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Regioni strutturali della Calabria

    Regioni strutturali della Calabria

    L’esigenza di una documentata panoramica sui problemi della Calabria, ha reso fino a qui puramente descrittivo e informativo il mio quadro. Francamente non sono questi gli scopi di chi scrive: ma data la scarsità di opere che — dopo la fioritura di inchieste agli inizi del nostro secolo, e prima di una ottima ricerca svolta da alcuni autori francesi e coordinata da Jean Meyriat, fra il ’56 e il ’59 — guardino le intelaiature sociali e la realtà economica della Calabria odierna (quella cioè tra le due guerre e specialmente quella degli ultimi lustri) un lavoro di dissaldamento, una prima paziente e per così dire bracciantile apertura di un suolo eccessivamente trascurato, era pur indispensabile: di qui la mia minuta descrizione e il suo indugiarsi in dettagli e in informazioni particolari, ovunque le condizioni di vita della regione sono più frantumate e l’individuazione dei suoi numerosi focolari economici — ciascuno un po’ chiuso in sè — si profila più chiara. Poiché il fenomeno che, da quanto ho scritto fino a qui, risalta più vivamente a chi esamini la Calabria, è l’estrema compartimentazione della sua vita e la debole integrazione fra le sue zone di diversa composizione economica 0 di diversa configurazione naturale. Di modo che, per quanta sia la forza che su di una società povera e non dinamica e mediocremente evoluta come questa, esercitano le disposizioni naturali, una individuazione di vere unità o aree umane minori nel corpo della regione non può avere per base — come ho già più volte indicato — le unità geomorfologiche o geofitologiche che sono state ricordate agli inizi del volume, e neanche quelle interpretazioni o suggestioni che sono le unità o regioni «paesistiche» al cui studio una scuola di geografi è oggi orientata e al cui riconoscimento per la Calabria si dedicò più di trenta anni fa il naturalista Kanter.

    Le zone agricolo strutturali della Calabria.

    Unità paesistiche e unità strutturali

    Chi scrive è convinto che l’individuazione delle unità « paesistiche » si limiti a una mera interpretazione epidermica e superficiale della realtà economica (cioè dell’opera svolta dagli uomini per organizzare la Terra a loro misura): un’interpretazione che di questa realtà coglie esclusivamente le manifestazioni visibili e topo- o fotograficamente impressionabili: non le sostanziali condizioni e ragioni e dinamiche, che in buona parte non si mostrano in modo visibile. Invece delle configurazioni paesistiche chi scrive pone a base obbiettiva di quella realtà i complessi a cui vien dato abitualmente il nome di « strutture » : cioè le forze di fondo della storia sociale. Le forze che restano meglio riconoscibili — perchè più elementari — in una regione come questa, ove eccessiva anarchia domina da quindici secoli in qua, e così anemica fu la trama delle relazioni fra le sue parti e tale fu il frazionarsi e il disperdersi delle iniziative umane, da impedire l’enucleazione di quelle energie da cui altrove sono fiorite delle costruzioni umane evolute e solidali.

    A dire il vero l’analisi di così motivate strutture è in Calabria discretamente agevole quando su tale regione, che è fra le più decisamente agricole d’Italia, si proietti la nota — esauriente e giusta — ripartizione riconosciuta dal Rossi Doria nelle strutture agricole del meridione. Le due grandi realtà agricole del Sud italico, le cui disparità e singolarità emergono a prima vista a chiunque vi si reca — anche per la prima volta — sono quelle che il Doria chiama « del Mezzogiorno nudo » a struttura agronomica cerealicola e pastorale, e « del Mezzogiorno alberato », con colture dense di viti o olivi o alberi da frutta, congiunte a ortaglie. Ciascuna di queste due realtà poi si distingue in due tipi particolari che sono generati nel primo caso da un motivo specialmente giuridico e economico e nel secondo caso da un diverso progredimento di tecnologie rurali. Ma dopo la prima ripartizione del Doria — che risale agli anni fra il ’44 e il ’51 — sono nate nuove realtà, in conseguenza dei rivolgimenti fondiari ed agronomici che sono in corso dal ’50 in qua in diverse aree della regione.

    Struttura a latifondi cerealicolo-pastorali

    Una notevole parte della Calabria — che solo gradualmente è venuta contraendosi da un secolo in qua — è dominata da un ambiente sociale che il Doria chiama suggestivamente « osso » del Mezzogiorno (cfr. la carta qui a fronte). In questo ambiente estensivo e latifondistico, da un lato vi sono zone in cui l’agricoltura estensiva è in genere fondata su aziende grandi e dominata da rapporti tipicamente capitalistici: conduzione mediante mano d’opera salariata e gestione in affittanze. Da l’altro invece essa quasi esclusivamente si contrassegna mediante rapporti complessi e vari, che sono ovunque tipicamente contadini, e dàn luogo a una miriade di imprese minuscole e di poco stabile consistenza. Paesisticamente — bisogna precisare — la distinzione fra queste due realtà non è facile da cogliere per chi è inesperto del meridione: ma la distinzione è basilare e va ritenuta con molta chiarezza. Le zone paesisticamente nude e ad agricoltura capitalistica — per giunta in fase di limitazione areale da cinquanta anni ai nostri giorni, e specialmente negli ultimi quindici anni — si caratterizzano per una predominazione della grande proprietà, che verso il 1880 vi investiva l’8o% delle superfici totali, e intorno al 1950 per lo meno il 50% in media: e in particolare il 52% sui rilievi presilani fra lo Alli e il Neto; il 61% in quelli fra il Neto e il Trionto; il 70% nelle piane e lungo le prime ondulazioni del Marchesato; il 58% nella piana di Sibari. Sono grandi aziende cerealicolo-pastorali ove il lavoro è fornito da salariati fissi o avventizi. La direzione dei lavori è tenuta naturalmente da un imprenditore: ma il tipo di questa figura è diverso da caso a caso. Dopo la istituzione della riforma rurale, che dal 1950 in avanti ha avuto come scopo la ridimensione sociale di tali zone — e vi ha già fortemente operato — la varietà degli imprenditori però si è venuta attenuando e il loro peso sociale diminuendo e la loro figura economica cangiando. In ogni modo a un estremo — e questo specialmente nel basso Marchesato e nella piana di Sibari — si ha il capitalista conducente di persona le sue terre con l’aiuto di agenti: solo le terre a pascolo — naturale o di riposo — egli le dà in affitto (o ne vende l’erba) a pastori transumanti dai borghi silani. A l’altro estremo invece — e lungo la fascia dei rilievi arenari e marnosi, che rinfrancano a oriente l’altopiano silano, la maggior zona è così occupata e gestita — vi sono degli affittuari imprenditori, molto di frequente di origine montanara e pastorale, che oltre a sfruttare con le proprie mandrie le terre a pascolo, organizzano per proprio conto la coltura dei cereali. Ma quel che più vale chiarire, è che le aziende che esercitano in queste zone l’agricoltura e i cui centri sono sparpagliati negli agri, a gran intervallo fra di loro, e formano qualche volta discretamente voluminose « masserie », a più elementi aggruppati, appaiono nel loro genere una istituzione razionale. In realtà le aree meridionali, e quelle bruzie in modo particolare, dominate da tale tipo di agricoltura sono state fino a quindici anni fa sotto Tincubo della aridità atmosferica e del morbo malarico. Le moderne tecniche agronomiche dimostrano che anche in tale ambiente, con notevoli investimenti, si può organizzare un’agricoltura intensiva ed evoluta: però fino a una trentina di anni fa l’esperienza agricola locale — e qui bisogna dire che, ad onta degli arditi sforzi di alcuni illuministi, come Domenico Grimaldi, per toglierla da quella « primiera infanzia e rozzezza » da cui era dominata, la cultura agronomica della regione è rimasta meschina e ha avuto scarsi uomini di merito — non sapeva indicare per la utilizzazione di queste terre nient’altro al di fuori di una naturale utilizzazione del pascolo, con le pecore, e di una incerta e saltuaria coltura di cereali, avvicendata a riposi non coltivati, o a una coltura primaverile di leguminose (in genere la fava e il lupino) o di granoturco sulle terre più fresche. La combinazione del pascolo ovino e della estensiva coltura dei cereali — cioè la più primitiva delle agricolture — era ritenuta come una utilizzazione imprescindibile, che consentiva di sfruttare nel modo migliore i vantaggi del mite clima invernale, e di fuggire — almeno in parte — alla morsa dell’aridità, e di lasciare per di più quasi vuoti di uomini gli agri nei mesi estivi, quando cioè più letale era l’infezione plasmodica. Ma se la descritta configurazione può interpretarsi come la risposta di una civiltà rurale antiquata a un ambiente naturale ostile e indocile, la razionalità del sistema — e quindi il motivo della sua radicazione — va riconosciuta nel suo facile adeguamento a quello che nel meridione fu per molti secoli (e in Calabria specialmente nei cinque secoli di dominazione iberica) il principale motivo di instabilità per l’agricoltura: cioè la oscillazione dei prezzi della lana e dei formaggi, da un lato, e per l’altro dei cereali. In alcuni periodi è stato decisamente più elevato il primo (così dal 1840 fin verso il 1864 e poi fra il 1882 e il 1895) e in alcuni il secondo (così fra il 1898 e il 1914). E perciò di quando in quando gli agricoltori di queste aree furono costretti — pena il fallimento — a spostare il centro della produzione dai frumenti agli allevamenti (o inversamente). E facile capire come a tali oscillazioni e spostamenti sian in condizione di reggersi e adattarsi solo aziende fortemente elementari, non gravate da onerosi investimenti stabili e capaci di trasformare prontamente il proprio capitale da una forma in un’altra, come erano e sono rimaste per lo meno fino a due o tre lustri fa le aziende di queste zone. Inoltre un tal sistema assolveva da secoli un’altra saliente funzione : serviva cioè di complemento, d’integrazione alle vaste zone montane la cui unica vocazione era il pascolo, ma ove i pascoli si potevano esercitare solo nei mesi di estate.

    L’irriguo bacino di Morano con l’omonimo centro ai suoi margini. In fondo il massiccio del Pollino, erogatore dei numerosi ruscelli che solcano la piana coltivata.

    Oriolo, ira i desolati rilievi marnosi che preludono ai panorami lucani. Una corona di oliveto intorno al paese e più in là il latifondo nudo.

    Da qui le transumanze e di riflesso gli stretti legami di cultura fra monti e coste, ove la popolazione dei villaggi interni — e specialmente di quelli più elevati — si riversava d’inverno non solo a pascolare le mandrie ma pure — fino verso il 1860 — a cercar lavoro stagionale, e più avanti aree in affitto da seminare. L’agricoltura lati-fondistica perciò, formava fino a cinquanta anni fa e anche meno, un mirabile circolo tra la mole ovunque visibile e troneggiante dei monti e il reiterato e a lungo temuto richiamo della costa: le due storicamente più vive realtà topografiche della Calabria — e tra estate e inverno: le due sole stagioni di questa penisola. Un circolo però — obbietta giustamente il Doria — di povertà, che conserva e crea povertà, o meglio vieta e infrena ogni novazione e avanzata sociale.

    Belvedere, su di un robustissimo ed avanzato sprone della catena paolana (visibile in fondo).

    Però il regno di questa agricoltura è da un secolo in metodica riduzione e ora in via di rapido restringimento, per opera di cause diverse. Prima fra queste la bonificazione : la cui azione in Calabria, come ovunque nel meridione, si è svolta fino a una trentina di anni fa specialmente lungo le piane litorali dominate da coltura latifondistica, e la cui storia per la verità è stata alquanto elementare. I problemi da risolvere per la rinascita di buona parte delle esili piane che fiancheggiano i monti della Calabria, sono in sostanza due — in ciò appaiono concordi, ai nostri giorni, gli idraulici e gli agronomi —: e cioè la sistemazione dei pendìi franosi lungo i ripidi monti circuenti le piane, mediante una riforestazione che ne limiti la degradazione e il logoramento, e poi l’imbrigliatura dei fiumi che sono grandi convogliatori di materiali e formano rilevate e vaste conoidi aprentisi brutalmente nelle piane, e sopra cui le correnti fluviali, in caso di piena, non riescono ad avere un recapito stabile, originando quindi inondazioni. L’aridore mediterraneo però non consente una ricostruzione facile e spedita dei boschi su quei pendii che furono spogliati del loro manto: e quindi riponendo maggior fede in una soluzione idraulica fu iniziato nel 1927 il riscatto della piana eufemiate e nel 1930 quello della piana sibarita. Via in questa, le migliorate inalveazioni fluviali del Crati e del Coscile non risultano ora ovunque efficienti per la mancata sistemazione dei tronchi fluviali più a monte, e le inalveazioni dei corsi minori (la Vena, il Mesofalo, il Malfrancati ecc.) sono da ultimare. Così pure nella piana istmica — ove la regolazione idraulica ha aperto la via, in breve giro di anni, a una fiorente dilatazione di colture di pregio — le briglie costruite per fermare la marcia dei materiali verso la piana, sono ora ricolme e le fiumare (è il caso del rio Bagni) tornano a poco a poco a uno stato di sistematico afflusso ghiaioso. Di modo che unicamente in quei tratti del litorale bruzio ove mancava una invasione conoidale e l’opera si limitò a una sistemazione idraulica di pianura, con arginature o incanalazioni più ordinate e colmate artificiali di aree depresse — tale fu ad es. il caso, più di una volta citato, del Mesima in agro di Rosarno, fra il 1818 e il 1938 — la bonificazione ha dato frutti buoni e sicuri.

    Vedi Anche:  Usi, costumi e tradizioni di oggi e di ieri

    Le strutture legate con la riforma agricola del 1950

    Di tale oscillazione e povertà di risultati qualcuno, richiamandosi con qualche superficialità a tesi care al Fortunato, imputò la eccezionale opposizione delle condizioni ambientali : ma la ragione vera, di fondo, è da cercarsi nelle pervicaci resistenze che l’agricoltura primitiva del latifondo nudo ha opposto a ogni bonificazione rivendicando l’elasticità ai mercati e i notevoli profitti che l’estensivo uso col pascolo e la cerealicoltura consentiva. Per cui i benefici solamente idraulici, raggiunti mediante una onerosa bonificazione, non potevano competere su piano economico con la rudimentale agricoltura delle aziende estensive. La bonificazione era la nemica dei proprietari, e molta della storia dei consorzi e delle imprese per il riscatto di queste zone è la storia di tale ostilità: ora larvata e ora aperta. Nemica specialmente per un fatto: che l’agricoltura latifondista richiama poca mano operaia, e gli scopi della bonificazione qui non erano solo di giungere a una migliore o più elevata produzione : ma erano di dare da campare a una popolazione in aumento, esuberante, straboccante dai paesi interni — cioè di invitarla a insediarsi in questi agri poveri di popolazione. Tale impostazione sociale l’opera bonificativa ha avuto solo dopo la guerra: quando cioè le istanze sociali — a prezzo qualche volta di sangue di braccianti, come a Melissa nel ’49 — furono ascoltate. Si è giunti a questo modo agli appoderamenti di molte superfici latifondistiche — soluzione invero già sperimentata con frutto negli anni fra le due guerre, in alcune aree litorali fra il Neto e il Fiumenicà e qua a là nella maggior piana di Lamezia —: e il più deciso slancio in tale impresa fu quello inaugurato nel 1950 mediante la riforma rurale svolta nella parte nord orientale della regione, fra la piana di Sibari e le asciutte ondulazioni del Marchesato (declinanti da 500 m. verso il mare) e l’altopiano silano. In questi anni l’Opera — di emanazione governativa — incaricata di svolgere la riforma, ha espropriati o comperati 86.000 ha. cioè il 15% della regione indicata, e ne ha assegnati a 18.260 famiglie di braccianti un poco più di 82.600 (il resto è destinato a pascoli o rivestito di boschi). Ma poiché l’ambiente ove si va realizzando la riforma è da zona a zona fortemente mutevole per stato naturale e investe pure una rilevante fascia ove non domina più il latifondo capitalista, ma una realtà agricola ancor più misera gestita da contadini, l’area coltivabile è stata per un po’ meno di 4/5 ripartita in poderi — che sono risultati in totale 11.557 — e per 1/5 frazionata in quote di integrazione, destinate a chi (dato l’alto numero delle richieste) potè avere in sorte solo poderi di deficiente ampiezza, o a chi già aveva terra, ma poca. Come è facile intendere, i poderi sono di diversa ampiezza in relazione con le condizioni ambientali: di conseguenza sugli altopiani silani sono formati ciascuno da 6-8 ha. a coltura e 6 ha. a pascolo o da un po’ di bosco, e lungo i rilievi presilani misurano in media 5 o 6 ha. Ma si ingrandiscono fino a 35 ha. (poderi pastorali) in quelle parti più marnose del Marchesato che sono rovinate da formazioni calanchive. Di contro nelle piane irrigue del Neto e del Crati, l’ampiezza media dei poderi è di meno di 3 ha. e nella zona di Cori-gliano, in particolare, si contrae a meno di 2 ettari.

    La riforma agricola intrapresa nel 1950: carta degli espropri, assegnazioni, riforestazioni. La viabilità indicata riguarda solo le principali carrozzabili e ferrovie in funzione nel 1950. A punti e linee sono segnati i limiti occidentali della zona riformata.

    Del pari diversi sono gli orientamenti colturali dati a queste nuove aziende: sopra le ondulazioni del Marchesato ci si orienta verso il vigneto e gli olivi (per una media da 12 a 15% delle superfici) associati però a notevoli semine di cereali (un po’ meno di 50%) che si alternano con le leguminose (25%): ma nei comuni con suoli più freschi la copertura dei frumenti è minore (40%) e ruota con foraggi (da un quinto a un terzo) che animano una discreta zootecnia. Per le piane irrigue infine, l’impostazione agronomica ha avuto variazioni a seconda la misura dei poderi: in quelli più grandetti — cioè sopra i 3 ha. — la coltura è tipicamente promiscua (un quarto a cereali, un quarto a foraggi e un quarto a bietole in rotazione, poi un sesto ad agrumi e il resto a orto), ma in quelli minimi si è puntato unicamente su colture di pregio (metà ad agrumeto e 2/5 a orto).

    E poi la costruzione di 5.300 case sparpagliate — ma a maglia in genere un po’ densa — sui miti rilievi del Marchesato e nelle piane del Neto e del Crati, o raccolte in nuclei minuscoli su l’altopiano della Sila (ove ne sorgono 500) e infine di più di una trentina di borgate o residenziali o per i servizi elementari, ha dato — fra la piana di Sibari e le fiancate sud orientali silane — l’ultimo colpo radicale alla vecchissima struttura latifondista: che ora quindi, in queste zone, è in pieno declino.

    La riforma agricola intrapresa nel 1950: carta degli insediamenti e principali servizi istituiti fino al 1963. Gli elementi di fondo sono i medesimi della carta.

    L’elevato e tabulare scoglio conglomeratico di Santa Severina, accessibile solo da ovest. Una fascia di olivi ne circonda la base, ma dopo un migliaio di m. essa sfuma nel latifondo nudo.

    Sicuramente, in termini economici e nei riguardi della educazione delle classi agricole non si può giudicare razionale la soluzione di risanare la povertà di questa regione con forme tipiche ma superate della agricoltura italica — e non più adeguate al mercato odierno — come appaiono i poderi di poca ampiezza e in conduzione famigliare autonoma, per quanto (nella fase iniziale della riforma) guidati da periti di agrotecnia e legati da forme di cooperazione: che però non riescono a metter vitalmente radice. In sostanza la Calabria non aveva la minima esperienza o tradizione di cooperative rurali, sì che i beneficati dalla riforma sono poco in grado, per ora, di capire in pieno le funzioni e di misurare congruamente il valore di questi istituti e di giovarsene: le cooperative di servizi sono ora una cinquantina con 5.800 soci, ma solo 7 quelle relative a lavorazione di prodotti. A chi scrive, pare molto giusta la tesi enunciata in modo schematico nel 1952 da Leonardo Albertini e con acuta documentazione ribadita sei anni dopo da Giuseppe Galasso e più di recente da Anne Seronde, secondo cui era consigliabile puntare sulla costituzione di grandi aziende con progredito arredamento, e gestite da un ente impersonale, anziché dividere quelle terre fra minuscole aziende private e inesperte. A motivo della soluzione scelta l’opera della riforma è servita — fino a qui — solo in contenuta misura a restringere o colmare la depressione economica regionale : cioè si è rimasti ben lungi dallo scompaginare in modo globale lo stato di primitività della regione, e l’iniziativa della rinascita ha inciampi e remore a dilatarsi al di là degli stretti limiti zonali di sua pertinenza. In una parola ha animato per ora scarsamente il risveglio della vita economica bruzia. Per di più, congiuntamente alle istituzioni in favore degli ambienti rurali di particolari comuni, è mancata un’azione orientata a saldare meglio con le iniziative di riforma — e quindi a destare o potenziare in questa zona — il fenomeno urbano (che pure nel Marchesato ha una buona base in Crotone).

    Ma, pur con tali riserve, è inutile negare il valore sociale della operazione: quello che nel 1951 si mostrava a Isnardi come « il triste Marchesato crotonese con i suoi paesi solitari in alto e le marine deserte dai lunghi pascoli bradi invernali » otto anni dopo la Seronde lo descriveva come « un mosaico di campi ove spiccano case bianche o vivamente colorate: ciascuna con il suo pezzetto di terra». Ed effettivamente la riforma ha impresso, con i lavori a macchina in forte quantità (nei comuni ove essa opera sono in funzione 520 trattori, più di 1.000 macchine per la lavorazione dei terreni, quasi 300 macchine per semina e raccolti, 2.750 autoveicoli agresti ecc.) con l’apertura di numerose vie locali per lo più carreggiabili in ogni stagione (per un totale, fino al 1961, di 1.250 km.) con le opere di spiegamento nei suoli delle ondulazioni terziarie, e con i riboschimenti (per la sola pianura fra Esaro e Neto un migliaio di ha. di eucalipto) con l’iniziata sistemazione (su un’area di 150 mila ha.) dei pendii rovinati dal dilavamento, mediante gradonature che rendono più facili i lavori e i raccolti, e con le iniziate opere di irrigazione (su un’area fino a ora di quasi 7.000 ha., che si vuol ampliare a 21.000 negli anni prossimi) con la costruzione di reti per forniture idriche (per un centinaio di km.) ed elettriche (per 350 km.) con l’impianto di colture arborate su 17.500 ha. e con l’apertura di favorevoli crediti e di anticipazioni in natura (fertilizzanti e sementi) ha impresso uno slancio rigeneratore a una delle aree più retrograde d’Italia. Inoltre si delinea già chiaramente, nel complesso degli assegnatari, la selezione di una élite di agricoltori che manifestano una viva inclinazione per l’impresa e forti impulsi a una risalita sociale. Infine, precisamente in quel giro di anni che l’opera della riforma dedicava a sistemare e dividere in Sila e nel versante ionico fra Catanzaro e Sibari i suoi 86.000 ha. di terra, qualcosa come altri 50.000 ha. per lo meno finivano, non lungi da questa zona, in mano — cioè in proprietà — di contadini, per regolare mercato. E non è quindi un minore merito della riforma di avere dato maturazione e divulgazione e stimolo più rapido a questo moto delle plebi rurali, per la costituzione di una nuova classe di coltivatori proprietari. Ha quindi avuto ragione il Galasso di scrivere che la riforma ha operato nel Marchesato un rivolgimento notevole della struttura sociale: cioè uno spostamento decisivo della polarità bracciantile alla polarità contadina. Ma tale rivolgimento non formerà una vera evoluzione di fondo se non quando — come ha rilevato da ultimo il Compagna — culminerà in un nuovo balzo dalla polarità contadina a quella, per così dire, imprenditoriale.

    Diversamente in altre zone, pure rivierasche, la riduzione del latifondo capitalista è derivata da una invasione, a grado a grado, delle colture di pregio: cioè viti e olivi — come ad esempio nel distretto di Corigliano — e con più vigore, negli estremi meridionali, gli agrumi. E infine vi è stato, dai monti che vegliano su la costa, lo sciamare dei contadini in questua di terra: dei contadini che si glomeravano in origine nelle borgate appollaiate da 250 a 700 m. — da cui svolgevano una di quelle agricolture a mosaico che sono tipiche delle aree interne del Mezzogiorno — e che usualmente, nella stagione dei lavori più onerosi (la mietitura e l’aratura) scendevano verso il pedemonte o i litorali ove era signore il latifondo capitalistico, per una occupazione bracciantile di qualche decade. Ma a poco a poco, con la rivendicazione dei vecchi demani, o negli anni di risalita del prezzo dei frumenti (ad es. agli inizi del secolo) con l’affitto di minuscole aree nei latifondi (ove gli affitti per coltivi erano più elevati di quelli per pasture e quindi convenivano ai proprietari) i contadini estromisero in diverse zone i pastori e di conseguenza fransero qua e là la descritta unità ed elementarità della azienda nuda, capitalistica.

    Vedi Anche:  La storia della Calabria

    Le strutture del microfondo contadino

    Questo fenomeno però fu e rimane alquanto indisciplinato, o meglio disordinato, perchè l’ambiente ove veramente i contadini formano da molti secoli una forza è quello interno, dei fianchi montani — al di sopra di 300 m. in media —: un ambiente che a prima vista rivela un quadro agricolo non gran che diverso da quello che ora descrivevo, e cioè in parte seminato e in parte a pascolo più o meno degradato : solo qua e là, sui monti più alti, il bosco — una frazione del bosco che rivestiva una volta superfici ben più rilevanti. Non una casa negli agri, se non qualche sperduta masseria o qualche capanna. E la popolazione si concentra completamente nei borghi più o meno grossi, arroccati sui rilievi più impervi. Intorno al centro abitato, formato di miserabili case convulsamente ammucchiate e ove s’ammassa l’intera popolazione agricola, si spande una breve corona di colture intensive — minuscoli orti, vigneti e oliveti, ficheti, mandorleti, più di rado sparuti agrumeti — frantumate fino a l’inverosimile. Ma in genere questa fascia o corona di terre di densa coltivazione forma una percentuale minima della intera superfice comunale. E al di fuori di quella corona, scrive bene il Doria, l’agro comunale « si stende uniforme e nudo, d’un colore solo, giallo d’estate e verde di primavera ». A chi, inesperto delle condizioni locali, lo guardi in estate può parere area d’un solo imprenditore, senza distinzione. Lasciandosi però guidare dalle indicazioni della mappa catastale, e in questa individuando la divisione della proprietà, sarà facile vedere che la zona è fortemente e inegualmente ripartita: qui frazionata in modo estremo, là arrotondata in un certo corpo di proprietà, e in alcune aree dominata da una proprietà molto vasta — erede di proprietà baronali. In questa zona quindi ci sono insieme e grande e media e minima proprietà. E la minima, e qualche volta anche la media, sono formate non da pochi appezzamenti vicini, ma da moltissimi lontani e sparpagliati, pur nei limiti di un solo comune. Questa ripartizione d’estate non si coglie, perchè la coltura è eguale e la disparità quando vi è, è data non da confini di proprietà, ma da accidentalità dei terreni. In primavera invece, gli agri appaiono costituiti da un ingarbugliato disegno: una maglia più o meno minuta di pezzi di diversa tonalità, e ove — nota puntualmente

    il Doria — anche i verdi di grano o di fave ecc., mutano per infinite sfumature e lascian capire il limite tra la terra di uno e quella di un altro. E la frantumazione, a un riesame della mappa catastale, non coincide solo con le aree di proprietà sbriciolata, ma intaglia anche quelle che erano risultate grandi e unite proprietà e le figura come pertinenti a un gran numero di coltivatori diversi.

    Oliveti piantati e tenuti in modo poco uniforme, e coltivati insieme a frumento — per effetto dello sminuzzamento della proprietà — salgono da ambo i versanti fino sul culmine della dorsale ove s’insedia Squillace.

    In questo ambiente, a cui è stato dato il nome di microfondo contadino, la frantumazione aziendale è quindi la caratteristica, il sistema. Di guisa che la realtà agricola non ha qui il suo centro nell’azienda rurale cioè in una determinata area a coltura, ma nel contadino medesimo che, componendo con il suo plurimo lavoro la propria impresa, forma l’unica realtà stabile dell’impresa: che è di per sè — o per meglio dire territorialmente — mutevole, instabile, sparsa. Perciò è malagevole definire i contadini di questa zona. I loro rapporti con la terra si articolano in tre modi diversi, cioè la loro impresa — come ha acutamente visto il Dona — si intelaia su tre elementi diversi: a) la terra di loro proprietà; b) la terra presa in affitto o dai medi proprietari borghesi o dai grandi proprietari di beni ex-baronali ; c) il lavoro salariato nelle masserie o in aziende pastorali. La maggior parte dei contadini del microfondo figurano in realtà come proprietari : ma la loro proprietà consiste in genere in minuzzoli di terra, numerosi ma inadeguati a sfamarli e ad assorbire il lavoro delle loro famiglie. In questa zona 13/501 4/5 della terra non sono in proprietà di contadini ma di borghesi d’ogni tipo, che non la coltivano in conduzione personale, ma preferiscono lottizzarla e assegnarla ai numerosi contadini per riscuotere canoni di affitto o quote di compartecipazione: e vi sono infine rudimentali «masserie» che richiedono mano d’opera a giornata e riescono facilmente a ottenerla da quei contadini che nella propria impresa non ricavano abbastanza per vivere. Nei comuni del microfondo quindi il contadino è un uomo in continuata ricerca di terra: egli si reputa già in condizione decente quando sia giunto a metter insieme un certo numero di appezzamenti diversi e lontani, di proprietà sua e altrui (un anno qua e un anno là) e in parte vicino al paese — nella cerchia intensiva — e in parte a vari km., in ambiente disalberato. Avendo presenti così particolari rapporti è chiaro il motivo per cui i contadini dimorano nei paesi ed evitano di insediarsi negli agri, variando nei giorni o nei mesi i loro itinerari verso i numerosi appezzamenti che coltivano. A parte le giustificazioni già più volte segnalate, di difesa e di sanità, ha ragione il Doria a sostenere che le plebi rurali preferiscono adunarsi a vivere nei grossi villaggi — la cui popolazione media non valica in Calabria le 3 o 4.000 anime — perchè questi formano il solo centro della slegata e mutevole loro impresa. Nella dispersione e nella precarietà delie imprese contadine va quindi indicata la ragione fondamentale dell’insediamento ammassato della popolazione, anche se diversi elementi — ad esempio la frequente mancanza di sorgive negli agri — han concorso a rinforzare un tal sistema. Dati quei plurimi rapporti con la terra è chiaro che ogni contadino riassume una figura mista di minimo proprietario, di affittuario ocompartecipante, di salariato a mese o a giornata: e quindi il suo bilancio è il cumulo degli introiti che egli e i suoi ritraggono da questa multiforme operosità. In tal condizione le più diverse combinazioni si colgono: v’è tra quei contadini, chi è in modo meglio appariscente un minuscolo proprietario e chi è specialmente un affittuario e chi figura quasi come un salariato.

    Un aspetto delle colture promiscue tradizionali a Palizzi, lungo una delle nervature meridionali di Aspromonte: magri oliveti, qualche albero da frutta, e rudimentali e instabili sistemazioni a ciglione per le colture di cereali.

    Pentedattilo, sui fianchi meridionali d’Aspromonte, così come i non lontani San Pantaleone, Roghudi, Africo: paesi assurdi ai nostri giorni e tenuti in vita solo da una estrema povertà.

    Dimore stagionali di contadini sui piani di Aspromonte.

    Ma la disparità di genere di vita e di rendite fra loro — secondo il Doria — « non va cercata in questa differenza formale: bensì nella diversa consistenza dell’impresa che essi riescono a comporre». Ciò vuol dire l’ampiezza maggiore o minore delle terre che coltivano e la dotazione o meno di animali da soma: in una parola la minore o maggiore indipendenza economica e quindi l’abitudine o no di indebitarsi da un anno al seguente. Ne deriva perciò una società molto sfumata che dai contadini più miseri sale a quelli abbienti: i meno numerosi in realtà. Ma va aggiunto che questa differenziazione non è stabile, perchè basta ben poco (la morte di un animale, una malattia di qualche congiunto, una divisione in famiglia, un richiamo alle armi, una stagione inclemente) a far regredire le famiglie che faticosamente si erano elevate di un gradino. In ultima analisi si può solamente notare che nei villaggi scaglionati ai bordi degli altopiani, ove la terra da coltivare è poca e per lo più di proprietà contadina, e buona parte del comune è tenuta da pascoli e scopeti e boschi, i contadini sono insieme coltivatori di terre proprie e pastori e boscaioli. Invece sui rilievi minori e più flosci e sui ripiani arenari o marnosi declinanti verso il mare, dove i seminativi rivestono la maggior parte del comune e la proprietà della terra è (o era fino al 1952) in notevole misura di proprietari grandi e medi — cioè in quella fascia da 250 a 500 m. ove s’insedia un terzo dei villaggi rurali bruzi — il contadino ha più frequentemente la figura di mediocrissimo affittuario e in special modo di partecipante o bracciante.

    Le strutture degli altopiani forestali, con allevamenti e colture medio-europee

    La realtà sociale e ambientale che si è qui descritta sale invero a maggior altitudine sui monti e penetra nel cuore degli altopiani. Ma in questi, cioè ad altitudine da 800 m. in su una nuova e diversa realtà meglio si rivela, non frequente nel meridione e non squisitamente rurale: voglio dire la montagna umida. E nel giusto il Doria a scrivere che nel Sud una distinzione chiara — in termini economici — tra la vera montagna e le terre che, se pure accidentate, sono collina, non è agevole e può istituirsi solo per i diversi rapporti tra pascoli e seminati, e per i fenomeni che ne derivano. Per cui il distacco non è — come nel Nord — una discriminazione viva di realtà economiche diverse, ma un alterarsi sfumato di realtà sostanzialmente simili: fra paesi montani e no, la disparità è che nei primi, oltre gli ambienti estensivo-contadini delle regioni interne, c’è una realtà pastorale che ha bisogno d’integrarsi nelle pianure, e gli uomini mostrano, per effetto della transumanza, una tradizione di nomadismo. Ma in Calabria c’è qualcosa di più: c’è una area montana rivestita in origine da grandi boschi, ove le colture episodiche iniziarono a far breccia fortemente una decina di secoli fa o poco più, e negli ultimi due — per l’aumento discreto della popolazione e infine dopo l’apertura delle prime carrozzabili montane — sono poi divenute stabili. Ma di rado i seminati giunsero in queste aree a dominare effettivamente la vita economica locale: neanche nella Serra, che degli altopiani è il meno elevato e il più abitato. Da trent’anni a ora però la montagna del Bruzio ha riassunto una sua personalità: vi è nata una imponente industria per la generazione di energia industriale e vi si è impiantato un discreto numero di stazioni di turismo. E in corso un’opera onerosa e radicale di ricostituzione della coperta forestale e la produzione di legna è la più forte e la più pregiata delle regioni italiche centro meridionali. Anche l’impostazione agronomica è evoluta, in diverse aree, e si è orientata su basi medio europee: nei piani occidentali di Aspromonte dagli anni dopo il 1950 le colture si svolgono con più disciplinato ritmo di lavori e con più sperimentata e contenuta scelta di destinazioni (la patata investe la maggior quantità dei seminati e ruota con fagioli e cavoli) e in Sila la riforma agricola ha — dopo il 1952 — dato un razionale impulso ai sistemi di coltura di altitudine, istituendo su 12.850 ha. diverse centinaia di poderi, in genere forniti di una rete di irrigazione, e iniziandovi una notevole produzione di foraggio (1/3 delle superfici) di patate e di bietole (insieme, quasi metà delle superfici) che alimenta una forte zootecnia stabulare e non più pendolare (negli ultimi anni poco meno di 2.000 bovini di stirpi alpine vi sono stati importati e ambientati in stalle di climatazione). Vi è nata infine una industria casearia che manipola ora 50 q. di latte al giorno. La montagna quindi ha conquistato ora valori propri, che non può dividere — come era in epoca di trasmigrazioni pastorali e di seminati aleatori — con le zone contermini : è venuta perciò individuandosi una nuova realtà, quella degli altopiani con boschi e allevamenti e colture temperate: un frammento — non solo paesistico ma, in diverse parti della Sila, anche strutturale — di Midlands o di Lorena, rialzato di 1000 m. e portato in pieno Mediterraneo.

    Le strutture delle colture di pregio

    Ma di fianco a questi ambienti ove solo ai nostri giorni ha iniziato a poco a poco, faticosamente, a spezzarsi la scorza di vecchissimi barbarismi e povertà, la Calabria ha zone radicalmente diverse, di discreta e non di rado sicura opulenza. Su buona parte delle coste della sua estremità meridionale, e pure a nord della strettoia di Catanzaro, ovunque i monti erogano al litorale umidità (es. la fascia paolana e il pedemonte sibarita della Sila) si snodano le zone più floridamente coltivate: la «polpa» della penisola — come la chiama efficacemente il Doria — cioè il regno degli alberi e delle ortaglie, o meglio delle colture di pregio. Non è un ambiente recente: ma recente è la sua dilatazione. Verso la metà del secolo scorso aveva una configurazione a oasi isolate e ristrette: poi le oasi ampliandosi si fusero in lunghissime ghirlande rivierasche. Il maggior numero dei vigneti, degli agrumeti, degli orti ha meno di un secolo di vita. La loro dilatazione è avvenuta, per così dire, a ondate e fu animata dagli stimoli di prezzi più alti. Ma pure caratteristica di questo ambiente è la estrema varietà: così spinta che può sfiorare il disordine. Ogni zona ha le sue colture preferite e di queste i suoi sistemi colturali: ciò non per ragioni naturali, ma in genere per il modo accidentale e individualistico con cui la nascita di tale agricoltura si è manifestata. L’enorme varietà ha reso di certo un po’ debole l’interna configurazione delle colture di pregio: ma il mercato a cui la produzione di queste zone è destinata si rivela mutevole e quindi ha conferito una continuata incertezza alla produzione così da aumentare, anziché limitare, la originale e istintiva tendenza di molti proprietari, a coltivare di diverse cose un po’ e a non specializzarsi. E ultima conseguenza di quegli individualistici impulsi è la frantumazione della proprietà: molto di frequente — e questo in modo particolare per i vigneti del nicastrese e della costa fra Palmi e Villa, per gli agrumeti della piana di Gioia o della riviera dello Stretto o delle oasi fra Siderno o Gioiosa — sono stati, dagli inizi del secolo in avanti, i contadini che sui fondi di loro proprietà han creato dal niente con un assiduo lavoro di vanga, le piantagioni più fiorenti. Per la natura delle colture e la esiguità dei fondi ove sono sorte, tali piantagioni formano un miracolo del lavoro umano: non dei capitali investiti. Il capitale — se c’è stato — consiste special-mente nella rinuncia a un reddito per gli anni che intercorsero fra la messa a coltura e l’inizio di produzione delle piantate.

    Vedi Anche:  Le città della Calabria

    Una zona della piana di Crotone ove ha operato la riforma rurale.

    Come naturale, per la loro rilevante richiesta di occupazione (da 35 a 48 giornate ad ha. di lavori, annualmente) queste sono le aree del Bruzio con maggior affollamento di popolazione: per quanto la zona delle colture ad alberi o a piante industriali o, intorno i villaggi, a ortaglie sia molto più ristretta di quella ad agricoltura tradizionale — cioè meno di un quinto delle superfìci coltivate della regione —    in essa e di essa vive ora il 42% della popolazione di Calabria (il mio conto esclude la popolazione dei pochi nuclei urbani della fascia litorale che svolgono in prevalenza compiti non agricoli). E il valore della sua produzione forma più di un terzo della produzione agricola globale della regione. Lungo la fascia delle colture di pregio però gli ultimi lustri han reso più marcate le originali incongruenze di struttura: un buon numero di aziende — è vero — si è giovato dopo il 1950 del forte aiuto finanziario statale che mira a diramare in larga misura le irrigazioni, a infittir le conduzioni di energia, a migliorare la tecnologia colturale e la lavorazione dei prodotti, ma questa zona è destinata ad alimentare specialmente i mercati del nord Italia e di oltralpe, e a tal fine avrebbe avuto bisogno di benefici e iniziative particolari, congiunti con la esportazione. Cioè di un’adeguata apparecchiatura, di una moderna organizzazione per lo smercio dei prodotti. E poiché fino a ora questo le è stato negato, ha dovuto lasciar le sue sorti nelle mani di pochi speculatori. Di conseguenza le minuscole aziende —    che ignorano (meno qualche raro caso) gli istituti cooperativi — restano deboli di fronte al mercato e ricavano da un pesante lavoro introiti minori di quanto potrebbero.

    Le strutture delle colture promiscue antiquate

    La precarietà di questa zona non ha però niente di comune con quella, che invero è deficienza e chiusura, di una zona in genere più interna della regione, ove si ha un tipo misto di agricoltura, ad alberi e seminati : cioè una agricoltura promiscua orientata unicamente verso il mercato locale. Non è che questa sia la fase iniziale o meglio il grembo della coltura di pregio infoltita su le cimose e le piane rivierasche (la cui dilatazione invece fu dovuta a stimoli provenienti da fuori : cioè per la vite i mercati francesi e degli stati nordici di Italia, fin dal diciottesimo secolo, e dopo l’unificazione nazionale i mercati urbani della pianura del Po per gli oli e gli agrumi). Ma è il risultato unicamente di una evoluzione interna dell’agricoltura locale: cioè

    il piano più maturo a cui questa era in grado di pervenire. Tale forma di agricoltura si rivela già lungo i pendìi della catena padana, ove solamente vicino al mare lascia una esile striscia agli arborati di pregio : la sua principale zona è però il Vallo del Crati, e aree minori si colgono nei bacini interni di qualche ampiezza — come quello del fiume Angitola e quello del fiume Ancinale e la fiancata del Poro verso il Mesima. Più sparpagliate e minuscole oasi appaiono intorno ai villaggi contadini che un paio di secoli fa, o anche più, furono pervasi da qualche novazione agronomica: come quella che provocò la sericoltura nei comuni pedemontani della Sila e nei comuni un po’ internati fra le costole di Aspromonte. In ogni caso, l’agricoltura di tali zone è di tipo famigliare, destinata a soddisfare i bisogni del nucleo domestico, in primo luogo, e quelli di un mercato paesano. E di conseguenza non ha aperture, ma si ripete abitualmente fra le meschinità di una stagnante vita: come rivela anche la natura dei sistemi qui in uso per la conduzione dei fondi. La mezzadria impropria, che si basa su una distinzione fra produzione a suolo e produzione da alberi, in modo di escludere la ripartizione dei frutti migliori — come le olive — ha una larga adozione: le olive sono raccolte per lo più con mano d’opera in gestione diretta, dai proprietari, e per loro conto vendute, lasciandone una quota minima ai contadini. E costoro in ultima analisi dividono coi proprietari — in ragione di 1/2 o 2/3 — solo i frutti delle colture seminate annualmente. Da qualche anno però l’azione sindacale ha rivendicato per i contadini una partecipazione agli utili della produzione della frutta, in considerazione dei lavori colturali da essi rivolti agli alberi e anche per il motivo che, in queste aree, un sistema di partecipazione simile — in misura diversa a seconda dei casi, ma per lo più a metà — è in funzione da almeno cinquanta anni per la coltura della vigna.

    Le aree di gravitazione economica negli anni fra il ’6i e il ’64. I cerchietti indicano i capisaldi di ciascuna area, citati nella didascalia.

    Frantumazione di realtà umane

    Le realtà economico sociali della Calabria che sono state ora delineate sopra lo schema, da me integrato o aggiornato, del Doria serbano naturalmente quel valore di suggestione e di interpretazione che sono i limiti di una considerazione strutturale della realtà. Ma quella elementare articolazione di strutture si riflette poi in una « molteplicità di zone e di situazioni » come la definisce il medesimo autore: in quanto la Calabria è una delle regioni italiche ove più decisamente pronunziata si manifesta la partimentazione fra le comunità, ove le colture e i gradi di ricchezza (o per meglio dire di sufficienza e di povertà) mutano in breve spazio, e i punti di richiamo e di gravitazione locale appaiono numerosi e poco gerarchizzati fra loro, ma autonomi per lo più. Di guisa che anche il nome della regione — per conseguenza di quei particolarismi — fino agli inizi del secolo veniva usato più frequentemente al plurale, e tale pluralità doveva significare, nella intuizione popolare, il risultato di una lunga sofferta esperienza. In questa frantumazione di realtà umane che non sono poi riassunte via via (o lo sono unicamente per quanto ha riguardi con l’amministrazione dello Stato) da qualche unità sub-regionale ben definibile, ma in genere restano isolate e disunite, sole coagulazioni riconoscibili in qualche modo sono, a mio parere, le zone che ho disegnato a pag. 471 : cioè le zone di gravitazione — e niente più — verso uno o, qualche volta, due centri. Minuscoli distretti interiormente a cui la mobilità degli uomini è forte e gli scambi economici più intensi, interiormente a cui si ha un’animata vita di comunità: cioè le principali operazioni mercantili, le più correnti azioni legali, i ricoveri in ospedali e la consultazione medica di una certa entità, gli spostamenti dei giovani che frequentano i più elevati gradi medi di istruzione, il maggior numero di matrimoni ecc. Non sto a elencare queste coagulazioni, queste regioni minori che la carta descrive: voglio solo metter in rilievo la maggior ampiezza — cosa naturale — delle regioni createsi intorno ai principali nuclei urbani e l’ampiezza pure più notevole delle aree corrispondenti a zone ove la densità di popolazione è minore: ad esempio quelle rivolte al mare ionico. Ne risulta che, per il coesistere di ambienti economici diversi, una qualche, ma elementare integrazione economica fra le diverse parti delia medesima area si ha unicamente in quelle zone — fra le indicate — che gravitano sui tre più popolosi capisaldi urbani, ove l’ambiente forestale delle cupole cristalline si affianca a quello olivicolo del pedemonte silano o viticolo del pedemonte aspromontano, e questo sfuma declinando in quello cerealicolo del fondo valle cosentino e del litorale catanzarese, e in quello degli agrumi lungo lo Stretto. Ma il resto delle minori unità gravitazionali include aree alquanto uniformi: zone cerealicole con una fascia di riguardevole oli veto sul pedemonte, come ad esempio lungo la fiancata ionica, o zone di colture miste un po’ caoticamente dislocate e affiancate in alto da boscaglie e pascoli, come ad esempio lungo la costiera padana e sul Poro, o zone di colture di pregio e industriali, come ad esempio per buona parte delle fertili e fortemente riplasmate piane di Nicastro, di Gioia, di Locri. Via una scala di valori, una chiara gerarchia fra queste zone (a meno l’eccezione dianzi ricordata di una funzione costituzionale nello Stato) è raramente riconoscibile. In qualche caso si nota unicamente una minore energia individuante, in relazione a quella per cui emergono le aree vicine. Come si può dire ad esempio per le più raccolte zone di Praia e di Scalea e di Tropea che sono eredi di ristretti bacini economici una volta delineati con vigore e a cui la ferrovia litorale (che ha stazioni di qualche rilievo locale nei loro centri) ha conservato una discreta personalità; o per quelle di San Bruno e di Rossano la cui maglia è meno forte, forse per il motivo che in qualche loro parte servono pure di integrazione ad aree vicine; o per quella sibarita che si è venuta individuando solo dopo la riforma agricola; o per quella di Paola i cui estremi — specialmente la zona di Amantea e il solco del Savuto — sono un po’ sfuggenti verso l’interno. E il risultato di questo ritaglio in unità umane più o meno del medesimo piano, è che la Calabria, se vien sentita — ciò è sicuro — e sentita in modo caldissimo dalla sua popolazione, come regione, si rivela però più che altro come una regione spiritual-mente. Non su un piano economico: chè a tale riguardo la Calabria non ha unità. Ma ambo le cose si giustificano: in ciò che si esprime come unitarismo è la continuità di un comune humus culturale — alluvionato nei secoli e poco degradato in età vicine

    — a formare la tela della regione. E in ciò che vi è di frazionato, si riflettono le conseguenze di un isolamento e chiusura di molti secoli, e insieme le crisi che negli ultimi due ha aperto qui la faticosa, contraddittoria gestazione di una rinascita.

    La colonna di capo Nao, unico resto del tempio italiota di Hera: fino a qualche anno fa simbolo — nella solitudine del latifondo nudo e davanti a un mare deserto -degli isolamenti e delle illusioni della Calabria. Oggi le case della riforma rurale giungono a poca distanza e il mare di fronte a capo Nao è solcato giornalmente da navi che portano petroli e fosfati, piriti e blenda a Crotone.