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Milano e le maggiori città lombarde

    Milano e le maggiori città lombarde

    Milano

    Quando sia sorto, nel luogo nel quale oggi si stende la metropoli lombarda, il primo insediamento umano non è dato di sapere. Certo il luogo doveva anche anticamente presentare dei requisiti naturali di grande vantaggio: si può infatti supporre con fondamento che il suolo tra il corso del Sèveso e quello dell’Olona, si presentasse come una prominente appendice della pianura asciutta in mezzo ad una zona di acquitrini alimentati dall’incerto corso dei fiumi e dall’insorgenza spontanea di acque dal sottosuolo (rappresentata tuttora dai fontanili). La leggenda, tramandata da un oscuro cronista del X secolo, vuole che ivi in età remotissima sorgesse un abitato denominato Alba e, a parte il nome, l’ipotesi di un aggregato preistorico potrebbe anche configurarsi senza assurdità nel quadro delle più antiche vicende lombarde. Resta comunque certo che l’antica Mediolanum, come poi venne chiamata dai Romani con nome di origine celtica che significherebbe « luogo di convegno » o « luogo di mezzo », già esisteva nel V secolo a. C. quale centro di scambi dei Galli Insubri con funzione anche di fortezza. Può essere che la fortuna dell’aggregato derivasse dall’esistenza di un luogo consacrato al culto, ma par più verosimile che l’importanza dell’antica Mediolanum si accrescesse per la sua partecipazione con i Boi e i Senoni alla lotta contro i Liguri, contro i Taurini e, soprattutto, contro la vicina Melpum la cui distruzione, avvenuta nel 396 a. C., arrestava la pressione degli Etruschi da mezzogiorno. La iconografia più antica di Mediolanum comincia con il dominio di Roma. Con la conquista effettuata da Roma, avvenuta stabilmente nel 196 a. C., al villaggio gallico si sostituì la città a pianta quadrilatera, munita di spalti e circondata da un fossato che i non lontani fiumi dovevano facilmente alimentare. Il reimpiego del materiale da costruzione usato dai Romani e le distruzioni cui Milano fu soggetta nel corso dei secoli, hanno reso tardo e difficile il riconoscimento della città romana; ma attualmente, in seguito ai profondi scavi attuati con l’edilizia moderna, è stato possibile ritrovare le vestigia sepolte da millenni, sicché par fuor di dubbio che il Foro coincidesse con il luogo ove oggi si trova Piazza San Sepolcro. Quivi s’incrociavano perpendicolarmente i due assi viari principali che uscivano dalle mura per quattro porte (Romana, Ticinese, Vercel-lina, Nuova) sulla cui direttrice si conserva il tracciato di vie quali il corso Roma e la via Manzoni. Il perimetro del primo castrimi, meno facile a individuarsi, coinciderebbe con parte dell’attuale via Torino, via San Maurilio, via Bocchetto e via Orefici: ossia un quadrilatero di 360 m. sul lato più lungo, di 200 sul lato più corto racchiudente un’area di circa 7 ettari. In periodo augusteo furono erette attorno alla città nuove mura e nel seguente periodo imperiale eseguite varie aggiunte, allo scopo di includere le parti dell’abitato di nuovo sviluppo rimaste indifese. In tal modo resterebbe comprensibile l’interpretazione del passo di Ausonio in cui si accenna a una doppia cerchia. Comunque è certo che, cresciuta la città d’importanza e divenuta il più notevole centro commerciale nell’Italia settentrionale, nel 286 d. C. l’imperatore Massimiano Erculeo la elesse capitale dell’Impero d’Occidente e non solo l’arricchì di pubblici monumenti, la dotò di condotti di scolo delle acque, ma anche la rafforzò di mura più solide, munite di torrioni, dotate di ingressi fortificati e cinte di un fossato alimentato dalle acque del Sèveso e del Nirone. Tale cerchia di forma irregolare seguiva press’a poco il tracciato lungo la congiungente tra le vie Durini, Verziere, Paolo da Canobbio, Disciplini, Cappuccio, San Giovanni sul Muro, Monte di Pietà, e, a testimonianza, rimangono nella toponomastica cittadina attuale i nomi di San Giovanni sul Muro, Santa Maria alla Porta, Ponte Vetero e Carrobbio. Oltre alle pusterle vi erano sei porte principali: la Romana, la Ticinese, la Vercellina, la Nuova, la Comacina e l’Argentea. Notevoli erano i monumenti entro la cerchia cittadina: oltre al Foro v’erano il circo, l’anfiteatro, il teatro, il palazzo imperiale e le terme di cui son rimaste tracce. Una parte dentro le mura, specie verso nordest, era a giardini e a orti e forse largo spazio era lasciato anche ai carriaggi e agli ordigni di guerra. Il Cristianesimo, che in quel tempo veniva diffondendosi nella città, non si potè nascondere nelle catacombe (impossibili a costruirsi per la natura alluvionale del sottosuolo) e gli adepti trovarono quindi rifugio nei cimiteri cristiani fuori mura. Dopo l’editto di Costantino (313) presso gli stessi, ossia fuori dalla cerchia, avvenne l’erezione di numerosi templi, quali quello dei Martiri, poi divenuto Sant’Ambrogio, quello degli Apostoli, in seguito dedicato a San Nazaro, quello della Vergine, poi divenuto San Simpliciano, quello di San Lorenzo, di Sant’Eustorgio e altri poi distrutti; tutti assieme essi formarono attorno alle mura la zona sacra, area, allora a orti suburbani, della futura espansione cittadina, al cui sviluppo contribuì forse la prima sistemazione idraulica connessa con la costruzione dei canali di derivazione dei fiumi dell’alta pianura. Tale opera, per quanto non databile con precisione, avvenne probabilmente nel periodo del massimo splendore di Milano imperiale. Prima in ordine di tempo sembra essere stata la derivazione dal vicino corso del Sèveso, le cui acque per mezzo di un canale furono guidate ad aggirare il lato orientale dell’abitato; impresa assai più cospicua fu certo la deviazione dell’Olona a Lucernate; il lungo canale (che per via catturava anche le acque della Lura e della Merlata) giungeva sul lato occidentale dell’abitato e, aggirandolo, si riuniva a sud con il fosso colmo di acque del Sèveso, dando origine alla Vettabbia, che nei secoli successivi fu anche utilizzata come arteria di navigazione. Terzo condotto, forse non in ordine di tempo ma certo d’importanza, fu quello del Nirone derivato dal Sèveso e dal Lambro con lo scopo di colmare di acqua fluente la fossa della cinta murata.

    Milano: panorama sulla città dalla torre metallica del Parco.

    Milano. Piazza dei Mercanti dalle arcate del Palazzo della Regione.

    Mentre la città si sviluppava e si organizzava all’ombra della croce, sopravvennero le incursioni barbariche. Le mura e i fossati non ebbero potere di fermare le orde di Attila che nel 451 saccheggiarono e distrussero l’abitato. La ripresa e la ricostruzione fu lenta e faticosa, ma dopo mezzo secolo Milano sembrava aver rimarginato le ferite e ricuperato vigore, allorché Uraia, mandato dal re dei Goti, giunse nel 538 con forze ingenti e, superate le rafforzate difese, mise a fuoco l’abitato. Quel che il fuoco risparmiò fu raso al suolo e Milano per qualche anno sembrò essere stata cancellata dalla faccia della Terra.

    Alla ricostruzione provvide Narsete, condottiero dell’Impero d’Oriente; nel 567, egli, vinti i Goti, ordinò di riedificare le mura e i Milanesi tornarono tra le rovine in misere capanne di legno con il tetto di paglia. La città era così scarsamente popolata che nelle piazze, dette pasquée, cresceva l’erba per il pascolo degli armenti; a tanto squallore si vuol riallacciare le denominazioni di brolo, orto, era, campo, date a luoghi del centro cittadino, già abitate, ridotte ad aree coltivate.

    Milano: la basilica di Sant’Ambrogio, soltanto un secolo fà « fuori di mano », come è detto sulla famosa poesia del Giusti, ora parte del nucleo centrale della città.

    In così tristi condizioni Milano non poteva opporre resistenza ai sopravvenienti Longobardi che la risparmiarono. Declassata nei confronti di Pavia, divenuta capitale, e anche di Monza, la città andò lentamente risorgendo dalle rovine: si edificarono nuove chiese dentro e fuori le vecchie mura, nascondendovi i corpi dei Santi, per proteggerli dai predoni, si ricostruirono gli edifici in muratura, si diè inizio a quella che sarà poi detta « la cerchia dei navigli », allora costituita da un fossato e da un terrapieno i quali, recingendo con più largo raggio l’abitato, davano possibilità di più salda difesa. Con i vescovi, investiti anche di funzioni pubbliche, il centro della vita cittadina divenne la Domus (la casa per eccellenza in cui aveva dimora il vescovo) posta in un recinto quadrangolare che inizialmente si estendeva da piazza Mercanti a piazza della Scala e che successivamente si ampliò in un complicato sistema che comprendeva diverse chiese, tra le quali la Chiesa Maggiore (poi Santa Maria Maggiore) sul luogo ove poi sorgerà il Duomo. Nell’879 l’arcivescovo Ansperto da Biassono provvide a restaurare le antiche mura, ampliandone anche lo sviluppo per includervi la zona sacra presso le Porte Vercellina e Ticinese; dentro il recinto, tra le Pusterle di Porta Tosa e del Bottonuto, risultava anche un’area boscosa, il Brolo vescovile, di proprietà dell’arcivescovo. Poco si sa dell’edilizia civile: al Cordusio vi era la curia del Duca, presso la Domus sorgeva il primo Broletto, si formavano caotiche contrade che prendevano nome dai nobili, dei Bossi, dei Visconti, dei Meravigli, dei Piatti, ecc. I negotiatores avevano i loro mercati presso la Basilica Maggiore e presso piazza Mercanti; intorno ad essi vi erano le case degli artigiani, raggruppati secondo il mestiere, in vie particolari: degli Orefici, degli Armorari, degli Spadari, degli Speronari, delle Asole, dei Pattari, dei Cap-pellari, dei Fustagnari, dei Profumari, dei Pellicciari, dei Borsinari, nomi che in parte rimangono nella toponomastica attuale. Ciò dimostra come Milano riprendesse vita anche nel campo commerciale. Fuori dalla città si estendeva la zona detta dei Corpi Santi, denominazione derivata forse dagli antichi luoghi di sepoltura dei martiri cristiani: essa aveva un raggio massimo a sud di circa 9 km., e un raggio minimo a nordest di 900 metri. Era un’area a ortaglie, a frumento, a prato e a vigna, e la sua popolazione formava una comunità distinta rappresentata in città da una deputazione provinciale.

    Schema monumentale di Milano medioevale, da un Codice della «Geografìa» di Tolomeo.

    Divenuta libero Comune, Milano, ormai forte e ricca, tendeva ad espandere il suo potere ponendosi in lotta con Como, Lodi e Pavia. Incombendo poi la minaccia imperiale, tra il 1152 e il 1157, avvalendosi dell’opera di un mastro Guintellino, Milano rimodernò le sue difese con un più valido fossato e con aggiunte alla cerchia al fine di includere i borghi circostanti di Sant’Eufemia, di Porta Romana, di Porta Orientale, di Porta Nuova e di Porta Comasina. Così rafforzata, Milano seppe resistere al Barbarossa ma, vinta per fame nel 1162, l’imperatore diè ordine di evacuare la città e i Milanesi dai Corpi Santi videro la loro fiorente città arsa e distrutta.

    La rievocazione che ne fa il Carducci, per bocca di Alberto da Giussano, è tragica:

    « Da i quattro Corpi Santi ad una ad una

    crosciar vedemmo le trecento torri

    de la cerchia; ed al fin per la ruina

    polverosa ci apparvero le case

    spezzate, smozzicate sgretolate:

    parean file di scheletri in cimitero ».

    Per quattro anni quel che soppravisse della città rimase deserto, sinché la vittoria di Legnano diè via libera alla ricostruzione. Le nuove mura vennero erette sul tracciato ellittico della cerchia dei Navigli con una deviazione fuori Porta Ticinese, per comprendere la zona dei monasteri di Sant’Eustorgio, che sarà poi nota con il nome di Cittadella. Lo spirito di ripresa fu tanto fervido che la città risorse in breve volgere di tempo e si diede anche l’avvio a opere tanto ardite per quei tempi, come la costruzione del Naviglio Grande. Ultima opera prima del tramonto della libertà comunale fu la costruzione del Broletto nuovo nell’attuale piazza Mercanti, che attirò poi attorno a sè altri edifici pubblici, tra i quali il Palazzo della Ragione.

     

    Milano: veduta aerea del centro. A sinistra del Sagrato, i Portici settentrionali con la Galleria. A destra il palazzo reale e il campanile di San Gottardo.

    Con i Visconti la città (che forse contava almeno 100.000 ab. se è vero che la terribile peste del 1361 aveva fatto, compreso il contado, 70.000 vittime) progredì in decoro: fu eretta la Badia dei Mercanti (ove ora sorge il Palazzo dei Giureconsulti), furono costruite le cloache con scarico nei canali, furono riordinate le strade; ma l’innovazione destinata a maggiori conseguenze urbanistiche fu indubbiamente l’inizio della costruzione del Castello di Porta Giovia avvenuto nell’anno 1358. Infatti il castello, tenne sgombro verso la campagna un ampio settore, che, utilizzato allora per gli esercizi militari e in seguito trasformato in parco, resterà la più ampia oasi di verde nella massa densa e chiusa della città moderna. Con Gian Galeazzo poi si diè inizio nel 1386 alla costruzione del Duomo, che, espandendosi sull’area di Santa Maria Maggiore e di Santa Tecla, poneva le premesse urbanistiche della futura Milano: «ne consacrava cioè il centro (donde la forma urbana, monocentrica e stellare), stabiliva un nuovo orientamento viario da est a ovest e da nord a sud, destinato a suggerire agli edili futuri i rigori di un sistema ortogonale. Il millenario tracciato romano, impiantato di sbieco rispetto all’ago magnetico, subisce un primo inevitabile smantellamento; di qui tutti i futuri compromessi urbanistici della Milano moderna ».

    Pianta di Milano, del 1573. Sono messi in evidenza i bastioni delle mura spagnole e il Castello (che rispetto al centro trovasi a nordovest); visibile è anche la cerchia del Naviglio interno.

    Con gli Sforza Milano s’aprì ai rinnovamento rinascimentale: si procedette al completamento del Castello, si diè inizio alla costruzione dell’Ospedale maggiore (l’attuale sede dell’Università) nel 1456, si intrapresero gli scavi della Martesana nel 1457, si edificò il Lazzaretto, si rafforzarono le difese cittadine, si elevò il tempio di San Celso. Con Ludovico il Moro, Milano raggiunse l’apice della prosperità e dello splendore; i commerci e le industrie prosperavano; uomini insigni di tutti i campi vi accorrevano, e, tra essi, Leonardo da Vinci che qui lasciò tracce imperiture del suo genio. La città, secondo il Corio, storico dell’epoca, contava 18.300 case, per cui si può ritenere che la popolazione fosse di circa 130.000 anime.

    Con la caduta di Ludovico il Moro iniziò la dominazione straniera francese e spagnola, breve e incolore la prima, lunga e triste la seconda. La città andò decadendo e la popolazione, falcidiata dalla peste, diminuì sensibilmente. Nel 1542 si sarebbero avuti 11.415 fuochi con circa 80.000 anime. Nel 1636 ancora meno, forse 60.000.

    Tuttavia nella struttura urbanistica della città la dominazione spagnola lasciò tracce profonde. Già dal tempo dei Visconti era stata elevata una linea esterna fortificata, circondata da un proprio fossato, il Redefosso, che includeva i borghi fuori dalle mura di Azzone. Ingranditasi però la città, la cortina settentrionale delle mura risultò avvolta dai nuovi edifici e defilata dai terminali sporgenti dalle stesse mura, sicché tra il 1525 e il 1527 verso il borgo degli Ortolani, dove entrava il Nirone ad alimentare il fossato del Castello, si aggiunse un’opera difensiva « a tenaglia » (nome che restò poi al borgo attiguo). Poi fu la volta del Castello a trovarsi racchiuso entro l’abitato in espansione, e i borghi a ridosso di esso, oltre a essere esposti all’offesa, costituivano un intralcio alla difesa; infine l’assieme delle fortificazioni risultava ormai superato dall’artiglieria. Si imponevano opere nuove militari e nel 1548 il governatore Ferrante Gonzaga deliberò di edificare i bastioni, munitissima cerchia poligonale a nove punte, con raggio press’a poco di un chilometro dal centro, in modo da includere tutti i sobborghi circostanti l’antiche cerehie. Ne risultarono inclusi anche larghi spazi di verde, a giardini e a orti. Sei porte, sul prolungamento delle antiche di maggiore importanza, convogliavano tutto il movimento verso la campagna. L’antico fossato della cintura medioevale, ormai perduto il ruolo difensivo, divenne un’arteria di comunicazioni collegata con il Naviglio Grande e con la Martesana.

    La struttura cittadina così delineata non mutò gran che nei successivi secoli sino all’unità d’Italia. Il fatto più notevole per l’urbanistica milanese fu nel secolo XVIII la confisca dei possessi ecclesiastici. Ben 46 conventi furono adibiti a usi civili o abbattuti per lasciar spazio a nuove costruzioni pubbliche; tra queste il Teatro della Scala. La città intanto si accresceva nell’àmbito delle mura, occupando lentamente gli spazi verdi ancora liberi tra i borghi lineari allungati lungo le rotabili. Nel 1801 la superficie fabbricata era di 3 milioni di metri quadrati sui circa 7 milioni dell’area racchiusa dalle mura; nel 1859, alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia, l’area fabbricata s’era accresciuta di circa 900.000 metri quadrati. Lo spazio entro le mura era dunque più che esuberante alla popolazione di allora, che dalle statistiche del tempo risultava di no.ooo ab. nel 1760, di 115.000 nel 1801, di 178.000 nel 1841 senza i Corpi Santi. Riguardo a questi (costituiti da borghi rimasti fuori dalle mura) i molti mutamenti amministrativi lasciano incerti sulla veridicità dei dati della relativa popolazione. Comunque, volendo assommare la loro popolazione a quella propriamente cittadina, la popolazione di Milano negli anni precedentemente specificati dovrebbe modificarsi rispettivamente in 124.000, 135.000 e 207.000 abitanti.

    Milano: la Galleria Vittorio Emanuele II verso Piazza della Scala.

    Con l’avvento napoleonico la città subì un notevole rinnovamento. Il Castello, cessato il suo ruolo militare, fu destinato a usi civili; le difese circostanti furono abbattute e con i rottami fu colmata la fossa che lo attorniava. Sull’ampio spazio così formatosi avrebbe dovuto sorgere un grandioso Foro dedicato al Bonaparte e destinato, secondo il piano regolatore (il primo di una lunga serie) a nuovo centro di affari per alleviare l’eccessiva concentrazione attorno al Duomo. Il progetto non fu realizzato e sorse invece, sul luogo dell’antica « tenaglia », l’Arena, la prima di costruzioni consimili, capace di 30.000 persone. Oltre il Parco fu poi aperta la Strada del Sempione, ampia arteria sulla dirittura dell’Arco della Pace che costituisce ancor oggi una della strade più belle e più frequentate di Milano.   

     Notevole fu anche il rinnovamento cittadino. Il palazzo di Corte Vecchia fu trasformato in Palazzo Reale e il Corso (antica Corsia dei Servi) venne completamente trasformato.

    Popolazione presente, natalità e mortalità a Milano dal 1884 al 1951.

    Milano: il Teatro della Scala. In primo piano il basamento del monumento a Leonardo da Vinci.

    Il Duomo, ormai svettante sulla città con la sua alta guglia centrale (m. 108,50), fu completato con la contrastante facciata.

    L’unione all’Italia dava inizio a un periodo di grandioso sviluppo, fervido di iniziative. Nel 1873 avvenne l’annessione definitiva dei Corpi Santi, e in tal modo si venne a costituire un circondario interno e uno esterno. Nel 1877 venne realizzata, su progetto dell’architetto Mengoni, la sistemazione della piazza del Duomo che rappresentò un atto di fede nella futura grandezza di Milano. L.a grande piazza rettangolare fiancheggiata da edifici con portici e con la galleria inclusa nel palazzo settentrionale «sovvertiva l’intero centro cittadino, in contrasto con la superstite rete viaria, fonte di compromessi per ottenere una saldatura tra vecchio e nuovo » (F. Reggiori). Attorno al vecchio centro era un pullulare di artigiani e di piccole industrie, prodromi del futuro sviluppo. Intanto venivano via via colmandosi i vuoti nell’interno della cerchia dei bastioni, in un caotico alternarsi di abitazioni e di industrie, e l’abitato si dilatava anche fuori specialmente lungo le vie di comunicazione.

    Ad accelerare la trasformazione cittadina si delineò un altro fattore di notevole peso: lo sviluppo ferroviario. All’unità d’Italia le ferrovie in esercizio erano la vecchia Milano-Monza prolungata sino a Camerlata, la Milano-Magenta, che faceva capo a una stazione presso l’attuale via Melchiorre Gioia, e la Milano-Peschiera, che faceva capo a una stazione presso Porta Vittoria. L’ulteriore sviluppo ferroviario con Torino, Genova, Piacenza, Gallarate e Lecco impose la necessità del raccordo di tutte le linee con un’unica grande stazione. Questa venne costruita a nordest della città poco fuori dai Bastioni e aperta al traffico nel 1864. L’anno successivo veniva inaugurata anche la stazione sussidiaria di Porta Genova. Il fatto non fu senza riflessi: aree prossime alle due stazioni, che sin allora erano dedicate alle colture, vennero rapidamente occupate da nuovi estesi quartieri. Si rese necessaria allora anche una rete di comunicazioni cittadine e nel 1881 uscirono i primi tram a cavalli.

    Per quanto la popolazione non crescesse molto rapidamente (nel 1871 Milano contava ancora 261.000 ab.), il ritmo costruttivo divenne tanto notevole da rendere necessario un piano regolatore che fu predisposto da Cesare Beruto nel 1884; tale piano, approvato nel 1889, disciplinò poi sino a tutto il primo decennio del nostro secolo lo sviluppo cittadino, accentuandone lo sviluppo stellare lungo le vie irradianti dalla piazza del Duomo. Merito del piano fu quello di avere promosso il raggruppamento di edifici con uniformità di funzioni in quartieri, preludio di una « zonizzazione » modernamente intesa. Si formò il quartiere residenziale prossimo al Parco del Castello (via XX Settembre), il quartiere ospitaliero sull’antico brolo (via Francesco Sforza), il quartiere degli Istituti universitari (Città degli Studi), il quartiere degli approvvigionamenti (Porta Vittoria) sul luogo di antiche fortificazioni austriache. La cerchia delle mura spagnole, ormai superflue, venne parzialmente distrutta per far posto a un viale spazioso della Circonvallazione interna. All’esterno delle mura la città si dilatava a macchia d’olio sul disegno di arterie parallele e radiali ai lati del poligono formato dalle mura. II presumibile ampliamento cittadino veniva circoscritto da un ampio anello di strade, chiamato della Circonvallazione esterna.

    Ma con lo sviluppo industriale l’espansione della città assumeva un ritmo imprevisto: i 261.000 ab. del 1871, nel volgere di soli trent’anni, quasi raddoppiavano; infatti all’inizio del secolo la popolazione era ormai prossima al mezzo milione di abitanti e la superficie fabbricata era di ben 10 milioni di metri quadrati. Già nei primi anni del secolo circa 300 case d’abitazione e 50 opifici erano sorti al di fuori del piano Beruto e si rendeva quindi necessario predisporre un nuovo piano che fu ideato dagli architetti Pavia e Masera e varato nel 1912 ; oltre ad opportune sistemazioni interne, come l’apertura del corso Italia e lo sventramento di parte del quartiere prossimo a San Bàbila, si diè ordine allo sviluppo dei quartieri ai margini della città.

    Dopo la stasi determinata dalla guerra 1915-18 seguì una formidabile ripresa edilizia per cui si rendeva urgente una disciplina urbanistica secondo criteri più moderni. Per questo si presentava anzitutto necessaria l’aggregazione dei comuni limitrofi ormai compresi nella sfera della metropoli, i confini comunali della quale si presentavano particolarmente angusti verso le parti di maggiore espansione edilizia. Milano s’ingrandì quindi con l’annessione dei territori di Baggio, Trenno, Musocco, Affiori, Niguarda, Greco, Gorla-Precotto, Crescenzago, Turro, Lambrate, Chiaravalle e Vigentino e di alcune frazioni. La superficie comunale si espandeva così da 75 kmq. a 185 circa e si raggiungevano gli 860.000 abitanti. Si rendeva pertanto necessario un nuovo piano regolatore che, elaborato sul progetto Portaluppi e Semenza, venne approvato nel 1934.

    Milano: la facciata originale di Palazzo Marino e la chiesa di San Fedele, con il monumento al Manzoni.

    Intanto erano avvenute realizzazioni non trascurabili anche se non tutte adatte ai nuovi tempi. Tra l’altro nel 1931 era stata aperta al traffico la nuova grandiosa stazione, edificata sull’antico ippodromo in posizione più arretrata della precedente, ma purtroppo su progetto, come rivela lo stile, risalente al 1906 e non in tutto funzionale. Davanti alla stazione si stendeva un nuovo ampio spazio che, abbattuti i bastioni, venne sistemato in ampia piazza, oggi della Repubblica. Anche altrove i bastioni venivano a poco a poco spianati sicché attualmente rimangono solo alcune vestigia. Fu coperta via via anche la fossa interna dei Navigli (non senza rimpianti per gli scorci suggestivi dell’antica Milano che essa ancora conservava) e sulla copertura si sviluppò la strada ad anello che ancor oggi conserva il nome di Cerchia dei Navigli. Sull’area della vecchia Piazza d’Armi veniva sistemata la Fiera campio

    naria già ospite precedentemente dei Bastioni di Porta Venezia. Larghi sventramenti facevano posto al grandioso Palazzo di Giustizia, al nodo stradale di San Bàbila, al nuovo corso Littorio (ora Matteotti). Così pian piano la vecchia Milano, non priva di un suo fascino romantico, spariva per dar luogo alla metropoli industriale e commerciale.

    A cancellare il vecchio volto contribuirono crudamente gli indiscriminati bombardamenti aerei durante gli anni dell’ultima guerra; più di due quinti dei vani abitabili furono perduti per crollo o per fuoco, ossia 360.000 su 930.000 esistenti.

    Schema degli ampliamenti della città e del comune di Milano.

    1, area di Milano romana; 2, I ampliamento; 3, II ampliamento; 4, cinta delle mura imperiali; 5, cerchia medioevale dei Navigli; 6, bastioni spagnoli; 7, confini comunali verso il 1860; 8, confini comunali nel 1874 (dopo l’aggregazione dei Corpi Santi) e divisioni in zone; 9, territorio del comune di Greco aggregato nel 1904; 10, territori di Morsenchio e Triulzio aggregati nel 1917; 11, territorio di Turro aggregato nel 1918; 12, territori di Lorenteggio e Ronchetto aggregati dopo il 1923; 13, limiti attuali del Comune; 14, territorio temporaneamente aggregato nel 1923; 15, limite approssimato dell’attuale aggregato urbano.

    Milano: la Cà’ de Sass, sede della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, grande e benefico istituto bancario, fondata nel 1823.

    Altri 200.000 vennero inoltre danneggiati. Intieri quartieri scomparvero in un cumulo di rovine, molte vie furono cancellate sotto l’ammasso delle macerie. E, sotto, morti e morti. Non vennero risparmiati neppure monumenti insigni come il Duomo, mozzato di diverse guglie, il Cenacolo di Leonardo, la Pinacoteca di Brera, il Teatro alla Scala, la Basilica di Sant’Ambrogio, il Palazzo Marino, ecc. Sembrarono, allora, rinnovarsi, moltiplicate smisuratamente, le crudeltà del Barbarossa.

    Il dopoguerra diede una superba dimostrazione della capacità di ripresa e della vitalità della città lombarda. Rimosse rapidamente le macerie, l’opera di ricostruzione fu immediata. Nel volgere di un decennio le ferite erano in gran parte cancellate e sulla rinata città cominciarono a levarsi i grattacieli, quasi simbolo di nuovo ardimento e di indomabile volontà. Il piano urbanistico in atto prevede la costruzione di grandi assi viari di penetrazione nell’aggregato urbano, la creazione di un centro direzionale tra la Stazione Centrale e viale Zara, l’arretramento della stazione delle ferrovie varesine, la più netta delimitazione della città in zone, conservando alle industrie aree periferiche particolarmente adatte. Il fervore di ricostruzione e di rinnovamento che ha caratterizzato il dopoguerra non è diminuito con il passare degli anni, anzi può dirsi accresciuto dalla necessità di continuo adeguamento alle crescenti esigenze determinate dall’accrescersi della popolazione e dalla intensa attività commerciale: esempio lampante è la costruzione in atto della metropolitana, che avrà senza dubbio riflessi per molti aspetti notevoli. Tra questi un accentuarsi delle caratteristiche distributive della popolazione che già oggi si possono cogliere con evidenza.

    Vedi Anche:  insediamento urbano e rurale

    A tal proposito la situazione può essere così brevemente delineata. Il quadro della Milano ottocentesca ci presenta il nucleo cittadino entro la cerchia dei Navigli fitto di dimore d’abitazione e di botteghe di artigiani, già saturo di abitanti; nell’anello compreso tra la Cerchia dei Navigli e le mura spagnole è quindi la zona delle nuove dimore e delle industrie che vanno colmando i residui spazi verdi; già qualche gruppo di dimore e di opifici comincia a espandersi fuori le mura, ma si tratta ancora di modesti borghi. Infatti nel 1861 su 242.000 ab. del comune di Milano solo 46.000 risiedevano fuori dalle mura. In un periodo non precisabile, ma che può forse collocarsi subito dopo la prima guerra mondiale, anche tra le mura spagnole si raggiunge la saturazione e lo sviluppo cittadino può aver luogo solo fuori mura. Tutto sin qui appare ovvio; ma è interessante aggiungere che almeno sin dall’inizio del secolo le statistiche dimostrano una quasi costante e sensibile diminuzione della popolazione dentro la Cerchia dei Navigli: da 113.000 residenti nel 1901 si passa a 68.000 nel 1951. Il fatto è spiegabile con lo sviluppo delie sedi di rappresentanza, degli istituti bancari, degli empori, ecc., nell’àmbito della Cerchia. Ad ogni rinnovo edilizio alle dimore di abitazione si sostituiscono uffici commerciali, costretti da esigenze di attività a trovar una sede nel centro e in grado di sostenere gli altissimi prezzi d’acquisto o gli elevatissimi canoni d’affitto. La zona dentro la Cerchia manifesta quindi un’evidente tendenza a divenire una city di affari. E interessante poi notare che man mano che la città si dilata in periferia anche la city sembra espandersi. Si sarebbe portati a dedurlo dal decrescere progressivo, anche nell’anello tra la Cerchia dei Navigli e la circonvallazione, della popolazione dal 1921 in poi: 152.000 ab. nel 1921, 132.000 nel 1931, 129.000 nel 1936, 125.000 nel 1951. La città fuori delle mura spagnole è l’area del grande aumento: i 46.000 ab. del 1861 sono divenuti 1.082.618 nel 19511 Ciò determina nel movimento cittadino un’ondata mattutina e pomeridiana di decine e decine di migliaia, anzi si potrebbe dire, senza tema di esagerazione, di centinaia di migliaia di lavoratori, soprattutto impiegati, dall’anello esterno della città verso il centro, e un’ondata in senso inverso al tocco e a sera.

    Milano: Piazza della Repubblica (a destra) e via Vittor Pisani, presentano l’aspetto moderno della città.

    Schema dimostrativo della distribuzione delle industrie in Milano nel 1881.

    Schema dimostrativo della distribuzione delle industrie in Milano nel 1910.

     

    Schema dimostrativo della distribuzione delle industrie in Milano nel 1958.

    Ancor più netta ed evidente è stata la trasmigrazione delle industrie. Verso il 1880 e negli anni immediatamente successivi le industrie presentavano una maggior densità entro la Cerchia dei Navigli ed era comprensibile dato che esse stavano allora sbocciando dall’artigianato e le scarse dimensioni non ponevano ancora problemi di spazio. Maggiore era il numero delle fabbriche nell’anello tra i Navigli e le mura spagnole, ma, in rapporto al maggiore spazio, assai meno fitte; esse si allineavano soprattutto lungo le maggiori arterie e particolarmente lungo quelle dirette a nord e a sud. Modesto era ancora lo sviluppo industriale fuori dalle mura; vi erano solo alcuni raggruppamenti presso gli scali ferroviari (Centrale e Genova) e presso le Porte Ticinese e Tenaglia. Rispetto ai singoli rami industriali non si notavano raggruppamenti evidenti; si può tuttavia notare che le industrie che traevano propriamente origine dall’artigianato, quali l’oreficeria, la tipografia, il maglifìcio, il nastrifìcio, la lavorazione del legno, delle pelli, ecc., prevalevano, almeno come numero se non come entità, entro la Cerchia dei Navigli; le industrie tessili erano dislocate di preferenza lungo i canali, ancora tutti allo scoperto; le industrie nuove, come le meccaniche e le chimiche, erano prevalenti nella zona periferica, sia dentro che fuori le mura spagnole.

    Alla vigilia della prima guerra mondiale la situazione era già notevolmente modificata. L’industria aveva già assunto notevoli proporzioni e i maggiori impianti, sia per ragioni di spazio, sia per ragioni di costi, sia anche per ragioni d’igiene, avevano posto la loro sede al di fuori della Cerchia dei Navigli, ma dentro e fuori la cerchia della circonvallazione. L’area dentro i Navigli già cominciava a svuotarsi di industrie. In breve i nuovi palazzi d’abitazione e per uffici commerciali prendevano in centro il posto delle officine; queste sorgevano ad occupare l’area già degli orti suburbani e gli orti erano sospinti più all’esterno. Ma la spinta dal centro verso la periferia non si manifestava uniforme su ogni lato e già il settore settentrionale, a causa della maggiore asciuttezza del suolo e della maggiore disponibilità di mano d’opera, aveva assunto un più intenso sviluppo. Comunque, il problema della zonizzazione non si era sino allora affermato rigidamente e le industrie si erano andate disponendo ad anello, ciò che sarà causa di gravi problemi in decenni più recenti. Ai nostri giorni le industrie sono sparite del tutto dalla zona interna dei Navigli. Si sono rarefatte notevolmente anche nell’anello interno alla circonvallazione e vanno riunendosi in zone all’estrema periferia, cercando anzi spesso una nuova sede fuori dell’amministrazione del comune milanese.

    Questo esodo delle industrie dal territorio comunale (specialmente verso l’alta pianura e la collina) è un fatto del tutto recente, ma ha avuto i suoi prodromi durante l’ultimo conflitto, allorché la minaccia di distruzioni aeree sollecitò il trasferimento (quando naturalmente l’attrezzatura lo consentiva) dalla città alla campagna; cessata la guerra, non in ogni caso si verificò un nuovo trasferimento nella precedente sede cittadina. In seguito i criteri restrittivi del piano regolatore del 1953 ispirato al principio di allontanare le industrie dall’aggregato urbano e di raggrupparle in aree riservate a tale scopo al limite del territorio comunale, hanno avuto risultati parzialmente differenti da quelli previsti. Infatti, un buon numero di piccole e medie industrie (nel 1959 se ne annoveravano circa 600) hanno trovato sede più conveniente, anziché nelle zone all’uopo prediposte, presso i centri minori al di fuori del territorio propriamente milanese. Perdurando tale fatto, le conseguenze di ordine sociale e soprattutto economico, potrebbero essere sensibili, ma non allarmanti nella misura che l’amore cittadino può indurre a prospettare; piuttosto tale fatto dovrebbe sollecitare l’urgenza di un preveggente coordinamento tra il piano regolatore urbanistico e il piano regolatore regionale perchè gli sviluppi futuri siano armonicamente indirizzati.

    Lo sviluppo industriale di Milano, per quanto imponente, non deve far dimenticare altre prerogative della città, come quella di centro finanziario, bancario, commerciale in cui ha una preminenza non solo regionale ma addirittura nazionale, preminenza che si è affermata sempre più nettamente negli ultimi decenni. La molteplice caratteristica della città si rispecchia del resto in modo abbastanza evidente nella struttura cittadina.

    Milano modernissima: il grattacielo Pirelli.

    Il nucleo cittadino, delimitato approssimativamente dall’anello stradale che sostituisce l’antica Cerchia dei Navigli, ospita ormai quasi esclusivamente istituti finanziari e bancari e rappresentanze commerciali. L’edilizia, profondamente rinnovata dopo la guerra, non ha alterato la sua struttura fondamentale, adottando tuttavia opportune soluzioni per agevolare l’intenso movimento. Ne è tipico esempio la via Vittorio Emanuele che dalla parte absidale del Duomo si dirige verso largo San Bàbila (dove s’innesta nel corso Venezia diretto alla Porta omonima); si tratta di una delle vie più frequentate della città e nel rinnovamento recente, che offre una suggestiva prospettiva di architettura moderna, si sono disposti, affiancati alla sede viaria, due ordini di portici, dei quali il settentrionale risulta in prosecuzione dei portici della piazza del Duomo. Nel complesso il nucleo cittadino va rinnovandosi rapidamente e assumendo un aspetto del tutto moderno non certo privo di bellezza; in genere lo sviluppo edilizio in altimetria è contenuto dalla necessità di dar respiro alle vie, che, per quanto ampliate, hanno ereditato l’angustia dei vicoli medioevali, e soprattutto dalla opportunità di mantenere inalterato il dominio della imponente mole del Duomo. Questo costituisce il monumento massimo della città e con il suo sontuoso sagrato occupa il centro geometrico del nucleo urbano. L’immensa costruzione (coi suoi 11.700 mq. è la seconda chiesa del mondo per superficie), sostenuta da una potente ossatura in granito (ghiandone) e rivestita dal marmo rosato di Candoglia, è frutto di sei secoli di lavoro e di collaborazione collettiva mantenutasi fedele, in complesso, ai princìpi dell’architettura gotica; ne discorda tuttavia la facciata in cui malamente s’inseriscono elementi di stile classico. La ricca ornamentazione, special-mente statuaria (di statue ve ne sono 2245 all’esterno e 914 all’interno), s’accentua verso l’alto in un leggiadrissimo ricamo che dagli archi rampanti fiorisce in una selva di eleganti pinnacoli coronati di statue; domina su di essi, al centro della crociera, il tiburio che regge in vetta, a m. 108,50, una statua in rame dorato della Madonna, « la Madonnina », divenuta quasi un simbolo della città. L’interno del Duomo, nella tenue luce filtrata dai policromi finestroni, è grandioso e severo; 52 pilastri disposti su quattro allineamenti distinguono le cinque navate di cui la mediana è di ampiezza doppia delle laterali. La grandiosa mole richiede un’opera di manutenzione e di completamento vigilante e continua e ad essa sovraintende la « Fabbrica del Duomo » cui si devono, in anni recenti, i restauri ai danni portati dalla guerra e il collocamento dei portali laterali in bronzo.

    Milano: la darsena di Porta Ticinese (a destra in basso, il Naviglio Grande e il Naviglio di Pavia).

    Pianta di Milano.

    Milano: le attrezzature sportive a San Siro.

    Il sagrato, a forma rettangolare, affiancato da costruzioni simmetriche a porticato, costituisce il centro delle manifestazioni cittadine e luogo tradizionale di convegno dei Milanesi. Sul suo lato settentrionale, s’apre con un grande arco di trionfo la galleria Vittorio Emanuele, a quattro bracci disposti a croce, coperti da luminose vetrate; un braccio s’apre su piazza della Scala in cui si affacciano il cinquecentesco Palazzo Marino e « La Scala », il più celebre teatro lirico d’Italia. Della parte monumentale del centro cittadino meritano di essere segnalati il Palazzo della Ragione (1228-33), l’edificio più insegne dell’antico nucleo medioevale, la vicina piazza dei Mercanti che costituiva il Foro ed era originariamente chiusa, con sei porte in corrispondenza dei rispettivi rioni cittadini, e, a fianco, la Loggia degli Osii (1316), in marmi bianchi e neri, a loggiati sovrapposti. Notevole, a fianco del settecentesco Palazzo Reale, che s’affaccia parzialmente sul sagrato, la chiesa di San Gottardo (1336) dal bel campanile ottagonale in laterizi e marmi, sormontato da un elegante coronamento colonnare.

    L’idroscalo, bacino artificiale a occidente della città, sede di manifestazioni sportive.

    Alla periferia del nucleo cittadino i monumenti più insigni delle diverse età sono : la Basilica di San Lorenzo Maggiore, la Basilica di Sant’Ambrogio, il Castello Sforzesco e la Ca’ Granda. La Basilica di San Lorenzo, presso la medioevale Porta Ticinese della cerchia eretta nel 1171, è uno dei monumenti più notevoli del periodo paleocristiano. La sua costruzione risale alla metà del IV secolo e i successivi restauri ne rispettarono sostanzialmente la forma originaria a pianta centrale coperta da una maestosa cupola. Antistante alla basilica si levano sedici colonne marmoree, con capitelli corinzi, del II secolo, tratte da un edificio romano per formare un quadriportico antistante alla chiesa. La Basilica dedicata a Sant’Ambrogio, patrono di Milano, è una stupenda costruzione di architettura romanica lombarda del secolo XII; sorge sull’antica area del cimitero cristiano ad Martyres, che, nei primi secoli del Cristianesimo, trovavasi fuori Porta Vercellina; nel secolo XII venne a trovarsi inclusa nella cerchia murata e la vicina « pusterla di Sant’Ambrogio », già affacciata sul Naviglio con doppio fòrnice e doppio torrione, ne è la superstite attestazione. La severa costruzione basilicale costituisce un’oasi tranquilla nella frenetica vita cittadina e custodisce auguste memorie della storia milanese; è prevalentemente in laterizi armoniosamente associati alla pietra; il predominio dell’arcata non intacca la possente struttura, che ha sfidato non solo il tempo, ma altresì lo scempio dei bombardamenti aerei. Il Castello Sforzesco è un maestoso complesso di costruzioni in laterizi restituito alle sue originarie forme quattrocentesche da grandi restauri. La pianta quadrata, con lati di 200 m., presenta la parte più suggestiva rivolta al centro cittadino: sopra il grande portale d’ingresso, s’eleva la Torre del Filarete (m. 70), vigilata agli spigoli da poderose torri cilindriche, che offre prospettive di notevole bellezza lungo l’ampia via Dante che si dirige al Duomo. La Ca’ Granda, l’antico Ospedale Maggiore, è uno dei più insigni monumenti quattrocenteschi della città; la parte migliore è quella del Filarete, riccamente decorata in cotto, in cui si fondono elementi gotici e rinascimentali; nella ricostruzione, dopo i gravi danni determinati dai bombardamenti aerei, si sono rispettate le forme originarie esterne, adattando modernamente l’interno a sede universitaria.

    L’anello urbano tra la Cerchia dei Navigli e la circonvallazione (che rappresenta il tracciato delle mura spagnole) è area di sviluppo dei secoli XVIII e XIX, special-mente di quest’ultimo. La sua più recente età si rivela non solo nell’architettura, ma altresì nel tracciato delle vie, più ampie e rettilinee (o meno contorte) e nel miscuglio frequente delle costruzioni industriali inserite tra quelle civili. Il rinnovamento edilizio procede anche in questa parte, come nella centrale, ma meno rapido e più sporadico. Anche le costruzioni monumentali sono meno frequenti e le più insigni rappresentano le sedi religiose preesistenti alla Cerchia spagnola, come Sant’Eustorgio, sul luogo di un cimitero cristiano del IV secolo, e Santa Maria delle Grazie, convento dei domenicani del secolo XV. La Basilica di Sant’Eustorgio, eretta nel secolo XII (in sostituzione di una più antica chiesa) e successivamente completata con il chiostro dei monaci domenicani e con le cappelle gentilizie, è un prezioso monumento d’arte lombarda; sorge presso il propileo che ricorda la vittoria napoleonica di Marengo innalzato in luogo degli archi delle scomparse mura spagnole che, per essere in prosecuzione di quelli dei Navigli, ereditarono il nome di Porta Ticinese, ed è secolare usanza ambrosiana che i novelli arcivescovi della metropoli facciano il loro ingresso in città partendo dalla basilica. La Basilica di Santa Maria delle Grazie si trova sulla direttrice di Porta Magenta; con l’annesso chiostro, in cui ebbero sede sin dalla fondazione i domenicani, è una delle opere più suggestive del rinascimento lombardo; in essa il corpo anteriore, del Solari, conserva le forme originarie di un gotico di transizione, mentre la tribuna, che s’innesta a guisa di cubo triabsidato, rivela l’inconfondibile impronta del Bramante. Nell’antico refettorio del convento è custodita la Cena, opera celeberrima di Leonardo da Vinci, che, nonostante il grave stato di deperimento, conserva intatta la suggestione delle « divine proporzioni » di composizione.

    Fuori dalla cerchia della circonvallazione si espande la città moderna; l’edilizia, salvo lungo le antiche vie radiali, ha un manifesto carattere di attualità; le vie sono ampie e per lo più rettilinee, le piazze grandiose e ben dislocate; rare tuttavia le oasi di verde. Nell’ampia cerchia si possono individuare alcuni settori di più fitto addensamento industriale, come quelli di San Cristoforo e della Barona a sudovest, della Cagnola e della Bovisa a nordovest, di Greco e di Turro a nordest, di Lam-brate a est, di Rogoredo a sudest. Il settore di San Siro, a ovest, si inserisce come area delle manifestazioni commerciali e sportive; vi si trova anzitutto la Fiera Campionaria, sorta sul luogo della Piazza d’Armi, con il grandioso Palazzo dello Sport, e, in vicinanza il Velodromo Vigorelli, giudicato tra i migliori d’Europa; poi il Lido di Milano, con due piscine e campi di pattinaggio e tennis, il vasto Ippodromo, il Trottatoio e lo Stadio calcistico capace di 100.000 spettatori.

    Varese

    Varese giace su un ripiano (382 m.) circondato da amenissime colline ai piedi delle Prealpi occidentali della Lombardia, da cui s’erge, in posizione dominante, il Campo dei Fiori, ospitante su uno sprone il celebre Santuario del Sacro Monte. La città ha un aspetto moderno ed è infatti città moderna la cui importanza trae soprattutto origine dal rapido sbocciare di una rigogliosa attività industriale. Per quanto si trovi in mezzo a una zona di insediamenti preistorici, e in particolare palafitticoli, la sua storia ha inizio con il Medioevo, quale borgo fortificato del contado del Seprio; ma esso non si distinse per vicende particolari, soggetto prima all’autorità dell’arcivescovo di Milano, poi a quella dei Visconti e degli Sforza. Dopo un breve periodo di amministrazione autonoma, in quanto possesso staccato del Duca di Modena (1765-80), divenne, con la formazione della Repubblica Cisalpina, capoluogo del distretto del Verbano; ma già nel 1801 rientrava nell’ombra, assorbito nel Dipartimento dell’Olona. Si trattava del resto ancora di un borgo, con poche migliaia di abitanti, noto come luogo di villeggiatura, ma di fama minore di quella che già godeva il soprastante Sacro Monte.

    Il 26 maggio 1859 i Cacciatori delle Alpi entravano in Varese dopo una vittoriosa battaglia a cui i cittadini portarono valido contributo. Con l’unità d’Italia cominciò il grande sviluppo di Varese, cauto agli inizi e successivamente rapido e grandioso, favorito in un primo tempo dal moltiplicarsi delle comunicazioni con Milano poi incoraggiato dall’erezione della città a capoluogo di provincia (1927). L’aggregato urbano, che nel 1861 aveva ancora 5000 ab., all’inizio del secolo ne contava tre volte tanti e, nel 1951, 36.000; ma, essendo, come centro moderno, assai disperso, occorre computare anche la popolazione dei sobborghi e delle ville sparse nell’ambito comunale; in totale, nello stesso anno 1951, Varese registrava 53.000 unità.

    Il nucleo centrale dell’aggregato urbano ha forma ovoidale allungata da nord a sud; esso rappresenta il borgo antico che, prima del rinnovamento edilizio, rivelava, più evidente che non ora, un aspetto cinquecentesco. Di tale periodo è anche il rifacimento della Basilica di San Vittore che è al centro del vecchio nucleo. Con lo sviluppo della città moderna il centro cittadino è stato spostato al margine meridionale dell’antico aggregato; esso, ricavato dalla demolizione di un vecchio quartiere, fa perno ora nella vasta piazza Monte Grappa (1927-35). La città nuova non ha potuto estendersi a macchia d’olio; l’ostacolo frapposto dalle colline ha determinato l’espansione dell’aggregato in forma grossolanamente stellare a tre punte, una in direzione sud e le altre rispettivamente nordest e nordovest. La collina che s’interpone a sudovest è, sul versante rivolto alla città, ornata di un magnifico parco e in versante opposto è tutta ville e giardini. Pure a ville e giardini è lo stupendo pendio che dolcemente

    risale verso nord, a Sant’Ambrogio e al Sacro Monte. Le centinaia e centinaia di villette linde e aggraziate, che si estendono ininterrottamente fino alle castellarne, o sobborghi (alcuni dei quali fanno ormai un tutto unico con la città), danno l’impressione della città-giardino, cui altre città lombarde vanamente aspirano e Varese già possiede, sicché l’attività industriale, pur così intensa, rimane quasi celata e più che altro s’avverte nel vivacissimo movimento cittadino.

    Varese: il Palazzo Ducale (ora Municipio) fatto erigere da Francesco II d’Este, duca di Modena, con il Parco, ora Giardino pubblico.

    Varese: il centro della città

    Como

    Como giace all’àpice del ramo sudoccidentale del Lario, in una conca amenissima, aperta a settentrione sullo specchio lacustre, circondata sul lato orientale dalle ultime propaggini delle Prealpi e protetta sugli altri lati da basse colline conglome-ratiche che la immane colata del grande ghiacciaio quaternario ha modellato in morbide forme. Il fondo della conca su cui la città si espande è almeno in parte di colmamento morenico e alluvionale e la cimosa marginale lungo il lago è di col-mamento artificiale. Quando il primo insediamento umano sia ivi avvenuto non è possibile indicare con precisione; ma, considerando la posizione del luogo, naturalmente riparato e protetto, non si favoleggia presumendolo molto antico; non si sa tuttavia quanto si possa prestar fede a Plinio secondo il quale la città sarebbe stata fondata, come Bergamo, dagli Orobi. Ma più che nel luogo ove oggi giace la città, forse ancora minacciato in parte dalle acque del lago e in parte da quella dei torrenti, l’insediamento preistorico si distribuì sulle alture circostanti, e si propende a credere che il Comum oppidum, il centro gallico di cui parla Livio, sorgesse verso sudovest, tra i centri attuali di Rebbio, Breccia e Albate. Dopo la conquista effettuata da Marco Claudio Marcello, nella conca fu posta una colonia il cui ricordo si vorrebbe conservato sino ai nostri giorni dal sito di Coloniola posto alle falde prealpine di Brunate. E comunque certo che con l’avvento romano la bella conca andò trasformandosi, ospitò un castrimi, Novum Comum, assai importante a causa della sua posizione strategica sulla strada dello Spluga, che infine, forse ai tempi di Cesare, furono edificate mura poderose alte circa sette metri, grosse due, di cui furono ritrovati interessanti residui, che permisero di ricostruire la pianta rettangolare con il lato maggiore di 560 m. e il minore di 450. « Quattro porte vi si aprivano, una per lato, delle quali la pretoria, dal lato meridionale, ebbe poi l’aggiunta di uno speciale fortilizio, con due fòrnici di passaggio larghi circa m. 3,50 e due torri ottagone (di cui sussistono tuttora i resti) » (C. Volpati). Il cardo e il decumano si incrociavano a metà dell’attuale via Indipendenza; parallelamente si stendevano numerose strade, povere di luce, e grossolanamente selciate. Dalle mura si dipartivano diverse strade; una si dirigeva in Brianza lungo il torrente Cosia, un’altra si sviluppava verso la larga insellatura detta della Camerlata in direzione di Milano; questa, detta via Aureliana, si collegava con la strada che, bordeggiando la costa occidentale del Lario, risaliva verso lo Spluga e che nel Medioevo sarà poi chiamata via Regina.

    Dopo l’editto di Costantino, presso i cimiteri cristiani che erano fuori dalle mura, sorsero le basiliche intorno a cui si formeranno i borghi. La prima, del 380, fu San Carpòforo, sul luogo dell’attuale basilica romanica; nel 558 fu eretta la chiesa dei Santi Apostoli, che si trasformerà nell’insigne basilica di Sant’Abbondio. Le mura romane si conservarono a lungo su tre lati; sul quarto, quello rivolto alla sponda del lago, furono forse demolite per la tendenza della città ad espandersi lungo le rive, sicché appare appropriata la denominazione di urbs canarina, data, secondo il Giovio, da Sant’Eusebio. Pare che nel secolo VI, per timore dei barbari, le mura venissero rimaneggiate e rafforzate con torri, e che il torrente Cosia, che divideva l’abitato andando dritto a sfociare nel lago, venisse deviato a cingere la città dal lato di ponente. Malgrado le invasioni barbariche, Como venne sviluppandosi nel tempo e arricchendosi di nuovi edifici, specialmente religiosi, e, come s’attesta in una lettera di Sant’Emidio, vescovo di Pavia, « era di popolo frequentatissima, vi fiorivano l’agricoltura, i mestieri e, secondo i tempi, anche i commerci ». La rete dei suoi traffici s’allacciava con i centri rivieraschi del lago e si estendeva oltralpe fornendo tessuti di lana, olio, frumento e vini. Lo sviluppo topografico si veniva manifestando non solo lungo la sponda del lago, dove già si eran formati i grossi borghi, di Vico a ponente e di Coloniola a levante, ma sporadicamente anche alle falde dei colli, dove minore era la minaccia delle piene dei torrenti o dei ristagni d’acqua, e forse specialmente attorno a Sant’Abbondio.

    Pianta di Como nel 1840

    Pianta di Como attuale.

    Como e il primo bacino del Lario. Nell’abitato è possibile distinguere il quadrilatero della città medioevale, la lunga via Milano e sui colli in basso il Castel Baradello.

    Nella lotta scatenatasi con Milano, Como ebbe a soffrire i maggiori danni, chè nel 1127, dopo dieci anni di guerra, fu sopraffatta e distrutta; anche le mura e le torri furono rase al suolo e solo furono risparmiate Sant’Abbondio, San Fedele, e la cattedrale di Santa Maria Maggiore. In odio a Milano, si pose sotto la protezione del Barbarossa e potè in tal modo risorgere. La ricostruzione rispettò le tracce della planimetria romana, « solo la cinta delle mura fu costruita più ampia, tenendosi il muro venti o trenta metri più in fuori dell’antica cerchia; la vecchia fossa, che venne a trovarsi nell’interno, fu colmata con terrapieno e si chiamò terraccio. Furono pure allora innalzate le torri, più alte e più numerose di quanto ora siano, delle quali la maggiore (quella che si chiamò e si chiama la ‘ torre ’ per antonomasia) sorse precisamente nell’anno 1192. Otto erano le porte, incastellate, per cui si entrava in città: quattro a levante, due a mezzodì e due a ponente. Via via sorsero palazzi, conventi e nuove chiese e andarono infoltendosi le case» (C. Volpati). In quegli stessi anni sul colle Baradello, che domina l’ampio avvallamento lungo cui passava la via Regina, fu eretta una fortezza la cui torre, ancora esistente, costituisce un elemento caratteristico del paesaggio attuale.

    Como: il Lungo Lago, il porto lacustre e il Tempio Voltiano.

    Como: la facciata del Duomo, il Broletto e la Torre comunale.

    La sconfitta del Barbarossa a Legnano ebbe un dannoso riflesso per Como, che penò notevolmente a ritrovare la prosperità dei secoli precedenti. La città del Duecento presentava un quadro di miseria e di abbandono. Le case erano basse, tetre, anguste; una parte erano forse di canne, coperte di paglia e poiché il fuoco, per l’assenza di camini, si accendeva in mezzo alle dimore, spesso ardevano gli incendi; onde i decurioni nel 1209 diedero ordine di abbatterle. Tuttavia nel volgere del secolo le condizioni della città migliorarono e, pur attraverso le lotte tra le famiglie dei Vittani e dei Rusconi, il suo aspetto edilizio andò via via abbellendosi; tra l’altro, nel 1215, furono iniziati il Broletto, in marmo policromo, e la Torre del Comune. Nel 1225, poi, fu sistemato il porto cintato da un muro in cotto e sbarrato da una catena. Nel 1257 furono spurgati e riattati i corsi del Cosia e del Valduce, i quali (rispettivamente a occidente e a oriente delle mura), colmati dalle alluvioni, formavano ristagni d’acqua ai margini della città.

    Nel 1335 Como entrò nell’orbita del ducato visconteo. I nuovi signori espressero nell’edilizia il loro potere con la costruzione della cittadella, le cui solide muraglie cinsero la fascia a lago circostante il nuovo porto, aperto ove oggi si trova piazza Cavour.

    Ma estendendosi poi il dominio del ducato sino alle Alpi Retiche, Como perse la sua importanza militare e ogni fortificazione venne abbandonata e lasciata alla rovina. Nel 1335 avveniva anche un altro fatto di notevole riflesso urbanistico: l’aumento di oltre un metro e mezzo del livello medio del lago a causa della costruzione del ponte di Azzone a Lecco. « Benché il suolo della città, tra il secolo XI e XII, avesse subito, per cause diverse (tra cui demolizioni e alluvioni), un rilevante sollevamento, il rialzo del livello del lago fece sì che rimanessero col piede nell’acqua tutti gli edifici prossimi alla riva, onde fu necessità di sopraelevare il pavimento di strade e di case, di soglie ». Di questo fatto, sino a pochi decenni or sono, erano ancora manifesti i segni in diverse antiche dimore, nelle quali le aperture di accesso presentavano un’altezza insufficiente al passaggio di una persona. Tra le nuove costruzioni trecentesche numerose furono quelle religiose; in particolare fu notevole l’inizio, nel 1396, del duomo, nel luogo dove eravi la chiesa di Santa Maria Maggiore.

    Vedi Anche:  Le suddivisioni territoriali

    Intanto la città, che, verso la metà del secolo XIV, contava circa 12.000 ab., riprendeva il suo ruolo commerciale e artigiano, si rammodernava nell’edilizia, si sviluppava nei suoi borghi di Vico e di Coloniola cui vennero aggiungendosi , San Bartolomeo, San Martino, San Rocco.

    Como: la Cattedrale, opera dei maestri comacim.

    Con il Cinquecento, essendo Bellinzona e Lugano passati in possesso degli Svizzeri, Como ritornò ad essere città di confine e quindi militarmente importante. Nel 1507, infatti, i Francesi, impadronitisi di Como, ne riattarono le mura, abbattendo le costruzioni che erano state erette a ridosso, e le circondarono di un fossato in cui vennero immesse le acque del lago. Nel 1521 gli Spagnoli posero l’assedio alla città e, entrati in essa, la devastarono. Cominciò un periodo di decadenza economica aggravata da carestie e da pestilenze. La popolazione, che alla fine del Cinquecento era di 16.000 anime, si riduceva nel 1633 a sole 6000. Nello stesso secolo poi avvennero disastrosi straripamenti del Cosia (1646, 1667, 1677) che scalzarono una parte delle difese, alcune chiese e molte dimore.

    La ripresa si manifestò nel secolo seguente con lo sviluppo dell’attività tessile; la popolazione s’accrebbe e, da 8000 ab. nel 1713, aumentò a 15.000 alla fine del secolo. Fu provveduto alla sistemazione dei torrenti fuori dalle mura e all’eliminazione dei ristagni d’acqua, cosicché i borghi presero ad espandersi

    Como: la Basilica di S. Abbondio del sec. XI.

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    Il secolo scorso, con il progressivo sviluppo delle industrie seriche, che si disposero l’una appresso l’altra lungo il corso del Cosia, la città fuori dalle mura venne formando tutt’uno con l’antica. Le iniziative furono molteplici e nuovo impulso venne dalla costruzione del tronco ferroviario Milano-Camerlata il cui prolungamento sino a Como avvenne nel 1875. Nel medesimo anno si predisposero i lavori per il prolungamento per Chiasso, e dieci anni appresso entrò in esercizio la ferrovia per Saronno. Nel 1894 si costruiva la funicolare per Brunate, che doveva trasformare il piccolo paese in un luogo di rinomata villeggiatura. La sistemazione del lungolago doveva portare anche una profonda trasformazione su quel lato; in luogo dell’antico porto si fece la bella piazza Cavour e si costruirono bellissimi viali alberati, che costituiscono tuttora una magnifica passeggiata, prolungata nel nostro secolo sino al Tempio Voltiano (consacrato alla memoria di Alessandro Volta), al bizzarro Monumento ai Caduti e, di recente, a Villa Olmo sul lato occidentale e sino alla settecentesca Villa Geno sul lato orientale.

    La città attuale ha invaso tutto lo spazio libero della conca e va espandendosi verso le alture, specialmente verso Lora e Camerlata sul lato meridionale. Nel complesso è distinta in due parti dalle mura che in buona parte ancora sussistono su tre lati. La parte interna ha un volto antico, con diverse vie, spesso anguste e ombrose ancora sul tracciato romano, accompagnate da dimore vetuste; la parte esterna ha un aspetto moderno (salvo nel nucleo di antichi borghi) ed ospita notevoli industrie tessili disposte lungo il corso del Cosia (ormai in gran parte coperto). L’attività vi si svolge vivacissima imperniata sul commercio, attivato dalla vicinanza del confine, sull’industria, tra cui celebre quella della seta naturale, e sul turismo, che annovera un movimento annuo di molte centinaia di migliaia di persone. La città è in rapido accrescimento: dall’inizio del secolo ha pressoché raddoppiata la sua popolazione; nel 1951 il solo aggregato urbano contava 57.000 abitanti.

    Bergamo

    Bergamo sorge lungo il margine pedemontano delle Prealpi Orobie in posizione intermedia tra lo sbocco delle due grandi valli del Serio e del Brembo. La città si compone di due parti distinte: l’alta, più antica, posta sulla sommità di un colle (366 m.), e la bassa, distesa in ampio spazio alle falde sudorientali (247 m.) del colle stesso. La tradizione vuole che la città sia stata fondata dagli Orobi, ossia genti della montagna, del gruppo dei Galli Cenomani, e che il primo insediamento si trovasse sul colle della Fara (dove oggi v’è Sant’Agostino) donde si sarebbe esteso a occupare il colle di Sant’Eufemia, da cui oggi, sul luogo forse del castrum romano, domina la Rocca. Con la conquista romana divenne mwiicipium con il nome di Ber-gomum, ma delle mura e dei monumenti romani ivi edificati non restano che scarse vestigia; la sua importanza rimane comunque documentata dalle residue epigrafi. Il Cristianesimo fece presto il suo ingresso e forse già nel secolo IV sorgeva in Bergamo Bassa la chiesa che fu poi dedicata a Sant’Alessandro, patrono di Bergamo, martirizzato, secondo la tradizione, sul luogo della piazza antistante la chiesa attuale, ove trovasi una colonna romana che si vuole proveniente da un tempio di Venere. Durante le invasioni barbariche la città romana fu più volte devastata: Alarico I re dei Visigoti la mise a fuoco nel 408; appena risorta, venne nuovamente distrutta da Attila nel 452. Conquistata nel secolo appresso dai Longobardi venne da questi istituita sede di un ducato (575) e probabilmente munita di opere di difesa; via via essa andò sviluppandosi economicamente tanto che verso il secolo Vili la sua Fiera di Sant’Alessandro potè divenire una delle più importanti dell’Italia settentrionale. Sotto i Franchi fu sede comitale e venne poi governata dal vescovo. Intanto ai piedi della collina si era venuto formando, accanto alle chiese ivi edificate, il « Borgo », da cui prese sviluppo la Bergamo Bassa.

    Nel secolo XII, la città, costituitasi in libero comune, fu dilaniata dalle lotte tra le famiglie dei Suardi di parte ghibellina e dei Colleoni di parte guelfa, ma ciò non le impedì di farsi promotrice, con Brescia e Cremona, della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa. Durante quegli anni Bergamo Alta si arricchì di notevoli edifici quali il Palazzo della Ragione o Palazzo Vecchio, il più antico tra i palazzi comunali (in seguito più volte devastato e ricostruito), la chiesa di Santa Maria Maggiore, severa costruzione romanica, il Palazzo Suardi e altri ancora. Ma le discordie interne indebolirono la città e provocarono l’invadenza dei Torriani e dei Visconti, i quali nel 1329 l’assoggettarono. Due anni appresso vennero iniziati i lavori di costruzione della poderosa rocca che domina dall’alto sulla città alta e bassa e sulla piana circostante. I primi decenni del secolo XV furono travagliati da aspre contese per il possesso della città che, dominata da Pandolfo Malatesta (1408-19), era oggetto di contesa tra Milano e Venezia; fu assediata da Facino Cane al servizio dei Visconti nel 1412, assediata dal conte di Carmagnola, pure al servizio dei Visconti, nel 1419 e ancora una volta conquistata dal Carmagnola, passato al servizio dei Veneziani, nel 1427. Si iniziava con il dominio veneziano un lungo periodo di prosperità, interrotto solo dalla calata di Napoleone nel 1797. La Serenissima fortificò la città con una cerchia di mura (di cui rimangono avanzi) che dalla cittadella scendeva a cingere il Borgo; concesse poi una larga autonomia amministrativa e favorì lo sviluppo delle industrie e dei commerci. Bergamo Alta si trasformò: all’austerità medioevale accostò lo splendore rinascimentale. Si abbatterono le vecchie casupole addossate al Palazzo della Ragione, facendo un ampio spazio da cui deriverà da un lato la Piazza del Duomo e dall’altro la suggestiva Piazza Vecchia, arricchita due secoli appresso del Palazzo Nuovo di stile palladiano. Con l’arte dei maestri campionesi si addolcì l’austerità romanica di Santa Maria Maggiore e vi si eresse il Battistero (1340), che fu più tardi ricostruito di fronte al Duomo. Sul lato di Santa Maria si elevò la policroma Cappella ad onore del celebre capitano Bartolomeo Colleoni, che costituisce il primo capolavoro dell’arte rinascimentale lombarda (1470). Nel 1459 fu iniziato con il concorso del Filarete il rifacimento del Duomo.

    Bergamo in una stampa del 1599 (Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano).

    Bergamo Alta da sud.

    Bergamo: il centro della città alta, dove si raggruppano i più insigni monumenti.

    Bergamo: la Basilica di Santa Maria Maggiore e la Cappella Colleoni.

    Nè i lavori di arricchimento cesseranno con il trascorrere del tempo. Anche Bergamo Bassa s’adornò di opere insigni, specialmente di chiese, come Sant’Alessandro, Santo Spirito, San Bernardino, ecc.

    Nel 1561 la città alta, ormai trasformata in un incomparabile gioiello, venne cinta dai Veneziani con maestose mura, che ancor oggi coronano torno torno la sommità del colle, in forma pressoché triangolare con i vertici a Punta Sant’Agostino, a Punta San Giacomo e a Punta Sant’Alessandro. Bergamo, centro artistico, cittadella fortificata, mercato attivissimo, forte, già nel secolo XVI, di 30.000 ab., divenne la città più importante del territorio lombardo soggetto alla Serenissima.

    Gli avvenimenti storici che seguirono alla calata di Napoleone arrestarono temporaneamente lo sviluppo economico cittadino; ma fu una breve pausa; l’ascesa poi riprese lenta e continua. Ma un notevole rivolgimento urbanistico doveva verificarsi con lo sviluppo delle comunicazioni e dell’industria. Allora pian piano la città alta perse il fervore di vita che l’aveva contraddistinta per tanti secoli; essa, troppo fuori mano rispetto alle comunicazioni ferroviarie prima e stradali poi, si svuotò a poco a poco; l’industria, trovando sede adatta nella pianura attorno alla città bassa, accentuò la decadenza di Bergamo Alta. Contemporaneamente si verificò un grandioso sviluppo di Bergamo Bassa che si dilatò, invero non molto ordinatamente, attorno al vecchio nucleo con i borghi di Santa Caterina, di Palazzo e di San Leonardo. Qui ferve oggi un’attività vivacissima, un traffico intenso e rumoroso proprio delle moderne città intensamente commerciali e industriali ; là, nella città alta, domina la maestà dei monumenti in un raccoglimento austero, quasi rispettoso delle trascorse glorie. La popolazione, di 94.000 ab. nel 1951, vive per la maggior parte in Bergamo Bassa, protesa verso conquiste moderne, ma per nulla dimentica del suo passato.

    Bergamo Alta: il Palazzo Nuovo e la Torre del Gombito (52 m.) del sec. XII.

    La città bassa attuale, superato il tracciato delle linee ferroviarie che si stendono a sudest dell’abitato con direzione da sudovest a nordest e che nel secolo scorso sembravano ancor lontane dall’aggregato urbano, tende a svilupparsi lungo le direttrici di comunicazioni, e soprattutto lungo quella meridionale verso Colognola (e l’autostrada Milano-Brescia), verso Seriate e verso Redona. Lo sviluppo edilizio, residenziale e industriale, così protendendosi, ha già inglobato diversi sobborghi con tendenza a formare una conurbazione.

    Bergamo Bassa e, sullo sfondo, Bergamo Alta.

    Brescia

    Brescia sorge nel piano là dove s’affondano, frazionandosi in amene colline, le ultime diramazioni delle Prealpi; tra le alture s’apre ampio e ridente il solco da cui discendono il Mella e il Garza, e la città con la sua espansione vi si insinua quasi a vigilare la soglia. Pare che il primo insediamento in così ameno e importante luogo risalga ai Liguri; è certo comunque che con i Galli Cenomani il centro (forse posto sul Colle Cidneo ove poi sorse il Castello) prese sviluppo divenendo uno dei maggiori della Lombardia. Quando esso, nel 225 a. C., fu conquistato e sottomesso dai Romani divenne, con il nome di Brixia (che si vuole derivato da Brich o Brig, radice celtica con significato di altura), la base più importante dell’espansione romana nella Gallia Transpadana. I Romani sostituirono al villaggio gallico il castrum, addossato al Colle Cidneo sul quale, forse, costruirono un’arce, in seguito sostituita da un castello. Il luogo crescendo d’importanza prese sviluppo; si ritiene che nel 49 a. C. divenisse municipio romano; Augusto, poi, lo onorò del suo nome dichiarandolo colonia civica Augusta Brixia. Dalle vestigia rimaste si desume l’importanza e lo sviluppo della città imperiale, la cui struttura ha lasciato traccia evidente nella parte dell’odierna Brescia posta ai piedi del Castello. Il centro della città romana corrispondeva all’attuale piazza del Foro, che, non solo nel nome, conserva il ricordo della funzione di un tempo. Dalle notevoli vestigia sinora ritornate alla luce si può desumere che esso si estendesse in lunghezza circa 200 m. e in larghezza 40 e che fosse chiuso da un lato dal Capitolium, imponente tempio (di cui si conserva una parte) costruito nel 72 d. C. sotto l’imperatore Vespasiano. E in una delle celle del tempio, adibite a museo, che è custodita la Vittoria di Brescia, grande statua di bronzo dorato, modellata con perfezione, fusa con maestria, opera meravigliosa forse dominante dal fastigio del Capitolium, testimonianza della bellezza di Brescia romana. Alla luce son ritornati in parte anche il Teatro, la Curia, un porticato, e augurabile sarebbe una ricognizione completa del complesso urbanistico, certamente il più notevole della Lombardia. Attraverso l’abitato, forse sul tracciato dell’attuale via dei Musei, passava la via tra Milano e Verona, via di comunicazione troppo importante perchè lungo di essa non s’incanalasse l’orda dei barbari che più volte devastarono la città, saccheggiandola e spogliandola.

    Dalle distruzioni (terribile nel ricordo rimase quella di Attila nel 452) Brescia risorse lentamente sotto i Longobardi, che vi posero un duca. In quei secoli la città si arricchì di monumenti insigni quali la Basilica di Santa Maria Maggiore nel luogo del Duomo Vecchio e la Basilica di San Salvatore, che faceva parte del monastero fondato, secondo la tradizione, da Ansa, moglie di Desiderio, e dove fu ospite Ermengarda. Desiderio ebbe particolare benevolenza per la città; ma con lui il regno dei Longobardi era al tramonto e Brescia seguì la sorte comune alle altre città lombarde dal periodo dei re carolingi a quello degli imperatori germanici. Attraverso lotte civili e religiose conseguì la libertà comunale che nel XII secolo, unita alle altre città lombarde della Lega, difese strenuamente contro il Barbarossa. Intanto la città medioevale si espandeva lentamente sul lato occidentale della città romana; sorgeva il Broletto dominato dalla Torre del Popolo, simbolo delle libertà comunali, e a fianco veniva edificata, sull’area dell’antica Basilica di Santa Maria Maggiore, la magnifica Rotonda (o Duomo Vecchio); si costituiva così il centro politico e religioso della nuova città, cinta ai suoi bordi da una cerchia fortificata, che sosterrà la memorabile difesa dei Bresciani contro Enrico VII. E probabilmente di questo periodo anche la costruzione o almeno la riattivazione del Naviglio Bresciano che, portando le acque del Chiese fin nei pressi dell’abitato, consentì la navigazione e la irrigazione. Fervida nelle arti e nei mestieri, attivissima nei commerci, la città era tuttavia dilaniata dalle discordie e dalle lotte di fazione, sicché cadde preda della tirannia di Ezzelino da Romano (1258), che segnò l’inizio degli interventi dei Torriani, degli Scaligeri e infine, nel 1339, dei Visconti, che rafforzarono le opere di difesa del castello e delle mura; essi, salvo una breve interruzione all’inizio del XV secolo, dominarono sino al 1427, allorché il Carmagnola conquistò Brescia alla Repubblica di Venezia.

    Brescia in una stampa del 1599.

    Entrata nell’orbita della Serenissima, per la politica protezionistica di questa, le attività manifatturiere bresciane, già tanto progredite, subirono una fase di depressione, ma la città, ottenuta una larga autonomia amministrativa, ebbe modo di riprendersi e di progredire. Lo sviluppo edilizio si manifestò vivacissimo: nel 1492 ebbero inizio i lavori di costruzione della Loggia, il grandioso Palazzo del Comune, « che sulle poderose arcate bramantesche eleva una florida leggiadria sansoviana, temperata dal Palladio in più chiara e calma misura ». Al fianco vennero poi edificati in bella armonia i Palazzi del Monte Vecchio, il Monte Nuovo improntato al rinascimento veneziano e il Palazzo con la Torre dell’Orologio, i quali formarono una pittoresca cornice alla Piazza della Loggia, che divenne il centro civile della città. Nuove costruzioni civili e religiose sorsero in altre parti dell’agglomerato urbano; tra esse la bella chiesa di Santa Maria dei Miracoli, la monumentale chiesa della Madonna del Càrmine, la chiesa di San Giovanni Evangelista. Nuovi lavori accrebbero anche la capacità di difesa del Castello e delle mura cittadine le quali, innestandosi al Castello stesso, cingevano la città a guisa di un quadrilatero, ed erano accompagnate all’esterno da un fossato. Ciò non impedì, durante il breve periodo di occupazione francese dopo la disfatta veneziana di Agnadello (1509), che Gastone da Foix, per punire la ribellione bresciana (1512), espugnasse il Castello da cui bombardò la città compiendo un orrendo massacro. Poco appresso Brescia fu ricuperata dai Veneziani e, pur così duramente provata, riprese la sua ascesa, che potè continuare in tranquillità per quasi due secoli, lasciando tracce imperiture nell’edilizia cittadina con il Duomo Nuovo (secolo XVII) dalla grandiosa architettura ancora nello stile tardo rinascimentale, il Palazzo della Biblioteca Queriniana, la chiesa di Sant’Eufemia, il Palazzo Martinengo e numerose altre chiese e palazzi.

    Brescia: la parte orientale della città con i Ronchi, dal torrione di Piazza della Vittoria.

    Brescia: Piazza della Vittoria, centro moderno inaugurato nel 1932, e la parte occidentale della città.

    Brescia : Piazza della Loggia, antico centro cittadino con la Rotonda, il Duomo, il Broletto e la Torre del popolo, detta localmente Tur del pégol.

    Nel 1797, con la conquista napoleonica, Brescia, che già contava 30.000 ab., entrò a far parte della Repubblica Cisalpina, divenuta poi Regno d’Italia. Nel 1815 passò con le altre città lombarde sotto il dominio austriaco, contro cui lottò con coraggio e tenacia, cospirando (1821 e 1833) e ribellandosi: memorabili le gesta di eroica resistenza guidata da Tito Speri nel 1849, che valsero alla città il nome di Leonessa d’Italia. Nel 1859, finalmente, l’aspirazione della città fu appagata e Brescia entrò a far parte del Regno d’Italia.

    Da allora lo sviluppo cittadino assunse un ritmo pari a quello delle maggiori città lombarde. La cerchia delle mura cedette a poco a poco alla forza espansiva dell’agglomerato urbano. La città si andò estendendo su tre lati: quello tra la vecchia cinta di mura e la ferrovia a sud, quello tra le vecchie mura e il corso del Mella a ovest e quello infine settentrionale verso il solco del Garza e del Mella. Lo sviluppo industriale accelerò, nel nostro secolo, il movimento di espansione; sorsero nei pressi dell’abitato imponenti opifici metallurgici, meccanici, tessili, alimentari, e il pulsare di nuova vita fece sentire l’angustia delle arterie dentro le vecchie mura. Sicché nel 1932 si inaugurava la nuova grande piazza della Vittoria aperta con l’abbattimento di dimore nel cuore della città vecchia; essa divenne nuovo centro della vita cittadina, sostituendo, almeno sotto l’aspetto economico, le vicine piazze del Duomo e della Loggia, già centri in età precedenti. La popolazione urbana, che all’inizio del secolo già superava i 50.000 ab., s’accresceva con ritmo notevole di anno in anno sicché nel 1951 già registrava 110.000 abitanti.

    Brescia: il Castello dal viale di accesso con il portale veneto sormontato dal Leone di San Marco.

    Pavia

    La città di Pavia si stende su un ampio terrazzo affacciato alla sponda sinistra del Ticino a circa 6 km. a monte della confluenza di questo fiume nel Po. A quando risalga il più remoto insediamento nel luogo della città moderna non è dato di sapere con esattezza. Tito Livio e Plinio attribuiscono la fondazione del primo nucleo ai Liguri (precisamente ai Laevi o ai Laevi e Marici) e i reperti archeologici testimoniano della diffusione di quelle genti in tutta una vasta area circostante. Ma è comunque certo che lo sviluppo del nucleo, a partire dal IV secolo a. C., fu opera dei Galli; da allora, se non lo era già prima, divenne luogo di convergenza di piste padane notevolmente battute, che si trasformeranno poi in strade romane. Conquistato dai Romani e divenuto nodo delle vie per la Gallia e per la Germania, l’antico nucleo gallo si trasformò in castro il cui « impianto era ordinato secundum coelum, ma leggermente spostato verso est dall’adattamento del lato meridionale, in senso parallelo al corso del fiume. Era diviso in quattro quartieri rispettivamente dal cardo, ora Strà Nova, e dal decumanus, formato dagli attuali corsi Mazzini e Cavour. Con la campagna circostante la città comunicava mediante nove porte » (A. Pecora). La struttura determinata dall’antico castro romano non è stata cancellata dal tempo o dalle vicende. La città si è progressivamente espansa attorno al castro adattandosi ad esso, sicché oggi rimane come uno degli esempi più suggestivi della razionalità costruttiva dei Romani.

    Alla decadenza dell’Impero, essendo stata distrutta Milano, Pavia, per la sua posizione geografica, si impose facilmente. Teodorico la scelse come capitale e la arricchì di terme, di un anfiteatro, di un grande palazzo e di giardini. L’espansione della città si sarebbe manifestata particolarmente verso la fascia prospiciente al fiume, ma non vi sono testimonianze per stabilirne i limiti. I Longobardi, dilaganti nella pianura del Po, trovarono in Pavia una resistenza che non avevano riscontrato altrove; cinsero la città d’assedio e solo dopo tre anni, nel 572, vi poterono porre piede. Alboino vi prese dimora e divenne la capitale longobarda. La dominazione longobarda lasciò alla città un’impronta indelebile nelle chiese, soprattutto con San Pietro in Ciel d’Oro e Santa Maria alle Pertiche a nord e San Giovanni in Borgo a est, destinate a formare i fulcri dei nuovi nuclei abitati, successivamente inglobati nella città. Risale a quei tempi anche l’erezione della chiesa di Santa Maria in Bethlem, attorno a cui si formerà Borgo Ticino sulla sponda opposta del fiume. Verso la metà del VII secolo la città, chiamata sino allora Ticinum, dal fiume che la lambiva, assume un nome nuovo Papia, di origine ignota, forse derivato da una radice romana o prelongobarda. Anche con i Franchi, Pavia conservò la sua dignità di sede centrale del Regnwn Italicum e in essa presero la corona Berengario I ed Enrico II. Essa si arricchì di nuove chiese e di una scuola giuridica e, dopo le distruzioni operate dagli Ungari (924), fu cinta dal vescovo Giovanni di più ampie e solide mura, che, con una pianta approssimativamente quadrilatera, racchiudevano un’area di 97 ettari. L’attività economica intanto si sviluppava notevolmente man mano che, liberandosi dalle imposizioni imperiali, la città si avviava verso il libero comune. Dalla lotta tra le città lombarde e il Barbarossa trasse vantaggio, poiché, sostenendo le parti di questo, ne ottenne favori e vantaggi; le immunità imperiali servirono ad affermare la preminenza sui tre settori, il Pavese p. d., la Lomellina e l’Oltrepò che costituiranno più tardi il suo ducato e ai giorni nostri la sua provincia. « Sotto l’impulso delle nuove forze comunali, le attività economiche progredirono ulteriormente, provocando una cospicua corrente immigratoria dal contado. Questa si andò costipando ai limiti della città, accanto alle porte, soprattutto a nord e a est. Riflesso e conseguenza fu la nuova espansione topografica della città, l’ultima dell’età di mezzo, che inglobò le nuove propaggini sorte all’intorno, includendo le antiche chiese fuori mura di Santa Maria alle Pertiche e di San Pietro in Ciel d’Oro, oltre la fascia depressa dei terreni dirimpetto al fiume » (A. Pecora). Il perimetro delle nuove mura era di circa 5 km. e racchiudeva una superficie di 150 ettari; nove erano le porte e altrettanti i quartieri (Palacense, Palazza, Pertusi, San Pietro al Muro, Ponte, Damiani, Marenca, San Giovanni, Laúdense). L’ammontare della popolazione era di oltre 20.000 anime. Pavia era all’apice della sua grandezza comunale.

    Pavia: pianta della città in una incisione del 1704

    Pavia, il Ticino con il Ponte della Libertà e il Ponte Coperto, visti da nordovest. A destra Borgo Ticino.

    Pavia: veduta aerea della città. Al centro, il Duomo.

    Con l’espandersi della Milano viscontea Pavia venne annessa al Ducato (1359). L’attività mercantile subì un lento declino; nè ad evitare la decadenza valse la corte sontuosa che nel Castello, da essi edificato, vi tennero i Visconti, nè lo Studium voluto da Galeazzo II (da cui ha origini l’Università), nè il rinnovamento edilizio; il numero degli abitanti andò decrescendo, per colpa anche delle pestilenze. Dagli atti di una visita pastorale infatti si deduce che nel 1460 essi erano 16.000 e si può presupporre che dopo la peste del 1485, che fece oltre 4000 vittime, scendessero ancora di numero. Ad aggravare la situazione sopravvenne l’invasione francese, il duro assedio di Francesco I nel 1525 e il sacco del Lautrec del 1527. La città stremata, spopolata, attraversò decenni oscuri. Vi giunsero gli Spagnoli, vi eressero nel 1531 un nuovo sistema difensivo sul medesimo sviluppo della cinta comunale del secolo XIII. Ancora nel 1555 la città contava 12.000 ab. e se accrescimento vi fu in seguito, la peste, con le gravi epidemie del 1576 e del 1630, portò gravi decimazioni. Nel secolo XVIII avvenne lo smembramento dell’antico principato: prima fu sottratta la Lomellina (1707), poi le terre prossime alla città, San Fedele, Torre dei Torti, Travedo, Campomaggiore (1738), poi l’Oltrepò e il Siccomario (1748). Il Po e il Ticino divennero un confine politico e Pavia una città di frontiera, priva di due terzi dell’area naturalmente gravitante verso di essa. Eppure, nonostante tale triste situazione, Pavia in questo frattempo andò acquistando fama mondiale per la sua Università, in cui tenevano cattedra maestri insigni quali Alessandro Volta, Lazzaro Spallanzani, Lorenzo Mascheroni, Antonio Scarpa.

    Pavia: lo sviluppo industriale al margine orientale della città. Al centro gli stabilimenti Snia Viscosa.

    Pianta di Pavia.

    I prodromi di una ripresa, che si manifestarono nella seconda metà del secolo, testimoniati da un aumento della popolazione salita a 24.000 ab. e da una espansione cittadina verso il Borgo Calvenzano, vennero arrestati dall’invasione francese. Si può dire che l’inizio vero e proprio dello sviluppo di Pavia cominciò con la formazione dell’unità d’Italia, che ridiede alla provincia i confini dell’antico principato. La città rifiorì: si collegò con la ferrovia alle città vicine, si liberò dalla stretta delle mura, si arricchì delle prime industrie, le propaggini urbane si espansero sia a nord che a est e a ovest catturando i borghi vicini (Torretta, San Pietro in Verzuolo, San Lazzaro). Soprattutto lo sviluppo delle comunicazioni e il progresso delle industrie possono considerarsi le molle propulsive della rinascita e dell’aumento di popolazione accresciutasi a 34.000 ab. all’inizio del secolo e a 57.000 nel 1951. Cifre certamente modeste se si confrontano con quelle di Milano, ma comunque non trascurabili. A tal proposito par necessario notare che la bilancia dei nati e dei morti da novant’anni a questa parte chiude in negativo, fatto non esclusivo della città, ma comune a vari centri del territorio della provincia (come è chiarito in un precedente capitolo); le ragioni dell’aumento di popolazione cittadina vanno dunque ricercate nel movimento di migrazione dal contado o comunque dall’esterno verso il centro urbano. In solo otto anni, dal 1946 al 1952 sono immigrate a Pavia 13.460 persone contro una emigrazione di 8178 individui.

    Vedi Anche:  Gli abitanti delle città della Lombardia

    Nonostante la scomparsa delle mura (ne esistono soltanto pochi residui) si può dire che la divisione della città in due parti, quella interna e quella esterna, sia ancora viva e manifesta per molti aspetti architettonici e funzionali. La parte interna o medioevale costituisce un nucleo con attività prevalentemente commerciali e culturali; la parte esterna o moderna, è prevalentemente residenziale, ospitaliera e soprattutto industriale.

    « L’attrezzatura industriale della città, gli uffici amministrativi e commerciali che incentra, la sua antica e famosa Università con il complesso degli ospedali di San Matteo, costituiscono oggi le principali risorse economiche di Pavia. Esse si sprigionano all’intorno con la loro forza di attrazione, e veramente, a seconda delle possibilità, vincolano il contado alla città. Si è così plasmata una regione urbana di Pavia, cioè un territorio che gravita per le più svariate necessità sul capoluogo provinciale ».

    Sviluppo topografico di Pavia dal’antichità ad oggi.

    1. città romana (sec. I d.C.)
    2. ittà del vescovo Giovanni (metà del sec. X)
    3. città comunale (sec. XII) più tardi bastionata (1530)
    4. anno 1900
    5. anno 1931
    6. anno 1954
    7. casali e borgate “catturati”

    Cremona

    Cremona si stende sulla sponda sinistra del Po a una decina di chilometri, in linea d’aria, dalla confluenza dell’Adda nel maggior fiume. Fu forse antichissima sede di un villaggio di Galli Cenomani, ma la sua fondazione si fa risalire al 218 a. C., allorché i Romani vi posero un caposaldo, a scolta del passaggio del Po, dal quale irradiavano strade verso il settentrione. La città, cinta di mura, ebbe soprattutto un’importanza militare (ne fa testimonianza l’assalto sferrato da Annibaie), ma si sviluppò presto anche come centro commerciale. Nel 90 a. C. divenne municipio romano e già era un centro floridissimo. Durante l’Impero fu coinvolta nelle lotte per il potere: nel 69 d. C. nella battaglia di Bedriaco (sulla strada per Mantova), combattuta tra Vitellio e Vespasiano, l’esercito di quest’ultimo saccheggiò e distrusse l’abitato. Poi Vespasiano volle che la città venisse nuovamente costruita, ma essa non riebbe l’antica prosperità. Le scorrerie dei barbari si susseguirono più tardi a tarpare ogni possibilità di ripresa; ai Longobardi la città oppose una tenace resistenza, protrattasi per 34 anni; solamente nel 603 Agilulfo riuscì a conquistarla e la rase completamente al suolo.

    Cremona risorse lentamente dalle rovine, rispettando in parte l’antico tracciato di vie romane che ancora oggi si può individuare nella struttura cittadina in prossimità del centro. Sede di una contea vescovile, rifiorì verso il secolo X, attuando una vasta bonifica del territorio circostante la città, facile a ricoprirsi di insalubri acquitrini. Ma, oltre che centro agricolo, a causa della sua posizione sul Po, agevole via di comunicazione con l’Adriatico, divenne mercato di attivi commerci. Verso il 1080, dopo lunga lotta del popolo contro il vescovo, si costituì in libero comune. La città che sino allora era stata presumibilmente, a causa delle distruzioni, priva di ogni monumentale bellezza e, nel complesso, di modestissimo aspetto, con il libero ordinamento comunale si adornò di opere di così imponente architettura e di così armoniose forme che oggi il centro, ov’esse si raccolgono, può considerarsi uno tra i luoghi d’arte più belli d’Italia. Fu iniziato prima d’ogni altra costruzione il Duomo (1107), ma a causa di danni recati dal terremoto del 1116, pochi anni appresso si diè inizio a un edificio più grandioso. Nel 1167, di fianco al Duomo, fu eretto il Battistero. Nel 1206, di fronte al Duomo, si pose mano al rifacimento del Palazzo del Popolo, sull’area di un più antico palazzo comunale di cui rimane la torre. Tra il 1250 e il 1267 si eresse il Torrazzo, alta torre che serviva a chiamare i cittadini che facevan parte delle milizie, adibita in seguito a campanile della cattedrale. La torre, che costituisce il simbolo cittadino, costruita in laterizi con un coronamento marmoreo, raggiunge la straordinaria altezza di 111 m. e risulta quindi il più alto campanile d’Italia. Collateralmente a tanto fervore di rinnovamento edilizio del centro cittadino, corrispondeva una espansione periferica: ai margini della città, che nel reticolo di vie denuncia l’impronta romana, la città si dilatava, tendendo, almeno nella parte orientale dove trovasi il Duomo, ad assumere un disegno radiale. Nel complesso la città assumeva una forma decisamente ovoidale, delineata nel suo perimetro da imponenti bastioni di difesa, talché si comprende come potè poi essere scherzosamente chiamata magna phaselus, equivocando sul significato del termine che può significare tanto navicella quanto fagiolo.

    Cremona: panorama sulla città dal Torrazzo. A sinistra, sullo sfondo, il Po.

    Cremona: l’antico nucleo cittadino attorno al Duomo.

    Via, nonostante tanto fervore di sviluppo, la città era dilaniata da lotte interne ed esterne. All/interno era divisa dalle fazioni dei ghibellini e dei guelfi, talché oltre al Palazzo del Comune, tenuto dai primi, nel 1256 fu edificato nella parte occidentale della città un diverso Palazzo del Popolo dei guelfi. All’esterno le lotte vivacissime s’appuntarono soprattutto contro Milano e Crema, procurando lutti e danni. Alleata dapprima degli imperiali, partecipò poi alla Lega lombarda. Nel secolo XIII, dal groviglio delle lotte tra guelfi e ghibellini emersero alcune figure di audaci quali Buoso da Dovara, che Dante colloca « là dove i peccatori stanno freschi », a piangere « l’argento dei francesi », e Uberto Pallavicini, di parte ghibellina. Dopo la disfatta di Benevento (1266) anche a Cremona prevalsero i guelfi con i Cavalcabò, il cui atteggiamento provocò le vendette di Enrico VII disceso in Italia per sollecitazione dei ghibellini; egli nel 1311 assalì Cremona, la invase abbandonandola al saccheggio e le tolse il titolo di città. Ma fu una breve parentesi. Ritornati i guelfi, nel 1334 la città si arrese ad Azzone Visconti, che proscrisse i Cavalcabò, cui tuttavia fu in sèguito concesso di ritornare e di prendere anche il governo cittadino. Ma la città, travagliata da tante lotte, era venuta decadendo anche economicamente.

    Cremona: il Torrazzo (111 m.), simbolo della città, con il Duomo.

    Venezia, nella sua espansione continentale, mirava a conquistare Cremona: un primo tentativo compiuto dal Carmagnola nel 1431 fu respinto dall’esercito del ducato milanese e costò alla Serenissima la flottiglia fluviale; la città entrò tuttavia in suo possesso nel 1499 per cessione dei Francesi (Trattato di Blois). Fu comunque un possesso solo decennale: nel 1509 Cremona fu ricuperata dal ducato di Milano che la tenne sino al 1525, allorché giunsero gli Spagnoli, che vi rimasero sino al 1702.

    Nel succedersi di così varie e spesso tristi vicende, non mancò tuttavia di farsi sentire il soffio vivificatore del Rinascimento, che lasciò tracce notevoli nell’edilizia cittadina, anzitutto con il bel Portico della Bertazzola (1499), che fu eretto dalla facciata del Duomo al Torrazzo, poi con la facciata marmorea del Duomo stesso (1498-1505), la loggia del Battistero, il Palazzo Fodri e altri palazzi e chiese, ornati prevalentemente in cotto per la presenza, nella zona, di utili argille. Lo sviluppo dell’agglomerato urbano, invece, fu modestissimo, essendosi il numero degli abitanti stabilizzato attorno alle 10.000 anime.

    Nel 1702 al dominio spagnolo successe l’austriaco e nel 1797 a questo subentrò il dominio francese. Con il Regno d’Italia la città divenne capoluogo del dipartimento dell’Alto Po.

    Durante il Regno Lombardo-Veneto il progresso agricolo favorì la città, procurandole un notevole sviluppo come mercato, che si consoliderà con l’unità d’Italia.

    Il fervore di sviluppo industriale, che ha caratterizzato la Lombardia nel nostro secolo, ha avuto sensibile riflesso anche in Cremona, che, pur conservando la sua preminenza nel campo agricolo, ha conseguito un notevole incremento soprattutto nel quadro delle produzioni alimentari (torroni, mostarde, farina, latticini, carni salate) e delle macchine agricole.

    Pianta di Cremona.

    Cremona: la Piazza del Comune con il Battistero.

    L’agglomerato urbano si è espanso fuori dalle mura, particolarmente lungo l’arco orientale e settentrionale tra Porta Venezia e Porta Milano, nel cui tratto intermedio trovasi la stazione ferroviaria. La popolazione, in parte immigrata dalla campagna, s’è accresciuta notevolmente nel nostro secolo, raggiungendo nel 1951 i 56.000 abitanti.

    Mantova

    Mantova sorge sulla riva destra del Mincio che, curvandosi a formare un’ampia ansa, s’apre nel contempo a guisa di lago. L’espansione delle acque fu opera ardita di molti secoli or sono e lo specchio, recingendo la città, ne ha difeso la vita e le glorie, ma ha al tempo stesso condizionato la sua struttura e la sua espansione, sicché giustamente è stato detto che la storia e la vita di Mantova sono strettamente connesse con la storia e le vicende dei laghi.

    Quando sia stata fondata la città, più che storia, è leggenda. Certo la sua origine, forse etrusca, fu antichissima e per lunghi secoli nell’antichità aleggiò il mito di Ocno, eroe fondatore, cui più tardi si sovrappose quello dell’indovina Manto. Come ogni altra città lombarda, fu sede dei Galli sinché giunsero le legioni romane; allora l’abitato prese forma quadrilatera con centro, forse, nell’attuale piazza Sordello, ossia nel luogo più elevato dell’attuale città. Tracce della romanità non ne esistono, non di mura, nè di foro, nè di terme, nè di templi e solo qualche antica cronaca ne dà cenni vaghi. E probabile che Mantova romana fosse centro rurale, in mezzo a una campagna prospera (i laghi non esistevano ancora) sapientemente irrigata, tardis ingens ubi flexibus errai Mincius, il qual fiume correva allora pigramente al mare, non senza formare qualche ristagno. Questa visione ce la offrono gli scrittori latini e soprattutto Virgilio, nativo della campagna di Piètole, la quale, assieme a parte dell’Agro mantovano e cremonese, fu assegnata da Cesare Ottaviano ai suoi veterani (41 a. C.). La struttura della città romana si conservò probabilmente a lungo e incerte son le notizie dei più antichi mutamenti della cerchia.

    Forse nel 589, a causa delle abbondanti piogge autunnali di quell’anno, sarebbe avvenuto un fatto di notevoli conseguenze per Mantova: l’Adige in piena, rotti gli argini, avrebbe colmato con le sue alluvioni l’alveo per il quale Tacque del Mincio fluivano al mare e il Mincio avrebbe quindi deviato il suo basso corso verso il Po per sfociarvi presso Governolo. In seguito a ciò, rigurgitando le acque di piena del maggior fiume nell’alveo del minore e da questo dilagando nella campagna, i modesti acquitrini prossimi a Mantova divennero vasti stagni temporanei. Questa situazione, oltre che rendere la zona comprensibilmente insalubre, non serviva molto alla difesa della città, tanto è vero che Agilulfo, re dei Longobardi (volendo punire i Mantovani della loro opposizione) nel 602 potè conquistare la città. Egli ordinò di smantellarne le mura, che furono riedificate solo nel 661 dopo la morte del re e per concessione della madre di lui, Teodolinda. Le mura erano per un tratto segnate dal Fossatum Bovum o Porcorum (così chiamato perchè lungh’esso i macellai scannavano gli animali) ; tale fossato, dall’Ancona paludosa di Sant’Agnese, oggi piazza Virgiliana, passava lungo la via oggi detta dell’Accademia e si gettava nel Mincio; questo poi lambiva gli altri lati della cerchia. La città era divisa in rioni che prendevano il nome delle chiese (San Pietro, San Paolo, Sant’Agata, Santa Croce, Santa Maria di Capo di Bove, Santa Maria Mater Domini, Sant’Alessandro, San Damiano, Santa Trinità). Così la città si presentava verso il Mille allorché entrò a far parte dei domini feudali della famiglia di cui fu ultima e famosa rappresentante Matilde di Canossa. Fu appunto con Matilde che Mantova si preparò a resistere a Enrico IV, il quale assediò invano la città (1090-91); questa, accordatasi poi con l’imperatore, fece resistenza a Matilde, che la assediò (1114) e la vinse solo per fame. Forse da questi fatti d’arme, oltre che dalla necessità di bonificare l’aria e dal desiderio di conferire alla città un aspetto ridente, nacque e maturò l’aspirazione di dare a Mantova una difesa di prim’ordine; ciò che il libero Comune attuò affidandone al Piten-tino la realizzazione. Con le dighe di Mulina e Belfiore e gli argini di Governolo e di Cerese il geniale architetto disciplinò le acque in modo che la città fu avvolta, quasi un’isola, tra quattro laghi: il lago Superiore, il lago di Mezzo, il lago Inferiore e il lago di Paiolo. Per comunicare con il territorio circostante vi erano dei ponti (quali il ponte dei Moli ni e il ponte San Giorgio, tuttora esistenti) e la città poteva ritenersi facilmente difendibile. Ma, non contenti, « … finiti i laghi per ampliare maggiormente il riparo che essi apportavano alla città, si misero i cittadini a pensare di circondarsi anco le case in riva al lago di bonissime mura, sì come fecero l’anno 1240 incominciando dal Cepetto fino alla Pradella, et l’anno 1242 dalla Pradella fino al Santo Nicolò» (G. Bertazzolo). Solo nel 1352 doveva completarsi la cerchia con il tratto di mura da San Nicolò al Cepetto (Porta dei Molini), ma ormai Mantova poteva ritenersi una valida fortezza. Ne fece la prima esperienza nel 1252 Ezzelino da Romano, che sferrò, senza risultati, un assalto violentissimo alla città.

    Pianta di Mantova in una incisione di M. Fiorimi del 1600 circa.

    Mantova: suggestiva veduta della città dal lago Inferiore.

    Intanto Mantova si andava arricchendo di opere insigni, quali, in epoca comunale, il Palazzo della Ragione e il Broletto, e in sèguito, durante il predominio dei Bonacolsi, il Palazzo Bonacolsi, il Palazzo del Capitano, l’Arengario, la «Magna Domus » e diverse chiese.

    Nel 1328, in sèguito alla cacciata e alla morte del Passerino (Rinaldo Bonacolsi), Luigi Gonzaga, capitano del popolo, assunse il potere e instaurò la signoria che si reggerà sino al 1627. Furono tre secoli di grande splendore. La città acquistò importanza politica, divenne un centro d’arte e di cultura, si arricchì di opere d’arte. Vi accorsero in tempi diversi uomini insigni nelle arti e nelle lettere, quali Vittorino da Feltre che nella Cà Giocosa fondò la scuola umanistica, Leon Battista Alberti che progettò le chiese di San Sebastiano e di Sant’Andrea, Andrea Man-tegna che affrescò mirabilmente nel Castello la « Camera degli Sposi », il Poliziano che ebbe l’ispirazione per la sua favola d’Orfeo, Giulio Romano che sbizzarrì la sua fantasia nella costruzione del Palazzo del Tè, e molti altri ancora.

    La città, che già contava circa 70.000 ab., si abbellì, venne dotata di edifici di pubblica utilità, furono, con opere diverse, rafforzate le mura, furono rammodernati più volte i ponti e furono tentati espedienti per porre riparo agli imprevisti dell’opera del Pitentino. Ma nel 1536, divenuti i Gonzaga anche signori del Monferrato, si profilò il declino politico ed economico di Mantova, che sfocerà nell’infruttuoso assedio del 1529 ad opera delle truppe imperiali e, in sèguito a tradimento, al vandalico e crudele saccheggio dell’anno successivo.

    La città decadde; la grave inondazione del 1654, devastò la campagna, e le gravi pestilenze, che decimarono la popolazione, contribuirono a rendere precaria la sua situazione. I Gonzaga del ramo cadetto dei Nevers non ebbero qualità per rialzarne le sorti e nel 1707 Mantova passava sotto il diretto potere del governo austriaco.

    Mantova: Piazza Sordello. Sullo sfondo il lago di Mezzo e la campagna a nordest della città.

    Mantova: la rotonda di S. Lorenzo, il Palazzo della Ragione, la Torre dell’Orologio e la cupola di Sant’Andrea.

    Intanto era andata peggiorando la situazione idrologica per il graduale interrimento dei laghi che, in periodi di magra, si trasformavano in limacciosi e mefitici pantani; scaduto almeno in parte, per gli sviluppi della tecnica militare, il loro scopo difensivo, sorse quindi il problema di far scomparire gli specchi d’acqua. Verso il 1780, per volere di Viaria Teresa, fu tentato il prosciugamento del lago Paiolo forse con esito modesto, ma tuttavia tale da eliminare il carattere quasi insulare della città. Il problema rimase tuttavia per gli altri laghi e fu sentito sempre più acutamente. Conquistata e riconquistata da Napoleone, Mantova fu da questi fortificata; tornata sotto l’Austria conservò il suo carattere di fortezza, caposaldo del « quadrilatero », teatro di memorabili vicende risorgimentali. Ma il problema dei laghi si faceva, con il trascorrere del tempo, sempre più urgente. « La loro funzione era terminata, ora erano di danno: impedivano l’espansione della città in quanto bloccata dalle acque per troppo ampio giro, intrinstivano la vita dei cittadini con un clima nebbioso e umido nei mesi invernali, maleodorante nei mesi estivi » (E. Azzi). I progetti si susseguirono nel tempo, ma l’ingente costo ne ha impedito la realizzazione e ancora attualmente la città sta quasi come una penisola per tre lati avvolta dalle acque. Anche per questa ragione, Mantova, non ha avuto, nel nostro tempo, uno sviluppo pari a quello delle altre città lombarde e la sua popolazione è rimasta numericamente assai al di sotto di quella che vi risiedeva nel più splendido periodo dei Gonzaga, contando ancora nel 1951 poco più di 47.000 abitanti. Lo sviluppo urbanistico si va manifestando tuttavia lentamente nell’unica direzione possibile, ossia sul lato meridionale; qui la città va espandendosi con un aspetto moderno, in contrasto con il volto grandioso e severo della parte rinascimentale.

    Mantova: pittoresca veduta sul Rio, che attraversa la città, sboccando a Porto Catena.

    Conclusione

    Così come una tessera avulsa da un mosaico, pur brillando di un suo vivido colore e di una sua splendente lucentezza, risulterebbe alla fine insignificante se trattenuta fuori dal quadro d’assieme della composizione, altrettanto il nostro territorio, per quanto dotato di smaglianti e invidiabili caratteristiche, risulterebbe svuotato di vitalità se si mancasse di ricollocarlo nel grembo della madre comune; e se l’esigenza di porre in luce le precipue caratteristiche lombarde ha giustificato la momentanea enucleazione della parte dal tutto, giunti a questo punto è necessario riannodare sulla trama comune gli stami del tessuto particolare. Tanto più ciò s’impone in quanto la Lombardia non rappresenta una vera e propria regione geografica e tanto meno una regione a sè, distinta dalle altre, ma soltanto un lembo del vasto bacino padano. La sua individualità ha radici storiche, originandosi soprattutto dalla forza d’attrazione, crescente nei secoli, esercitata da Milano in un raggio di ampiezza progressivamente maggiore. Territorio marginale al primo affermarsi di Roma e poi di transito per più lontane conquiste, indifeso teatro di barbare escursioni e di efferate distruzioni al declinare della protezione di Roma, la Lombardia uscì dalla penombra all’affermarsi delle libertà comunali, prodromo della vitalità della popolazione locale. La storia della Lombardia divenne allora storia di città che la posizione geografica favorevole (già intuita dai condottieri romani che vi avevano costituito le loro basi) aveva fatto preminenti. Nella lotta scatenatasi tra le città stesse fu ancora la posizione geografica che favorì Milano, posta su un tenue rilievo proteso, a guisa di penisola, al margine tra l’alta pianura ancora densa di selve e la bassa pianura ancora intrisa di acquitrini, all’incrocio di grandi vie di comunicazioni padane e alpine, in posizione mediana del vasto bacino del Po. Milano estese il suo dominio, s’affermò via via sulle altre città lombarde ad eccezione di Mantova, più remota e soprattutto ben difesa dallo specchio dei suoi laghi. Ed ecco, dopo la lotta contro Como, Lodi, Cremona e le altre città vicine, la lotta di Milano contro potenze lontane, contro i Veneziani, i Grigionesi, i Francesi; non conta che sopravvenga poi la dominazione straniera. Milano ha imposto la sua supremazia regionale, ha affermato la sua vitalità; il ruolo di Milano è ormai quello delle grandi città europee.

    Se questi cenni, pure insufficienti, possono lasciare intravvedere per rapidi lampeggiamenti le situazioni geografiche e storiche che, attraverso la supremazia di Milano e l’orbita di tale supremazia, si trovano a fondamento del delinearsi territoriale della Lombardia, ben più ampio discorso sarebbe necessario per seguire il manifestarsi della supremazia economica milanese, condivisa dalle altre città lombarde, la cui orbita attualmente ha ben altri confini che quelli regionali. Essa trae sì origine dal favore dei luoghi e della posizione geografica, ma in misura non secondaria daH’ammirevole fervore, dalla grande intraprendenza, dalla meravigliosa tenacia degli uomini, che si espresse dapprima nell’opera di trasformazione agraria del suolo, in cui il Milanese primeggiò stimolando pari intensità di opere in più ampio raggio, e susseguentemente nell’artigianato e nell’industria quantitativamente e qualitativamente apprezzabile. Sin dal Medioevo entrambi i settori di attività determinarono con i loro prodotti un vivacissimo mercato e relazioni commerciali non solo con le città italiane ma anche con le città d’Oltralpe. La posizione già eminente assunta dalla Lombardia del Quattrocento ben si rileva, ad esempio, dalle attestazioni del doge Tomaso Mocenigo, per quanto forse un poco esagerate; è comunque certo che a Venezia le città lombarde acquistavano quantità ingenti per quei tempi di materie prime, soprattutto cotoni greggi e filati, lane « francesche » e spagnole, e compensavano le importazioni con quasi 50.000 pezze di lana e di fustagno provenienti dalle manifatture di Como, di Bergamo, di Monza, di Brescia, di Milano, di Pavia. Anche i mercanti stranieri si sentivano attratti dal mercato lombardo, in gran numero affluivano i Tedeschi, che nel loro commercio erano agevolati dai facili Passi del Gottardo, del San Bernardino, del Lucomagno, dello Spluga, di Sèttimo, e non solo i piccoli mercanti facevan traffico, ma anche i rappresentanti delle maggiori case di Augusta, di Ulma e di Basilea; pertanto, notevoli quantità di metalli grezzi, di argento, di rame, panni di lana, fustagni e anche grosse partite di cereali e di vini prendevano le vie delle Alpi. I Lombardi non si limitavano però ad attendere i mercanti stranieri, ma si recavano essi stessi ai più ricchi mercati europei. Così già nel secolo XIII la Camera dei mercanti di Milano figurava come la principale interessata all’apertura e al mantenimento della strada del Sempione che i Milanesi frequentavano numerosi per recarsi alle fiere di Champagne e più tardi a quelle di Ginevra e di Lione; all’inizio del Trecento furono ancora i mercanti milanesi i primi a valersi della nuova strada del Gottardo attraverso la quale, passando per la Lorena, essi si avviavano a Bruges. La Camera stessa trattava direttamente coi rappresentanti delle organizzazioni mercantili per assicurare condizioni favorevoli ai mercanti lombardi che trafficavano a Genova, a Napoli, in Francia, in Fiandra, in Inghilterra. La via di Genova assunse per essi particolare importanza sia per il transito terrestre verso la riviera francese sia per l’imbarco verso la Spagna e il Napoletano. La Lombardia (e in modo particolare Milano) assumeva così fin dall’età viscontea e sforzesca quella funzione (che si conserverà parzialmente nei secoli seguenti, anche sotto il dominio spagnolo) « di concentrazione e di smistamento del commercio della valle padana con l’Europa centro-occidentale, che ancor oggi, in misura ben maggiore per l’enorme aumento della potenzialità dei trasporti, costituisce tanta parte della sua grande fortuna economica ».

    Tali precedenti chiariscono il ruolo che la Lombardia, già preminente nell’agricoltura e nei commerci, doveva assumere nel quadro nazionale con lo sviluppo dell’industria moderna. Essa ha conseguito un primato produttivo che si riversa beneficamente su tutto il territorio nazionale, un primato finanziario in grado di concorrere allo sviluppo delle altre regioni, un primato di progresso che si riflette come esempio e stimolo. Naturalmente, per questo intenso fervore di attività la Lombardia è divenuta un’area di attrazione e di afflusso delle forze del lavoro di ogni parte d’Italia. Ci si spiega in tal modo come numericamente la popolazione sia più che raddoppiata dai giorni dell’unità nazionale; per certo nell’anno centenario saranno largamente superati i 7 milioni di abitanti: poderosa concentrazione, che, si presume, sarà corrispondente a quasi un settimo della popolazione italiana. Questo afflusso nazionale, addensatosi nelle maggiori città e nella zona industrializzata, del tutto assorbito in un primo momento dall’ambiente lombardo, con l’andar del tempo e con il suo accrescersi ha determinato sensibili riflessi sulle tradizioni, i costumi, le parlate locali; male davvero modesto tuttavia e comunque minore del vantaggio, poiché l’amalgama non può che giovare a meglio rafforzare la solidarietà nazionale e ad attenuare le tendenze più deleterie del regionalismo, sopravvissute sin troppo a lungo nel tempo. In tal senso si può dire che Milano e le città industriali della Lombardia abbiano agito e agiscano come preziosi crogiuoli.

    Milano, già considerata nei suoi aspetti fondamentali in un quadro regionale dove emerge nettamente sotto ogni riguardo, anche nel quadro nazionale rappresenta un pilastro fondamentale. Essa costituisce il centro nevralgico dell’economia nazionale con forza attrattiva e propulsiva in campo bancario, finanziario, commerciale, industriale. I dati dimostrativi sono molti e vari: alcuni accennati nella precedente esposizione; basta aggiungere, come esempio significativo della potenza attrattiva, che il volume degli scambi della Borsa di Milano è, come media di anni recenti, quattro volte superiore a quello della Borsa di Roma, seconda in Italia, e enormemente superiore a quello delle Borse di Napoli, di Genova, di Firenze, di Venezia, di Bologna, di Trieste e di Palermo. La potenza propulsiva si manifesta con l’intervento diretto di capitale e di iniziativa, e non v’è forse regione italiana che non ne abbia testimonianza; si manifesta anche come emulazione e imitazione a tutto vantaggio dell’economia nazionale.

    Infine, in un quadro nazionale, non si può trascurare la funzione lombarda, derivata dalla posizione geografica, di nodo di raccordo tra l’economia italiana e quella continentale. Da ciò nasce quella partecipazione fattiva e concreta all’attività economica europea che permette a Milano di aspirare a un ruolo primario nel quadro del Mercato Comune Europeo.

    In conclusione e senza esagerazione si può considerare la Lombardia come antesignana del progresso economico dell’Italia. Per più aspetti, nella precedente esposizione, c’è stato motivo per confermare questa sua posizione, che si è venuta accentuando in confronto con il passato. Ma è altresì confortante rilevare come le distanze con le altre regioni siano notevolmente diminuite con il trascorrere del tempo, non per un regresso lombardo, ma  per un progresso che si diffonde in più ampio spazio della Nazione e ben venga il giorno in cui la Lombardia possa conservare soltanto il vanto di aver trascinato tutto il territorio nazionale verso le più avanzate forme di progresso.