvo la sua sezione terminale, riguardava ben poco i caposaldi economici locali del Bruzio: scorrendo per un litorale per lo più deserto — che in molte zone anzi la sequenza delle stazioni della ferrovia animò per la prima volta — sfiorava solo Crotone, e intagliava le aree più malariose della regione. Però due anni dopo la linea ebbe la sua prima diramazione da Sibari, per la valle del Coscile agli inizi e per la valle del Crati poi, fino a Cosenza: e nel 1883 una seconda breve diramazione portò a Catanzaro. Ma il viaggiatore che da Reggio o da Cosenza si voleva recare in treno a Napoli — rimasta non solo nei primi lustri dopo l’unificazione nazionale, ma in realtà anche nel nostro secolo, la capitale morale dei bruzi — o a Roma — la nuova capitale dei burocrati — doveva restare in treno da più di 30 a 40 ore, fra torpide pianure litorali e squallidi monti basilischi. La più corta via per giungere a quelle capitali, cioè la via del Tirreno, fu aperta solo nei 1895: ma fu una costruzione eccezionalmente disagevole per l’asperità della costa, che in diverse zone è impervia e dirupata, con speroni che piombano ripidi sul mare (come da Sapri a Scalea ove 3/5 della linea si svolgono in tunnels, o da Palmi a Scilla ove metà della linea si snoda nel cuore delle ripe di Aspromonte) e che quando è formata da una cimosa piana, rivela — a parte le aree in quegli anni pantanose — ondeggianti profili per i poderosi cumuli di ghiaie delle irruenti fiumare (vedere la fig. a pag. 96). Di modo che quella costruzione richiese venticinque anni di lavoro e lo scavo, nei 280 km. a sud di Sapri, di 52 tunnels e la costruzione di 80 ponti a più luci. Una naturale conseguenza di questa linea fu l’apertura, in quel medesimo 1895, della prima latitudinale ferroviaria stabilita nel punto di più facile valico, cioè lungo l’istmo fra Nicastro e Catanzaro. E prima di spirare, il secolo che aveva risvegliato dalla oscurità la Calabria, vide pure l’istituzione di ferry-boats nello Stretto di Messina, che appoggiati alle invasature di Reggio prima e poi di Villa, crearono una continuità di traffici con la fronteggiante isola.

    Traffico delle ferrovie: numero giornaliero dei convogli per viaggiatori in ciascuna direzione.

    Il ruolo della Calabria come via di transito era quindi configurato in modo chiaro ai termini del secolo: ma il problema che balzava su ora era quello di unire a questo schema decisamente meridiano e disegnato per compiti super-regionali, una rete di linee minori, destinata a penetrar la regione da mare a mare. E fu qui che le vecchissime forze che avevano frantumato la regione in aree e distretti poco osmotici e inibito una sua reale unità, invischiarono l’opera di immagliatura. Le linee ferroviarie integranti che — intorno a cinquant’anni fa — nel disegno dei loro ideatori dovevano saldare i due mari e stimolare relazioni più frequenti fra i due versanti, in genere sono rimaste lì, non ultimate, quando insorsero rivalità fra comuni adiacenti per lo smercio del medesimo genere di produzione, e quindi la loro gestione si rivelò non facile. Perciò un buon numero di esse non ha valicato il monte ma ha servito solo a congiungere qualche discretamente florida zona un po’ interna con un nodo di traffico ubicato su di una ferrovia litorale: così a Gioia confluiscono oggi due linee locali da Sinopoli e da Cinquefrondi e a Marina di Gioiosa si innesta una ferrovietta che rimonta il bacino del Torbido (e che doveva precisamente riallacciarsi con quella ricordata di Cinquefrondi); poi dal porto di Vibo un ramo sale ai gradini orientali del Poro fino a Mileto e uno parte da Marina di Soverato e si interna per la valle del fiume Ancinale fino a Chiaravalle; infine da Crotone una ferrovietta giunge fino a Poli-castro. Di modo che solo un esiguo numero di linee destinate a unire i due versanti fu portato a termine: e cioè unicamente là ove i loro poli interni erano costituiti da nodi di traffico più saliente. Per questo motivo nel 1916 fu ultimata — dopo molte dispute riguardo a qual via tenere — la linea fra Paola e Cosenza: opera di sicuro ardimento, ove la forte inclinazione del rilievo su ambo i versanti fu vinta con l’adozione di un sistema a cremagliera (nel primo balzo dal mare alla Misericordia di San Lucido la linea ha pendenze fino a 22%). Con tal costruzione un secondo legame ferroviario, dopo il più agevole per l’istmo, veniva teso fra i due mari: e al medesimo scopo di stringer meglio vari paesi interni e fortemente popolati con le coste, furono impiantate negli anni fra il 1916 e il 1936 (ma i loro primi tronchi erano stati iniziati anteguerra) due linee transpeninsulari a scartamento minore: una di 148 km. in prosecuzione di quella del Vallo di Diano, fra i comuni lucani sud occidentali circuenti il Sirino — poi per il bacino di raccolta del Mercure e per la solitudine di Campo Tenese — fino a Castrovillari (ove era giunta qualche anno prima una diramazione da Spezzano della ferrovia cosentina) e una di 115 km., che diparte da Cosenza e serpeggiando in pieno cuore del Bruzio, per i bacini — folti di numerosi paesi — che frastagliano il fianco occidentale della Sila giunge fino a Catanzaro e da qui cala al mare. Una diramazione di questa linea fu spinta poi per 58 km. di dura rimonta fino sugli altopiani silani, a Camigliatello, per agevolare lo scarico della produzione dei boschi e aiutare l’industria del turismo: e negli ultimi anni, ad integrazione della riforma agricola operante su l’altopiano, la linea è stata portata fino a San Giovanni in Fiore.

    Installazioni ad uso degli stabilimenti Montecatini nel porto di Crotone.

    Ma sono linee anacronistiche e sgangherate — localmente le designano col nome di « ferrovia di cartone » — con apparecchiature antiquate, materiali logori, itinerari assurdi e perigliosi: basta ricordare la spaventosa sciagura a ponte della Fiumarella nel dicembre 1961. Perciò la operosità dei tronchi interni ora descritti ha avuto in quest’ultimo dopoguerra un rivale via via più forte nella istituzione di discretamente numerosi, meglio diramati e più veloci servizi automobilistici, la cui maglia risolve i bisogni locali in modo più conveniente di un trenino lumaca, portato a fare i giri più strani — e a usare frequentemente la cremagliera — per aver ragione del rilievo (ad es. un viaggio fra la piana di Sibari e i comuni lucani dura intorno a 4 ore). Vi è ora quindi una enorme disparità nel volume e nel genere di traffico delle linee tirate fra i due versanti — che sono corse solamente da trenini locali — e di quelle veramente cardinali costeggianti i due mari: la linea istmide ha in media 15 treni da viaggiatori ed egual numero di treni da merci al giorno per ciascuna direzione, e la linea per cui Cosenza è unita a Paola ne ha, in ogni direzione, qualcuno di più per persone e una ventina per cose — treni abitualmente di sole 203 carrozze per le persone e di 5 o 6 per le merci. E più fievole è l’operosità della ferrovia che lega i paesi interni della vai Crati con la piana di Sibari (10 treni da viaggiatori e 12-15 treni da merci per parte).

    Vedi Anche:  Distribuzione, emigrazione e storia della popolazione

    In ultima analisi solo le linee litorali sono frequentate da treni con provenienza o destinazione inter-regionale. E di questi la linea che punta a levante, cioè verso la Puglia, ne ha 4 al giorno per ciascuna direzione e quella occidentale un numero ben più elevato: cioè 13 per parte, di cui molti sono destinati a unire la Calabria a Roma e alcuni — vale a dire le cosiddette « frecce » che figurano qui in transito perchè il loro termine o il loro inizio sono in Sicilia — legano la regione con la pianura del Po: con Milano e con Torino in modo particolare, cioè con le due zone urbane del Nord ove l’emigrazione bruzia è stata dal ’48 in qua più numerosa. Inoltre la linea del Tirreno ha in media 5 treni locali da viaggiatori (di 6-8 carrozze) per parte, e un po’ migliorato — da cinque o sei anni in qua — è pure il numero dei treni locali (in media 7-8 al giorno, formati da 3-5 carrozze) su la linea ionica: migliorato, ma non adeguato ai bisogni, perchè la linea è stata fino a ora così mal tenuta (traversine consunte, binari logori, ponti indeboliti) che, per quanto ammodernata ora da una radicale dieseliz-zazione, può riscuotere però solo un misurato carico di traffico: e quindi i treni che esercitano i servizi locali sono sovraffollati.

    Nel porto di Crotone: nave cisterna che carica ammoniaca.

    Il carico della viabilità sulle carrozzabili principali, l’industria turistica e l’apparecchiatura alberghiera.

    Meschinità di mercati e disagi economici

    Il costo della vita risulta in Calabria alquanto elevato — a paragone dei bassissimi proventi famigliari per 8/10 della popolazione — per il peso della intermediazione commerciale che si fa esosa in modo particolare nei generi alimentari e di abbigliamento: in realtà manca una sana mentalità concorrenziale e il rialzo non giustificato dei prezzi contrae i consumi e rende anemici gli scambi (non è raro ad es. il caso di agrumi venduti da coltivatori a una decina di km. da Reggio per 40 lire al kg., che immessi poi sul banco del fruttaiolo di Reggio figurano a 200 lire al kg.). Per conseguenza la Calabria è zona aperta agli speculatori delle principali sue produzioni : e l’opera di questi non fa che limitare la potenzialità finanziaria della popolazione. In tale condizione i soli punti ove si ha una — ma neanche qui intensa — animazione commerciale, che non si basi unicamente sugli smerci di produzioni rurali di pregio, sono i tre centri di una amministrazione provinciale, ove per una buona aliquota di persone — cioè a Reggio il 18% della popolazione operosa nel 1951, a Catanzaro il 27% e a Cosenza il 28% — le energie finanziarie sono garantite mensilmente da enti di stato o di amministrazione locale, da istituti bancari, da studi professionali ecc. E a un grado di animazione simile si è portata negli ultimi anni Crotone, grazie ai suoi stabilimenti e al suo porto, che vincolano per lo meno 2/3 della sua popolazione operosa. Ma al di fuori di essi, una vitalità di qualche significato si coglie solo nei rari centri ove un po’ di industria richiama da 1/3 a 1/6 della popolazione: come Gioia, Vibo, Praia, o in qualche nodo di comunicazione, con 1111 elevato numero di stabili addetti ai traffici (nel 1961 : il 25% a Villa e il 28% a Paola) e infine nei luoghi di raccolta o di spedizione della più rinomata produzione agricola: ad es. Castrovillari (ove i commercianti nel 1961 erano il 15%), Cori-gliano (10%), Nicastro (15%), Soverato (25%), Siderno (20%), Locri (15%), Tropea (18%), Rosarno (10%), Palmi (10%). Per il resto della regione il denaro in circolo è poco e la operosità commerciale è minima: nel 1951 solo il 5% della popolazione in condizioni professionali — per un totale di 36.000 persone — si dedicava a esercizi commerciali. E nel 1961 l’aliquota si è rialzata a 7% perchè il numero totale degli addetti è aumentato a 57.500. Ma di questo già scarso manipolo i 3/4 erano legati ad aziende commerciali al minuto di generi alimentari o a negozietti per forniture di oggetti usuali di abbigliamento o arredamento domestico o a esercizi itineranti da villaggio a villaggio, nei giorni    di fiera — vecchissima e ancora viva pratica locale. E un po’ meno di 1/6 aveva    occupazione in numerosi ma in genere umili — locali di    ritrovo o di mescita, perchè la penisola bruzia, che sul totale nazionale pesa unicamente con il 3,5% dei negozi alimentari e con 1,8% dei negozi che forniscono manifatture, ha però il 3,7% dei bar, dei caffè ecc., e il 5,2% dei locali da gioco, da bigliardo ecc. Di modo che veramente debole è il numero dei commercianti in grosso (neanche un decimo del totale).

    Il porto e i cementifici di Marina di Vibo.

    Esercizi commerciali al minuto in una via della parte nuova di Cosenza.

    E’ vero che negli ultimi anni sono aumentati i negozi dei generi non alimentari: e in questi è divenuta molto frequente la vendita a credito, cioè a rate, sia per quel che riguarda beni di uso corrente (scarpe, vestiti ecc.) sia per gli articoli di costo elevato (mobili, elettrodomestici, radio, veicoli ecc.). Ma il nuovo sistema di forniture ha reso più evidenti le discrasie locali: infatti il numero dei protesti bancari e degli assegni a vuoto si è rialzato in riguardevole misura dopo il 1955 (da 1.500 milioni nel ’51 a 8.300 milioni nel ’58 e a 11.500 milioni nel ’6i). E questo dilatarsi in pariglia delle vendite a credito e della insolvibilità è, come nota bene il De Soultrait, la normale conseguenza di un aumento di bisogni — che il far parte di una nazione in fase di dilatazione economica stimola per inerzia, anche dove la rinascita è più episodica o nebulosa — non congiunto a un proporzionale aumento del reddito: un fenomeno che in effetti denunzia in modo alquanto incisivo il doloroso retaggio di secoli di oscurità e di avvilimento. Anche se l’indicazione del reddito a persona è qui una finzione, data la disparità nella sua ripartizione fra una ristretta cerchia di abbienti — che si rivolgono ad articoli di qualità, importati da Nord — e una massa di popolazione che deve limitare le sue richieste a prodotti elementari, quel valore è fortemente significativo in quanto si pone ad uno degli ultimi gradini — e forse a quello estremo — nella scala nazionale: nel 1951 era, per la media della popolazione bruzia, di 85.000 lire. Nel 1953 si portò a 100.000 ma nel 1955 stazionava a 103.000. E poi aumentato fino a sfiorare le 120.000 nel ’58 e nel ’61 fu stimato a 131.000: il più depresso in Italia. Ma rimane a discreta distanza dalla media meridionale (177.000) e a meno di metà della media nazionale (300.000). Ciò vuol dire che la Calabria, pur avendo il 4,2% della popolazione nazionale, partecipa ora solo con l’1,9% formazione del reddito nazionale.

    Questi aridi dati sono bastevoli — mi pare — a dare un’ultima convincente giunta a quel che si è scritto fino a qui per metter in risalto il disagio economico e la chiusura e la inopia della regione. Un disagio però, la cui scaturigine pare sia da vedere non solo in quei motivi di natura economica o sociale a cui mi sono frequentemente richiamato, ma anche nei riflessi del carico demografico: la Calabria, con il 4,2% della popolazione nazionale, aveva però nel 1951 — per la sua forte natalità — il 6% del totale nazionale dei fanciulli fino a cinque anni e il 5% degli adolescenti da 6 a 14 anni, e nel 1961 il 5,5% della popolazione fino a cinque anni e il 5,3% della popolazione da 6 a 14 anni. Fanciulli e adolescenti che la regione deve ora alimentare ed educare, ma che — una volta maturi al lavoro — non sarà in grado di far vivere (a meno di una ricostituzione ex novo delle sue strutture umane) perchè metà dei comuni ha denunciato negli ultimi anni — si esamini la carta a pag. 422 — una sottoccupazione insanabile coi sistemi economici ora in vigore: e cioè da 40% in su di giornate di lavoro non impiegate. E pure il resto dei comuni ha per 1/3 una sottoccupazione che non è agevole riassorbire: da 20 a 40% di giornate non lavorate. Perciò la popolazione che ufficialmente lavora era nel 1951 solo il 38,5% della popolazione totale (contro una media nazionale di 43,5%) e nel 1961 — per quanto sian rimasti sconosciuti nel Bruzio i fenomeni di ristrutturazione grazie a cui l’entità della occupazione si è ridimensionata ora nella media nazionale a 39,7% — è calata ulteriormente a 35,3% sul totale, per effetto degli invecchiamenti conseguenti alle migrazioni verso il Nord: è uno dei valori regionali di occupazione umana più deboli in Italia e che, riferito a una società così fortemente impastoiata dagli antiquati sistemi e condizioni che si sono con dettaglio descritti, vuol dire inasprimento della debilitazione economica: è un fenomeno che apre la via a un interminabile corteggio di deficienze.

    In realtà il quadro di tali deficienze è la prima cosa che si para davanti a chi studi un po’ la Calabria oggi. La portata della sua povertà strutturale si misura rapidamente sul piano fiscale: l’estimo rurale rivela questa popolazione fra le più povere di beni agricoli, come i sardi, i lucani, i trentini e i valdostani (una imposta di 1.200 lire a persona nel 1951, contro una media nazionale di 2.000 lire) e l’estimo edile la segnala anche più povera di case (un’imposta di 60 lire a persona nel 1953, contro una media nazionale di 200 lire). Non vi è da meravigliare quindi se le condizioni del credito sono quanto mai vili : i depositi negli istituti di credito o in amministrazioni postali da parte della Calabria, formano unicamente l’1,5% del totale nazionale. E con 112.000 lire di depositi a persona in media, la penisola bruzia è attualmente — con la regione lucana — agli inizi della scala della relazione fra popolazione e risparmi, che in Italia ha in media un valore intorno a 295.000 lire.

    Il grado di sottoccupazione secondo i risultati dell’inchiesta parlamentare intorno alla disoccupazione, tenuta nel 1952.

    La sequenza dei dati ora riferiti vale adeguatamente a giustificare la constatazione per cui la Calabria figura agli ultimi gradini in Italia nei consumi di articoli o lavorati non artigianali, e nella adozione di progrediti servizi. Ad esempio (i valori seguenti riflettono le condizioni del 1961): per ogni 1.000 ab. esistono in Calabria 12,2 autoveicoli e 20 motoveicoli in media, contro una media di 17,8 e di 30 per il Sud e una media nazionale di 32,4 e di 71,7. In Calabria solo 9,7 persone su 1.000 sono fornite di telefono e 60 dichiarano di avere in proprietà una radio, contro 19,6 e 80 in media per il Sud e una media nazionale di 55 e di 120. Contro 757 kwh., di energia consumati in Italia a persona, i consumi della Calabria — che pur sono aumentati visibilmente negli ultimi anni — sfiorano sì e no i 300 kwh. La Calabria non dispone che di un letto in ospedale ogni 435 persone — la media nazionale è di uno ogni 172 — e di un numero inadeguato di sanatori antitubercolari (cinque nel 1961). Verso il 1948 — secondo una inchiesta del Bombardieri — la metà dei comuni nella parte nordica della penisola e 2/3 nella estremità meridionale erano privi di fognature, e 1/3 dei paesi mancava di impianti per forniture idriche: negli ultimi due lustri invero, un così deplorevole stato di servizi per la comunità è un po’ migliorato, poiché è intervenuto come finanziatore o imprenditore di opere lo Stato. Ma anche ora (dati del 1961) i comuni privi totalmente di reti idriche sono una trentina, e in quasi 200 l’unica risorsa locale è data da fievoli sorgive o da fontane non di rado inquinate. In qualcosa come 130 villaggi di più di 300 ab. non v’è il medico e 1/6 dei comuni non ha rivendite di farmaci. I paesi con almeno 300 ab. a cui non giunge la strada rotabile sono una trentina: ragione per cui molte vite di partorienti, di infortunati o di malati, e in special modo di pargoli (la cui mortalità è fra le più alte d’Italia: 64 morti per ogni 1.000 unità, contro una media nazionale di 52) che in diverse condizioni si avrebbe molta probabilità di salvare, sono perdute per deficienza di ospedali o di ambulatori, o per disagio di vie di comunicazione. Non è un quadro caricato nei toni e nei segni, ma solo il freddo risultato delle ultime inchieste e rilevazioni svolte su di una realtà umana, che numerose illustrazioni di questo volume riescono abbastanza ad evocare.

    E quelle illustrazioni non figurano la vecchia fame, che dura e resiste a un grado non facile a capire se non viaggiando minutamente per molti villaggi del Bruzio e fermandosi in particolare in quelli ad altitudine di più di 500 m. e un po’ internati fra i monti. Perchè la Calabria è una delle nostre regioni ove i consumi in generi alimentari di maggior uso risultano più deboli. Qualche dato: la richiesta di carni è di almeno 16 kg. a persona annualmente, contro una media nazionale di 24 — e la disparità non è neanche forte (la media del Mezzogiorno va intorno a 18 kg.) grazie ai discreti allevamenti di ovini e di maiali che esaudiscono a quella richiesta. Così così va per le patate, i cui consumi sono di una quarantina di chilogrammi (la media nazionale è di 50) e per i generi ortivi, con una media di 100-120 kg. (contro 138): ma per le frutta si cala a neanche 40 kg. (contro 80). E decisamente umili poi — dato l’esiguo rilievo della pesca — i consumi delle industrie ittiche: 3 o 4 kg. annualmente a persona (contro 7,2 kg.). Nè maggior uso si fa del latte: qualcosa come 24 lt. a persona (contro 60 lt.) e dello zucchero: non più di 7,5 kg. a persona (contro 20 kg. di media nazionale). Discreta invece la richiesta di vino, in misura di 60-70 lt. a persona (contro il centinaio di media nazionale) e forti — come naturale — i consumi oleari : una media di 13 lt. annualmente, che supera quindi quella nazionale (di 11 lt.). Da queste rapide indicazioni, ci si fa agevolmente l’idea di un regime alimentare alquanto deficiente, e la cui base consiste in elementi vegetali: i protidi sono forniti in maggior misura dai cereali e un po’ meno dai legumi, l’olivo è la sorgente principale dei grassi, e una buona dose di zuccheri è desunta dai frutti degli alberi. Gli elementi animali sono scarsi e sul piano energetico giocano una funzione marginale. Ma a un regime così frugale, che in molti casi è al limite della sottoalimentazione, la media dei bruzi destina i 3/4 del suo reddito, se non di più.

    Regione povera vuol dire fievole entità di correnti turistiche

    In tali condizioni di disagio economico, magistralmente denunziate da René Nouat nella recentissima inchiesta francese, come si può pensare che fioriscano quei fenomeni moderni, ma maturati unicamente fra le società progredite e agiate, che sono il turismo e lo sport non prezzolato ? E naturale che le « cose da vedere » — e qui ve ne è gran numero, paesisticamente — esercitano pure in Calabria un richiamo : ma tale richiamo può venire gustato specialmente da chi vien da fuori : e perciò si manifesta per ora in particolare sul turismo di transito. Da chi vien da fuori, ripeto, per la ragione che in Calabria una catena di flagelli naturali ed umani — sismi, frane e alluvioni, malgoverni e ingiustizie a non finire — ha rovinato quanto l’uomo aveva costruito dianzi : e quello che di imponente o di bello fino ai nostri giorni si è mantenuto, è per lo più fascino di pure configurazioni naturali o austerità — un po’ barbara — di manifestazioni umane collettive.

    Una suggestiva insenatura del lago Arvo nella Sila.

    Ma su quanto è rimasto — scriveva anni fa l’Alvaro — i venti del mare e la luminosità del cielo, che non sono solo elementi fisici ma forze a cui l’uomo dà un valore e una misura, han compiuto l’opera, l’han mondata e invecchiata, quasi a donarle una invulnerabile e ieratica stabilità. Colpito da così inusitato ambiente, il turista forestiero che dispone di un autoveicolo, viaggiando verso la più mitografata Sicilia fa qualche sosta nei punti del Bruzio noti per suggestivi resti della grecità o come fresche e balsamiche oasi di riposo: ma è un rivolo di 3 o 4 migliaia di persone nel giro di cinque o sei mesi (cioè da marzo ad agosto). E di quei punti di sosta o di richiamo solo una parte minima si schiera su le migliori carrozzabili, cioè lungo le sole linee ove negli ultimi cinque o sei anni è venuta costituendosi una razionale apparecchiatura turistica, a capisaldi scaglionati a equi intervalli (ad es. i jolly hótels e la catena degli autostelli). A maggior distanza invece dagli itinerari principali e da essi raggiungibili in almeno una o due ore di auto, si dislocano i rari e soli centri — villaggi montani deliziosi per serenità di panorami e di clima — ove finora si è svolto un vero e un po’ rinomato turismo stagionale di classe. I più frequentati sono Camparie, una gaia stazione annucleatasi dal 1926 in avanti, a 1300 ni. sui ripiani più elevati di Aspromonte, e ora formata da un buon numero di villette sparpagliate nei boschi (intorno a 200), da qualche albergo e vari istituti per fanciulli o per convalescenti; e poi su l’altopiano silano i villaggi di Camigliatello a 1250 m. — il più notevole per ampiezza e servizi — e di Silvana Mansio a 1420 m., Lorica a 1310 m. e Mancuso a egual altitudine: anche questi costituiti di villette disseminate fra i boschi (più numerose a Camigliatello e a Mancuso che iniziarono a configurarsi intorno al 1930), di qualche pensione e un albergo o due per ciascuno, di locali di divertimento, di servizi primari ecc. (a Lorica v’è anche una mostra folkloristica). I villaggi nel cuore della Sila funzionano special-mente nei mesi di estate — ma Camigliatello è base pure di sciatori cosentini, catanzaresi e financo pugliesi, in inverno — e ospitano ciascuno un totale di una o due migliaia di persone, che abitualmente vi dimorano per molti giorni — cioè fra una decina e un mese —: sono quindi tipiche sedi di villeggiature famigliari. Non diverso è in estate il tipo di villeggiatura di Camparie (che in quei mesi ospita 2-3.000 persone, di cui un migliaio con dimora più lunga, nelle villette, e il resto con rotazione alquanto più frequente, negli alberghi, nel convalescenziario, negli edifici gestiti da religiosi): ma questa stazione, che in inverno è meglio accessibile di quelle della Sila — ove la neve blocca le strade e solo a Camigliatello si può salire sicuramente col trenino — rimane aperta anche nei mesi invernali, quando il ripiano cacuminale di Aspromonte, con i primi pendii della sua cupola forma splendidi campi di neve e vi operano due sciovie. E in tale stagione il numero dei frequentatori ha flussi notevoli (in buone condizioni di neve, fino a due migliaia di persone) in particolare nei giorni di festa.

    Una zona turistica lungo il lago Ampollino nella Sila.

    Ma se si guarda bene chi anima le ora descritte e invero fievoli correnti turistiche montane, è facile individuarvi quasi solo la partecipazione della classe abbiente locale: nella Sila si recano i cosentini e i catanzaresi un po’ danarosi o — a rivivere vari giorni nella regione di nascita — tornano, per la vacanza di estate, le famiglie bruzie migrate a Napoli o a Roma o a Milano. E Camparie è la gran meta per i diporti invernali e per più riposate villeggiature nella stagione buona, di quei professionisti, funzionari, commercianti, proprietari discretamente agiati — qui un poco più numerosi che nel resto della penisola bruzia — che risieggono su ambo le rive dello Stretto. Il turismo di altitudine di una regione di bei monti, come è la Calabria, risulta quindi per ora come un fenomeno di élites.

    Nè più famigliare ed usuale — in una regione che ha zone di riviera incantevoli — è il turismo marino: che anzi si è divulgato solo negli ultimi quindici anni. Le uniche zone ove si è creata dopo il ’48 una industria balnearia di qualche valore, sono — e la cosa è naturale — le fascie litorali pertinenti ai due principali complessi urbani della regione che si rivolgono al mare: cioè Reggio e, dal suo amplissimo e proteso balcone, Catanzaro. Nella riviera di Reggio, là ove il litorale è più arenoso e meno declive in mare — cioè a sud della fiumara Annunziata e nella insenatura di Catona — sono sorti numerosi stabilimenti per bagni (con ristoranti, trampolini da nuoto e piste da ballo) frequentati ora fra maggio e ottobre da 12-15.000 persone (fra cui due migliaia di tedeschi e francesi). E nella parte più interna della insenatura di Squillace ove s’alternano pittoreschi e scogliosi promontori (come la Coscia di Stalettì) e aperte falcature di lidi, ha avuto una intensa animazione nel giro di una ventina di km. la sequenza dei villaggi balneari di Marina di Catanzaro (o meglio Catanzaro Lido, come è oggi il suo nome ufficiale) di Copanello e di So-verato: la prima località più famigliare, con pensioncine e molte minuscole case di affitto (negli ultimi anni ha ospitato in media 5.000 persone); fortemente suggestiva la seconda che va punteggiando di graziose — e un po’ nervose — villette i ripidi sproni vivariensi ; e la terza elegante e mondana. Sorta per dilatazione di una singolare « marina » la cui popolazione — che negli ultimi trenta anni si è duplicata — ha solo in parte origini bruzie, ma è formata per di più da pescatori siculi, da negozianti amalfitani ecc., Soverato ha fruito dello spirito di iniziativa di queste nuove correnti demografiche, che si contrappone a quello meno dinamico dei bruzi. Da qui le manifestazioni folkloristiche, artigianali, veliche che vi si svolgono da vari anni in agosto —- quando il flusso dei villeggianti supera il migliaio di persone — e nel ’58 il primo caso in Calabria di una iniziativa su piano nazionale per una pianificazione balnearia.

    Una zona riservata al turismo lungo il lago Cecità nella Sila

    Anche in queste marine l’ambiente è dominato da una società agiata per lo più urbana: ma la contiguità degli insediamenti urbani fa in qualche modo convenire verso le zone di bagni con stabilimenti meno appariscenti e cari, pure un discreto numero di persone di condizioni sociali un po’ meno elevate: e ciò imprime alla industria balnearia connessa coi più popolosi centri regionali un tono alquanto meno selezionato del turismo praticato sui monti. Però in ambo i casi il turismo non è cosa veramente popolare, in Calabria. E solo da cinque o sei anni qualche timida apertura in tal direzione si è manifestata lungo le marine dei paesi a cui una fioritura di colture rinomate o un impianto industriale ha portato di riverbero una evoluzione nei generi di vita: ad esempio Praia con la fronteggiante isola di Dino tarlata da numerose e belle grotte, Diamante e Belvedere, Paola e Amantea, la Marina di Vibo — i cui richiami sono fondati specialmente su alcune esibizioni folkloristiche e canore del vicino centro — e Tropea il cui lido di arena bianchissima e fine è dominato dal magnifico dirupo che la parata dei suoi torreggianti edifizi incorona e reso più fascinante da un paio di neri isolati scogli una volta circondati dal mare e da un centinaio di anni saldati al litorale. Nè sono da dimenticare, agli estremi meridionali, le marine di Gioia e di Palmi con qualche rudimentale camping, e Villa con un discreto impianto balneario. E lungo l’arido e caldo nastro del litorale ionide, il cui risveglio degli ultimi lustri non ha però violato — per lunghissime distanze — una solitudine che aveva preso la finzione del mito, le quiete e largamente arenose, ma in genere umili stazioni balneari di Locri e di Siderno, di Crotone e di Ciro, di Schiavonea e di Trebisacce. Ma salvo un’eccezione — connessa con la vitalità industriale crotoniate — queste più domestiche marine sono prive, almeno per ora, di una elementare apparecchiatura turistica e frequentate solo da una o due centinaia di villeggianti stabili. Così come unicamente frequentati da una clientela locale ed egualmente modesti per operosità e istituzioni sono in questa regione i luoghi di sorgenti termali: il più noto, Guardia Piemontese — ove sgorgano acque solfuree, indicate per le cure costituzionali in genere e in particolare per le affezioni reumatiche — ha avuto negli ultimi anni una media di 6.000 ospiti, per una decina di giorni ciascuno. Ma meno di un migliaio ne registrano le sorgive clorurato alcaline, bromurate e iodurate sui bordi della piana sibarita, a Spezzano degli Albanesi e a Cassano (utili per affezioni gastriche e renali) e quelle solfuree e clorurate di Sambiase ai limiti della piana eufemiate. Va rilevato anzi che in neanche una di queste stazioni le erogazioni idriche minerali sono raccolte e confezionate industrialmente per la vendita in bottiglie, ma la popolazione della Calabria importa i liquidi minerali per i suoi consumi dalle stazioni idrominerali alpine o toscane.

    In ultima analisi, la forma più popolare di turismo in Calabria rimane quindi — la cosa non meravigli — il turismo religioso, cioè le peregrinazioni o i raduni, congiunti di regola con una fiera paesana, ai luoghi più rinomati di culto. E tali manifestazioni, che sono il ricalco fedele di antichissimi riti stagionali (come quelli che si svolgono a metà primavera — quando termina la stagione piovosa e inizia una nuova ruota di lavori agresti — o in piena estate, dopo i raccolti, o in ottobre, prima che si chiuda la buona stagione) e si riferiscono in special modo al culto di Maria di Nazareth, che in molte zone è puramente la continuazione del più remoto culto per Hera praticato dalle comunità italiote e poi anche dai Bruttii, muove oggi un numero elevatissimo di persone: possiam dire intorno a 100-120 migliaia annualmente.

    Un angolo della riviera turistica di Copanello.