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Il litorale, le montagne e le pianure

    Lineamenti e forme del rilievo

    Il rilievo. Montagne e pianure.

    Le Marche sono una terra di formazione molto recente, e si pensa che per un lunghissimo periodo che va dal Trias superiore al Lias inferiore (Giurese inferiore) nel Mesozoico, tutta la regione fosse occupata da un mare poco profondo in cui si deponevano i sedimenti organogeni di natura calcarea e parzialmente dolomitica che costituiscono le formazioni più antiche conosciute delle Marche.

    Con il Lias medio, nella zona che ci interessa, cominciò un progressivo movimento di subsidenza del fondo marino, che gradatamente, e probabilmente con momenti di stasi e parziali innalzamenti, portò all’instaurazione di un regime di mare aperto, abbastanza profondo, che si mantenne fino a tutto il Miocene inferiore. In un simile ambiente si depositarono alcuni sedimenti, come la scaglia, che hanno diffusione in scala regionale.

    Anche l’ambiente di tutta l’Italia era allora marino, vi si stendeva la Tetide, un grande mare mesogeo che comprendeva non solo l’attuale area mediterranea, ma anche tutte le zone corrispondenti alle grandi catene che oggi designiamo come di tipo alpino: era un’immensa fossa geosinclinale dal fondo accidentato da varie cordigliere geoanticlinali, più o meno pronunciate, preludio ai futuri ripiegamenti terziari.

    Fu pressappoco allora che si verificarono i primi movimenti orogenetici: infatti in Umbria compaiono sùbito dopo, ossia nel Miocene medio, sedimenti a facies terrigena, nelle Marche invece di facies marnosa (marina); il fatto che tra l’una e l’altra non vi siano termini di transizione fa presupporre l’esistenza di un dosso, forse parzialmente emerso, in corrispondenza dell’attuale dorsale del Càtria.

    In un tempo geologico non molto posteriore si iniziò una prima fase orogenetica, i cui effetti si possono osservare ancor oggi là dove affiora il calcare «massiccio»: sotto la spinta di forze tangenziali (orizzontali) i sedimenti si curvarono in modo solidale formando pieghe ampie, dolci, regolari, coi fianchi lievemente asimmetrici: i più ripidi verso l’Adriatico che costituisce l’avanfossa dell’orogenesi. In quello stesso periodo nelle aree sinclinali si depositò la formazione gessoso-solfifera con tutte le varie serie di rocce che l’accompagnano. Successivamente, cessate le spinte orogenetiche, nel Pliocene inferiore vi fu un breve periodo di collasso tettonico a cui seguì sùbito una seconda fase diastrofica, più rapida nel tempo e ben più energica per le forze applicate: essa fu prevalentemente disgiuntiva e causò tutti quegli accidenti tettonici che complicano la geologia e, di riflesso, la morfologia delle Marche, come faglie, dirette ed inverse, formazioni pseudodiapiriche, strutture embriciate. Le faglie più importanti risultano quelle longitudinali situate sui fianchi delle anti-clinali, aventi un piano di dislocamento con forte immersione, generalmente superiore ai 50-60°; altre faglie sono localizzate lungo le cerniere delle anticlinali.

    Nel medesimo periodo, contemporaneamente a questi motivi strutturali, al di là dell’avanfossa marchigiana probabilmente emergeva un massiccio cristallino a composizione litologica simile a quella delle Alpi attuali: infatti lungo il litorale pesarese sono molto diffusi ciottoli granitici, sienitici, dioritici, diabasici, porfirici, quarzitici, l’origine dei quali non può essere spiegata altrimenti, dato che rocce in posto di tal natura non affiorano all’intorno per un raggio molto ampio e che le più vicine si trovano o nelle Alpi o in Toscana o in Dalmazia.

    Si è detto che la seconda fase orogenica marchigiana fu assai rapida: terminò infatti molto prima della fine del Pliocene medio e ad essa seguirono un nuovo collasso tettonico ed una breve ingressione marina durante la quale il mare fece scomparire anche il presunto rilievo cristallino adriatico. Dal Pliocene superiore in poi riprese il moto ascensionale attivo delle terre marchigiane che si protrasse per tutto il Quaternario e che portò la regione alla forma attuale pur senza raggiungere l’intensità dei parossismi orogenetici precedenti, ed i cui ultimi moti di assestamento sono rappresentati da quei terremoti che si ripercuotono attraverso le faglie costiere.

    Le terre non appena emerse furono attaccate dagli agenti esogeni che diedero inizio a quei fenomeni di erosione e di deposito che, modellando il paesaggio, continuano ancor ora a compiere la loro opera modificatrice.

    Minime sono le tracce di un’azione glaciale esistenti quasi esclusivamente sui Monti Sibillini e consistenti in pochi circhi e in depositi morenici, fra cui sono da ricordare le morene del lago di Pilato.

    Così nel tempo si formarono quegli elementi che costituiscono l’ossatura della regione marchigiana, ossia quella serie di catene parallele, disposte su archi ad ampio raggio di curvatura, che nella sezione settentrionale si svolgono in direzione nord-nordovest sud-sudest, per assumere poi un andamento meridiano nella porzione sita più a sud. Si tratta delle catene del Falterona che ha caratteristiche sue proprie, del

    Càtria e del San Vicino e delle ellissoidi di Cingoli e del Monte Cònero, che geneticamente appartengono all’Appennino vero e proprio per i terreni francamente calcarei aventi spiccata analogia con le Prealpi lombarde e venete; a questa ossatura si appoggia la fascia delle colline mioplioceniche che si spingono fino allo stretto litorale adriatico e che costituiscono il così detto Subappennino, formato da terreni argillosi e sabbiosi.

    Il limite tra l’uno e l’altro, tra Appennino e Subappennino, è segnato appunto dalla linea di contatto dei terreni del Giurese, del Cretaceo, dell’Eocene con quelli miopliocenici. La regione fisica delle Marche è ben delimitata tra le catene del Monte-feltro e il torrente Conca a nord, l’Adriatico ad oriente, il fiume Tronto a sud, la displuviale appenninica ad occidente; l’insieme costituisce una regione avente caratteristiche proprie che la differenziano sia dall’Emilia e dall’Abruzzo, sia dall’Umbria, in modo che non si può definirla come una semplice terra di transizione tra queste regioni; in essa, compresa tra le regioni più montuose della Penisola, si può dire che non esistano pianure, e l’isoipsa di maggior sviluppo è quella di 500 metri.

    L’Appennino

    Caratteristiche comuni alle varie catene o « quinte » marchigiane sono la maggiore elevazione e la maggiore compattezza di mano in mano che si procede dal nord verso sud, oltre alla progressiva diminuzione, avanzando nella medesima direzione, del mantello di terreni marnosi ed arenacei miocenici che ne coprono i fianchi e che, nei tratti più settentrionali, possono anche costituirne le vette. Riguardo all’andamento del profilo trasversale si può notare che i versanti orientali sono più ripidi di quelli occidentali e che la displuviale appenninica passa da una catena all’altra in modo tale che nel tratto più meridionale si trova spostata verso ovest. Un’ultima osservazione valida in senso generale è che l’orografia ricalca la struttura tettonica della regione, poiché le varie dorsali corrispondono a pieghe anticlinali non molto lunghe, spesso anzi quasi semplici ellissoidi, intersecate da profonde valli e tendenti a rovesciarsi sull’avanfossa marchigiana, ossia verso l’Adriatico.

    La più occidentale di queste dorsali è la « quinta » del Falterona, che però interessa le Marche solo per una frazione della sua lunghezza, formando lo spartiacque tra il bacino del Tevere e quello dei fiumi marchigiani per il tratto che va dal Monte Fumaiolo al Colle di Gubbio, ossia per circa 60-70 chilometri. Il nome le viene dal Monte Falterona, alto 1654 m-> che costituisce il suo caposaldo settentrionale e si trova nell’Appennino tosco-emiliano. Il Monte Fumaiolo, di 1408 m., è la prima delle vette che ci interessano; è costituita da scisti argillosi e da calcari marnosi dell’Eocene, affioranti tra le rocce calcaree, scistose, ma soprattutto arenacee e conglomeratiche del Miocene.

    Un angolo del Montefeltro visto da Novafeltria.

    Litologicamente coeve risultano le rocce in cui sono modellati il Monte della Zucca, di 1265 m., l’Alpe della Luna col Monte dei Frati (1454 m.), il Monte Maggiore (1384 m.) ed il Poggio Alto (1262 m.). Lo stesso accade per le cime che si allineano verso sudest: del Montaccio, di 1072 m., del Monte Fumo, di 869 m. e della Serra Maggio, che culmina nel Pian della Serra, di 1015 m., e cede la funzione di spartiacque alla « quinta » più orientale, quella del Monte Càtria, in corrispon-denza della « barra » di Scheggia. I valichi principali che mettono in comunicazione tra loro il bacino del Tevere e quello del Metauro sono due: il Passo di Bocca Trabaría, posto a 1044 m. sul mare tra il Poggio del Romito (1196 m.) ed il Monte Sant’Antonio (1168 m.), attraverso cui passa la strada che unisce Arezzo ad Urbino, e quello di Bocca Serriola che, meno elevato del precedente, raggiunge solo i 730 m., ed è situato immediatamente a sudest di Monte Fumo. L’insieme come si vede è costituito da terreni di età miocenica, per lo più di arenarie, ad elementi più o meno piccoli, di mediocre resistenza all’erosione, che dànno alla morfologia della catena un aspetto piuttosto monotono, e le stesse cime maggiori si presentano soltanto come dossi ondulati.

    In questa sezione mancano del tutto tracce di una glaciazione quaternaria.

    L’insieme delle caratteristiche descritte fa sì che la « quinta » del Falterona sia ancora da attribuirsi alla sezione settentrionale delPAppennino, il che non si può più dire della successiva « quinta » del Càtria, che appartiene interamente per la sua struttura geomorfologica all’Appennino centrale.

    A limitare la regione verso nord si elevano le due catene del Montefeltro, che hanno un andamento perpendicolare a quello degli allineamenti principali e che perciò vennero anche designate col termine di « rughe abberranti ». Ambedue si staccano dalla « quinta » del Falterona, la più settentrionale presso Monte Fumaiolo e l’altra, la maggiore, dall’Alpe della Luna, in particolar modo da Monte Maggiore.

    La prima, in cui prevalgono le marne, le arenarie e i conglomerati miocenici, ha come punti base il Monte Aquilone di 1355 m., il Poggio la Croce di 915 m., il ripido Monte della Perticara di 885 m. e fa da spartiacque tra il bacino del fiume Savio e quello del fiume Marecchia.

    La seconda si spinge da Monte Maggiore a Monte Bello (1076 m.) e procedendo poi verso nord in terreni per lo più miocenici prende il nome di Alpi di San Cristoforo fino al Sasso di Simone (1204 m.); successivamente si allarga nel nodo di Monte Carpegna (1415 m.), nel quale assumono una grande estensione i calcari marnosi dell’Eocene medio-superiore, e termina biforcandosi. Delle due diramazioni della catena principale che si allargano come ad abbracciare il caratteristico Monte Titano (738 m.), l’una costituisce quasi il cuore della regione Feltria e si spinge tra la Marecchia e il suo affluente Mazzocco, l’altra invece si insinua fra i torrenti Mazzocco e Conca staccandosi dal Monte Palazzolo (1194 m.) sùbito a nord del Carpegna e dirigendosi direttamente ad est. Le appartengono la cuspide curiosa, a forma di corno, del Monte Copiolo (1033 m.) ed il Monte Tassona (841 metri sul mare).

    La quinta del Càtria si protende molto a nord della barra scheggina raggiungendo l’alto Metauro: a sud si spinge fino all’alto bacino del Chienti.

    Per la sua struttura la « quinta » del Càtria appartiene interamente all’Appennino centrale, in quanto i terreni dominanti di natura calcarea sono di età giurese-cretacea ; la morfologia, proprio in relazione alla costituzione delle rocce, è molto più aspra che nell’Appennino settentrionale. Una prima cima degna di nota è il Monte Nerone, di 1526 m., il cui nucleo è dato da calcari marnosi rosei e rossi, con intercalazioni di marne argillose e lenti di selce: la così detta «scaglia rossa» del Cretaceo superiore; nella parte inferiore i calcari si decolorano e a poco a poco divengono più chiari passando a volte a bianchi. Intorno vi sono vasti affioramenti di calcari e calcari marnosi del Lias (Giurese inferiore) che si presentano bianchi negli strati più antichi mentre assumono una colorazione via via giallastra, grigia o verdastra e infine rossa, o quasi, man mano che si giunge a livelli più recenti, cioè passando dal Lias inferiore al medio e al superiore.

    Il Monte Nerone è un’enorme massa che si erge ripida tra il torrente Biscaglio ed il torrente Certano e rappresenta la montagna principale della prima sezione della « quinta » del Càtria.

    Incisa da burroni profondi e scoscesi si fa meno erta al di sopra dei 1000 m. e in alcuni punti diventa quasi pianeggiante. Contrastanti fra loro per la morfologia sono le sue due vette, di cui la più settentrionale si presenta come un cono schiacciato, roccioso ed aspro; l’altra invece, chiamata anche il «Trogolone», ha pendìi facili e dolci, verdi di pascoli e di boschi a faggio. Anche il resto della « quinta » ha caratteristiche geolitologiche più o meno simili a quelle del Monte Nerone; domina ovunque il Cretaceo con tutti i suoi piani, rappresentato dai calcari bianchi, compatti, a frattura poliedrica o scagliosa propri del piano inferiore, dai calcari marnosi bianchi o grigi con letti di selce in strati sottili, dai calcari grigio-azzurrognoli e dagli scisti varicolori a « Fucoidi » del medio, nonché dalla « scaglia » del superiore. Se anche il Cretaceo domina quantitativamente pur vasti sono gli affioramenti del Lias, che, oltre a costituire il Monte Cucco e le parti marginali del Monte Nerone, si notano a Monte Acuto, Monte Càtria, Monte Maggio e Monte Penna. Meno imponenti sono gli affioramenti di scisti e calcari marnosi del Giurese medio-superiore che si insinuano fra Lias e Cretaceo. A sudest di Monte Nerone si stende l’altopiano che costituisce la cima del Monte Petrano che sovrasta Cagli con i suoi 1091 m. di altezza; è meno elevato del Monte Nerone stesso e conosciuto all’intorno per la stupenda fioritura che lo adorna a primavera inoltrata. Dal suo lato orientale si leva il piccolo dosso della Rocchetta, foggiato a cono, la cui vetta si spinge fino a quota 1163.

    Il Monte Fema visto da Monte Appennino.

    Tra i torrenti Burano e Sentino si erge superbo il Monte Càtria, che è molto più imponente del Monte Nerone in quanto formato oltre che dalla vetta principale, di 1702 m., da tutta una serie di altre cime superiori ai mille metri e cioè da Monte Morcia (1041 m.), Monte Tenetra (1240 m.), Monte Alto (1316 m.), Monte Acuto (1668 m.), separato dalla montagna-principe della «quinta» da una facile sella, a settentrione, e il Corno di Càtria di 1115 m. verso sud. Ad est del Monte Càtria sorge il Monte della Strega di 1277 metri. Altri capisaldi della « quinta» del Càtria procedendo verso sud sono il Monte Motette che si eleva a 1328 m., il Monte Le Gronde di 1373 m., il Monte Cucco (1567 m.), il ripido Monte Maggio (1361 m.), il Monte Penna (1322 m.), il Monte Pennino (1570 m.) ed infine il Monte Cavallo, di 1500 m. d’altezza, in corrispondenza del quale la linea sparti-acque si sposta sui Monti Sibillini attraverso il Monte Fema (1575 m.) e la barra trasversa d’Appennino che fa capo a Monte Rotondo. Poco a nord di Monte Cavallosi stacca dalla « quinta »del Càtria unadorsale che le si affianca dal lato adriaticoa guisa di antemuralee si spinge verso settentrione fino a raggiungere il fiume Esino con gli ultimi contrafforti del Monte Tre Pizzi di 1256 m. : è poco sviluppata in lunghezza, tra 25 e 30 km., ma è pari alle altre catene parallele per i valori in altitudine.

    Vedi Anche:  Le attività industriali e commerciali

    La quinta del San Vicino si stende più ad est parallelamente alle precedenti, dal Metauro al Tronto, dalla gola del Furio a quella di Arquata o, se si preferisce, dal

    Monte Pietralata di 888 m., quasi isolato tra le anse del Metauro e del suo affluente, il Candigliano, fino agli ultimi contrafforti dei Sibillini, che raggiungono col Monte Vettore, di 2478 m., la massima elevazione di tutta la regione. E un continuo susseguirsi di creste i cui capisaldi sono costituiti dai Monti Pietralata, Paga-nuccio (977 m.) di età cretacica, intorno a cui assumono un’estensione sempre maggiore gli affioramenti di rocce paleogeniche (dell’Eocene ed Oligocene), Cà Rossa (882 m.), Pietroso (1093 m.), San Vicino (1485 m.); quest’ultimo con la sua caratteristica forma a gobba, spicca alto sul profilo dei monti circostanti più bassi ed uniformi e si scorge quasi da ogni punto della regione, tanto che è considerato uno dei punti trigonometrici base. Seguono la Forcella e il Pulcino, rispettivamente di 1150 e 1112 m. : in tutti affiorano largamente, tra quelli del Cretaceo, i terreni più antichi delle Marche, i calcari del Lias. Ancora più a sud ecco il Monte Lavacelli di 986 m., il Monte d’Aria di 957 m. e il Monte Letegge di 1022 m., anch’essi costituiti per intero da calcari cretacei; successivamente alla cresta di Bistocco, lungo il corso del fiume Chienti, ha inizio quella sezione della « quinta » del San Vicino nota col nome di Monti Sibillini, che costituisce l’estrema porzione meridionale dell’Appennino marchigiano ed ha caratteri talvolta nettamente alpestri.

    Monte Rotondo

    È una delle aree meglio studiate di tutte le Marche, dal punto di vista geografico, non solo, ma anche da quello turistico ed alpinistico, molto probabilmente perchè è uno dei gruppi più attraenti per le analogie di paesaggio con le Alpi vere e proprie. Non è costituito da un’unica dorsale, ma da una catena principale, in cui si susseguono vette e alture che raggiungono quote notevoli, ed alle quali si ricollegano altre creste laterali che hanno il loro maggior sviluppo sul versante occidentale dei Sibillini.

    La Gola del Furlo.

    Lungo la dorsale principale si allineano il Monte Fiegni (1323 m.), il Pizzo di Meta (1576 m.), il Monte Castel Maliardo, larga cima che raggiunge i 1919 m. sul mare ed a cui si affianca il Monte Amandola, di 1707 m., che in pratica ne costituisce l’ultima propaggine orientale; il Pizzo Tre Vescovi di 2092 m., che forse deve il nome strano al fatto che visto da sud il suo profilo ricorda la forma di una mitria; il Monte Priore, che culmina nel Pizzo della Regina, dalla singolare forma di un triedro regolare che raggiunge quota 2334. Più a sud si notano il Monte Sibilla di 2173 m., una delle più caratteristiche vette del gruppo a cui dà il nome : ha una cima bizzarra che emerge da una corona di rocce gigantesche dal colore roseo; il Monte Porche di 2235 m., chiamato anche Monte Bellavista per il magnifico panorama che si gode sulla sua vetta; il Monte Vettore che costituisce un’isola liassica tra le formazioni cretacee della catena e consta in pratica di una serie di cime ad altitudine variabile intorno ai 2000-2400 m., con una quota massima di 2478 m., altitudine maggiore di tutto il gruppo dei Sibillini. Ultimo, ormai completamente fuori dai limiti amministrativi delle Marche, è il Monte Utèro, di 1808 m., le cui balze sono costituite da dolomia saccaroide grigia o bruna.

    La testata della valle di Bolognòla, sulla sinistra il Pizzo Tre Vescovi.




    Delle catene laterali si possono ricordare quella del Monte Rotondo (2103 m.), le cui propaggini servono da legame per la transizione della displuviale appenninica dalla « quinta » del Càtria a quella del San Vicino, quella più meridionale, che stac-

    candosi da Monte Porche punta a nord-nordest e culmina nel Monte Bove (2113 m.); infine quella che si collega alla dorsale principale presso Monte Vettore compiendo uno stretto arco a ferro di cavallo, convesso a sud ; conta cime molto più basse delle precedenti, come, ad es., Monte Vètica e Monte Patino, rispettivamente di 1714 e 1884 metri.

    Centro del sistema dei Sibillini si può considerare il Pizzo della Regina, anche se alcuni pensano che sia già troppo orientale e preferiscono indicare come fulcro della catena la cima aguzza del Pizzo Berrò, di 2259 m., situato poco più ad ovest alla stessa latitudine. L’insieme del gruppo ha linee piuttosto semplici, quasi a fusto d’albero dal cui tronco si dipartono i rami secondari, fra i quali quelli descritti sono i più importanti.

    I due versanti sono nell’insieme diversi l’uno dall’altro soprattutto per il differente assetto che l’idrografia assume sul versante occidentale rispetto all’orientale: mentre il primo infatti costituisce praticamente la testata di un’unica valle, quella della Nera, il secondo si spezza in una serie di valli strette e profonde, che iniziando con un decorso meridiano convertono successivamente il corso verso est. Nei Sibillini non mancano le complicazioni tettoniche più varie, fra queste la grande faglia del Monte Vettore che interrompe la continuità della cimosa eocenica esterna che si estende dal fiume Potenza all’altipiano di Amatrice in Abruzzo.

    Veduta dei Sibillini dal Monte Redentore, (gruppo del Vettore); sulla destra il Monte Sibilla.

    Ovunque gli agenti atmosferici, e in particolar modo le acque superficiali, hanno compiuto una intensa opera di erosione scavando vere e proprie forre, frantumando e spezzando le rocce tanto che i pendìi si mostrano spesso coperti da enormi macereti. In quest’area sono anche presenti fenomeni di modellamento glaciale, quantunque il loro sviluppo non sia tale da imprimere caratteri particolari alla morfologia locale; essi consistono principalmente in circhi glaciali ben modellati e in depositi morenici che sono più frequenti sul Monte Bove e sul Monte Vettore; qui il lago di Pilato è di evidente origine glaciale. I fenomeni carsici propri delle regioni che hanno subito le dislocazioni più intense sono frequenti ed anche imponenti nelle forme di campi carreggiati, inghiottitoi, polje, doline, mentre mancano quasi del tutto le grotte, i pozzi naturali e le voragini.

    Composizione geolitologica e significato tettonico e genetico uguale alle « quinte » del Càtria e del San Vicino hanno la ellissoide di Monte Acuto (824 m.) presso Cìngoli, la così detta ellissoide Cingolana che costituisce una bassa dorsale lunga solo una quindicina di chilometri dal fiume Musone al Potenza, e quella di Monte Cònero, di 572 m., che topograficamente apparterrebbero al Subappennino.

    Il Monte Cònero, in particolare, rappresenta la sporgenza più marcata di tutta la costa tra le ultime pendici del Carso e lo sperone del Gargano e solo qui il rilievo tocca così rapidamente i 572 m. ad una distanza minima dal litorale. E quello che vien comunemente chiamato il gomito d’Italia e si stacca dal paesaggio intorno per una propria individualità fisica ben marcata, dovuta sia alla struttura geologica che lo fa ricollegare all’Appennino vero e proprio, sia all’aspetto morfologico, dato che a modellare le sue rocce concorrono da un lato il mare, come si vedrà più avanti dall’altro gli agenti meteorici. Sulla sua gobba poco accidentata, per la sottile stratificazione dei terreni calcarei e per la loro costituzione mineralogica in gran parte marnosa, non vi sono veri e propri fenomeni carsici, infatti non si osservano nè campi carreggiati nè doline, tuttavia le acque di precipitazione penetrano in gran parte in profondità per dare origine, nelle parti più basse, ad alcune sorgenti, mentre solo nei periodi di piogge più intense diventano attivi alcuni solchi d’erosione che incidono tanto rapidamente la roccia e i depositi di ghiaie e di brecce, che ne coprono più o meno estesamente il fianco sudoccidentale, da essere incassati di 15 o 20 metri appena a distanza di un chilometro dalla loro origine.





    Il Monte Bove (2113 m.).

    I Monti Sibillini visti da Montefortino

    La valle del Fiastrone con lo sfondo del Monte Priore e del Monte Rotondo.

    Comprende tutta quella fascia formata da materiali sabbioso-arenacei e marnoso-argillosi risalenti al Miopliocene nei quali l’azione endogena ha plasmato un’infinita serie di colline e collinette di altezza generalmente variabile tra i 250-400 metri.

    Tra le zone riferibili al Miocene e quelle dell’Eocene vi sono differenze di caratteri strutturali dovute ad un motivo tettonico. Le prime costituiscono una superficie inclinata a monoclinale e la morfologia è stata determinata dall’azione erosiva delle acque correnti che hanno isolato una serie di dossi tondeggianti e regolari che, seguendo la fitta rete idrografica, risultano disposti a scacchiera. Anche l’andamento dei corsi d’acqua principali è in certo qual modo ereditato ed imposto dalla direzione sudovest-nordest già assunta dai torrenti appenninici al margine interno di queste zone tendenti alla forma di penepiano.

    La stessa direzione viene mantenuta anche nelle aree costituite di sedimenti pliocenici che sono disposti in lente anticlinali e sinclinali lievemente dissimmetriche, con i piani assiali leggermente inclinati verso nordovest; deriva da questo l’aspetto penniforme, tanto caratteristico, dell’idrografia marchigiana.

    In tutta la zona collinosa si possono individuare vari settori disposti normalmente alle dorsali appenniniche e corrispondenti più o meno a queste anticlinali formate in conseguenza degli ultimi contraccolpi attenuati dell’attività orogenetica, che dette origine alle «quinte» del Falterona, del Càtria, del San Vicino. Tra l’uno e l’altro di questi settori si allungano ampie valli di origine tettonica, in quanto si tratta di sinclinali, e contemporaneamente fluviale. In generale le formazioni argillose che predominano in tutto il Subappennino erano un tempo coperte da sedimenti più stabili, come arenarie, conglomerati e sabbie che ancora si riscontrano qua e là sulle dorsali mioplioceniche e sulle quali è distribuita una parte degli insediamenti.

    Le rocce a base argillosa furono messe parzialmente a nudo dall’azione degli agenti esogeni ed ebbero così inizio i processi di franamento che finirono per interessare a poco a poco anche le sovrastanti rocce-tetto più solide.

    Uno dei distretti più franosi delle Marche è quello che dalla media valle del-l’Esino si estende a nordovest fino all’alto Misa e a sudest fino alla valle superiore e media del Musone; gli esempi più caratteristici di frane sono nei dintorni di Genga e di Apiro e, più ad oriente, presso Offagna e Castelfidardo che costituiscono quasi una zona in appendice alla precedente.

    Segue con fenomeni numerosi, benché di non grandi proporzioni, il distretto del medio e basso Tronto ed in particolar modo le valli degli affluenti di sinistra: Chiaro, Bretta, Chifene. Specie nei confronti dell’insediamento umano è interessante Genga, esteso pendio franoso sistemato con opere di arginatura e di rimboschimento considerare il comportamento dei vari terreni di fronte all’erosione; i conglomerati presentano una particolare tenacità e resistenza agli agenti esogeni; malgrado la mancanza di una regolare stratificazione e la frammentarietà degli affioramenti, alcuni dei quali sono ormai isolati come quelli di Porchiano, essi presentano quella asimmetria generale che costituisce la caratteristica nota dominante di tutta la zona subappenninica.

    Coerenza molto minore hanno invece i banchi di arenaria sabbiosa, dove l’erosione però è attenuata dalla grande permeabilità della roccia che porta come conseguenza il passaggio in profondità delle acque piovane e la conservazione relativamente prolungata delle forme superficiali che assumono una struttura quasi simile a quella di rocce maggiormente tenaci. Così si riscontrano forme tabulari, bastionate, a cuesta, spesso terminanti con spigoli netti su pareti verticali. Le vallecole prendono l’aspetto di piccoli canons sulle cui pareti l’erosione non ha presa finché non viene attaccata la base. Quando questo avviene, le pareti crollano a lamine o a pilastri, e il fenomeno si accentua maggiormente se l’erosione giunge alle argille sottostanti.

    Un simile comportamento si può osservare con particolare evidenza nei lembi di sabbie astiane (Pliocene medio-superiore) che formano nel Piceno una serie di cuestas sollevate sulla regione interna e dolcemente inclinate verso il mare, in prossimità del quale terminano con una tipica falesia d’abrasione marina a picco sullo stretto litorale. Più complesse e particolari sono le reazioni dell’argilla di fronte alle acque dilavanti: l’argilla è impermeabile, non atta quindi ad assorbire le acque piovane se non limitatamente allo strato più superficiale; acque piovane dilavano quindi la superficie e non appena trovano condizioni di pendenza adatte scavano un sistema di solchi variamente disposti e relativamente profondi. L’azione erosiva delle acque è facilitata dalla scarsa resistenza della roccia che permette spesso la formazione di grandiosi calanchi che si riscontrano soprattutto nella valle del Tronto.

    I calanchi possono aver inizio tanto da semplici solchi che successivamente si approfondiscono, quanto da una nicchia generata da uno smottamento che serve da ricettacolo alle acque scolanti in superficie: il processo comunque iniziato, continua poi accelerandosi e complicandosi sempre più, almeno fino ad un certo limite, in un sistema di una miriade di solchi percorsi da minuscoli rigagnoli e separati gli uni dagli altri da ripide e sottili creste dalle pareti spesso quasi verticali.

    Il paesaggio a cui danno luogo queste forme è oltremodo bizzarro; la maggiore intensità del fenomeno si ritrova lungo la sponda sinistra dei torrenti Bretta e Chi-fente; si nota anche qui l’asimmetria strutturale a cui si è già accennato.

    I fianchi dei solchi possono conservare la verticalità fra una fase e l’altra dell’erosione, in quanto l’argilla asciutta è compatta e tenace, tuttavia nel processo di disseccamento si spacca dando luogo ad una rete di fessure poligonali profonde spesso parecchi decimetri e larghe qualche centimetro, che costituiscono un altro aspetto singolare del fenomeno.

    Dopo piogge insistenti lungo i ripidi fianchi dei calanchi si susseguono delle « colatine » di fango, prodotte da questo strato superficiale poligonato, il quale, imbevuto d’acqua penetrata dalle fratture, scivola sul terreno più compatto sottostante. Queste « colatine », confluendo in basso, originano delle vere e proprie correnti di melma che fanno assumere ai solchi una sezione trasversale ad U, nella quale il fondo ed i fianchi sono lisciati e striati.

    Nei terreni argillosi, oltre ai calanchi si presentano fenomeni di « solifiussione », ossia movimenti quasi continui di scivolamento del terreno, rallentati nei periodi di siccità estiva ed accelerati nei periodi di maggiore piovosità o durante il periodo della fusione delle nevi: sono i fenomeni propri dei terreni a pendenza molto moderata, nei quali l’acqua di imbibizione ha agio di penetrare in profondità e di trat-tenervisi più a lungo e, tra i processi erosivi che tendono a raddolcire i rilievi, possono assumere anche notevole importanza e spesso risultano evidenti solo per l’inclinazione che assumono i pali telegrafici, le siepi ed i rari alberi dei pendii dolci e di solito ben coltivati.

    Vedi Anche:  Il mare, i laghi e i fiumi

    In aree a pendenza intermedia, tra quella in cui si formano i calanchi e quella in cui si verificano le soliflussioni, si producono di frequente, specie nei periodi di forti piogge, le così dette « lame », cioè piccoli smottamenti ; il fenomeno è molto diffuso nelle Marche e per questo è quasi impossibile darne la localizzazione topografica e la segnalazione statistica. Un’altra particolare forma morfologica che assumono le colline marchigiane è costituita dalle « ripe », ovvero dagli strapiombi che interrompono spesso i pendii argillosi dei poggi subappenninici ; esse si notano con particolare frequenza nella provincia di Ancona e sono o lungo i fianchi delle valli come, ad esempio, su quelli dell’Esino, quasi di fronte a Jesi, dove c’è la « Ripa Bianca », o lontano da un qualsiasi corso d’acqua, come presso Serra San Quirico. Il fenomeno è distinto dalle « falesie » o « ripe » che si susseguono lungo le coste e che sono di evidente origine marina.

    Le « ripe » pur costituendo uno dei principali elementi del paesaggio marchigiano, perchè lo movimentano spezzando le linee normalmente dolci ed uniformi delle colline, non ebbero con facilità una spiegazione morfologica, soprattutto per la grandiosità del fenomeno, che producendosi in una roccia di scarsa consistenza, soggetta a disfacimento e che frana con estrema facilità, a volte raggiunge anche qualche decina di metri. In generale i prodotti di disfacimento di una parete più o meno verticale, esposta all’azione meteorica, si accumulano alla sua base formando una falda detritica in rapido accrescimento che nasconde, e contemporaneamente protegge, il piede della parete stessa; in tal modo la parte della superficie che rimane scoperta si riduce progressivamente fino a scomparire sia per distruzione diretta che indiretta, cioè per il ricoprimento completo da parte dei materiali derivanti dalla sua stessa demolizione. Un simile processo di disfacimento non si verifica nelle « ripe » che retrocedono, da valle verso monte, fino a raggiungere la sommità del rilievo sul quale si sono formate, guadagnando continuamente in altezza più che in profondità ; la superficie della « ripa » durante questo lento processo rimane sempre fresca per il continuo squamarsi della roccia, ed il materiale che cade al piede si viene man mano trasformando in poltiglia per l’azione delle acque piovane che ne asportano una parte sotto forma di colate fangose, impedendo in tal modo la formazione della falda detritica alla base.

    Dato il processo di formazione del fenomeno, anche da una piccola superficie di distacco di una frana si forma un po’ alla volta una « ripa » che spesso si trova lontana dal punto di origine.

    Il litorale.

    Il litorale marchigiano segue direttamente la fascia di colline mioplioceniche or ora descritte e si può dividere in due sezioni, di quasi eguale lunghezza, che si allacciano l’una all’altra al gomito d’Italia: il primo settore corre da Gabicce ad Ancona con direzione ovest-nordovest est-sudest, il secondo va da Ancona al Tronto con andamento nord-nordovest sud-sudest.

    Le zone litoranee sono quelle nelle quali è possibile seguire con relativa facilità le azioni delle forze naturali costruttive e distruttrici che danno luogo all’equilibrio instabile della linea di costa; la considerazione dei problemi relativi ha un’importanza notevole specie per l’insediamento umano e per le attività connesse con il mare. Le spiagge italiane già da molti anni sono oggetto di ricerche fisico-storiche per conto del Centro per la Geografìa fìsica del Consiglio Nazionale delle Ricerche; nell’àmbito di questa serie è stata pubblicata nel 1942 anche la monografìa delle Spiagge marchigiane ad opera di U. Buli e M. Ortolani ; il primo si è occupato delle spiagge settentrionali fino al Cònero, il secondo di quelle meridionali fino al Tronto. Il loro studio, compiuto con metodo scientifico e sulla base di confronti pianimetrici e batimetrici a partire dalla seconda metà del secolo XIX, tende a presentare le variazioni delle spiagge sottili sia in senso positivo che negativo sotto l’azione dei fattori locali di alluvionamento e di abrasione. Seguendo la linea di costa da nord verso sud si cercherà ora di illustrare brevemente le principali forme morfologiche messe in evidenza dallo studio sulle spiagge marchigiane.

    Le colline pesaresi a picco sul mare.

    La distanza tra i due caposaldi base della prima sezione, ossia quella compresa tra Gabicce ed Ancona, è di un’ottantina di chilometri circa ed alla sua costruzione concorrono esclusivamente i materiali portati dai fiumi Foglia, Metauro, Cesano, Misa ed Esino, disposti secondo le componenti dell’azione costruttiva del mare; questa fascia che è ridotta ora ad una sottile cimosa non più larga di 5 metri tra Gabicce e Monte Accio, diviene più ampia da qui a Monte Ardizio per ridursi nuovamente fino a Fano. Oltre Fano si mantiene larga circa 100 metri fino in prossimità di Falconara, dove torna ad assottigliarsi. Le ali delle conoidi deltizie fluviali più che distinte risultano anastomizzate tra loro in modo tale che la linea di costa procede secondo una successione di falcature più o meno ampie e profonde; più in particolare si può dire che i delta presentano tutti una certa irregolarità con l’ala sinistra più sviluppata di quella destra, perchè il moto di traversia prevalente spinge i materiali in direzione nord. L’aggetto deltizio dell’Esino, con le ali ugualmente sviluppate, costituisce un’eccezione: rispetto al dinamismo marino infatti il fiumeè soggetto ad azioni equivalentinelle opposte direzioni. Il litorale nelle sue forme attuali non è più il risultato delle sole cause naturali, cioè moti prevalenti del mare lungo la costa, quantità e qualità della portata liquida e solida dei corsi d’acqua, moti bradisismici dei caposaldi rocciosi, ma risente dell’opera dell’uomo che è intervenuto con la costruzione di moli, di pennelli e difese portuali e costiere varie, che agiscono nello stesso senso, oppure in senso opposto alle forze naturali stesse.

    La natura mineralogica e granulometrica dei materiali costitutivi della spiaggia è in diretto rapporto con le formazioni geologiche attraversate dai vari corsi d’acqua. Questi, per il regime torrentizio con forti portate autunnali e primaverili e per le forti pendenze da loro superate, trascinano materiali prevalentemente ghiaiosi nel tratto a sudest di Fano; intorno a Pesaro invece il litorale è prevalentemente ciottoloso per gli elementi grossolani derivanti dal disfacimento delle formazioni sedimentarie mioceniche delle colline site tra Gabicce e Monte Accio. Qui troviamo anche quegli elementi esotici che litologicamente ricordano le rocce delle Alpi come calcari, dolomie, arenarie, graniti, porfidi, sieniti, dioriti, ecc., e che si è già cercato di spiegare come siano potuti divenire parte integrante dei locali sedimenti miocenici.

    Al di là della fascia costiera il fondo marino si presenta quasi ovunque in costante e lieve pendenza intorno al 2 °/c0 e la linea neutra è molto vicina al litorale ad una profondità oscillante tra gli 8 e i 10 metri; tale morfologia esercita una diretta influenza sulla pesca.

    Il litorale di Gabicce Mare risente le conseguenze dell’abrasione esercitata ai piedi delle colline pesaresi tanto che la spiaggia ad ampia falcatura, lunga circa un chilometro, è costituita da materiali ghiaiosi in prossimità delle colline e sabbiosi più a nordovest, a ridosso del molo portuale. Infatti i materiali di frana che si depositano ai piedi delle colline di Gabicce sono sistemati selettivamente dal moto di traversia, e così i materiali più minuti, trasportati più a nord dal moto ondoso, si arrestano contro il baluardo formato dal molo di Cattolica, mentre quelli più grossolani rimangono più vicini al punto di provenienza. L’accrescersi della spiaggia in prossimità del porto fu talmente rapido che poco dopo la costruzione del molo per anticipare l’arresto del materiale e la deposizione uniforme lungo la spiaggia, si dovette procedere alla gettata di un pennello protettivo a un centinaio di metri a sud del molo stesso. Queste opere però non impediscono al materiale fine di superare l’estremità del pennello, lungo circa 50 metri, e di addensarsi a ridosso del porto: risulta infatti che circa la metà della spiaggia di Gabicce è in avanzamento, mentre il resto, verso punta Gabicce, è in fase di arretramento.

    Le colline pesaresi di Gabicce, Castel di Mezzo, Firenzuola di Focara, San Bartolo sono costituite da una formazione prevalentemente sabbioso-arenacea mioplio-cenica, a strati che con pendenza di 40-45° e con immersione da nordest a sudovest, costituiscono i resti di una anticlinale avente direzione parallela alla linea di costa e la cui gamba esterna è stata ormai quasi completamente asportata dal mare. Il litorale risulta costituito da una costa ripida, talvolta a strapiombo, alta un centinaio di metri ed interessata di continuo da frane e smottamenti i cui materiali vanno a formare al piede una stretta cimosa ciottolosa; ma questi danni non sono dovuti solo all’abrasione marina che scalza alla base la parete rocciosa, ma anche ai fenomeni di infiltrazione ed imbibizione delle acque meteoriche nei sedimenti mioplio-cenici. La franosità naturalmente è in rapporto diretto con le differenti caratteristiche di durezza, impermeabilità e giacitura degli strati arenacei. Per l’insieme dei diversi fenomeni questa sezione del litorale si presenta in linea generale articolata in una successione di speroni che si spingono in mare e delimitano lievi insenature, però l’aspetto di ogni singola parte varia di anno in anno in quanto l’ampiezza della cimosa marginale è strettamente connessa al giuoco delle forze che apportano e asportano i materiali di frana; in media la spiaggia di deposito si aggira sui 405 metri ed è costituita di materiali grossolani. L’importanza delle azioni che si esercitano in questo tratto del litorale, da Gabicce a Pesaro, si rileva osservando che i centri abitati di Gabicce a Monte, Castel di Mezzo e Firenzuola di Focara ancora nei primi anni del 1800 distavano un centinaio di metri dal mare, mentre ora nei primi due sono state travolte le mura ed a Firenzuola è minacciata anche la chiesa situata all’interno della cinta murata.

    Il fiume Foglia a Pesaro.

    La conoide di deiezione del Foglia costituisce il tratto di litorale che circa da Monte San Bartolo si spinge fin verso Monte Ardizio ed ospita la città di Pesaro. La storia dello sviluppo della conoide si intreccia fin dai primi anni del XVII secolo con le vicende che accompagnarono la costruzione e lo sviluppo del porto di Pesaro; infatti i vari e successivi lavori portuali causarono spesso interrimenti, barre di foce ed altri inconvenienti finché nel 1865 non si decise di immettere il Foglia in un alveo che si era costituito l’anno precedente durante una piena e di trasformare la vecchia sede fluviale in porto-canale.

    Dal 1910 tra lo stabilimento balneare e Monte Ardizio si nota un arretramento della linea di costa in relazione ad un fatto analogo che accade nel tratto di litorale adiacente situato tra Monte Ardizio e Fano. Un altro tratto in erosione si riscontra sùbito a ponente della foce del Foglia: il molo guardiano infatti, imprimendo una certa direzione alle acque del fiume, spinge le alluvioni a depositarsi più ad ovest sulla cimosa delle colline di Focara.

    Il ramo sinistro della conoide deltizia del Metauro ha costruito il tratto di litorale che va da Monte Ardizio a Fano. Qui si può fare nettamente la distinzione fra una spiaggia viva, liscia, uniforme, a diretto contatto col mare, ed una spiaggia morta, più interna, a piccole dune litoranee dovute a modellamento eolico, disposte obliquamente alla linea di costa; la prima, sabbiosa e larga circa 70-80 cm. fin presso il fosso Sejore, va riducendosi e facendosi ghiaiosa man mano che ci si avvicina a Fano.

    La foce del Metauro.

    L’arretramento generale che si nota è da imputarsi all’uomo che con le opere portuali ha rotto l’equilibrio costiero: tutte le alluvioni del Metauro infatti si arrestano sul molo guardiano del porto di Fano che impedisce loro di portarsi ad ovest-nordovest sotto l’influenza della traversia dominante; attualmente è minacciata la ferrovia Pesaro-Fano che corre sulla « spiaggia morta » e sembra che a nulla valgano le installazioni di scogliera frangiflutti e di moletti protettivi.

    Ancora a carico dei moli fanesi sono le alterazioni del regime del litorale Fano-Mondolfo Marotta, formante la maggior parte del delta del Metauro, unica fonte dei materiali ciottolosi che lo costituiscono; difatti prima che Fano si costruisse un molo guardiano, le mura delle città si trovavano presso la linea di spiaggia, mentre adesso ne distano più di 300 metri. Ora tutto questo tratto della spiaggia è in fase di corrosione e facendo astrazione da tutte le teorie sui ritorni della corrente di flutto che cercano di spiegare il fenomeno, si può dire che la causa del ritiro sia principalmente dovuta a variazioni di regime del Metauro, che sfocia divagando a 4 km. a sud di Fano con un delta la cui apertura è sbarrata da un sottile cordone di ghiaie marine. Addossato ad un terrazzamento quaternario che fiancheggia le colline di Senigallia si stende il litorale Mondolfo Marotta-Falconara Marittima alla cui formazione concorrono le ali deltizie dei fiumi Cesano, Misa ed Esino.

    La morfologia della costa non permette di distinguere le aree di influenza dei vari corsi d’acqua, però la struttura granulometrica dei sedimenti si differenzia e le ghiaie del primo delta sono separate da quelle del terzo da una zona sabbiosa in corrispondenza della foce del Misa. In tal modo il confine tra le conoidi del Cesano e del Misa si può far coincidere con l’inizio della spiaggia di Senigallia, ampia e sabbiosa, mentre il riapparire delle ghiaie segna il limite Cesano-Esino. Tutta la linea di costa continua come per il passato ad essere oggetto di variazioni positive e negative che derivano dalle variazioni della quantità di torbida contenuta nelle acque dei fiumi.

    La foce del Cesano è ampia e lievemente piegata a nord per il moto ondoso dominante diretto da sud a nord, ed è ostruita da una tipica barra ghiaiosa soggetta a continui mutamenti di forma e di consistenza.

    Il porto-canale costruito sul delta del Misa ha subito le medesime vicende di quello di Fano. Dei tre delta di questa sezione il più caratteristico è quello dell’Esino; il suo vertice è tricuspidato, quasi isoscele, senza la comune asimmetria della bocca verso nord, probabilmente in relazione all’azione protettiva esercitata dal promontorio di Monte Cònero nei confronti dei venti dominanti da sud; anche qui però si nota il pennello ghiaioso che sbarra la foce. L’azione protettiva del Cònero si esplica con maggior intensità nel tratto tra Falconara e lo Scoglio della Volpe dove il litorale che segue i margini di un ampio anfiteatro circoscritto da rilievi che superano i cento metri di altezza, e il cui margine destro è occupato dal porto di Ancona, è soggetto ad una lenta e continua usura, rallentata soprattutto dall’apporto di materiale trasportato dalle traversie secondarie di nordest, che spingono qui le alluvioni dell’Esino.

    Vedi Anche:  Crescita demografica ed emigrazione

    La seconda sezione delle spiagge marchigiane, da Ancona al Tronto misura circa 90 km. di lunghezza e comprende nella parte più settentrionale le « falesie » di Monte Cònero. Questo è costituito da un ellissoide a nucleo calcareo circondato da marne di età miocenica, in cui è incisa quasi nella sua totalità la « ripa » o « falesia » che domina lo specchio marino compreso tra Ancona e Numana. Sono 19 km. di costa alta, orlata alla base da un gradino emergente anche durante l’alta marea, interrotta solo qua e là da qualche piccolo seno a spiaggia ghiaiosa; tra queste si può citare Portonovo, spiaggetta lunga circa 3 km. e larga una trentina di metri, compresa tra lo scoglio del Trave a nord e una grande frana a sud e costituita da ghiaia e sabbia nella parte centrale e da ghiaia e ciottoli alle due estremità; vive praticamente dei materiali che si trovano in loco e che vengono solo spostati dai moti di traversia. L’unico apporto le viene dal detrito della frana che la limita verso sud e che il mare a poco a poco tende a smantellare. Dopo il promontorio di Monte Cònero ecco la ghiaiosa spiaggia di Numana, che forma un leggero arco



    Scogli del promontorio del Cònero.

    Il protendersi del Cònero verso il mare.

    Il tratto successivo di spiaggia tra le foci del Musone e del Potenza è quasi rettilineo. La foce del Potenza tende a spostarsi sulla sua sinistra sotto la spinta della traversia di sudest; come esempio si può citare la violenta mareggiata del 1932 che, elevando la barra di foce, determinò uno spostamento di circa un chilometro a nord-ovest minacciando direttamente l’abitato di Porto Recanati. La costruzione di tre pennelli paralleli riportò il fiume nell’alveo primitivo e contribuì nello stesso tempo ad arricchire di materiale alluvionale il tratto di spiaggia interposto. Fra il Potenza ed il torrente Asola le estreme pendici orientali delle colline subappenniniche sono quasi raggiunte dai marosi e la rotabile e la ferrovia, strettamente affiancate, sono continuamente minacciate dal regredire della linea di sponda. Anzi proprio la costruzione della ferrovia ha segnato l’inizio di una fase di maggiore erosione, perchè la massicciata, su cui corrono i binari, costituendo un fronte d’arresto alla libera espansione del moto ondoso, provoca indirettamente lo scalzamento ed il dissipamento dello stretto arenile.

    Più a sud il delta del Chienti si protende in mare per circa 65 m. e la spiaggia interposta fra l’Asola e il Chienti, formata per quasi due terzi dall’ala sinistra del delta del Chienti stesso, è in lento e continuo aumento per l’apporto del lobo destro; però il progressivo estendersi del litorale è dato dalla somma di azioni positive e negative, infatti ad una fase negativa invernale di abrasione dovuta a mareggiate, ne segue sempre una estiva di accumulo.

    Analoghe tra loro sono le due spiagge poste tra Chienti e Tenna e fra Tenna ed Ete Vivo, leggermente arcuate con falcatura asimmetrica dovuta al differente protendersi in mare dei lobi deltizi dei tre corsi d’acqua. In tutte e due vi è una stabilità generica della linea di battuta ma si notano lievi fenomeni di erosione a carico della destra dei lobi deltizi. Tra l’Ete e l’Aso, la costa è una tipica « falesia» fiancheggiata da una cimosa litoranea molto ristretta, appena sufficiente per le sedi stradale e ferroviaria. Il promontorio di Pedaso costituisce l’unica sporgenza notevole del tratto meridionale della costa marchigiana ed è formato da argille ancora protette da piastroni conglomeratici del Pliocene superiore, molto resistenti all’abrasione; sporge dalla costa per circa 400 m., si eleva fino a 106 m., e come sul gomito del Cònero provoca un’inflessione della costa stessa; gli fanno corona i resti di quattro frane di slittamento dovute ad infiltrazioni di acque meteoriche. Tutto il litorale è orlato da una spiaggetta esile che, per la presenza del muraglione della ferrovia, è in continuo smantellamento. Caratteri simili ha la spiaggia di Cupra-marittima, limitata a sud dal Monte delle Quaglie; ha un profilo leggermente convesso dovuto al protendersi in mare del torrente Menocchia. La successiva spiaggia di Grottammare è limitata dalla sporgenza del Monte delle Quaglie e dall’unghia della conoide del torrente Tesino entrambe sottoposte ad un’intensa erosione. L’ultima spiaggia marchigiana è quella di San Benedetto del Tronto, formata dall’ala sinistra dell’ampia conoide fluviale del Tronto. E in regresso ovunque salvo che nel breve tratto a ridosso dei moli del porto che vanno progressivamente interrandosi.

    Il litorale a nord di Portonovo.

    Il litorale a sud di Portonovo.

    Attività sismica.

    Il grado di sismicità abbastanza elevato è una delle caratteristiche della regione; non tutti gli studiosi sono però del parere che i terremoti che la interessano siano semplicemente dei movimenti di assestamento, conseguenti alla recente orogenesi; è stata fatta anche l’ipotesi che essi rappresentino una manifestazione di fenomeni vulcanici profondi, o meglio plutonici. A conforto di questa tesi starebbe il fatto che il versante orientale della Penisola, che è il più attivo dal punto di vista sismologico, è anche il meno ricco di manifestazioni vulcaniche superficiali le quali, con le loro continue emissioni, costituirebbero quasi uno sfogo al dinamismo sotterraneo subcrostale.

    Alla fine del secolo XIX uno studioso, il Cancani, prendendo le mosse da qualche accenno già fatto da autori del XVIII secolo, esaminò i terremoti più intensi che, con l’epicentro nell’Adnatico, avevano colpito la costa marchigiana, e ne dedusse che i più disastrosi avevano un periodo secolare abbastanza distinto. Ma la sua teoria venne ben presto confutata da altri, come l’Agamennone e il Cavasino, che fecero notare innanzitutto che i terremoti più spaventosi non sfuggono alla storia, mentre è facile che non siano ricordati quelli rovinosi e quelli fortissimi; pertanto per poter affrontare il problema della periodicità dei sismi bisognerebbe avere un elenco preciso di tutte le scosse che si sono succedute nel tempo.

    L’elenco dei terremoti più notevoli avvenuti nelle Marche dai tempi più remoti fino ai nostri giorni si può trovare in diversi autori e per quanto esso possa essere incompleto per le ragioni dette poco fa, pure è interessante notare come risultino più frequenti ad Ancona e poi rispettivamente a Pesaro, Fano, Urbino, Camerino, Macerata.

    Il Baratta al principio di questo secolo costruì una carta sismica riguardante tutta l’Italia, dalla quale si può ricavare che nelle Marche le aree sismiche principali sono approssimativamente sette, delle quali tre molto estese: quella che abbraccia il tratto costiero compreso tra Pesaro, Fano e Senigallia assume la forma di una grande C rivolta verso il mare; un’altra a forma lenticolare comprende gli alti bacini dell’Esimo e del Potenza e quello medio del Chienti; la terza corrisponde al Monte Cònero ed al tratto di costa compreso tra Ancona e Numana che è generalmente definita come costa a maremoto benché le probabilità della formazione di un’onda di maremoto pericolosa nell’Adriatico siano minime, dato che è condizione necessaria per tale formazione che l’epicentro si trovi in mare profondo mentre, come si sa, l’Adriatico ha profondità piuttosto limitate. Altre aree più ristrette ad alta sismicità sono quelle intorno ad Urbino, quella compresa tra lo spartiacque appenninico ed il corso dell’alto Metauro e del Candigliano, l’area di Macerata e quella di Ascoli Piceno.

    Aree sismiche principali e secondarie.

    I terremoti che si verificano nell’area di Ancona si manifestano spesso con molta violenza e non è raro il caso che siano anche in dipendenza dei terremoti della Romagna, del Ferrarese e dello sprofondamento adriatico. Si sa per esempio che nel 1268 o nel 1269 buona parte della collina su cui sorge la città di Ancona rovinò in mare e può darsi che l’avvenimento sia connesso con il grave terremoto che si verificò nel Veneto tra il 3 e il 4 novembre di uno di quei due anni. Il Bonito dice così: «Violentissimi furono quelli che avvennero nell’anno 1269, nell’Italia tutta, e furono così terribili che, fracassato, il Monte d’Ancona precipitò nel mare, dal che s’argomenta le rovine che puotero fare ».

    Senigallia, il canale. Sulla destra si notano i portici Ercolani, i cui edifici sovrastanti, come si vede chiaramente, sono stati ridotti in altezza, di uno o due piani in seguito al terremoto del 1930.

    E facile trovare descrizioni di questo genere nelle cronache e nelle storie locali, esse però non servono a classificare il fenomeno; il Baratta alla fine del 1800 riuscì a trovare nell’Archivio di Stato di Roma una raccolta di documenti riguardanti il grande terremoto di Cagli del 1781 e consistenti in perizie fatte eseguire dal governo per stabilire il danno recato alle varie località dal parossismo geodinamico; in base a tale materiale l’autore riuscì anche a ricostruire l’andamento del fenomeno e a tracciare una carta sismica. Da essa si ricava che nell’area di massima intensità, di forma ellittica, sono compresi gli abitati di Urbania, Sant’Angelo in Vado, Piobbico, Cagli; entro questa zona ve ne è un’altra molto più ristretta, sviluppata alle falde del Monte Nerone, che costituisce l’area epicentrale. Qui, sempre secondo i documenti, si verificarono anche le maggiori perturbazioni nel regime delle acque sorgenti, franamenti e spaccature del suolo. Il Baratta osservò che la posizione di quest’area era eguale a quella di terremoti più recenti il cui epicentro era sempre ai margini del Monte Nerone; la posizione può essere spiegata con la costituzione geologica della località e con l’esistenza di ripiegamenti e di fratture interne causate da sollevamenti orogenetici. A partire dal presupposto epicentro l’intensità degli effetti dinamici andò scemando tanto che gli abitati posti verso l’esterno ebbero danni molto minori che non quelli più vicini dell’area del maggiore scuotimento. A Cagli rovinò la cupola della cattedrale seppellendo 120 persone che ascoltavano la messa; il palazzo vescovile risultò inabitabile e così molte case, forni, magazzini pubblici risultarono diroccati; a Sant’Angelo in Vado i danni causati dal terremoto ammontarono ad un totale di 31.334 scudi; a Fossombrone non si ebbero vittime ma il valore dei danni verificatisi nel territorio fu calcolato complessivamente di 6234 scudi. E l’elenco dei danni, delle rovine e spesso anche delle morti potrebbe continuare a lungo e realmente la lettura delle iscrizioni, delle lapidi e delle memorie manoscritte che ricordano l’avvenimento fa comprendere quanto profondamente ne rimasero colpiti gli animi.

    Se ci si rifà ad un tempo molto più recente il terremoto più grave e che provocò maggiori conseguenze fu quello del 30 ottobre 1930 e che interessò le province di Ancona e di Pesaro; l’epicentro fu allora in mare ad un chilometro ad est di Senigallia e l’ipocentro fu calcolato ad una profondità di 33 km. Le vittime del disastro non furono molte perchè il movimento si verificò al mattino poco dopo le 8 quando buona parte della popolazione era già uscita di casa per recarsi al lavoro, ma non aveva ancora raggiunto i luoghi di occupazione, tanto che ad esempio le scuole erano ancora vuote. I danni furono rilevanti soprattutto per il centro abitato di Senigallia che successivamente fu quasi completamente demolito e ricostruito; i danni maggiori furono riportati dagli edifici costruiti su terreni friabili, invece quelli posti su rocce rigide e sugli spessi depositi alluvionali fluviali e marini del litorale resistettero maggiormente al parossismo. La città dopo il terremoto aveva un aspetto singolare e si poteva effettivamente considerare come una città morta, in quanto la popolazione aveva sgomberato quasi al completo, sistemandosi in prevalenza nelle costruzioni in riva al mare, e all’esterno gli edifici risultavano a posto mentre all’interno erano come sventrati, tutti i piani erano rovinati, molto spesso insieme al tetto. La ricostruzione fu relativamente rapida e durò circa un paio d’anni; in questa occasione per quanto vi sia stato una estensione verso la marina, pure il centro vero e proprio della città non ha subito mutamenti e fin dove è stato possibile ha riacquistato l’aspetto primitivo.

    L’attività sismica del quadriennio 1954-57 come non è stata molto notevole in Italia, così neanche nelle Marche dove si sono verificate cinque scosse di grado eguale o superiore al V della scala Mercalli. Nel 1954 si ebbe un breve periodo sismico tra il 13 e il 19 settembre in quell’area della provincia di Pesaro circostante il Monte Nerone dove probabilmente si ebbe l’epicentro dei movimenti che interessarono soprattutto i Comuni di Cagli e Cantiano. Il 21 dicembre dello stesso anno fu avvertito un movimento sismico in quella parte della valle del Tronto che circonda Ascoli Piceno e l’epicentro fu probabilmente tra questa città e Campii.

    Il 1956 ha registrato alcune scosse nel novembre nell’Appennino marchigiano là dove vi era stato un sisma notevole nel 1951; la massima intensità si ebbe nell’area compresa tra i centri abitati di Caldarola, Sarnano, Amàndola e Bolognola cioè circa alle falde dei Monti Sibillini, però il movimento fu avvertito a nord in una area molto vasta fino a Cìngoli, Cupramontana, Monte Roberto, mentre ebbe una più limitata propagazione verso la costa. Il 1957 ha registrato due periodi sismici con epicentro a Force, il primo nel maggio e il secondo nel giugno; il movimento tellurico si è propagato, naturalmente con intensità decrescente, in quasi tutta la provincia di Ascoli Piceno e in molte località di quella di Macerata. L’u novembre di quell’anno invece la provincia di Ancona registrò un terremoto d’intensità molto forte il cui epicentro probabilmente fu in mare a una diecina di chilometri a sudest del Monte Cònero; la zona megasismica con scosse con intensità di VI grado si estese da Numana e Porto Recanati e internamente fino a Castelfidardo, il movimento cioè si propagò in misura molto maggiore lungo la costa che non nell’entro-terra, conservando la caratteristica di tutti i terremoti marchigiani con epicentro nei pressi della costa.

    La rassegna dei movimenti tellurici degli ultimi anni acquista una notevole importanza in quanto ad oltre un cinquantennio di distanza conferma i risultati degli studi del Baratta e l’esistenza nelle Marche di alcuni centri di maggiore intensità sismica, riconducibili all’area appenninica e a due zone costiere ben limitate, quelle stesse che compaiono nella carta sismica costruita dall’autore stesso per tutta l’Italia.