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Distribuzione, emigrazione e storia della popolazione

    La popolazione

    La più elementare prova della chiusura, o meglio dell’arroccamento fra cui la popolazione della Calabria è rimasta a vivere per secoli, la si trae da un esame della sua distribuzione in base a quanto rivelò il censimento del 1861 : cioè la prima vera misurazione della demografia di questa regione. Si guardi la carta ove sono riportate le densità per comune ai tempi della unificazione nazionale e sarà facile cogliere uno stacco fra i valori discretamente elevati della zona di media altitudine — ma già fortemente accidentata — fra i 250 e i 750 m., e i valori in genere più umili (meno che nella regione dello Stretto) della zona litorale al di sotto di 250 m., specialmente là ove la sua configurazione è pianeggiante e aperta. Nella prima vivevano, nel 1861, intorno a 2/3 della popolazione (e un buon 8% si insediava sopra i 750 m.): ma lungo le coste invece — ove il disordine idraulico lasciava regnare il morbo plasmodio) — solo il 27%. Per le calamità che l’avevano colpita negli ultimi due secoli, la penisola figurava poi come la regione del meridione italico ove gli aumenti di popolazione — per quanto salienti, riguardo al periodo della dominazione ispanica — erano stati meno regolari e continuati nel diciottesimo secolo.

    Vicende della popolazione in età risorgimentale

    Nel 1765, quando si ricavano le prime indicazioni a cui possiam dare un relativo, se pur minimo credito, la popolazione era di 648.000 unità e salì a 725.000 anime nel 1775. Ma nel 1788, uscita da una spaventevole catastrofe — il sisma del 1783, con la coda dei morbi conseguenti, mietè 50.000 persone — la penisola bruzia denunziava non più di 750.000 abitatori. Invero è precisamente in questi anni di iniziale, timido, ma già ovunque riconoscibile ricambio sociale — e di formazione delle prime borgate di «marina» sui litorali occidentali, e di iniziative per una migliore sistemazione dei suoi abitati nelle aree colpite da sismi e frane — che la regione dà segni pure di un deciso e sicuro aumento demografico: dopo il periodo napoleonico, cioè nel 1815, la popolazione risulta di poco più di 805.000 ab. (negli ultimi diciotto anni era cresciuta quindi di qualcosa come 5 per mille annualmente). E nel 1851, secondo l’ultimo censimento borbonico si è portata a un milione e 138.250 ab.: in quei trentacinque anni di intervallo il suo aumento aveva perciò segnato un ritmo notevole (quasi 12 per mille annualmente). Un ritmo che, pure alleggerendosi via via, si è continuato fino verso il 1881 (la popolazione nel 1861 è di un milione e 140.200: con un aumento di 5,7 per mille annualmente sale nel 1871 a un milione e 206.300 ab., e nella deca seguente ha un aumento di 4,4 per mille annualmente). Ma dopo il 1881, quando la popolazione censita fu di un milione e 257.800 ab., si manifesta nelle condizioni demografiche della Calabria — come si può cogliere negli schemi qui inseriti — una divaricazione curiosa : da un lato — in sede di demografia naturale — la natalità che rimane forte (38,6 per mille fra ’81 e ’91, e poi 40,4 per mille fra ’91 e ’96 e 37,7 fra ’96 e 1901 e 33,5 nei primi cinque anni del secolo e 34,5 fra ’06 e ’14) e la mortalità che a poco a poco cala per l’iniziale divulgazione — specialmente nelle zone colpite da plasmodio — di cure igieniche e servizi medici un po’ meno rudimentali (da 29,3 per mille fra ’81 e ’85 a 28,3 fra ’86 e ’90, poi a 27,8 fra ’91 e ’95 e a 24,6 fra ’96 e 1900 e a 22,2 nei primi otto anni del nuovo secolo e a 19,7 fra il 1909 e il 1914) elevano il bilancio naturale in misura riguardevole: cioè da 9,3 per mille di margine fra ’81 e ’85 a 10,4 fra ’86 e ’90 e a 12,6 fra ’91 e ’95 e a 13,1 negli ultimi cinque anni del vecchio secolo e infine — dopo una lieve contrazione a 11,6 nei primi anni del nostro secolo — a 14,8 fra il 1909 e il 1914. Ma questo aumento non si rivela e riflette sul piano del popolamento, cioè sul carico totale della popolazione: nel 1901 sono censiti un milione e 370.300 ab. — la qual cosa significa un aumento reale pari solo a 4,2 per mille annualmente fra il 1881 e il 1901. E nei quindici anni seguenti il vantaggio si deprime a 2,2 per mille ogni anno. A parte i vuoti aperti dal disastro sismico del 1908, la ragione di questo calo — e perciò della mancata rispondenza fra demografia naturale e popolamento reale — è da vedere specialmente nel fenomeno della emigrazione oltremare, che si inizia fra il ’70 e il ’75 nel cosentino e nel padano, qualche anno dopo (1882 e seguenti in modo particolare) dilaga nel distretto di Catanzaro e verso la fine del secolo invade l’estremo della penisola: un fenomeno che impronta di sè la vita della Calabria nei cinquanta anni fra il ’70 e il ’20 e che è conveniente esaminare più in dettaglio.

    Sviluppo demografico fra il 1861 e il 1961 (non si è data la quantità della popolazione che vive nei centri per il 1961, perchè i risultati dell’ultimo | censimento, a tale riguardo, non sono stati   fino ad Ora editi).

    Le condizioni politiche stabilite dopo l’unificazione nazionale, aprivano l’ambiente bruzio, così poveramente ritardato, a grandi novità. Con i paesi da cui tali novità giungevano la Calabria non aveva avuto consuetudine di legami: e i primi elementi del Nord che la regione ebbe modo di sperimentare furono i funzionari governativi, abitualmente settentrionali. Ma in questi la popolazione vide solo dei rigidi e tenaci esecutori di nuove leggi — che in parte non erano tagliate a sua misura — inesperti dei suoi problemi, remoti dal suo spirito. E i funzionari settentrionali scendevano in Calabria di mal animo, con la convinzione di portarsi in un ambiente primitivo e rozzissimo — questo era vero — e per di più facile a violenze e brutalità, riottoso a ogni autorità legale e — qui era lo sbaglio — che si doveva governare coi modi forti e un po’ coloniali. Da tale impostazione dei vicendevoli rapporti non potevano venire chiarimento ed equità per le reali condizioni della regione e neanche benefizi ai suoi bisogni. La convenienza di potenziare e di rinsaldare il debole e anemico spirito di unità nazionale, come infrenò fra il ’60 e l’8o quei disegni rivoluzionari che potrebbero avere dato più naturale continuità al moto risorgimentale e consigliò di non risolvere su di una più razionale base federativa o regionale la struttura d’Italia, così portò nelle regioni meridionali la legislazione del regno piemontese da cui la fase militare dell’unificazione era partita. Specialmente nei suoi lati fiscali, la nuova legislazione oberando ogni pur minimo provento (si pensi alla imposta sul macinato che durò dal 1868 fino al 1884) fomentò in Calabria irritazione e delusione e animò aspri malumori. E questi giunsero a forme di estrema gravità nelle classi umili, non di rado istigate dai proprietari rurali che — pur giovandosi della vendita a buon mercato di quelle terre che lo Stato veniva confiscando agli enti religiosi, e con esse ingrossando i loro patrimoni — delle nuove condizioni politiche erano in realtà l’elemento più ostile perchè più restio ad accogliere ciò che il reggimento settentrionale aveva di buono: la disciplina e l’onestà nella esplicazione dei servizi civili e — dopo l’anarchia degli ultimi secoli — un discreto ristabilimento dell’autorità dello Stato. Perciò ebbe una nuova fiammata fra il ’62 e il ’70 quella vecchissima manifestazione di rivolta a cui già dagli inizi del secolo si era dato il nome di « brigantaggio » e che quietata dopo il 1810, aveva avuto un risveglio — già fortemente colorito di elementi sociali — fra il ’47 e il ’49. A questo moto che non fu solo della Calabria — ma insanguinò fino al ’70 diverse plaghe del meridione e vi arrestò o vi rese più disagevole una rinascita economica —- e si mescolò a volte con la reazione del legittimismo borbonico e si rivestì financo di un nebuloso patriottismo meridionale (e perciò fu guidato per qualche anno, in buona fede, pure da strambi e generosi uomini di ventura, come l’iberico Borjès) la Calabria partecipò animosamente: e il moto fu vinto dai mezzi decisamente risoluti, ma in più di un caso francamente coloniali, dell’esercito nazionale, con una vera e propria guerra interna. Ma in Calabria il cosiddetto brigantaggio ebbe poco, o solo sporadicamente nei primi anni, configurazione e valore politici (per vedere spuntare — e non più che questo — dei problemi e dei sentimenti politici nella società subalterna locale bisogna che aspettiam gli inizi del nuovo secolo) : e diventò presto ciò che era stato già prima, da vari secoli : una manifestazione bruta e rusticana, potremmo dire analfabeta, del grande disagio materiale in cui versava la maggior parte della popolazione (concordo con le tesi di una recente opera del Molfese). Una manifestazione quindi grezzamente sociale a cui solo una opera di rieducazione civile e una razionale ricostituzione economica potevano recare soluzione : ma erano iniziative che prima di venire a maturazione richiesero una congrua documentazione intorno alle condizioni regionali. Documentazione che fino al 1860 non si aveva e che non fu facile metter insieme poi: si pensi che i dati del primo censimento nazionale in qualche zona della regione (ad es. i comuni silani e del Marchesato) risultano poco sicuri e convincenti e che — a parte gli studi pur buoni del Grimaldi e del Pasquale — non esistevano relazioni ufficiali intorno alle produzioni agricole e al modo di ripartizione della proprietà e neanche un catasto topografico, e non si aveva della regione una cartografìa moderna (le spedizioni di Garibaldi s’erano dovute servire della vecchia carta del Rizzi Zannoni, ultimata nel 1812, poiché una carta più aggiornata, intrapresa dai governanti a Napoli, ma in modo poco alacre, non era stata portata a termine): e una figurazione moderna della topografia bruzia sarà edita solo verso il 1875. E naturale quindi che prima che si iniziasse — e fu solo dopo il 1880, con visuale molto condizionata dalle classi dirigenti locali — un’indagazione un po’ sistematica da parte delle istituzioni governative per ricavare una migliore informazione della regione, l’opera di vera scoperta delle condizioni bruzie sia venuta compiendosi per vari lustri in forma di inchiesta personale, non di rado polemica verso la deficienza o l’opacità della azione governativa.

    Natalità e mortalità della popolazione dal 1881 al 1961 : aliquota per ogni 1000 unità.

    Le prime inchieste meridionalistiche in Calabria

    La prima inchiesta fu quella eseguita nel 1862 da un giovane medico settentrionale: Cesare Lombroso che aveva soggiornato per tre mesi in Calabria con le truppe incaricate di reprimere l’anarchia locale: un libretto di note folkloristiche e di apprezzamenti (con alcune statistiche orientative) su le condizioni igieniche, che fu poi ingrossato con gli anni, mediante l’aggiunzione di nuove informazioni di prima e di seconda mano, e delle prime statistiche ufficiali su le popolazioni e le coltivazioni (costituendo nel 1898 una edizione di maggior mole, che ebbe ai suoi giorni una certa fortuna, più per la popolarità conquistata dopo il ’70 dal Lombroso come psichiatra, che per il suo pregio intrinseco). Ma la più significativa e notevole di tali esperienze fu quella che un giovane nobile toscano, Leopoldo Franchetti, compì nella seconda metà del 1874, con un viaggio per buona parte della penisola a sud del Pollino (che era la prosecuzione e la fine di un minuzioso giro iniziato l’anno prima in Abruzzo). Da questa dimora in Calabria egli trasse materiali per la seconda parte di uno schietto, acuto ed apertissimo libretto (Le condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane edito a Firenze nel 1875) la cui consultazione conserva fino ai nostri giorni una meravigliosa freschezza di descrizione e una singolare penetrazione dell’ambiente sociale: un’opera che doveva poi stringere i più amichevoli legami fra il barone Franchetti e Giustino Fortunato, e che segnò per quest’ultimo la spinta decisiva alla sua azione meridionalista. Nel quadro del Franchetti — che rivela più volte una riguardevole rispondenza con le condizioni odierne (o solo di qualche anno fa) delle parti della Calabria che restano più remote dai principali centri — il dramma della vita in questa regione è còlto nella brusca divisione della società locale in due classi: quella, grande di forza ma esigua di numero, dei signori — cioè i proprietari latifondisti, nobili o borghesi — e quella, grande di numero, degli oppressi o proletari (uso le definizioni del Franchetti): cioè coloro che lavorano la terra in condizione di servitù economica e di cultura semiselvaggia. Due classi in diverso modo grandi che lasciano per ora il minimo spazio a un’area sociale media, di costituzione incerta : una sparuta zona « di contadini che sono quasi galantuomini o di galantuo -mini che sono quasi contadini, i quali hanno tanta terra e tanto capitale mobile da poter, coltivando terra propria o presa in fitto, menare vita agiata per quei paesi », e di minuscoli commercianti « poco numerosi per influire sulle condizioni economiche e morali del paese » e infine di legali di ogni tipo, eccessivamente numerosi pei bisogni di un paese misero e chiuso (pp. 60 e 98). Ne emerge chiarissima una società che va continuando a tirare avanti con strutture antiquate, e ha deficienza di denaro e di esperienze che sian in grado di dare — oltre a una povera remunerazione di estenuanti fatiche — anche la forza per migliorare un po’ le attrezzature e i sistemi di lavoro,

    per ridimensionare le forme aziendali ecc. : una società alfine il cui artigianato, una volta di qualche pregio, è ora declinante (quello serico specialmente) o meglio è divenuto « relativamente ristrettissimo [e] richiesto dai pochi bisogni » (pag. 102) perchè frantumato a poco a poco dal concorso degli stabilimenti del Nord, la cui industria più progredita manda giù dopo il ’70 i suoi prodotti di abbigliamento, metallurgia ecc.

    Leopoldo Franchetti (1847-1917) fra le baracche di Reggio, intorno al 1910.

    Il quadro del Franchetti — cioè di una persona proveniente, con precise finalità di inchiesta, da una fra le più evolute regioni del nord Italia — coincide singolarmente con quello di un verismo appassionato, che si trae dagli scritti dedicati nel ’64 a schizzare la disorganicità sociale della Calabria, da Vincenzo Padula nel suo giornale Bruzio. Il problema invero era già stato posto in termini seri un po’ meno di un secolo prima, dopo il sisma del 1783: ma ora, per influsso delle correnti positivistiche è sentito con maggior maturità e sviscerato con maggior cura e acume, mediante una documentazione di anno in anno più sicura e larga. Il lato più negativo del problema era giudicato giustamente, da Franchetti e da Padula, nel continuato e notevole aumento della popolazione: l’aumento del suo carico, divenuto già pesante per la debole intelaiatura economica della regione, era a sua volta ragione di un incremento di povertà. Una povertà però, che le popolazioni — fra cui dopo il ’70 penetra con le prime dislocazioni per la coscrizione militare, con la dimora dei funzionari nordici, con l’apertura della prima ferrovia ecc. qualche idea (anche se nebulosa) di come si viveva nelle civili regioni a nord di Roma — non paiono ora più inclini a subire pazientemente, fino a quella esasperazione da cui erompe il banditismo: e che quindi si configura per loro più o meno coscientemente come deficienza delle presenti condizioni culturali e in particolare delle strutture agronomiche. Come perciò risolvere il problema della estrema povertà — che era poi l’origine di una vecchia fame — e quello conseguente della esuberante popolazione, che era un problema di mano d’opera? Per il Franchetti una delle soluzioni più elementari per mitigare la fame era la spartizione razionale — cioè solo nelle superfici che si potevano seminare a frumento o a patata o a piante da erbaio, o coltivare a vigna — dei demani comunali: la qual cosa significava esplicitamente (pag. 124 e seg. dell’opera citata) una rivalutazione ed esecuzione integrale del piano napoleonide che, per quanto non abolito, aveva avuto fiacchissimo corso dopo il 1820 e solo fra il ’50 e il ’60 qualche segno di ripresa sotto l’impulso delle novità politiche italiane. In realtà fra il ’20 e il ’60, insieme al fenomeno (già descritto) di rinunzia alle quote di terra ex feudale da parte di una forte aliquota degli assegnatari — che diè origine a una accumulazione di quote in mani borghesi, e quindi a una ricostituzione di grandi o per lo meno rilevanti proprietà — aveva continuato l’opera di usurpazione nei demani, svolta ora da un buon numero di autorevoli borghesi (per sè o pei loro clienti di fazione) quando qualcuno di loro era a capo di un comune. Ma neanche i funzionari nordici dopo il ’6o furono in grado di metter fine a questa catena di depredazioni. Precisamente nel ’74, quando il Franchetti si trovava in Calabria, il parlamento nazionale discuteva del problema dei demani della Sila (di cui pure il Franchetti scrive a lungo, e con particolare saviezza e disegnando soluzioni alquanto simili a quelle poste in atto nel 1950): un vecchissimo problema che, ignorando in pieno l’esigenza segnalata dal Franchetti di sperimentare su quegli altopiani un sistema di agricoltura adeguato al clima e ai suoli silani — e quindi più somigliante alla agricoltura della media Europa — fu risolto poi nel ’76 con una definitiva transazione a favore di quei grossi proprietari i cui beni sugli altopiani silani erano derivati in ogni età da usurpazioni (le più vaste esaminate già dal Zurlo nel 1790 e le ultime descritte fra il ’48 e il ’52 mediante una verificazione del Barletta). E tale crisma legislativo a una operazione che per lo meno era stata di indebita incamerazione e chiusura di terre costituenti gli unici beni di miserevoli comunità rurali, fu con ogni probabilità una forma di remunerazione o premio che lo Stato unificato dava ai proprietari cosentini — a modo loro liberaleggianti fino dai primi echi della rivoluzione di Francia — per la loro partecipazione, clientelistica ed egoistica in genere ma parimenti notevole per stimoli e peso, ai moti risorgimentali fra il ’46 e il ’60.

    Una delle ultime fotografie di Umberto Zanotti Bianco (1889-1963)

    Densità della popolazione secondo il primo censimento nazionale del 1861.

    La ripartizione dei demani, l’impianto di una viabilità, le prime bonificazioni

    E pur vero che anche l’operazione della ripartizione dei demani fra le plebi rurali fu risvegliata in quegli anni: ma con le deficienze che prima dell’unificazione l’avevano resa inutile pei proletari (numerosi proprietari avevano apertamente dichiarato a Franchetti « d’essersi formate bellissime tenute a poco prezzo, comprando dai contadini quote comunali a prezzi derisori »: pag. 126) e con scarsa intenzione di fare opera di rianimazione sociale. In sostanza, più che aiutare — come aveva auspicato il Fran-chetti — la soluzione del problema della fame, tali ripartizioni furono destinate a scopi eli convenienza eli volta in volta congiunturale: e così nel periodo fra il 1862 e il 1875 – quando fu assegnato un totale di 35.000 ha. a quasi 15.000 famiglie, specialmente nella parte mediana della regione e nei comuni cosentini — l’alienazione dei demani fu usata come companatico nella guerra contro il banditismo che si sperava di reprimere col regalino di qualche palmo di terra ai braccianti. Diversamente nel periodo fra il 1880 e il 1890 l’operazione nei comuni della catena paolana, delle fiancate silane e delle pianure sibarita e rosarnese specialmente (per un totale di 19.000 ha.) ha avuto per stimoli, sul piano delle motivazioni politiche, il cresciuto malumore dei proletari verso i « galantuomini » per la ratifica delle vecchie usurpazioni — e quindi l’investitura di autorità che il parlamento nel ’76 aveva dato a chi già da un buon secolo viveva agiatamente — e su di un piano di utilità economica, la convenienza di infrenare, con la promessa della terra, gli esodi migratori che dopo il ’78 avevano in forte misura causato vuoti nel mercato del lavoro e quindi aumento dei salari per la mano d’opera agricola (cosa sgradita ai galantuomini). L’assegnazione ai braccianti di un po’ di terra dei demani era quindi, chiaramente, in funzione di quella classe dei borghesi proprietari o affittuari agricoli, che nella Calabria del secolo scorso (e la situazione è continuata così fino al 1950) ha avuto in mano qualunque leva di comando. E a vantaggio esclusivo di tale classe fu poi nel ’66 e anni seguenti la vendita dei beni chiesastici incamerati dallo Stato e costituenti aziende rurali: aziende per lo più mal tenute quando lo Stato le avocò a sè, ma ubicate di frequente nei distretti meno poveri della regione per suoli e dotazione di mulattiere e di ricoveri (e non sui pendii in genere aridi o dispogliati ove si    spandevano i demani ripartiti fra i braccianti). Da questa operazione uscirono ingrandite molte già vaste proprietà private, col risultato negativo di una congelazione o distrazione di quelle capacità finanziarie locali che la borghesia avrebbe dovuto investire per migliorare le sue aziende e quindi la vita economica della regione.

    Scalea.

    Di una cosa in ogni modo non si può non dar merito ai governi nazionali dopo l’unificazione, anche per ciò che riguarda l’iniziale soluzione dei problemi dianzi ricordati: e cioè degli impulsi dati, specialmente nel periodo fra il 1870 e il 1900 — ma poi anche fino al 1920 — ai cosiddetti « lavori pubblici ». Nel primo lustro dopo l’unificazione, ai funzionari che da Nord venivano in Calabria, la regione si rivelò, per servizi e opere di utilità collettiva, in condizioni incredibilmente pietose: sì e no iniziata la grande viabilità, con la sola strada delle Calabrie — che misura 333 km. — di costruzione napoleonica, e perfida per tenuta e deficientissima per diramazione la rete fra i più notevoli centri ionici, congiunti alla carrozzabile di Napoli da non più di una trama. Ma la viabilità locale era basata unicamente su rudimentali e poco sicure mulattiere e piste. Quindi nel 1861 la maglia viabile della regione era di soli 864 km., ivi inclusa la strada delle Calabrie.

    E neanche iniziata — fuorché in una area — era la bonificazione dei litorali malsani e la regolazione dei corsi fluviali nelle brevi pianure: nel 1865 esistevano (secondo una relazione del Pareto) 3.500 ha. di ristagni paludosi a lato del Crati, nella sezione a monte di Tarsia e fino a Castiglione, e nella piana sibarita 13.500 ha. coperti in continuità da esondazioni fluviali e 1.680 ha. di pantani. Poi 24.200 ha. di aree paludose lungo il litorale del Marchesato e 4.200 ha. ai bordi della piana locrese e 11.600 ha. sul fondo della piana di Nicastro. Un po’ meno, cioè intorno a 2.400 ha. in diverse parti della piana di Gioia. In sostanza solo in una sezione di quest’ultima piana, cioè l’agro di Rosarno, v’era stata (per quanto ristretta alla cerchia di una grande azienda famigliare) una disciplinata e alquanto alacre iniziativa di redenzione idraulica e agricola. Qui dopo il sisma del 1783, come aveva scritto il Colletta (lib. II, cap. 27) s’era visto « l’acqua o raccolta in bacini o fuggente mutare corso e stato, e i fiumi [Mesima e Metramo] adunarsi a lago o distendersi a paludi… e correr senz’argini a inondare o isterilire fertilissimi campi»: per cui il paludismo, già serpeggiante lungo quei fiumi, aumentò la sua forza e la popolazione scemò agli inizi del secolo a un quinto di quel che era trent’anni prima. Fu in tal situazione che il marchese Vito Nunziante intraprese nel 1818 la bonificazione di un decimo di quella zona (che in totale copriva 8.200 ha.) mediante l’arginatura dei due fiumi principali, la sistemazione degli scoli e lo svuotamento per scolo dei pantani e l’impianto di pioppi per irrobustire la tenuta delle arginature. Dopo il ’25 si eliminò la boscaglia che ostruiva nella parte più bassa della piana l’efficienza degli scoli e si iniziò la prima piantagione di alberi da frutta (agrumi): quindi la fascia litorale da Nicotera a Gioia, dianzi sterile e vuota, potè popolarsi prima del ’30 con coloni adescati da buone condizioni di rapporti aziendali (e anche con galeotti che avevano espiato i 2/3 della pena). E questo primo sciame d’uomini, che le condizioni igieniche della piana — migliorate sì, ma in modo qua e là inadeguato — non consigliarono di sperdere sui singoli fondi, in case isolate, si adunò in un villaggio che prese il nome di San Ferdinando e che nel 1840 aveva già un migliaio di anime. Via ad eccezione di questa zona le piane litorali del Bruzio erano — quando nel ’65 le esplorò il Pareto — in pieno disordine idraulico : le torbide uscite dai fiumi a ogni inondazione primaverile, e spaglianti fra le dune litorali, vi producevano pantani e ristagni frequentissimi specialmente là ove sfociavano l’Amato e l’Angitola, l’Allaro e lo Stilaro, il Tacina e il Neto. Pure la descrizione che il Lenormant lasciò nel 1881 della piana di Sibari, è di una brutale desolazione (« ici cessent les habitations humaines. Tandis que les parties onduleuses et élevées de la plaine montraient des bourgs populeux et de ?wm-breuses massarie… ces grandes et luxuriantes prairies que l’on ne fauche jamais, sont desertes. On n’y voit que de nombreux troupeaux qui paissent solitaires et presque sauvages, des taureaux blancs enfoncés jusqu’au ventre dans une herbe d’une incroyable épaisseur, et des buffles qui recherchent de préférence les endroits fangeux, les flaques d’eau dormante et les canaux où ils aiment à se plonger pour échapper aux ardeurs du soleil. C’est que la fièvre règne en maîtresse dans ces fonds marécageux, dans ces magnifiques prairies trop abondamment arrosées »: vol. I pag. 225).

    Diamante.

    E neanche si era ventilata una sistemazione forestale e idraulica dei distretti montani, che il selvaggio disboscamento negli ultimi tre secoli specialmente, aveva rovinato in modo spaventevole. Primitive poi e più di frequente manchevoli le attrezzature degli scali marini, salvo in quello di Crotone che aveva avuto una sistemazione discreta ad opera di Carlo III: e questo in un’epoca durante cui la totalità (o quasi) dei rapporti mercantili della Calabria con Napoli, e buona metà del traffico delle persone con il nord della Penisola si svolgevano per via di mare. Perciò nei primi cinquanta anni dopo l’unità, l’azione dello Stato si manifestò specialmente nella pianificazione e nella esecuzione di opere pubbliche, grazie a una legislazione — invero alquanto frantumata e lacunosa — per le aree depresse del meridione, che era stata iniziata nel 1866 e fu aggiornata via via fino al 1906, quando per la Calabria i suoi dispositivi furono integralmente fusi e coordinati in una « legge speciale » per la regione, di cui era stato ideatore e sostenitore Bruno Chimirri. L’apertura di nuove strade forma sicuramente il lato più rilevante di tali iniziative: fra il ’62 e il ’70 si era iniziato l’irradiamento in Calabria della maglia delle strade nazionali, con fini a volte militari — la qualcosa giustifica la costruzione abbastanza spedita e razionale della rete viabile nell’altopiano della Sila, durante le operazioni di repressione del banditismo. Nel ’66 si pose mano a un piano di costruzione di strade fra i vari distretti della regione, per 2500 km. : di cui nel 1906 erano già aperti più di 1000 km. e un po’ meno di 500 erano in via di ultimazione. E nel ’68 fu imbastito uno schema di immagliatura delle strade comunali, che rimase però quasi ovunque ineseguito, per deficienza finanziaria o inesperienza edile o rivalità locali ecc. dei comuni, fino agli inizi del nostro secolo — quando lo schema fruì di una speciale convenzione del 1902 per l’edificazione delle strade di accesso agli scali delle ferrovie.

    Vedi Anche:  La storia della Calabria

    Queste erano state in quegli anni costruite in base a un disegno alquanto elementare, che però si è conservato inalterato fino a oggi: il disegno di due linee litorali — cioè quella ionica di 397 km. dai confini lucani a Reggio, ultimata nel 1875, e quella costeggiante il Tirreno, per 273 km. dal seno di Policastro a Reggio, che fu aperta nel 1895 — congiunte da qualche diagonale, nei segmenti di più facile transito fra i due versanti della accidentata regione. Delle diagonali, la prima a venire ultimata (nel 1899) fu — come naturale — la linea da S. Eufemia a Marina di Catanzaro, che in soli 48 km. salda gli opposti litorali nel punto di maggior strettura della penisola bruzia e supera agevolmente i dolci rilievi istmici. Ma più brigosa fu la costruzione di una linea diagonale a nord della Sila, che pur si giovava della buona penetrazione della valle del Crati: e qui invero, per i 70 km. del colatoio da Sibari a Cosenza, la linea fu già in opera nel 1879. Però il superamento della catena paolana creò tali problemi, specialmente di pendenza, che solo nel 1916 potè iniziare a funzionare la linea da Cosenza a Paola (di 58 km.) che a motivo della sua forte inclinazione è fornita per vari km. di cremagliera su ambo i versanti. Altre e più meridionali congiunture fra le due linee litorali non furono convenienti : ma ai tronchi di così rada maglia iniziò ad inserirsi per impulso della legge speciale varata nel 1906 un discreto numero di linee locali a scartamento minore, gestite da società private e la cui costruzione durò fin verso il 1936, con lo scopo di unire al descritto sistema viario quei centri di qualche risalto (come Castrovillari e Vibo) o le aree di più densa popolazione (come i casali di Cosenza e la zona interna della piana di Gioia) o i luoghi di raccolta di notevoli quantità di produzioni forestali (ad es. Camigliatello sui pianori silani, e i paesi più interni del Marchesato, e Chiaravalle agli sbocchi della Serra) che erano restati fuori e più o meno distanziati dalle linee ferroviarie nazionali, sopra cui unicamente si svolgevano — agli inizi del nostro secolo — le principali correnti del traffico regionale.

    Cetraro.

    Risultato ben più meschino aveva avuto fino agli esordi del nostro secolo l’opera dello Stato nella sistemazione fluviale: opera iniziata in Calabria non prima del 1882 con la legislazione che trae nome dal Baccarini e che aveva di mira specialmente il prosciugamento delle aree palustri, focolaio di infezione plasmodica. E da ricordare che precisamente nel periodo fra il ’70 e i primi del nostro secolo tale infezione segnò il culmine della sua gravità nella penisola italica, e in modo particolare in Calabria, dove un ventesimo della popolazione ne risultò colpita e la mortalità per plasmodium salì a una media fra 6 e 7% della mortalità totale. Ma la legislazione destinata a risanare col razionale drenaggio dei fiumi le zone palustri — a parte la vecchia tesi per cui venivano incolpati della infezione i cosiddetti miasmi delle aree stagnanti e la sua origine plasmodica rimase fino al ’98 sconosciuta — era stata pensata con mentalità « settentrionale », cioè da uomini che avevano esperienza (il Baccarini era romagnolo) specialmente con la configurazione della topografia e con le condizioni fluviali della pianura del Po: e quindi la sua operosità si dimostrò non utile per la Calabria, le cui fiumare non potevano venire domate, al pari dei corsi fluviali del Nord, nel punto di apertura sopra le piane rivierasche, e neanche i pantani che buona parte di loro aveva creato con le esondazioni sui fianchi interni dei cordoni arenosi litorali erano colmabili con la medesima tecnologia usata pei bacini stagnanti veneti e romagnoli. Ne derivò quindi, in Calabria, un complesso di opere disordinate, più volte neanche portate a termine (per cui qualcuno potè dire a ragione che la Calabria era « un cimitero di opere di bonificazione »). Con questi elementi si chiude il quadro delle iniziative svolte dallo Stato per rialzare le condizioni deplorevoli della regione: iniziative — ripeto — ben inadeguate e imprecise, per quanto animate da qualche fervore e sicuramente da buon volere: perchè la descritta legislazione che promoveva le opere di risarcimento idraulico o di giunzione viabile aveva per fine unicamente il risveglio economico, e ignorò qualunque spinta a riformare e rimodernare le strutture della società, cioè a « provocare una rivoluzione economica e sociale » che anche il Franchetti (pag. 171) — pur nel gradualismo e con moderati interventi dello Stato — auspicava. Di quella legislazione si potevano giovare perciò — dove i suoi risultati furono di qualche rilievo — le classi abbienti, cioè i grandi proprietari che in realtà avevano in parlamento i loro procuratori. Ma i benefizi che da quelle iniziative trasse la maggior parte della popolazione rurale con un po’ di occupazione di mano d’opera e un po’ di animazione di traffici, furono veramente scarsi.

    Mortalità per infezioni malariche (media per anno) nei primi quindici anni del nostro secolo.

    Il mercato del lavoro si appesantì annualmente in Calabria, fra il 1870 e il 1880, di 30-32.000 persone per lo meno: e le opere pubbliche riscuotevano di ogni nuovo contingente sì e no un decimo. Ma in quegli anni i fermenti socialisti avevano già una prima, mitica eco in diverse zone della regione (le prime società operaie si formano a Cosenza, a Rogliano e a Palmi nel 1876 e a Acri nel 1884): e la difesa degli usi civici e la rivendicazione dei demani che in quel periodo le classi bracciantili iniziarono, e l’aumentare — sia pur lentissimo — dei rapporti con più civili regioni d’Italia dovevano inoculare negli spiriti di una certa aliquota della popolazione quel minimo di considerazione per la povertà del suo stato e una stilla di energia o di elementare (e non fatalistica) fede in sè, che già avevano tre secoli prima spinto i giovani di Calabria a risolvere con l’evasione mediante l’arrolamento in qualche esercito, i loro problemi di deficienza. L’emigrazione in realtà — lo si è visto scorrendo la vita della regione prima dell’unità nazionale — è vecchia tradizione della Calabria e si era mantenuta viva in alcuni distretti marinari. Il Galanti ricorda verso il 1790 (Nuova Descrizione, II, pag. 330) la migrazione stagionale da Parghelia: un casale a 2 km. a oriente di Tropea, che smerciava a Marsiglia olio per le industrie di sapone e uva e fichi e coperte di cotone damascato lavorate a Tropea (vendute poi specialmente alla fiera di Beaucaire), e dagli scali provenzali importava — secondo quanto descrive il De Custine nel 1812 (Mémoires, I, pag. 379) — utensili domestici e insieme idee massoniche. E l’Afan documenta (Considerazioni sui mezzi da restituire il valore proprio ecc., I, pag. 261) che verso il 1830, a motivo dei magri ricavi agricoli e della continuata inopia, dai comuni più elevati del bacino del Crati « un gran numero di travagliatori è costretto a migrare dalla propria patria per cercar lavoro nelle altre province » del reame, e special-mente in Sicilia.

    L’entità dell’emigrazione, annualmente, fra il 1880 e il 1915.




    L’emigrazione è quindi di regola, in Calabria, un buon segno di età o di classi in fermento: fermento con cui la popolazione si rende conto di una saturazione nel popolamento —- o sovrapopolamento che dir si voglia — che prima rimaneva coperta e sconosciuta nel declino o nel letargo sociale. E così dopo il ’70 — e fino al ’22 — l’emigrazione domina la vita della Calabria: ne è il principale miraggio stimolatore, ne condiziona e modifica il mercato del lavoro, è forse la più notevole fonte di denaro e in realtà la via per rimontare in parte i secoli perduti, con esperienze civili. Perciò l’emigrazione è fenomeno in aumento via via più clamoroso dopo il ’70, come rivela l’unito diagramma. Ma ai motivi dianzi descritti se ne aggiunsero qualche anno dopo di nuovi : e fra questi finì per emergere con estrema determinazione la crisi agricola che rovinò il meridione dopo il 1888 quando, in conseguenza della lotta per i dazi di protezione, con la Francia, buona parte della produzione vinicola e olearia della regione non trovò più sbocco nei mercati francesi. Quella crisi causò il crollo della proprietà minuscola e a volte media che si era formata specialmente con i benefici degli affitti, ma dopo il ’30 anche con il rastrellamento di tomoli venduti da assegnatari di demani e dopo il ’60 anche con la compra di qualche striscia di terra sui beni della chiesa: quella media e minuscola proprietà che dopo il ’63 — prima favorevole convenzione con la Francia — e fino al ’78 — quando s’ebbe la prima riforma del sistema liberistico — aveva teso a elevare i propri introiti con l’aumento delle colture di pregio (il vigneto in coltivazione mista era aumentato in quegli anni in Calabria a quasi 100.000 ha., e l’oliveto a 83.500 ha., e l’agrumeto a 7.500 ha.). E la crisi da cui fu rovinata diè inizio ovunque a una indiscriminata dilatazione della coltura del grano: dilatazione che — a parte la minore mano d’opera richiamata dal grano, e da ciò la maggior inoccupazione a cui il fenomeno dava luogo — tornava utile unicamente ai grandi proprietari, e anzi era stata favorita a loro vantaggio dal sistema protezionista: per cui le industrie del Nord potevano tacitare col dazio sulle importazioni del grano la classe dei galantuomini e dei baroni meridionali. Di conseguenza l’emigrazione ebbe un balzo formidabile agli inizi del secolo: da 12.000 partiti ogni anno, che le fonti ufficiali indicano in media fra il 1885 e il 1890, il flusso aumenta a 20.000 nel 1897 e varca i 30.000 agli inizi del nuovo secolo. La media dei partiti è di 33.000 annualmente fra il 1901 e il 1905 e di 48.000 nei seguenti cinque anni (con punte fra il ’05 e il ’07, fino a 60.000). Le crisi politiche fra il ’10 e il ’12 contrassero un po’ i valori (a 38.000 di media in quegli anni): ma l’esodo ebbe poi una ripresa e una ultima breve punta avanti lo scoppiar della guerra (55.200 partenze nel 1913). E per i 9/10 la destinazione è l’America. (Solo minori contingenti — due o tre centinaia annualmente — si dirigono in Francia e dopo gli inizi del secolo nei cantoni elvetici e nei paesi tedeschi: ma unicamente per lavori stagionali. E fin verso il 1907 una media di 500 annualmente va in Africa settentrionale: in special modo in Egitto per occupazione stagionale, e nei centri algerini per insediarvisi stabilmente. Ma già nel 1910 la corrente africana è in chiaro declino).

    Però la levitazione di questa fiumana fu una conseguenza pure — dopo il 1894 dei rovinosi sismi da cui negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi del nostro secolo fu devastata la Calabria specialmente nella sua parte meridionale (1894: Aspromonte occidentale, 1905: altopiano del Poro, 1907: distretto di Locri, 1908: Reggio e riviera dello Stretto). Infatti negli anni seguenti a quelle calamità è facile notare un aumento del fenomeno nella estremità meridionale della regione. Ma per la verità la zona fra la piana di Gioia e le rive dello Stretto è stata quella ove si è avuta in genere la minore partecipazione al flusso: la adiacenza di Messina, con la discreta vitalità del suo porto (raccolta e spedizione di agrumi, industrie di derivati agrumari, traffico di legna, costruzione di imbarcazioni ecc. e dopo il 1900 il regolare transito del ferry boat) e il fatto che la regione lungo i due lati dello Stretto si veniva agli inizi del secolo gradualmente urbanizzando, lenivano nella parte meridionale della Calabria — prima del 1908 — l’impulso migratore.

    Tropea.

    Fra il 1870 e il 1915 l’emigrazione è stata nel Bruzio un fenomeno squisitamente rurale: cioè riguardò in primo luogo le classi rurali, o meglio quella società a cui la vita dei campi dà contenuto e forma. Ma là ove la vita dei campi — cioè il fatto sociale evocato da questo nome — sfuma e perde il vigore perchè va nascendo o domina una città — una città che non sia solo aggruppamento di migliaia di case e di una discreta popolazione, ma il fulcro di funzioni progredite e integrantisi — pure il flusso della migrazione risulta meno carico. E per questo motivo che le zone di Calabria più emunte dalla emigrazione furono quelle settentrionali fra la strettoia di Catanzaro e il rilievo del Pollino, che sono egualmente remote da ambo le aree di vere e proprie città verso cui la Calabria ha gravitato o teso da quindici secoli in qua: e cioè il bosforo zancleo e il golfo di Napoli. Per la povera società rurale della Calabria, il trasferirsi in America — in quella del Nord in modo particolare fino al 1892 e dopo il 1898 per i 2/3 di coloro che partivano dai comuni catanzaresi e dopo il 1904 per una metà dei migranti dai comuni cosentini, e in Argentina o in Brasile per i 3/4 dei provenienti da questi ultimi comuni fino al 1904 e anche per una rilevante aliquota di catanzaresi fra il 1892 e il 1898 — l’insediamento e l’occupazione in America di una misura via via più forte di uomini, fu sicuramente un bene : e più che la continuata sorgiva di quella vena di denaro che buona parte degli emigrati mandava di quando in quando in patria (una corrente che si può stimare intorno a 40 milioni di lire annualmente verso il 1902 e a un poco più di 60 milioni fra il 1905 e il 1910) l’esodo in America significò superamento di costumi e mentalità regressive e apertura a esperienze veramente civili.

    Le inchieste meridionaliste in Calabria agli inizi del nuovo secolo

    Ma a parte ciò, il flusso trascontinentale non potè risolvere — o risolveva solo per esigue comunità — il problema della depressione economica e dell’insopportabile carico di popolazione, che intristiva la Calabria. La sua povertà, vecchia di secoli, rimase anche dopo l’esodo che fra il 1878 e il 1915 alleviò l’estrema penisola di 220.000 persone per lo meno (870.000 in realtà erano partite in quel periodo: ma i 3/4 di esse avevano già chiuso la esperienza americana col ritorno in patria). E agli inizi del nostro secolo, meglio che dalla emigrazione, le condizioni paurose della regione furono poste in più documentato rilievo e giusta motivazione da un diffondersi di quel clima sociale che qualche avanzata frazione di partiti risorgimentali (ad es. il radicale nel distretto di Rogliano) e specialmente, dopo il 1906, il giovane partito socialista aveva portato. Questo clima risvegliò un riesame delle condizioni della Calabria, più ponderato e qualificato di quello — pieno di contraddizioni — che il banditismo vi aveva destato per breve ora dopo il 1860, e una interpretazione della depressione locale che non si limitava a elementari schemi economici o positivistiche giustificazioni naturali — come quelli che emergono nel volume per la Calabria della inchiesta agricola tenutasi fra il 1878 e il 1881 : un volume stilato con spirito superficiale e con gran ottimismo da un relatore che usciva, così come i suoi informatori locali, dalla classe dei proprietari a cui premeva la conservazione delle strutture in opera. Di questa socialmente più aperta e storicamente più matura visione dei problemi bruzi è notevole manifestazione l’inchiesta parlamentare del 1909-11 sulle condizioni dei contadini, che fu svolta per la Calabria da un economista (specialmente di cose agronomiche) non meridionale: Ernesto Marenghi, e da un parlamentare meridionale già noto da qualche anno come uno dei migliori conoscitori dei problemi finanziari e sociali dei suoi paesi: Francesco Saverio Nitti. E documento parimenti significativo erano state, qualche anno prima, l’inchiesta privata tenuta nel 1906 da D. Taruffi, L. De Nobili e C. Lori per indagare i modi, le cause e i risultati della migrazione, e nel 1909 una nuova inchiesta privata eseguita nei comuni aspromontani da due giovani settentrionali venuti in Calabria per portar qualche rimedio ai colpiti dal sisma del 1908 : cioè Giovanni Malvezzi e — ultimo superstite fino a qualche mese fa, di quella generazione — Umberto Zanotti Bianco. (Di quei medesimi anni poi sono da ricordare pure le relazioni di alcuni scrittori d’oltralpe, richiamati ora — un po’ meno eccezionalmente di una volta — nel Bruzio, dai suoi problemi sociali: ad es. quella di George Goyau sul regime della grande proprietà nel 1898, il By thè Jonian Sea di George Gissing nel 1901 e Yold Calabria di Norman Douglas nel 1915).

    Morano.

    La minuziosità della informazione e la probità dei dati raccolti e la acuta elaborazione loro, in ciascuna di tali inchieste — in modo particolare la prima, che per la sua natura ufficiale fruttò una relazione di maggior mole — forniscono una panoramica impressionante della vita sociale in Calabria cinquanta anni dopo l’unità nazionale. Ecco alcune indicazioni (pp. 475-477 e 495-507) della relazione Marenghi: « gli alimenti fondamentali di cui si ciba il contadino sono pane, minestra d’erbe, legumi, patate, frutta e latticini, pesce salato. Il pane di grano vien fatto generalmente col cruschello; il granturco lo si consuma quasi esclusivamente sotto forma di pane; nei mesi invernali [e] nei paesi di montagna (Sila, Aspromonte ecc.) è molto usato il pane di segale e di miscitatu, fatto con più farine fra loro mescolate… Laddove predominano le abitazioni sparse (Vallo di Cosenza, parte bassa dei circondari di Paola, Locri e Reggio) ad ogni casa è annesso il forno che serve per la cottura del pane, l’essiccamento dei fichi ecc. : ivi lo si confeziona generalmente a lunghi periodi, onde risparmiare tempo e combustibile. Nel Vallo ad esempio lo si fa ogni due o tre mesi e lo si ripone sopra i graticci appesi al soffitto: dopo qualche tempo assume perciò una durezza lapidea e non può esser consumato se non previo ammollimento nell’acqua. Laddove invece si ha la popolazione agglomerata, il forno di regola manca ed il contadino ne fa acquisto alla bottega. [E ove poi] ha importanza la coltivazione del castagno (parte alta dei circondari di Cosenza, Catanzaro, Nicastro) si consuma ancora nei mesi invernali — per quanto in misura limitata — il pane di farina di castagne… Lieve è l’uso della carne: qualcuno anzi afferma che il lavoratore agricolo non vede mai carne » (e probabilmente i non infimi consumi segnalati dal Niceforo qualche anno prima, in misura di 8,1 kg. a persona annualmente erano dovuti ai discreti allevamenti di maiali, ad uso domestico). La carne in ogni modo non figura nello schema più frequente di regime alimentare per le classi rurali : « al mattino verso le 8 [il contadino] fa colazione con pane e companatico che, a seconda della stagione, è costituito da cipolla, peperoni arrostiti o in aceto, pomodoro in insalata, fichi verdi o secchi; a mezzogiorno il pranzo risulta di un’abbondante minestra di verdura e pane; il pasto della sera è come la colazione… Le minestre verdi di cui si fa larghissimo uso, son fatte con cavoli, fagioli ecc. e scarsamente condite con olio e lardo. [E solo] durante i forti lavori dell’estate più frequente ed abbondante è l’uso del companatico, costituito o da pesce salato o da formaggio o da carne affumicata [di maiale] ». Egualmente grame appaiono al Marenghi le condizioni dell’abitazione rurale : « le case dei contadini mancano sempre delle più elementari comodità. Sono generalmente costruite in pietra e calce o in pietra e fango. Qua e là si trovano pure abitazioni in frasche e creta e non di rado servono ad albergare promiscuamente uomini e animali. In alcune zone — ad esempio nel circondario di Vibo — si usano molto le breste: specie di mattoni crudi, impastati con la paglia ed essiccati al sole… Le abitazioni dei contadini sono illuminate, quando lo sono, a olio o a petrolio : dico quando lo sono perchè in generale in molte case non si accende il lume che in casi di assoluta necessità: quanti contadini cenano al buio per risparmiare qualche centesimo di combustibile! Anche le spese di riscaldamento sono ridotte ai minimi termini, specie là dove la legna non si produce nel fondo : il che si verifica ogni qualvolta il lavoratore è un giornaliero o un piccolo affittuario di terre da semina… Altro carattere saliente delle case da contadini è la ristrettezza: in generale avvi un solo ambiente, nel quale si trovano riuniti 3-4 individui. Il massimo agglomeramento si ha nei grossi paesi e nelle città… Gli utensili di casa si riducono ai minimi termini: giacigli per dormire, vasi per attingere acqua, pentole per le esigenze della cucina. Questa è l’abitazione del contadino calabrese e non è da meravigliarsi se in essa egli stia il meno possibile: quando dispone di mezzi preferisce la bettola, e quando non ne ha la strada o la piazza. Ivi non si usano i ritrovi invernali nelle stalle, come si fa in molte regioni d’Italia: in Calabria non è l’uomo che va nella stalla, ma la bestia che entra in casa. [Perciò] la deficienza delle abitazioni è una delle cause non ultime della intensa emigrazione: non è da credere che il contadino calabrese, uso a vivere in cosiffatti tuguri, non senta il bisogno di una casa migliore. Ed invero, non appena egli ritorna dall’America pensa all’abitazione e la vuole bella, pulita e civettuola. In tutti i paesi si vedono queste casette, che fan tanto contrasto con le vecchie » e, secondo il Marenghi, formano uno dei più acuti stimoli alla emigrazione.

    Rocca Imperiale.

    Uno dei problemi più investigati dalle inchieste fu naturalmente quello della emigrazione: ma nell’indagazione di esso è riconoscibile, fra quei ricercatori, una qualche disparità di idee. Il Marenghi e il Nitti — seguendo, coi benefizi di una più forte documentazione, la tesi in primo luogo del Franchetti e poi del Fortunato che avevano visto in questo fenomeno un rimedio di congiuntura, efficiente a inibire la frana economica del Mezzogiorno e a non metter in crisi quella fresca e quindi debole unità nazionale da cui unicamente poteva sperarsi una rinascita del meridione — scrivono che in sostanza l’emigrazione fu « un bene grandissimo » (Inchiesta Parlamentare, voi. V tomo 20, pag. 761): cioè fu «estremamente benefica» (Inchiesta Parlamentare, voi. V tomo 30, pag. in). Secondo l’esame più lato del Nitti (medesimo voi., pp. 108-109) « le cause economiche che han prodotto questo importante movimento si possono riassumere nella durezza della vita in patria, per gli scarsi profitti agricoli e per gli scarsi salari, nella crescente disoccupazione, nella crisi dei raccolti agrari, nei debiti. Le cause morali si possono riassumere nella reazione verso uno stato di cose reputato intollerabile, nel desiderio di vita migliore, nella emulazione destata dalla altrui fortuna, nell’insistente richiamo di parenti ed amici già collocati all’estero, e che spesso mandano anche il biglietto di passaggio. In questi richiami non vi è nulla di artificiale: talora chi resta si raccomanda a chi parte per essere richiamato [qualcosa di simile a quel che si registra oggi per l’emigrazione verso il nord Italia o oltralpe]. La facilità di traversare l’oceano e la brevità dei viaggi ha tolto l’ultimo ostacolo: quello della distanza. Tutte le classi sono ormai prese nel movimento: fittuari e mezzadri, salariati giornalieri e ad anno, contadini, pastori, braccianti, artigiani. Da quel che si è riferito risulta che oltre i 3/4 del contingente è dato da costoro… La residua parte è costituita dalla piccola borghesia, piccoli e medi proprietari rovinati, qualche professionista, qualche prete, qualche disoccupato… [E] dallo spoglio delle risposte ai questionari [della inchiesta parlamentare] risulta la seguente sintesi di risultati: esito prevalentemente sfortunato [della emigrazione]: comuni 41, esito prevalentemente fortunato o misto, comuni 194». In particolare il Marenghi segnalò come conseguenza degli esodi la rarefazione di mano d’opera adulta e quindi un notevole rialzo dei salari (ibidem, voi. V tomo 2°, pp. 261-316) la modificazione dei contratti agrari in modo favorevole per i contadini (pp. 255-259 e 317-423) la formazione di una classe di coltivatori proprietari (pp. 446-462) il miglioramento delle condizioni di vita (per quanto scontato con il diffondersi di morbi connessi col fenomeno, come la tubercolosi e la sifilide: pp. 463-480, 515-534, 548-554) il risveglio culturale del contadino «che si fa a grado a grado più indipendente e sente ognora più il bisogno di istruirsi» (PP- 554″57° e7il miglioramento delle relazioni sociali, come documenta la diminuzione nei reati di sangue (pp. 575-585). «Si pensi — questa è l’ultima notazione del relatore — a ciò che sarebbe accaduto se le migliaia e migliaia di braccia che all’estero trovarono modo di applicare con notevole profitto la propria attività, fossero tutte rimaste, per necessità di cose, entro i limiti della regione… La sola classe dei proprietari — duramente colpita dal fenomeno — sostiene, per un senso mal celato di egoismo, che l’emigrazione è un male: la causa precipua della crisi agricola che travaglia la regione. A noi sembra invece che l’esodo dei contadini sia l’effetto e non la causa di tale crisi: e che esso costituisca un potente fattore di redenzione economica. Sulla rovina di molti e molti proprietari incapaci va sorgendo la piccola proprietà coltivatrice, la quale sa sfruttare assai meglio la potenzialità economica del suolo» (pag. 761).

    Vedi Anche:  Rilievi, colline e montagne

    Belvedere.

    E per una tesi non diversa militano pure vari cultori locali di studi economici : il Marineóla, lo Scalise, il Bonacci ecc. Diversamente il Taruffi, il De Nobili, il Lori, rispecchiando le idee del loro maestro Pasquale Villari, per cui gli utili economici della migrazione (cioè specialmente le cosiddette « rimesse ») non erano in grado di bilanciare la perdita, per la regione, di mano d’opera — una perdita che avrebbe ritardato la sua rinascita economica — auspicano una maggior limitazione e disciplina negli esodi. Pure quest’ultime obiezioni e riserve, che avevano una base di giustezza ma partivano da interpretazioni alquanto discutibili (ad es. l’evenienza di una ripresa economica facile o meno, in funzione puramente della quantità delle braccia umane) e da un esame del fenomeno in pieno svolgimento — laonde era vano prevedere in modo sicuro le sue ultime conseguenze — non tolgono gran cosa ai giudizi francamente positivi che dell’emigrazione oltremare, in modo speciale per la Calabria, dà la gran parte dei meridionalisti degli inizi del nostro secolo e di quelli — ricordo l’Arias e il Coletti — che poi si sono rivolti a esaminare o meditare il fenomeno più pacatamente: cioè dopo la sua contrazione o il suo esaurimento.

    Vicende della popolazione fra le due conflagrazioni

    Ma gli eventi del periodo che s’inizia con le guerre mediterranee e culmina con la conflagrazione del 1914 dovevano infrenare e poi scemare questo moto di cura e studio che gli ambienti più dinamici e aperti della classe dirigente nazionale avevano, agli inizi del secolo, rivolto alla Calabria. La crisi del conflitto si ripercuote su la vita della regione con estrema gravità: la emigrazione vien chiusa drasticamente, e se una notevole quota dei potenziali emigrati (e anche quelli che tornano dall’America per richiamo militare) è destinata a servizi in armi — e quindi non pesa unicamente su la regione — a questa però vien meno l’aiuto che i giovani emigrati le fornivano con le loro rimesse. E inoltre la contrazione dei generi alimentari e specialmente dei traffici, originata dal conflitto, si esprime in Calabria in un rincrudimento della vecchia fame e in definitiva in un regresso delle condizioni di sanità e igiene della popolazione. La denutrizione provocò l’inasprirsi di malattie endemiche, come le infezioni malariche (sul totale nazionale dei morti per plasmodium la media della regione si eleva da 11% negli anni di anteguerra a un po’ meno di 15%) e lo spandersi di alcune prima poco risentite, come la tubercolosi (sul totale nazionale la media dei morti sale da 2,5 a 3,3%) a cui aveva aperto la via negli ultimi anni del secolo scorso il flusso di ritorno degli emigrati stagionali. Nè la guerra ebbe, per lo meno, come conseguenza un crollo della natalità, che nei cinque o sei lustri dianzi — come si è visto — era stata veramente forte ma le cui conseguenze venivano lenite e agli inizi del secolo più volte superate dagli esodi per emigrazione: invero, per quanto un po’ depresso, il numero dei nati rimase discretamente elevato pure fra il 1915 e il 1918 (27,6 per mille della popolazione totale) e come ovunque ebbe un aumento saliente nel dopoguerra (33 per mille nel 1920 e 37 per mille in media fra il 1921 e il 1925) e fino verso il 1930. La popolazione della Calabria che l’ultima rilevazione ufficiale prima della guerra numerava a un milione e 402.000 ab. si era portata dopo la guerra, cioè nel 1921, a un milione e 512.000 abitanti. E poiché le condizioni di vita non erano mutate, riguardo a cinquanta anni prima, l’emigrazione riprese dopo la guerra con ritmo rapido e con raggio di destinazione più aperto, più vasto di prima: sono 51.600 emigrati nel 1920 e intorno a 18-20.000 nei sei anni seguenti (con un lieve rialzo a 23.000 nel 1923), di cui i 4/5 si dirigono verso l’America meridionale (in particolare l’Argentina che riscuote in quegli anni 12/3 quasi degli esodi dal Bruzio) e un discreto numero — un decimo fra il 1922 e il 1926 — verso i paesi di Europa in via di ricostruzione o bisognosi di mano d’opera: specialmente la Francia. Ma il nascente flusso non dura a lungo: dopo il 1924 la legislazione proibitiva di diversi paesi d’oltremare — in primo luogo gli Stati Uniti — mise un freno a tale migrazione (che per questo motivo iniziò in quegli anni a orientarsi, molto cautamente, verso il nord Italia) e dopo il 1928 lo sciovinismo dei governanti romani praticamente la inibì: nel 1930 gli esodi furono solo 7.000 e nei tre anni seguenti meno di 5.000.

    Melissa.

    Si isteriliva così una buona vena finanziaria, ma specialmente una grande via di evasione e una sicura scuola di rinascita civile per la gente di Calabria. Inoltre la fazione che sciaguratamente dominò l’Italia fra il 1922 e il 1944 aveva una visione dei problemi meridionali così retoricamente falsa e così incardinata sugli ambienti sociali conservatori, che le condizioni della regione rimasero più o meno, fino al 1946, quelle deplorevoli già descritte per gli inizi del secolo. Chiusura dell’emigrazione significò inibizione di scaricare al di fuori le conseguenze della poderosa natalità: e quindi aumento della costipazione umana. Nel giro di due lustri — fra il 1921 e il 1931 — la popolazione sale da 1.512.000 a 1.670.000 ab. perchè la natalità rimane ai valori di anteguerra (33,7 per mille fra il ’26 e il ’30) e la mortalità ha continuato, come agli inizi del secolo, a contrarsi (18,3 per mille fra il ’21 e il ’25 e 16,8 per mille fra il ’26 e il ’30). E anziché fare opera per limitare la sua pressione, il fascismo fino dagli anni fra il ’28 e il ’30 e più fortemente dopo il 1936 vara una sequenza di inqualificabili iniziative in favore degli aumenti di popolazione: perciò in quegli anni di vita opaca e misera — tali che anche il fenomeno di riduzione della mortalità si arresta a una media di 15,3 per mille fra il 1931 e il 1940 — la popolazione ha conservato una notevole fecondità (31,8 per mille nati in media sul totale della popolazione fra il ’31 e il ’35 e 31 Per mille fra il ’36 e il ’40) e continuato fatalisticamente a gonfiarsi: 1.742.000 ab. nel 1936 e 1.878.000 ab. nel 1940, quando s’iniziò l’ultima guerra. A questi esagerati aumenti, che la Calabria non era in grado di sostenere, uno sfogo — come è naturale — v’era pur bisogno che si aprisse. E così negli anni dopo il 1925 emergono rapidamente nuove correnti e flussi di migrazione che già da prima si erano manifestati, ma in misura più timida e debole e quasi in sordina, e ora si chiarificano, individuandosi e distinguendosi meglio, e a poco a poco formano le principali — per non dire uniche — linee della dinamica areale della popolazione bruzia.

    Sono due correnti : una extraregionale verso Roma e i più notevoli centri del Nord — la corrente dei funzionari in banche e dei giurisperiti, dei burocrati e dei militari in ferma (specialmente nei corpi dei carabinieri, dei finanzieri, della polizia) — e una intraregionale, di scivolamento dai monti verso le pianure litorali e in genere la costa. La prima è alimentata specialmente fino verso il 1935, e quindi dominata per tono e rilievo sociale, da borghesi provenienti da quei numerosi ma per lo più mediocri borghi ove riguardevole era divenuta da un secolo in qua la classe dei proprietari rurali e dei laureati (che sono poi abitualmente i loro figli) che si dirigono ai ruoli ministeriali o praticano le professioni liberali, e di queste con maggior predilezione le forensi. Il numero delle persone di origine bruzia stabilite a Roma verso il 1940, era già intorno a 6.000 e poi è aumentato, negli anni di guerra e specialmente dopo, con l’inelefantirsi della burocrazia e per il divulgarsi del mercato nero (« lo scapicchio » come lo chiamavano in Calabria) che ha dato luogo per diversi anni fino al 1950 a un nervoso scambio di uomini fra l’estrema penisola e la stazione di Termini: uomini che rifornivano con rischiosi traffici gli sparuti mercati romani di oli, uova, fichi, agrumi, carne di maiale ecc. — naturalmente cogliendo rapidi ed elevati introiti — e che in buon numero lasciarono i loro paesi per restare definitivamente nel luogo ove si erano creati una fortuna (minuscola, ma suggestiva per chi veniva da zone di estrema povertà). E così nel 1950 il numero dei bruzi con dimora a Roma sfiorava già i 25.000 ed era formato per il 22% da addetti ai servizi di Stato e per il 16% da trafficanti. La qual cosa lascia intendere bene che fino dagli anni del conflitto, e in maggior misura nei seguenti, gli elementi di provenienze borghesi, per quanto di numero e socialmente più rilevanti, non sono stati i soli a formare la corrente orientata al Nord. Ma a parte coloro che esercivano lo scapicchio, vi erano pure i militari, per lo più di gradi subalterni, che propriamente venivano da classi contadine, costituendo quella che si potrebbe chiamare una migrazione in divisa. E tale forma di evasione dai poveri comuni bruzi mediante l’arrolamento militare (che per deficienza di relative inchieste non è dato per ora calcolare neanche in modo prossimativo) non è cosa nuova in Calabria: si è avuto occasione di vedere che anzi è vecchissima. L’unità nazionale, con la coscrizione regolare, la ha solo disciplinata, e la guerra 1915-18, la prima a cui gli uomini di Calabria abbian partecipato con vera dedizione (la regione vi lasciò 20.046 morti per il 95,5% soldati o marinari, caporali e mano d’opera militare) con probabilità stimolò nei reduci in modo più forte quella che già era una tradizionale vocazione.

    Tiriolo: si notino i terrazzi di coltura negli spazi vuoti fra la gradinata delle case Sono orti famigliari e sono anche il segno della fame di terra

    In quegli anni però più originale fu la seconda soluzione, cioè la corrente intra-regionale verso il mare, a cui la società rurale — e unicamente questa — ha dato impulso con grande vigore nei cinque lustri, o poco meno, tra le due guerre. Una fioritura di minuscoli villaggi, stazioni o basi lungo la costa, si era già avuta fra il 1875 e il 1890 in conseguenza della costruzione delle linee ferroviarie litorali: ma erano punti minimi, alquanto distanziati fra di loro, e circondati e divisi — special-mente su la riviera ionica — da deserti pascoli invernali e periodicamente investiti dalla infezione anofelica. Popolazione, per i campi intorno, ve ne era poca o niente: la piana di Sibari, nel vasto triangolo fra la foce del Saraceno, l’abitato di Terranova e la foce del Coriglianeto, aveva 1.225 ab. nel 1881 e 1.775 ne^ 1921: un aumento trascurabile! E la cimosa litorale del Marchesato, a non metter nel novero Crotone, ne aveva 3.600 nel 1881 e 5.800 nel 1921 : anche qui un incremento poco rilevante. Nè più rimarcabile fu in quel periodo il ripopolamento della selvaggia piana di Santa Eufemia (ove vivevano nel 1921 non più di 200 ab.). E un aumento significativo era visibile unicamente su le piane strettissime e meno malariche della parte meridionale della penisola, come ad es. le zone tra le foci della fiumara Amusa e della fiumara Verde, la cui popolazione crebbe di 2/5 (47.000 ab. nel 1901 e 66.600 ab. nel 1921). Si è quindi ritenuto che i forti ripopolamenti della costa denunziati dopo il 1921 — un aumento che nei seguenti trenta anni è stato in qualche caso da uno a due e in un caso da uno a tre, come mostrano i corsi demografici di vari comuni della costa, figurati più avanti — sian frutto di quelle diverse opere, cosiddette di bonificazione integrale, di cui nel periodo fra il 1924 e il 1942 si parlò con inutile sfoggio. Ma in realtà, sia per la carenza di una azione direzionale ben coordinata — in quanto l’esecuzione di quelle iniziative veniva assegnata a consorzi autonomi di proprietari locali, privi di esperienze cooperative — e sia per le lacune finanziarie derivate dopo il 1935 da folleggiatiti iniziative politiche — le spedizioni coloniali, gli investimenti militari ecc. — l’opera di bonificazione fu fortemente frazionata e i suoi risultati pressochè minimi, se si escludono quelli, discreti e però non perfezionati e neanche stabili, e più che altro dovuti a capitale di aziende private solo aiutate in qualche occasione dallo Stato, che furono conseguiti specialmente nella piana eufemiate e si iniziarono a cogliere nella pianura terminale del Neto. Perciò la calata verso i bordi peninsulari, cioè l’alluvione umana della costa, è da vedere fin da quegli anni come un fenomeno di elementare evasione da montagne impoverite verso le piane litorali: piane — ripeto — non divenute più sane igienicamente (lo sregolamento idraulico persiste e non rari risultano negli anni fra ’35 e ’38 i casi di infezioni malariche in quella di Sibari, con una cinquantina di morti annualmente, e lungo le cimose marine del Marchesato, con un centinaio di morti annualmente) ma che potevano ora richiamare popolazione perchè vivificate da discrete o meno disagevoli vie di comunicazione e da vari nodi di traffico, e perchè fra il ’20 e il ’24 — non dopo — vi si schiuse terra da coltivare: molti demani comunali usati dianzi come pascoli erano stati dai comuni — specialmente nel periodo delle amministrazioni socialiste — spartiti fra i contadini, e altrove qua e là (per 2.400 ha. nei comuni di Ciro, Melissa, Casabona, Belcastro ecc.) l’associazione nazionale dei reduci della guerra aveva iniziato una buona opera di riva-lutazione agricola in alcune aree costeggianti il mare, con sistemazione di terre, apertura di vie rurali, impianto di vigneti ecc.

    Palmi.

    Lo sviluppo demografico di alcuni tipici comuni rivieraschi del Tirreno, secondo i censimenti nazionali. (A Villa è chiara la diminuzione conseguente al sisma del 1908).





    Lo sviluppo demografico di alcuni tipici comuni rivieraschi ionici, secondo i censimenti nazionali. (A Crotone il primo visibile aumento degli anni dopo l’unità nazionale è dovuto alla apertura della ferrovia, e il più clamoroso aumento degli ultimi otto lustri è dovuto alla nascita delle industrie).

    L’emigrazione dopo il 1946

    Dopo l’ultima guerra la diaspora della gente di Calabria ha ripreso con la libertà di direzione di trent’anni fa: anzi con maggior ampiezza. Il rigoglioso ritmo di aumento naturale (che neanche la guerra ha di molto scemato: fra il 1941 e il 1945 il quoziente di natalità fu di 25,7 per mille) si è mantenuto. E la Calabria è stata negli ultimi quindici anni la regione d’Italia con più alta natalità (30 per mille fra il ’46 e il ’48 e 28,6 per mille nel ’50; poi 26 per mille nel ’52; 25,7 per mille nel ’54; 24,4 nel ’56; 23,2 nel ’58; 23,6 nel ’60; 23,4 nel ’62). Ma poiché nel medesimo periodo, per la sradicazione del morbo plasmodico e l’adozione di una migliore igiene sociale la mortalità ha segnato una forte diminuzione (11 per mille fra il ’46 e il ’48 e 9,5 per mille nel ’50; poi 9,5 per mille nel ’52; 7,8 per mille nel ’54; 8,2 nel ’56; 7,7 nel ’58 e 7,4 nel ’60; poi una risalita a un po’ meno di 8 nel ’62) si è avuta di conseguenza una via via più marcata disparità di portamenti nei due elementi di base della demografia naturale. Cioè i profili della natalità e della mortalità si manifestano, nei quindici anni del dopoguerra, un po’ divaricati. E perciò l’incremento ha rivelato un aumento fino a quote mai prima conosciute (19 per mille fra il *46 e il ’48 e 19,1 per mille nel ’50; poi 16,5 per mille nel ’52; 17,9 per mille nel ’54; 16,2 per mille nel ’56; 15,5 per mille nel ’58 e 16,2 per mille nel ’60; infine 15,5 per mille nel ’62). Un aumento i cui effetti sono già indicati nella piramide per età che si desume dai rilievi demografici ufficiali del 1961, ove risulta che nel Bruzio il 48,8% della popolazione (contro il 40% della media nazionale) ha meno di venticinque anni di età: e in particolare il 18,2% (contro una media nazionale di 17,4%) è dato da giovani fra i quindici e i venticinque anni — cioè da giovani che già premono (o tra qualche anno verranno a pesare) sul mercato del lavoro: un mercato di limitata ampiezza e per lo più misero, in questa regione.

    La popolazione per gruppi di età, in tempi diversi. Per il 1961 i valori sono i seguenti: 13,5% per la classe fino a cinque anni e 17,1% per la classe da 6 a 15 anni. Poi 61,4% per la classe fra i 16 e i 65 anni e 8% per la classe con più di 65 anni.


    La pressione del carico umano si è quindi inasprita nel dopoguerra: ma dopo il 1950, il riorganizzarsi delle comunicazioni regolari e l’aprirsi nel nord Italia inizialmente, e poi anche oltralpe, di nuovi mercati di mano d’opera, ha lenito alquanto la sua drammaticità. Però il rilevante svantaggio e la penosa condizione di handicap — che i secoli di deficienza civile, di fame e di selvatichezza rendevano così appariscenti fino a trenta anni fa — per chi emigra dalla Calabria, ora sono aumentati. Aumentati perchè fra il 1922 e il 1948 la Calabria ha progredito di ben poco — o di niente, si può dire —: e perciò è venuta fortemente acuendosi la disparità fra il medio-crissimo tono sociale della sua gente e quello praticato nei paesi oltralpini o oltremarini di più abitudinale emigrazione dalla penisola bruzia. La totalità, si può dire, della gente che da qui emigra fuori d’Italia, è data oggi da inqualificata mano d’opera: la specialità operaia è quasi sconosciuta. Ora, come è noto, nel mercato internazionale del lavoro l’italiano è di frequente deprezzato perchè non è specialista: e l’emigrante dalla Calabria in modo particolare era tipicamente cinquanta anni fa, e in buona parte è rimasto, l’uomo grezzo, dotato di una discreta forza muscolare e uso a sacrifici e privazioni: bon à tout fair e sul piano dei lavori elementari e pesanti. Per conseguenza in alcuni paesi industriali di Europa che richiamano mano operaia il flusso dalla Calabria — rinato dopo il 1950 — è anche ora per lo più solo stagionale, in media di 6-8 mesi: e negli ultimi anni fu animato ogni volta da qualcosa come 12-15.000 unità per lo meno (di cui 5.000 a dire poco in Francia, fra 500 e 700 in Inghilterra, un migliaio o due in Germania, da 3 a 4.000 nella confederazione elvetica e da 2 a 3.000 nei paesi del Benelux) destinate abitualmente a lavori rurali o edili, di sterro e di miniera (a Marcinelle — un ricordo che può bene significare un fenomeno — fra i morti del disastro del 1956 vi erano pure alcuni bruzi). Però un esiguo numero di quel notevole contingente ha avuto la convenienza o il modo di insediarsi nei paesi di immigrazione: verso il ’55 erano in queste condizioni un po’ meno di 300 persone in Francia e una cinquantina in Inghilterra e intorno a 80 nei paesi del Benelux. Ma già nel ’58 quei valori erano aumentati a più di 800 in Francia, intorno a 130 in Inghilterra e a un centinaio fra gli stati minori del bacino del Reno. Parimenti l’emigrazione al di là del nostro continente è risalita a 5.000 persone fra ’50 e ’52, a 6.000 fra ’53 e ’55, a una punta di 12.600 nel ’57, per stabilizzarsi intorno a 7 o 8.000 negli ultimi anni : però si è rivolta dopo il ’48 non solo verso l’America (ove il Canada e l’Argentina—    ben più che i già saturi Stati Uniti — riscuotono ora flussi degni di nota: un migliaio di persone il primo paese e intorno a 2.500 il secondo, annualmente, fra il ’48 e il ’55, e nel ’58 il Canada 2.000 unità e l’Argentina quasi 3.000, a un po’ di distanza gli Stati Uniti con 1.700 e il Brasile con neanche un migliaio) ma anche verso un meno esigente continente, cioè quello australiano, a cui sono giunti dalla Calabria, fra il ’48 e il ’55, un migliaio di persone annualmente, e negli ultimi anni una media di 2.200 unità.

    Invero, fino a quando non avrà elevato e perfezionato il suo grado culturale, non è fuori d’Italia che la popolazione di Calabria può trovare una soluzione al sovrapo-polamento che la deprime. E il maggior sfogo a tale sovrapopolamento la Calabria ha continuato ad averlo dopo il ’48 — come fu già dopo il ’25 — verso le mediane e le settentrionali regioni d’Italia. Però l’evasione in tale direzione si è venuta potenziando ora in termini nuovi : e cioè non è più solo animata da borghesi orientati verso le funzioni ministeriali o giudiziarie o le banche, e da contadini in divisa, come era stato fino al ’42. Se l’esodo di origini borghesi ha un po’ irrobustito le sue trame — specialmente con giovani medici, legali ed insegnanti — la migrazione delle classi rurali è oggi sicuramente la più forte: cioè pari a 4/5 per lo meno del totale, e in notevole parte sciama dal Bruzio senza lasciar gli abiti civili. E questa corrente quella con ogni probabilità destinata a pesare con più energia nella rinascita delle plebi rurali della Calabria. I figli di artigiani o di contadini vogliosi di migliorare le loro condizioni, riconoscono oggi minore convenienza in un arrolamento militare — per tenuità di stipendi specialmente, ma anche per la aspirazione loro a una vita autonoma — e perciò in buon numero si orientano verso l’industria e l’amplissima operosità terziaria delle aree urbane del Nord, a cui si profferiscono inizialmente per i più modesti servizi, che non richiedono specialità. Perciò nelle grandi zone industriali del Nord il loro numero è fortemente aumentato dopo il ’48: ad esempio fino a quella data e anche per qualche anno dopo, la migrazione dal Bruzio — quella ufficiale per lo meno —    era stimata a meno di 1% della migrazione totale in Milano (una media di 280 persone annualmente fra il ’33 e il ’40 e di 160 annualmente fra il ’41 e il ’48); ma dopo il ’52 superò l’1% e nel ’55 il 2% e dopo il ’58 il 3%. Questi dati però si riferiscono specialmente alle correnti che curano i propri trasferimenti anagrafici, e non registrano gli immigrati alla ricerca di una qualunque sistemazione, ma abitualmente privi di qualificazione, che (a motivo della legislazione operante fino al i960) non figurano iscritti alle anagrafi — almeno per i primi anni di insediamento — e formano in realtà il contingente più numeroso. A Milano in ogni modo gli immigrati che figurano come dipendenti statali e funzionari di banche o esercitano professioni liberali sono ora solo 1/3 della popolazione di origine bruzia, e a Torino e a Genova non più di 1/5. Il resto è dato da mano d’opera nelle industrie (i provenienti dalla Calabria e assunti negli stabilimenti Fiat di Torino fra il ’55 e il ’58 sono stati 310, cioè l’aliquota più forte di meridionali dopo i pugliesi) o da addetti a imprese edili, merciaioli da strada o trafficanti nei mercati rionali o negozianti — specialmente di frutta e ortaglie — nelle parti popolari o periferiche delle conurbazioni, e poi commessi e inservienti di ogni genere ecc. Di guisa che gli oriundi dalla Calabria pare che sian da stimare ora intorno a 40.000 unità nella conurbazione di Milano (di cui però i 2/3 o poco meno fuori del comune principale, con rilevanti nuclei a Cinisello : 700-800 persone, Cesano: più di un migliaio, Limbiate: intorno a 2.000 e Rho: intorno a 700-800) e qualcosa come 30.000 in quella di Torino (per 2/3 nel comune principale) e 12.000 in quella di Genova (per 4/5 nel comune principale).

    Scilla: la rupe dominata dal castello dei prìncipi Ruffo e in basso il quartiere dei pescatori.

    Interno di un paese: Altomonte.

    E poi vi sono i gruppi che nel Nord — fenomeno questo degli ultimi anni — si volgono specialmente ai distretti che per qualche ragione appaiono in via di spopolamento: fino dal dopoguerra in diverse aree alpine il richiamo di tali flussi è partito dai giovani compaesani qui stabiliti con la vecchia forma degli arrolamenti (come militi di finanza ecc.). Ma anche in queste zone i migranti dal Bruzio mirano a inurbarsi: il loro numero è già notevole nella siderurgia aostana e nei lavori minerari di Cogne e di impianto di bacini per industrie idroelettriche in vai Buthier (nel comune di Aosta il numero dei nuovi iscritti dal Bruzio è stato, dopo il 1955, secondo solo a quello degli iscritti dal Piemonte e dal Veneto: negli ultimi anni una media di 100 persone annualmente) così come nelle imprese edili bolzanesi (in comune di Bolzano i bruzi formano il 7% della immigrazione dopo il 1955: una media di 130 persone annualmente). E se una certa aliquota di tali correnti rimane, almeno per qualche anno, nel cerchio operativo agricolo — ortolani, fruttaioli e merciaioli di allevamenti da corte — lo fa unicamente ove la società rurale rivela le più aperte smagliature demografiche, come in vai d’Aosta o in vai d’Ossola. Diversamente vi sono regioni ove le correnti bruzie colmano solo o quasi i vuoti della società rurale: e in questo caso, più che le aree ove domina la mezzadria, a cui la Calabria non dà per ora contingenti numerosi (in Toscana l’unica zona di discreta immigrazione è quella di vai di Cecina, con una media fra il ’52 e il ’58 di una cinquantina di contadini annualmente) la regione rurale di più forte inondazione umana dal Bruzio è oggi (con una media di 500 persone fra il ’51 e il ’55 e di un migliaio negli anni seguenti, secondo i dati ufficiali) la Riviera di Ponente, ove il fenomeno — i cui inizi figurano intorno al 1935, ma che ha avuto particolare slancio dopo il 1951 — è stato già bene studiato dal Martinelli, dal Ferro e dal Barberis. Le località ove si dirigono inizialmente questi immigrati non sono — ad eccezione di Ventimiglia — quelle più ridenti della vera e propria Riviera, ma i paesini molto vecchi e un po’ interni, fra i primi rilievi: Camporosso e Vallecrosia vecchia (ove i provenienti dalla Calabria formano più di 4/5 della popolazione immigrata dopo il ’52) Borghetto di Bordighera, Coldirodi, Bussana e Taggia (la cui popolazione ora è per 2/3 bruzia): paesini già in parte svuotati — e qualcuno totalmente, come Vallecrosia e Bussana — dalla originale popolazione ligure, sciamata verso il mare, e quindi in condizioni di estrema desolazione: e che ritornano ora in vita precisamente per il motivo che ai nuovi venuti, a cui forniscono asilo, non paiono diversi da quelli miserevoli lasciati a più di 1000 km. di distanza. Gli emigrati dalla Calabria già stabiliti ufficialmente qui, sono intorno a 15.000, ma a questi va aggiunto un numero più o meno pari di emigrati stagionali (che poi finiscono a poco a poco per insediarsi in forma definitiva): sono braccianti e boscaioli, per l’8o% della Calabria meridionale, privi di ogni qualifica professionale, che quindi si rivolgono a ogni tipo di occupazione umile o che non richieda qualificazione particolare, come i servizi manovali delle imprese edili e dei lavori stradali, il taglio dei boschi, a volte la coltura a vanga dei vigneti o la raccolta negli oli veti. Ma il principale o almeno il primo elemento di richiamo è stato la dilatazione delle colture floristiche su per le ondulazioni che spalleggiano la Riviera e quindi la aumentata richiesta di mano d’opera abile nei lavori a vanga e nella sistemazione dei terrazzi coltivati : due operazioni a cui i bruzi riescono bene, perchè le praticano da qualche secolo specialmente per la coltura dei vigneti: e forse i 2/3 degli immigrati dalla Calabria lavorano oggi — per lo più come braccianti — in imprese floricole. Però da qualche anno, i giovani in modo particolare, esercitano anche la vendita itinerante dei fiori (nei periodi di prezzi meno alti) lungo la via Aurelia. E alcuni nuclei loro già partecipano agli spostamenti stagionali che da questi comuni della Riviera scaricano mano d’opera al di là dei confini francesi, per le industrie alimentari della Costa Azzurra.

    Vedi Anche:  Le industrie e i traffici

    La riconquista umana delle pianure litorali

    Un’ultima soluzione alle discrasie del popolamento nel Bruzio, e quantitativamente molto più voluminosa di quelle fino ad ora descritte, si è avuta poi in loco, con il dilatarsi e l’invigorirsi di un fenomeno già ricordato — perchè iniziato alcuni lustri fa — : cioè la riconquista umana dei litorali, la cui forza d’azione dopo il ’48, per merito anche di una regionale riforma fondiaria, è diventata più efficiente e meglio ripartita. In ogni sezione del litorale bruzio l’esercito americano ha portato, nel corso della occupazione militare nel ’43, un razionale sistema per lo sradicamento dell’anofelismo mediante una distribuzione poderosa di diclorodifeniltricloroetano : per cui nel giro di pochi anni (fra il ’43 e il ’45 specialmente, continuandosi le operazioni di disinfestazione fino al ’55) la nuova formula ha eliminato rapidamente e in modo radicale la vecchia calamità (nelle pianure ioniche i casi di morte per infezioni malariche da 8 per mille nel ’40 si contrassero a 0,5 per mille nel ’48 e neanche un caso di infezione è stato denunciato dopo il ’55) e ha aperto al lavoro umano aree rimaste da secoli nella desolazione e inospiti. Le influenze sul popolamento di così grande e benefica operazione igienica, e della riforma — tesa a ridimensionare le forme di proprietà e la struttura agronomica e i modi di insediarsi — che ne è stata la conseguenza, sono già discretamente visibili: la sanità e la nuova animazione economica che ha pervaso le zone litorali — e quelle ioniche in modo più significativo — sono attualmente di stimolo a un notevole boom di quel moto discensivo in direzione della costa che fino al ’48 si era manifestato solo in particolari zone e unicamente per puntate perpendicolari al mare. E che ora è diventato, si può dire, frontale con la costituzione di numerosi nuovi villaggi (su la riviera ionica dal 1935 a oggi ne sono sorti per lo meno una cinquantina), l’istituzione di colture di pregio e l’apertura di diverse strade locali. Per suo impulso va compiendosi oggi una rivoluzione nelle forme di insediamento della regione: una rivoluzione che riporta, dopo quindici secoli, la popolazione a riaddensare i suoi nuclei su quei litorali da cui il declino storico della Calabria l’aveva consigliata a ritirarsi. Per la vita sociale della regione — le cui manifestazioni vive sono date negli ultimi cinque secoli specialmente da correnti di evasione — questo rimescolio interno, questo spostamento di famiglie e in genere di elementi giovani non più solo verso il di fuori — in paesi più o meno fortemente diversi per natura e storia — ma interiormente alla regione, da un ambiente chiuso come è quello dei monti (chiusi non per natura ma per carenza o rarefazione di strade) ai litorali lungo cui sfilano le principali vie e che l’arte igienica ha risanato e che un duro e qualche volta sanguinoso conflitto sociale ha in buona parte affrancato dal baronaggio, mi pare sia da vedere come il fenomeno più saliente della nostra epoca. E la carta qui a lato, con le indicazioni vive della stabilità o del declino quantitativo della popolazione nei distretti fra i monti, e inversamente degli aumenti nei distretti marini da un secolo in qua, è la più chiara — per quanto elementare — dimostrazione figurativa di questo fenomeno. Questa calata al piano però, non è propriamente un deflusso al mare: rimane — come quando iniziò — una migrazione di rurali in direzione di terre che appaiono ora più ospitevoli e meglio sfruttabili. Ma la nuova popolazione delle piane litorali, per la maggior parte, non guarda al mare come a una fonte di lavoro. Il rivolgimento descritto non è — come fu in epoca bruzia — la conseguenza del sopravanzare di una su una diversa cultura o stirpe: e quindi non ha alterato — per lo meno fino a ora — l’orientamento e l’intelaiatura economica della popolazione fra cui va compiendosi: nelle brevi cimose litorali vi sarà miglior rendita agricola o occasione per qualche persona della famiglia di occuparsi per due o tre mesi in minuscoli opifici (oleifici, lavorazione degli agrumi ecc.) o facoltà per i giovani di dedicarsi a servizi congiunti coi traffici: ma la società sciamata dai monti rimane rurale. Per di più la dinamica del fenomeno è complessa, in quanto le famiglie fluenti verso i litorali in molti casi colmano i vuoti lasciati nei comuni rivieraschi da persone partite verso il Nord.

    I valori di questa calata verso la costa negli ultimi anni, sono stati per ogni zona della regione esaminati di recente dal Galasso, in una indagine che resterà basilare per gli studi di demografia del Mezzogiorno. La fascia litorale occidentale segna fra il ’51 e il ’58 degli aumenti naturali non trascurabili, cioè intorno al 5%. Ma il numero degli immigrati in questa zona dai comuni interni rimane quasi ovunque superato ora (a volte per un totale di diverse migliaia di persone, come sul litorale del Poro) dal numero degli emigrati verso il Nord. Nei saldi vi è perciò una perdita, che si manifesta, dopo il ’51, anche in comune di Reggio (fenomeno singolare per un centro meridionale con elevate funzioni ministrative) ove pare sia da imputare agli scambi con la fronteggiante Messina. Invece i saldi sono più mutevoli sul litorale ionico: qui la esile piana fra Bianco e Gioiosa è già da vari lustri ripiena di paesi litorali — tipiche « marine » — e quindi già satura di popolazione, per cui gli aumenti naturali fra il ’51 e il ’58 appaiono deboli, e significative le migrazioni verso il Nord, che neanche le correnti di confluenza dai poveri comuni di Aspromonte e della Serra riescono a eguagliare. Ma più in là, le zone che erano dominate una volta da anofelismo registrano ora aumenti naturali notevoli (negli otto anni: 6,6% il litorale fra lo Stilaro e il Tacina, 19,6% la piana di Crotone e 12% la piana di Sibari) e in quei comuni ove la riforma rurale ha agito, si sono còlti pure tra il ’51 e il ’58 — non però dopo — dei saldi migratori positivi alquanto forti (come nei comuni di Crotone, Isola, Scandale, Ciro per il Marchesato e per la piana sibarica nei comuni di Corigliano, Terranova, Cassano, Trebisacce). Di guisa che il Galasso può giustamente indicare come già abbastanza evidenziabile una disparità fra i litorali occidentali e meridionali della penisola bruzia, con agricoltura più progredita e popolazione più densa — e quindi una demografia più stabile — e quelli nord orientali, in fase di riplasma-tura economica e sociale e con più dinamica demografia. Il medesimo autore infine mostra che negli anni più vicini la crisi del popolamento nei comuni interni del Bruzio si è fortemente acuita: e cioè al fenomeno di poderosa evacuazione (i cui dati ufficiali però sono più contenuti dei dati reali) si è aggiunto un declino della natalità.

    Variazioni demografiche fra il 1861 e il 1951.

    Una strada di Cutro nel Marchesato: case di braccianti agricoli.

    La misura di tali eventi è stata fornita quindi dal censimento 1961: da cui risulta che per la prima volta da almeno 150 anni, il carico della popolazione della Calabria non è aumentato. La popolazione legale della regione era di 2.044.288 ab. nel 1951 (la presente a quella data era di 1.982.475) ed è rimasta a poco più di 2.045.048 ab. nel 1961 (con una diminuzione dei presenti a 1.937.300 unità). Quando si consideri che a quasi 350 mila unità sono stimati in totale gli incrementi naturali della regione negli anni fra ’51 e ’6i, quel ristagno di popolazione legale e quel calo di popolazione effettiva dopo il ’51 indicano a chiarissime note che l’emigrazione eguaglia ora in valore — e forse leggermente supera — gli incrementi naturali pur rilevanti del Bruzio, e li fa quindi svanire nei bilanci demografici regionali. Perciò i comuni bruzi la cui popolazione ha segnato nel 1961 un reale aumento sono neanche i 3/10 del totale. E tra essi in maggior numero figurano i comuni del litorale, specialmente ionico (es. : Marina di Ciro 36,1%; poi Cariati con 28,6 e Crosia con 36,9 e Trebisacce con 33,9) ma anche di quello occidentale ove si è avuta qualche iniziativa di industrie (Praia 57,8% e Vibo 8,6%) e poi i comuni ove è stata portata a termine una sistemazione idraulica iniziata alquanti anni fa (es. : Sant’Eufemia 28,2% e Francavilla Angitola 38,6%) e le zone del Marchesato ove ha operato    meglio la riforma agricola    (es.:    Isola 34,3% e Botricello 36,1% e poi Cutro con 22,7; Scandale con 20,8; San Mauro con 15,8 e Rocca di Neto con 19,5). Ma di contro la popolazione di più di 7/10 di comuni è in fase di diminuzione, e i decrementi più elevati si colgono sui monti, ove fra il ’51 e il ’61 una cinquantina di comuni è venuta a perdere da 1/4 a 1/5 o poco meno della popolazione legale: in modo particolare lungo la catena padana, fino alle soglie del bacino cosentino (diminuzioni di 15,2 a Mongrassano e di 15,6 a Cerzeto, di 25,7 a Rota e di 28,2 a San Benedetto, di 23,6 a Marano March, e di 19,6 a Marano Princ., di 24,2 a Cellara e di 21,5 a Mangone) e poi nella Presila catanzarese (calo di 23,2 a Magisano, di 16,4 a Carlopoli, di 21,5 ad Amato) sui bordi della Serra (calo di 22,5 a Centrache, di 23,8 a Gagliato, di 34,8 a Vallelonga) fra le costole di Aspromonte (calo di 29,2 a Sinopoli, di 23,7 a Cosoleto, di 17,1 a Delianuova, di 18,6 a Scido, di 22,8 a Santa Cristina) e in ogni parte del Poro.

    Una strada di Isola di Capo Rizzuto nel Marchesato: case di braccianti agricoli.

    Sole aree più o meno interne — in eloquente contrapposizione a quelle — di aumento sicuro e riguardevole sono il bacino di Cosenza, in buona parte della sua ampiezza, e la zona di miti rilievi intorno a Catanzaro, ove figurano positivi i bilanci naturali (12,4% nel primo caso e 17,8% nel secondo caso) e i saldi migratori (2% là e 3,5% qua): un fenomeno di densificazione che non va posto in relazione solo con le funzioni, svolte nei loro poli, di direzione ministrativa e culturale e di fiorente mercato per discretamente polimeriche aree agricole, ma anche — specialmente Cosenza — con l’animazione del traffico e i numerosi sforzi locali per incitare o animare un’operosità industriale di qualche risalto. E infine v’è, fra questi due poli e la regione di ripopolamento del Marchesato, un’area montana — cioè la Sila — ove le maglie del popolamento risultano meno colpite dal comune esodo: gli incrementi naturali fra il ’51 e il ’61 sono sostenuti (in media 5,2%) e — quel che più vale — l’emigrazione è meno torrenziale che in qualunque zona montana della penisola bruzia. A tale riguardo — scrive bene il Galasso — « non si può non pensare al fatto che la Sila è stata in gran parte teatro [dopo il 1950] di uno dei più massicci sforzi di riforma [e che] gli investimenti profusi in quest’opera, l’effettiva ripartizione dei terreni che si è avuta nel corso di questi anni, e le ripercussioni psicologiche » della nascita e della funzione di venticinque minuscoli villaggi rurali e della creazione di aziende pilota, sono stati elementi iniziali di una più razionale ridistribuzione della popolazione e di una disciplina degli esodi.

    Ridimensione ed evoluzione degli insediamenti sui rilievi cacuminali

    Potrebbe apparire, questa stabilità del popolamento di alcuni rilievi cacuminali, niente più che il continuarsi, come per inerzia, di un fenomeno reiterato da remota età e che non fu saturato e chiuso neanche con le dilatazioni enormi delle colture a cui diè luogo la richiesta di frumento due secoli fa: e in verità può venire designato per tale ad es. il moto di svuotamento, iniziatosi verso il 1860, della valle del Mesima — ove le infestazioni plasmodiche erano rincrudite nel corso del secolo — che portò a coagulare nuovi villaggi lungo il fianco occidentale della Serra fra 600 e 800 m. di altitudine (nei comuni di Dinami e Arena), così come lo fu la creazione dopo il 1918 di minuscoli nuclei rurali su per le montagne nicastresi e pao-lane in conseguenza della formazione di una minima proprietà rurale, a cui si deve qui, a più di 700 m. di altitudine, la defricazione di vecchi pascoli e sterpaglie. Ma con questo fenomeno non ha relazione il popolamento in corso dei principali altopiani della regione, e del silano in modo particolare : una risalita che per lo più non manifesta legami di continuità topografica con le zone di vecchio abitato. Per quanto solo da qualche anno iniziato, e quindi per ora debole, tale popolamento ha una varietà e una novità di stimoli — cioè la migliore fruizione del bosco e l’opera di ricostruzione della coperta forestale (vedi i grossi nuclei o « centri aziendali » e le minori stazioni che ospitano il personale per la cura delle foreste a Basilico in Aspromonte, a Cropani Micone nella Serra, a Monaco a Buturo a Roncino a Gariglione nella Sila meridionale, a Fossiata e in una decina di caserme dislocate fra i boschi nella Sila cosentina) o una razionale lavorazione del legno (vedi il centro industriale del Cupone sul lago Cecità) o lo stabilimento di una agricoltura montana di classe (vedi la stazione di Molarotta in Sila, a 1200 m. di altitudine) o la costituzione delle prime stazioni turistiche già discretamente numerose e fiorenti (Camigliatello, Lorica, Silvana Mansio e Villaggio Mancuso in Sila e Camparie in Aspromonte) o la creazione di buon numero di impianti per la generazione di energia — che lo qualificano per uno degli eventi ora più singolari nella vita sociale della regione. E la rilevazione del 1961 ha ribadito la consistenza di tale evoluzione : gli unici comuni silani con un discreto aumento di popolazione (cioè i due comuni di Spezzano: il maggiore con 15,3% e il minore con 5,3%) sono quelli ove i fenomeni ora accennati mostrano la maggior concentrazione.

    Di modo che attualmente la distribuzione della popolazione in Calabria si rivela alquanto diversa da come era agli inizi della unificazione nazionale: ora — i dati di cui mi sono servito per disegnare la nuova carta a pag. 250 sono quelli del censimento del 1951 — la regione ha diverse aree di notevole densità che emergono, molto più vivamente di un secolo fa, su contermini zone poco o mediocremente popolate. E in una regione come questa, ove la natalità è più o meno uniforme per valori in ogni zona e di conseguenza sono gli spostamenti interni o gli esodi a mutare il peso della densità, l’affollamento notevole di alcune e poco grandi aree è segno che anche in Calabria il popolamento si orienta via via a formare dei forti nuclei in zone di particolare predilezione: la qual cosa non era riscontrabile fino agli inizi del nostro secolo e può venire ritenuta già come indicazione di quella moderna tendenza a individuarsi e specializzarsi, che pure la vita di una antiquata regione ha dovuto sentire — per quanto in misura lieve — negli ultimi trent’anni.

    Dinamica odierna della popolazione bruzia

    Guardiamo un po’ da vicino quelle aree di forti densità (cioè sopra i 120 o 130 ab. per kmq.): sono una decina e bene individuabili: a) la costiera padana un po’ dovunque ma in modo più marcato presso l’apertura della valle del Lao e poi in rispondenza della depressione che fra l’Esaro e il Sanguineto le apre una via verso l’interno e specialmente nei 40 km. di riviera più a sud, fino ad Amantea; b) la valle del Crati, specialmente nel suo bacino di raccolta fra Rogliano, Montalto e Spezzano — un triangolo nel cui centro è Cosenza — e poi in buona parte del suo fondo medio fino a Tarsìa e lungo le sue non ripide ma abbastanza morbide e bene innaffiate pendici occidentali; c) la media valle, fortemente schermata dai venti settentrionali, del fiume Coscile — e quelle dei suoi confluenti — con una salienza di densità intorno a Castro-villari ; d) l’istmo di Catanzaro fra il golfo di Squillace e quello eufemiate, con buona parte della piana di Nicastro, e con puntate a nord su per le valli dei fiumi Amato e Corace e Simeri che giungono al bacino di raccolta del Savuto, e con una dilatazione a sud fino a includere la valle del fiume Ancinale; e) l’altopiano del Poro special-mente sul lato marino;/) la piana di Gioia (e di Rosarno e di Palmi che dir si voglia), con il giro di quelle pendici leggermente plasmate che la uniscono ai terrazzi quaternari, pure questi largamente popolati; g) la costiera dello Stretto, per un’arcatura di una quarantina di km. così a nord come a sud di Reggio, e i vicini, più bassi ripiani aspromontani ; h) la fascia litorale locrese ; i) la zona di Crotone che, per conseguenza delle operazioni di popolamento pianificate dalla riforma rurale, si è ampliata dopo il 1951 a nord della piana del Neto fino a Ciro; l) una zona (con valori nel 1951 più depressi di quelli segnalati su la carta, ma nel ’61 già elevati a densità intorno a 120 ab.) lungo la piana del golfo di Sibari, fra le foci del Trionto e del Crati.

    Densità della popolazione secondo il censimento del 1951. (La edizione dei risultati del censimento del 1961, fino ad oggi limitata ai soli dati grezzi per comune e non integrata da quelli relativi alle forme di insediamento, ha impedito di disegnare una carta con la situazione demografica residenziale secondo l’ultimo censimento).




    La dislocazione marginale, in relazione a pianure o a zone depresse e fra l’accidentato rilievo, di tali aree di forte popolamento, è chiara: ma giova specialmente notare come a ciascuna di quelle zone coincida uno dei principali centri della regione. Questo è già il sintomo di una — per quanto fino a ora nebulosa e poco tesa — individuazione della città: cioè del fulcro economico e giuridico e culturale, da parte di una società che il fenomeno urbanistico ha conosciuto male e per lo più ignorato dopo il crollo della fulgida civiltà portata dai greci. Però in nessun modo è da opinare che ogni caposaldo di quelle zone di notevole affollamento sia veramente fino da ora una città: anzi — per lo meno fino ai nostri giorni — la Calabria è una delle regioni d’Italia che ha il minore numero di città, ove a questa parola sia dato un significato moderno, un valore storicamente maturo.

    Il disegno delle aree a riguardevole densità è frantumato, in modo particolare sul lato ionico, da vaste zone con popolamento debole o mediocre : sono — e la cosa risalta a prima vista — le superfici culminali dei grandi massicci ove la densità si contrae a meno di 25 ab. per kmq. (e nel cuore della Sila a meno di 10). Ma — al di fuori di tali plaghe — uno scialbo affollamento umano (in media meno di 50 persone a kmq.) manifesta pure sul lato ionico la sequenza di ondulazioni che formano la scarpa dei massicci e appaiono plasmate poco vividamente e con squallida uniformità — meno che in qualche areola — perchè scolpite in conglomerati o argille o arene terziarie: tipica fra queste il Marchesato. In ogni modo le zone periferiche della Calabria, fino a una altitudine approssimativa di 500 m. disvelano a grandi linee, sugli opposti versanti della penisola, una diversa densità umana : l’ovest è riempito in notevole misura e con maggior continuità e il levante è dominato da aree di debole carico umano, fra cui però le chiazze a più piena densità figurano ora in via di dilatazione. E in questo è da vedere quasi unicamente la mano della storia: quel po’ di vita che la Calabria ha avuto dopo il mesto declinare degli stati greci e dopo i conati di rinascita bizantina, è giunto da nord: per la via che vien giù da Napoli, o da ovest: per il Tirreno. Perciò il fianco orientale della regione è rimasto, nel suo isolamento, più conservativo: ha conservato più largamente le deposizioni linguistiche elleniche, e fino a qualche anno fa le forme più antiquate di agricoltura e le tipiche migrazioni stagionali di bestiame e le manifestazioni estreme della autorità e della ricchezza fondiaria baronale: cose a cui era in parte legata la nefasta divulgazione e la tremenda presa — lungo le piane e pei fondi valle orientali molto più che in quelle occidentali — delle infezioni plasmo-diche, che furono il principale motivo della rarefazione umana su la costa orientale fino ai termini del secolo scorso.

    Però, quelle che si potrebbero giudicare come le sole discretamente qualificabili « città » della Calabria, sorgono su le riviere ioniche o sul lato della penisola che dà a quel mare : nè la cosa deve meravigliare. Da quindici secoli in qua — come ho avuto modo più volte di ripetere — la Calabria ha visto raramente e con poca fortuna germinare un urbanesimo, la cui vitalità si è esaurita nel giro di una breve stagione: si pensi a Vibo in età imperiale, e poi ad Amantea nel secolo IX e infine a Mileto nel secolo XI. E di conseguenza quelle a cui ora possiam dare propriamente o quasi il nome di città, sono una eredità del periodo che la conquista degli elleni — e la sua dilatazione e i suoi influssi e il resistere della sua forte eco fino agli estremi e un po’ stanchi ritorni bizantini — ha reso il più nobile della storia della regione: elleniche Reggio e Crotone, di cui la prima ha conservato un po’ di vigore per la ubicazione su l’unica zona della Calabria — cioè quella rivolta allo Stretto — che pure nei secoli oscuri fu animata da una grande via di traffico, e la seconda rimase nel medioevo e fino verso il 1880 l’unico discreto nucleo abitato della costa orientale. E eredi pratica-mente — pure in modo così diverso — della fortuna degli elleni, Cosenza e Catanzaro: la prima bruzia, ma di sicuro configurata a città (o qualcosa di analogo) per influsso dei greci e cresciuta unicamente per conseguenza del declino italiota, e la seconda (a cui si affiancarono per diversi secoli Rossano e Squillace, Stilo e Gerace) chiaro esempio di quella risalita dei monti che segna la fine di ogni vitalità greca. Ma i secoli e le civiltà che seguirono neanche una vera e nuova città sono stati in grado di dare: e pure tale constatazione serve a capire meglio la storia della regione.