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Usi, costumi e tradizioni di oggi e di ieri

    Tradizioni che resistono e tradizioni in crisi

    « Parola, costumi, tradizioni emergono fresche nel mondo del popolo. Esisteranno ancora di qui a 30 anni ? Dopo aver sfidato i secoli resisteranno a un così breve periodo ? La Calabria è nel suo periodo di mutamenti. In pochi anni sono sorti miracolosamente ponti e strade che formavano l’aspirazione di secoli, il mondo nuovo pulsa col suo motore quasi in ogni villaggio. Già qualcuno pensa a un museo di curiosità popolari: [e in realtà un museo di questo genere è stato aperto nel 1955 a Palmi]. Di qui a cinquanta anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interni, la Calabria sarà una regione irriconoscibile da quella di ieri ». Così l’Alvaro qualche anno prima della sua dipartita.

    Tradizioni radicate nella antichità bruzia e nei patrimoni culturali achei

    Con brevi domande e qualche elementare cogitazione, con quel suo riflettere le realtà odierne fra le favolose suggestioni della memoria, il maggior scrittore della Calabria ai nostri giorni aveva indicato puntualmente un fenomeno che dianzi non era stato — mi pare — lumeggiato in misura conveniente da chi si era volto, nel dopoguerra, a esaminare la vita della Calabria: e cioè che in Calabria l’erosione aggressiva, indiscriminata, continuante di una notevole parte di quello che si usa chiamare folklore, è iniziata da non più di cinquanta anni ma si manifesta ora con così bruciante vigore che si è sentito il bisogno di salvare, dopo i canti e le fiabe — come aveva iniziato a fare il Lombardi Satriani — anche una raccolta degli oggetti testimonianti le condizioni di vita e i costumi obbiettivi del popolo che fino ai nostri giorni, o poco meno, rimasero in lui radicati da lontane età. E questo è un fenomeno di riflessione intorno alla propria storia che può significare come un sintomo di rinascita.

    Zampognaro d’Aspromonte.

    Il maggior numero delle tradizioni popolari della regione ha nell’antichità bruzia e nei patrimoni culturali dei coloni achei e ionici le sue origini magico-religiose: e molte di quelle tradizioni che il popolo aveva per lunga sequenza di secoli incorporato in sè, nei suoi culti religiosi o nei suoi istituti giuridici, sono giunte per naturale filtrazione a percolare con tale energia nella trama della vita sociale che la loro presenza può non rilevarsi, e anche quando la si nota i loro significati o motivazioni originali non è facile coglierli a prima vista. Desidero ricordare — fra le centinaia di elementi di questa natura — la frequente posizione del focolare nella abitazione rurale, cioè al primo ingresso (come lararium) ; le decorazioni a triangoli, stelle, disegni geometrici, e poi cuori, colombe, fiori e tralci ecc. degli utensili in legno (marche per burro e pane, collari per bestiame) e delle coperte di lana e di seta — quelle di San Giovanni in Fiore e Tiriolo specialmente — e le figure bifronti poste a volte sulle conocchie ; i riti natalizi di far bruciare il ciocco circondato a volte da ceppi minori per quanti sono i figli o le persone di famiglia; i riti praticati a Pasqua di metter piatti di grano germogliato, e intrecciato con nastri a colori, presso gli altari (il venerdì santo) o di abbracciar gli alberi perchè crescano bene (il sabato santo) e le cante e le danze (a Bonifati sono guidate da un corifeo coperto di erbe e fiori) svolte dai giovani il primo di maggio per promuovere la fecondità della terra. Così pure le tradizioni che si riferiscono ad alcune fasi salienti per la vita di una giovane, come ad esempio i bamboli (cioè fasci di fiori e di erbe fragranti) che le fanciulle sogliono confezionare la notte di S. Giovanni per fare il comparatico; e la vestizione della fanciulla che si fidanza (la ’nzinga) con le gioie — lo spadino per le chiome — o l’abito — l’intrecciatura e il panno scarlatto — che l’uomo le ha donato; e le sfilate con i corredi personali e per la nuova casa che le amiche della fidanzata e le comari recano alla abitazione maritale il giorno avanti le nozze, a San Giovanni in Fiore e nei paesi di Aspromonte. Così alfine i canti funebri (il riepitu) intonati sul morto fra le donne della famiglia, in forma di dialogo, e il focolare spento per vari giorni nella casa del morto.

    Ma sugli elementi di folklore ora ricordati ha agito solo in modo elusivo la erosione dei secoli: la facile travasatura o adeguazione loro ai termini della vita di qualunque giorno — anche nella realtà odierna — e la mascheratura o l’infusione loro negli schemi fra cui frequentemente si incanala l’artigianato o nei moduli a cui si uniforma la religione divenuta esclusivamente rito, li ha conservati. Come ha conservato i canoni, ispirati a remoti ideali patriarcali, che governano la vita famigliare in buona parte della regione, ma oggi specialmente nei comuni interni — perchè a tale riguardo il vigore delle tradizioni è alquanto declinato nei principali centri e lungo le strade più frequentate. Quei canoni che, meglio che con mie parole, descrivo con quelle di Alvaro (da Itiner. ItaL, pp. 350-356): la forza della Calabria «è nella sua struttura famigliare. La famiglia è la sua spinta vitale, il campo del suo genio, il suo dramma e la sua poesia. I figli rappresentano un continuo atto di fede nella vita, una promessa e una speranza, una forza che deve correggere il destino individuale dei padri. Altrimenti non si capisce il significato della parabola che percorre ogni calabrese di modesta condizione che si affaccia alla vita: proprio quando egli, giovane, deve affrontare la vita, pensa a sposarsi: mentre avrebbe bisogno di lottare solo, si crea una responsabilità: senza il peso del gruppo famigliare a lui pare inutile combattere. Se rimane solo e libero di sé, porterà il suo individualismo, proprio della sua stessa natura inquieta, cavillosa, ragionante, alle manifestazioni più sfrenate. Egli ha bisogno naturalmente del freno della famiglia : questo è il solo mezzo attraverso cui egli si potrà fissare nella società ». E questa etica « richiede qualità virili anche nella donna, o come volete, primordialmente femminili. E escluso ogni senso edonistico ».

    Donna di Guardia con elementi del costume valdese.

    Donna di San Giovanni in Fiore col costume locale.

    L’uomo in Calabria, precisa l’Alvaro, non conquista neanche « socialmente rispettabilità, se non ha famiglia. Questo è un sentimento affatto regionale della autorità e del comando, essendo la Calabria uno dei paesi che ha in maggior grado il senso della gerarchia, il senso paterno. Da ciò proviene al calabrese un altro ordine di pensieri: quello di fronte alla autorità. Per lui chi comanda ha il diritto di comandare, e il comando è una funzione indiscutibile. Il calabrese immagina il potere come qualcosa di astratto: il potere non è per lui altro che sostanzialmente giusto, e le ingiustizie che ne possono derivare dipendono da chi amministra il potere. Poiché ha un senso primitivo della giustizia, per cui nei vecchi tempi si eresse a brigante giustiziere, egli diffida degli esecutori del potere, mentre colloca il potere nella dimensione più alta e inattaccabile. D’altra parte il potere, il comando della società sono considerati a tal punto — per una abitudine secolare alla oppressione — che il movimento profondo della Calabria tende da cinquanta anni al mutamento di condizione: partecipare al potere in qualsiasi forma, diventando magari il più umile servo di esso. Sarà in alcune classi la corsa verso l’impiego e il funzionarismo: non si è ancora sviluppato il senso della iniziativa individuale e del rischio personale, nè si è abolito il concetto della differenza tra impiego di tavolino e mestiere [anche se] l’emigrazione aveva rivelato che il calabrese può diventare un uomo moderno, attivo, intraprendente, capace di correr il mondo a suo solo rischio. Preti, funzionari, carabinieri rappresentano il riscatto di famiglie che hanno non altro mezzo per salire e migliorare la propria condizione se non mettendosi sotto le ali dei grandi poteri costitutivi: la Chiesa e lo Stato ». Ma la storia di tali ascensioni, o solo evasioni, dal vivere anonimo e gramo è piena di drammi inauditi: molte vite della gente della Calabria sono una continuata rinunzia, e forse neppur molto dolorosa, poiché una tradizione ha segnato nel cuore di ognuno questo dovere. E come le vite singole, così quelle delle famiglie: ove secondo le più tipiche istituzioni patriarcali — ma ora, ripeto, unicamente nei paesi un po’ interni o minori, o presso le classi meno avanzate — nelle famiglie povere se il padre non è arrivato «a compiere l’opera di elevazione famigliare, il figlio maggiore assume la funzione di padre e si trova ad averla terminata vecchio come suo padre e non per sè. E le sorelle andranno a marito per ordine di età»: quindi molti matrimoni sono ritardati perchè la sorella maggiore non è stata richiesta in moglie « e in molti luoghi, a uno che chieda la figlia minore d’una famiglia, il capo famiglia risponde offrendo la maggiore, per ordine di età. Questo indica l’annullamento totale dell’uomo di fronte alle necessità famigliari: l’uomo considerato come partecipe della responsabilità famigliare e del suo ordine ».

    Vedi Anche:  Regioni strutturali della Calabria

    Erosione degli elementi materiali del folklore

    Quelli che diversamente — fra i fili di remota origine immaglianti la vita sociale — figurano da molti anni in via di scomparizione, sono gli elementi materiali del folklore, che meno si attagliano ai rivolgimenti della realtà e da questi sono per primi colpiti, come ad esempio i vestiti e gli utensili. Un noto folklorista di Calabria: Raffaele Corso, ha riconosciuto in questa regione, per ciò che riguarda gli abiti donneschi usualmente adoperati fino a cinquanta anni fa, diverse zone tipiche: e cioè una, che egli chiama «del panno scarlatto» e che va dai paesi rivieraschi lungo la catena pao-lana (a mezzogiorno di Diamante, con centro nelle aree di Amantea e di Nicastro) per lo meno fino al Poro, e s’amplia a oriente inoltrandosi nel distretto cosentino e fino sui rilievi istmici, a Gimigliano e Tiriolo. La gonna scarlatta di panno è distintiva qui delle donne fidanzate o coniugate (le nubili la usano verde o azzurra, le vedove marron scura) e vien ricoperta da una più lieve gonna turchina, di seta, che si rimbocca indietro a coda su la prima, e alfine da un grembiule ; e il torso è fasciato da un bustino a cui le maniche sono congiunte da nastri colorati. Ma nel cuore della Sila ha predominato un diverso abito, che si conserva oggi specialmente a San Giovanni: cioè l’abito nero, un po’ animato solo sul petto da candido camice, dalla cuffietta bianca e dalle calzette bianche. Infine l’estremità meridionale della penisola ha una gaia gonna azzurra a pieghe fitte e minute, e un giubbino svolazzante, sopra a cui piovono i bordi merlati del camice alquanto aperto sul davanti, e cinto sui seni da un bustino. Però questi abiti che sopravivevano fortemente fino a qualche lustro fa, almeno nei giorni di festa, sono diventati nel dopoguerra dei cimeli, e solo in qualche zona — che si contrae di anno in anno — è facile coglierli in uso, come abiti di distinzione, quando la donna si reca in chiesa o nei principali centri vicini, al mercato. Ma è più frequente che solo qualche elemento del tradizionale abito e in particolare la gonna (ad es. quella scarlatta con la seconda riavvoltolata a coda nei comuni intorno a Nicastro, o quella turchina nei villaggi della riviera aspromontana) sia rimasto in funzione, congiunto — specialmente per la metà del corpo dai fianchi in su — a capi di vestiario tipicamente nuovi.

    Donne di Lungro con costumi albanesi da festa.

    Donna di Spezzano, ai bordi della piana sibarita, con costume albanese da festa.

    I costumi maschili poi, sono spariti si può dire integralmente: ma qui già avevano operato con energia fra il 1880 e il 1900 le conseguenze dei servizi militari e della emigrazione. In genere l’abito maschile delle classi rurali era di panno turchino, fatto a brache con corpetto di tela a cordulo o di lana a colorazioni vivaci, il camice col colletto rovesciato su la giacca di breve taglia, le calzette di lana nera o bianca. D’inverno era d’uso un cappotto di arbagio, che è il solo elemento del costume conservato — specialmente nei comuni più alti — fino ai nostri giorni : e così pure non è raro vedere in uso sui monti il pelliccione o la tunica di pelle di capra per ripararsi dal freddo e dal vento, o le ciocie (le zampitte) di pelle porcina. Ma è totalmente dileguato il cappello a cono (il cervune) con innumerevoli nastri e cordoni ricadenti su le spalle.

    Erosione degli elementi linguistici eterogeni

    Nel medesimo giro di cinquanta anni, l’incalzare dei fenomeni già ricordati ha avuto pure qual conseguenza la riduzione, o meglio la inclinazione decisa a scolorirsi, a stemperarsi, a indebolire, della varietà idiomatica della Calabria: che era prima del 1880 fra le più notevoli d’Italia. Il dialetto bruzio fa parte della famiglia idiomatica del meridione italico e a sud della strettoia istmica somiglia e si lega a quelli della Sicilia orientale. Ma una parte non trascurabile della popolazione di Calabria, cioè per lo meno 60 o 70.000 persone, si esprimevano — quando vi giunse Garibaldi — in lingua non bruzia, ma con idiomi di origine diversa. In due o tre comuni, nella parte più aspra dei monti padani (e cioè a Guardia e un po’ a Fuscaldo, a San Sisto e a San Vincenzo: qualcosa come 3 o 4.000 ab.) si parlava un idioma di origini provenzali derivato dai valdesi che erano migrati qui nel secolo quattordicesimo e furono sterminati in gran numero nel 1561: ma gli sparuti nuclei di superstiti confinati in quest’area dai feroci rigori dell’inquisizione romana avevano conservato insieme con l’austero abito valdese per le donne (una gonna che non si chiude ai fianchi ma sale fino al petto, e la singolare intrecciatura delle chiome in forma di luna orizzontale, e la cuffietta maritale) pure la lingua degli avi, e riempito di termini provenzali la toponomastica locale.

    Vedi Anche:  Le industrie e i traffici

    Donna di Tiriolo in abito da festa. La gonna serica a fiori ricamati e lo scialle a striscie di diversi colori sono una pregiata produzione domestica locale.




    Su di un’area ben più grande, ma alquanto frazionata (vedere la carta a pag. 158) la popolazione — pari a 48.000 anime nel 1861 — di una trentina di comuni raccolti in parte sugli spalti presilani, sia a nord (sul lato che da loro ha avuto il nome di Sila Greca) sia a sud fra i fiumi Simeri e Crocchio, sia a oriente nel bacino del Lipuda, e in parte sui fianchi orientali del Pollino e in parte sul pendio orientale dei monti pao-lani — in modo da disegnare una vasta marcatura intorno la pianura di Sibari e un diaframma idiomatico fra questa e il Vallo — si esprimeva di norma in lingua albanese (e più precisamente nella sua varietà meridionale, parlata da Valona ai confini epiroti) in quanto era la proliferazione di quelle numerose comunità albanesi che si insediarono in Calabria fra il 1448 e il 1533. E questi albanesi (di cui i vicini bruzi non avevano una chiara idea etnica, sì che li scambiarono qualche volta per greci e non di rado per zingari: da qui ad es. il toponimo di Zangarise) erano rimasti pure fortemente fedeli ai loro aviti generi di vita, conservando certi usi tipici (per le donne il carico dei pesi — inclusi i figli fino a uno o due anni — sul dorso curvato, legandoli con corde invece di tenerli sul capo come sogliono le donne bruzie) e insieme l’ossequio a istituzioni famigliali molto severe e crude — specialmente in tema di onore o dignità di consanguinei — e anche i magnifici abiti da festa e l’originale rito cristiano orientale, che dal 1919 ha un eparca a Lungro.

    Più unita invece, arealmente, ma già nel 1861 in fase di riduzione — con una popolazione fra 12 e 15.000 anime — era l’oasi di idioma greco radicata su l’estremità meridionale della penisola, cioè nei comuni della parte sud occidentale di Aspromonte: ma due secoli prima il greco era idioma vivo in alcuni casali di Reggio, internati nei punti meno facilmente accessibili delle valli sfocianti nello Stretto (come San Roberto, S. Stefano e S. Alessio, Laganadi) e intorno al 1570 il già ricordato Barrio nomina diversi villaggi sui fianchi settentrionali di Aspromonte (fra cui Sinopoli, Lubrichi, San Giorgio, Scido, Pedavoli) che rem divinam graeca lingua ac more faciunt, e solo nel parlar comune usano sia il greco come il volgare, in chiave bruzia. E vien pure da ricordare che a poca distanza dai villaggi ora nominati, ma più giù, verso la piana di Gioia: cioè a Seminara (ove in età angioina si parlava grecamente) era nato quel Barlaam che fu maestro di greco al Petrarca, e negli ultimi anni di sua vita —cioè verso il 1348 — ebbe la direzione della diocesi di Gerace, la cui popolazione parlava in parte latino e in parte greco. Se poi si risale via via negli anni, i documenti notarili della Calabria meridionale conoscono per tre secoli — cioè fra XI e XIII—    unicamente l’idioma greco, e pure nel Marchesato figurano comunità di tal idioma (a Crotone gli episcopi Giovanni nel 1217 e Nicola da Durazzo nel 1276 officiavano i loro culti sia in latino come in greco, in quanto un folto nucleo di fedeli capiva solo la seconda lingua). Qual sia l’origine di tale grecità è problema di non agevole soluzione e intorno a cui neanche i linguisti appaiono concordi. Un autorevole indagatore degli idiomi della Calabria, il tedesco Rohlfs inclina per una continuità (chiara in special modo a Bova) degli idiomi magno-ellenici, e ne vede una prova nella struttura del periodare, a volte foggiata sui modi greci (anche se neolatine per origine sono le parole con cui il periodo si esprime) e nella conservazione di vocaboli già declinati in Grecia prima del periodo bizantino e di cui il neogreco non ha nessun ricordo. Diversamente, i più giovani linguisti e in particolare l’Alessio e il Parlangéli sono del parere che queste oasi siano originate da reiterate migrazioni di coloni e soldati bizantini fra i secoli sesto e decimo. Forse in ambo le ipotesi c’è una parte di vero: non si può di certo scindere la grecità di tale regione da quel chiaro ellenismo che Strabone (Geogr. VI 1, 2) vi documenta fino al periodo di Augusto, là ove scrive di Reggio, e che, più eroso o indebolito a nord d’Aspromonte dagli sforzi unificatori degli imperatori romani, con ogni probabilità non fu sopraffatto o eliminato nei paesi di Aspromonte e nelle piane intorno — chè la dominazione romana aveva a fare i conti in questa regione con una discreta reazione locale. Ma qui trinceratosi, fu poi dopo il 530 rianimato e ringiovanito fortemente dai bizantini per almeno cinque secoli.

    Donne di Tiriolo in abito da festa.

    Donna di San Giovanni in Fiore al telaio. San Giovanni è uno fra i maggiori centri di artigianato locale per la confezione di stoffe tipiche.

    Di questi eteroglotti però rimane ora ben poco: dopo l’unificazione nazionale l’integrità dei loro nuclei è stata a poco a poco frantumata e dilavata. Nel 1921 la « grecìa » si limitava a cinque o sei comuni — privi in quegli anni di comunicazione rotabile con la costa — raccolti nel bacino della fiumara di Roccaforte, e aveva il suo centro a Bova: la componevano non più di 12.000 persone. Il cui numero però, dopo l’apertura di una via carrozzabile congiungente i paesi di quella valle con i centri marini, è venuto poi fortemente diminuendo: ai nostri giorni non supera forse 2 o 3 migliaia di unità e lo formano solo persone anziane. E in misura più rilevante si è degradato l’albanese che nel 1921 era abitualmente usato da 70.000 persone per lo meno e oggi è conosciuto bene solo da 10-12.000, di età alquanto matura, e capito —    ma di rado usato — da non più di 30.000: in realtà il vecchio dialetto non è più famigliare per la generazione giovane.

    Vedi Anche:  Origine del nome

    L’aliquota degli analfabeti, sul totale della popolazione da 6 anni in su, secondo il censimento del 1951. Negli ultimi anni vi è stata — come informano i risultati del censimento 1961 — una diminuzione delle aliquote specialmente lungo i litorali padano e tropeano a occidente, squillacio e locrese a oriente, lungo la media valle del Crati, nei comuni istmici, nei comuni presilani meridionali e in alcuni comuni — sia di piano che di monte — ove ha operato la riforma rurale nel bacino del Neto.

    La piaga dell’analfabetismo

    Questo logoramento degli idiomi eterogeni, cioè giunti, con nuove popolazioni, da fuori e diversi anche dal parlare nazionale, è una conseguenza di numerose e per lo  più elementari novazioni nelle relazioni locali: cioè, dopo l’unità, la coscrizione militare e poi l’emigrazione stagionale di mano d’opera, e dopo il 1910 l’apertura di qualche carrozzabile e la maggior frequentazione di mercati vicini. Poi verso il  1930 l’azione governativa di isterilimento di ogni manifestazione che non aveva origini nazionali, e verso il 1940 la radio, e dopo la guerra un pochino i giornali. Ma diversamente da quanto qualcuno può pensare, quel logoramento è ben poco o è solo in trascurabile misura il risultato di una divulgazione della istruzione elementare : cioè di un aumento delle scuole, di una penetrazione di questo primo veicolo di incivilimento fino ai più riposti villaggi. Perchè le condizioni dell’istruzione elementare in Calabria sono state fino ad ora veramente sciagurate, e tali « da non poter essere rimirate senza onta e sdegno » come scriveva qualche anno fa il Zanotti Bianco, l’uomo che più coraggiosamente, dal 1908 ai nostri giorni, ha deplorato quelle condizioni: cioè la scarsità e la desolazione delle scuole, l’evasione scolastica frequente, la vita dei maestri poveri e infelici quanto i loro villaggi ecc. Si pensi che fino al 1908 la Calabria aveva avuto in erogazione solo l’uno per mille di quanto lo Stato aveva dato in cinquanta anni di vita nazionale per la costruzione di scuole nuove, e fra il 1912 e il 1922 la misura degli stanziamenti a tale fine, pure segnando per la Calabria un aumento a 4%, rimaneva la più umile della nazione. Negli anni seguenti le cose dell’istruzione languirono come ovunque, in Italia: di modo che nel 1952, secondo le rilevazioni ufficiali governative, vi era in media un’aula per ogni 57 fanciulli, e secondo una più onesta inchiesta di istituzioni educative regionali, solo un’aula per ogni 125 fanciulli. E di queste aule neanche un quinto — e solo nei principali centri — si potevano dichiarare in condizioni discrete : ma in maggior parte dei comuni venivano usate per aule baracche scadentissime o « bassi » poveri di aria e di luminosità. E i maestri, per deficienza di alloggi, non potevano in molti casi risiedere nei comuni ove impartivano lezione, per cui erano costretti a diurni viaggi con il risultato di tagliar via qualche ora di lezione. Nè la tradizionale inerzia e grettezza dei famigliari che preferivano usare i figli per i lavori agresti o per custodire il bestiame ai pascoli, anziché inviarli a scuola, era stata vinta: ragione per cui il 15% dei fanciulli in età scolare non frequentava la scuola. Ma fra i motivi di così deplorevole evasione l’inchiesta regionale già ricordata ha indicato per un terzo dei casi la povertà più nera (fanciulli che non erano in grado di recarsi a scuola perchè non avevano scarpe o vestiti) e per un quarto dei casi la inesistenza di scuole nei villaggi.

    Una tipica coperta di artigianato bruzio (da Cariati).

    Negli ultimi anni le condizioni della scuola sono un po’ migliorate: secondo le informazioni governative, per 258.000 fanciulli funzionano ora qualcosa meno di 7.500 aule: cioè una per 35 alunni. Aule però che le medesime fonti governative dichiarano per 2/3 inidonee. E la Calabria rimane fino a ora quel che è stata dal 1881 : e cioè la regione d’Italia con il maggior numero di analfabeti: l’85% della popolazione al di sopra di 6 anni di età nel 1881 (la media nazionale era a egual data il 62%) poi il 78,7% nel 1901 e il 69,6% nel 1911 e il 53,4% nel 1921 e il 48% nel 1931 (quando la media nazionale era di neanche 21%). E alfine il 31,8% nel 1951 (contro una media nazionale di neanche 13%). I risultati del censimento 1961 indicano a 21,5% delia popolazione con più di 6 anni il numero degli analfabeti (la media nazionale è di 8,3%) e aggiungono un numero anche più elevato di semianalfabeti (24% contro una media nazionale di 15,7%). Disonorevole primato che si ripete anche, naturalmente, per gli immigrati nelle conurbazioni industriali del Nord e rende più oneroso e incerto il loro inserimento in quelle comunità (secondo una recentissima indagine, fra i bruzi giunti a Milano negli ultimi cinque anni, il 38% è analfabeta o quasi). Disonore e sventura di cui però non la Calabria sola ma la nazione — nelle sue classi dirigenti — porta da cinquanta anni per lo meno la responsabilità. E di cui la carta a pag. 444 dà in ogni particolare i valori e la distribuzione locale, per i primi anni dopo la guerra, individuando le aree ove il fenomeno è più grave: e cioè le zone interne, isolate fra i più impervi rilievi, con l’agricoltura più povera e notevoli superila pastorali, e le zone ioniche, dominate dai cereali nudi e — prima della riforma rurale iniziata nel 1950 — dai più brutali pesi aziendali e morali della predominazione feudale.

    Un motivo frequente delle coperte di Cariati.

    Un tradizionale disegno delle coperte confezionate al telaio nei paesi silani.

    « L’analfabetismo, come la sottoccupazione, minano per intero il corpo della Calabria », ha scritto giustamente nella sua acuta inchiesta il Nouat. Invero solo una trentina di comuni nel ’51 e pure nel ’61 poco più di un centinaio avevano meno di un quinto di popolazione totalmente analfabeta: cioè i comuni urbani (ma a Catanzaro e a Crotone, presso cui vive un proletariato rurale incolto, la quota è stata conseguita solo negli ultimi anni), i comuni delle piane rivierasche ove in effetti l’analfabetismo ha segnato dopo il ’50 le maggiosi contrazioni, e un discreto numero di « casali » cosentini, ove il feudalesimo aveva inciso in modo meno pesante o era stato osteggiato con più coordinata reazione, e già Padula e Franchetti potevano — in relazione con l’intorno — cogliere condizioni di vita discretamente agiate. Pure in questa carta quindi, le opposizioni che l’esame della vita economica ha rivelato in Calabria, fra le brevi pianure della costa in risveglio e i monti in crisi — opposizioni che alluvionano le remote disparità di idiomi e costumi — si riconoscono lucidamente e sono significative.