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Vicende storiche Lombardia

    Le vicende storiche

    I primi abitatori

    « Chi furono gli abitatori del nostro paese ? ». Con questa domanda Cesare Cantò esordiva nella Grande Illustrazione del Regno Lombardo-Veneto e nella risposta, rifacendosi a quanto generalmente si ammetteva, ripeteva la leggenda dei Celti antichi venuti dall’Asia, quattordici secoli a. C., calando dalle Alpi. Essi «piaciutisi della Valle di qua del Po, ne snidarono i Siculi, i Veneti e i Liguri, primi abitatori della pianura » e la signoreggiarono fondando la confederazione detta Is-Ombria, cioè l’Insubria, vale a dire il paese degli uomini prodi. Ma alcuni anni prima che il Cantù stendesse la seducente visione romantica dell’antica epopea insubra, legata nei riti e nella lingua a quella del paese transalpino che poi divenne la Francia, e della servitù in cui gli Insubri caddero ad opera degli Etruschi, venuti pur essi dal fecondo seno dell’Asia e calati nella pianura dalle Alpi Retiche, il rinvenimento di tracce di vita preistorica (che s’accrebbero notevolmente con l’intensificarsi delle ricerche) contribuivano a diradare in parte il velo di nebbie sui più lontani insediamenti umani nella nostra regione, che si possono ormai sicuramente far risalire al Neolitico e fors’anche al Paleolitico, se troveranno conferma i primi incerti reperti lombardi raccolti nel 1938 nella cavità del Buco del Piombo, sopra Erba (Como).

    La prima felice scoperta si ebbe nel 1860, a Mercurago, presso Arona. Ma le indagini sistematiche in territorio lombardo si debbono ad Antonio Stoppani, che, nel 1863, faceva conoscere il tesoro delle sue scoperte palafitticole sul lago di Varese, dove la stazione di Isolino richiamò usi e maniere delle palafitte del territorio svizzero, dando fondamento alla teoria sulla provenienza dalla Rezia dei più antichi abitatori della pianura padana. Poi nuove ricerche portarono a diversi orientamenti, che ci presentano la civiltà delle palafitte come uno sviluppo di quella che fu la vita dell’uomo che abitò nelle caverne, nei « fondi di capanne », come attesterebbero i ritrovamenti all’isola dei Cipressi sul lago di Pusiano, a Trescore, a Seniga, a Ostiano, ecc. Comunque è certo che i palafitticoli si espansero dal Varesotto al Bresciano, sul lago Maggiore, sui laghetti di Varese, di Monate e di Comabbio, sui laghi briantei di Pusiano e di Annone, sul lago d’Iseo e sul lago di Garda. E mentre quasi nulla si sa dell’uomo delle caverne, l’ampia documentazione (ricca di materiale siliceo e osseo) raccolta nelle varie stazioni di palafitte offre la possibilità di ricostruire la vita dell’uomo palafitticolo, che viveva di caccia, di pesca e forse anche dei raccolti di una primitiva agricoltura. Forma di civiltà, questa, che rispecchia anche i reperti delle stazioni terramaricole del Mantovano e del Cremonese, ma qui, forse, già più progredite.

    Il lago di Varese, dove, presso le sponde, sono state trovate tracce numerose di un insediamento palafitticolo. Anche il vicino lago di Biandronno (che si intravvede sullo sfondo) non manca di identiche tracce.

    Nuova luce sull’insediamento preistorico in Lombardia portarono le ricerche sull’età neolitica, che, dal Milanese, al Bresciano e al Mantovano, confermano l’ascesa nel cammino della civiltà dell’uomo delle palafitte. In questo periodo si affinava la lavorazione degli utensili di selce, si forgiavano armi di rame e si praticava sicuramente l’inumazione (Sepolcreto di Remedello Sotto).

    L’età del bronzo segna una più grande conquista: i villaggi all’aperto, come documentano scoperte fatte, ad esempio, nel Mantovano e nel Cremonese. La falce di bronzo e la lancia sono il simbolo dei nuovi agricoltori e dei nuovi guerrieri. Le necropoli dei terramaricoli attestano la pratica dell’incinerazione, come si rileva a Monte Lonato e a Pietole Virgilio.

    Poi (ed è da poco varcato il primo millennio a. C.) un nuovo progresso segna « la trionfante età del ferro, affidata a uomini ormai scaltriti negli scambi commerciali e culturali, vicini e lontani: Golasecca, Somma Lombardo, Vergiate, Rebbio e la vicina Camorta ed altri ed altri nomi di località, sempre più prossime a Milano, ci trasmettono l’ombra sempre più chiara di codesti antichi ricordi » (A. Calderini).

    Incisioni rupestri a Capo di Ponte in Valcamonica. Le figure (uomini e animali) sono scolpite su vaste superfìci di arenarie rossastre e grigiastre limate e lisciate dal ghiacciaio pleistocenico e rappresentano la testimonianza del maggiore insediamento cammino della preistoria.

    Brescia. Il Tempio Capitolino o Capitolium, eretto nel 73-74 d. C. sotto l’imperatore Vespasiano. La sua mole limitava uno dei lati minori del Foro dell’antica città romana. Da una cella del tempio fu tratta alla luce la famosa statua bronzea detta della Vittoria di Brescia.

    La civiltà di Golasecca palesa qualche influenza estense e, meglio, etrusca. E quale, poi, sia stata la dominazione deH’Etruria per via commerciale o politica è possibile conoscere attraverso la notevole documentazione epigrafica. Essa, dalle Alpi al Po e all’Oltrepò, si divide geograficamente in aree: l’una dei nord-Etruschi (tra Bolzano, Sondrio e Lugano), ossia degli antichissimi Etruschi rimasti per via, lungo la discesa nella penisola, l’altra degli Etruschi Cisappenninici, più noti alla storia. L’indagine linguistica conferma tale distinzione.

    Dai Liguri e dagli Etruschi, i secoli sono corsi fino ai Celto-Galli. Come questi abbiano conquistato la Valle padana lo dice la leggenda più che la storia. L’invasione si fa datare dal 400 a. C., due millenni e mezzo, all’ingrosso, dall’apparizione dei Liguri, circa mille anni dopo quella degli Insubri e ottocento dalla dominazione etrusca. Di quanto volle far credere la storiografia romantica sull’originalità celto-gallica, della capacità organizzativa sociale e politica, della religione, ecc., oggi non molto resiste all’indagine critica. I ritrovamenti archeologici si riferiscono, sotto il rispetto artistico, al periodo romano, onde trovano più fondamento gli attributi di celto-romano e di gallo-romano; e, come in arte, anche nella monetazione è stato ammesso che i Galli furono tributari dei Greci e dei Romani.

    Dei Galli Cisalpini uno dei più potenti gruppi fu quello dei Cenomani, abitanti tra le Alpi e il Po, dalla sponda occidentale del Garda fino all’Oglio o all’Adda, che ebbero come capitale Brescia. Essi dominarono su altre tribù, come i Camunni di Valcamonica ed estesero la loro influenza sulle valli finitime che risalgono verso il Trentino, sì che Brescia fu salutata da Catullo madre della sua natale Verona.

    Dalla conquista romana alle dominazioni straniere

    Il primo incontro dei Galli con i Romani avvenne, dopo la sconfitta degli Insubri nel 221 a. C., ad opera di Marco Claudio Marcello; e se i moti posteriori turbarono i buoni rapporti stabilitisi inizialmente e se la battaglia del Ticino e la vittoria di Annibaie poterono dar modo di palesare una latente ostilità, la supremazia di Roma si affermò definitivamente sui Cenomani nel secolo che intercorre tra il 118 (sconfitta degli Stoni) e il 16 a. C., allorché, sotto Augusto, i superstiti dell’ultima ribellione, vinti da Publio Silio, furono venduti all’asta e gli altri aggregati a quel ch’era ormai il Municipio di Brescia.

    L’organizzazione romana delle Gallia Cisalpina e la condotta dei Galli verso Roma sono fatti noti che rientrano in un quadro più generale. Il territorio, che ai giorni nostri va sotto il nome di Lombardia, risultava del tutto indistinto; con l’assetto augusteo delle Province, esso era suddiviso per la maggior parte tra la X Provincia, ossia la Venetia, e la XI Provincia, ossia la Transpadana, il cui limite divisorio, tra le Alpi e il Po, si snodava lungo il bacino dell’Oglio e, nella parte mediana ne seguiva il corso; l’Oltrepò mantovano apparteneva alla VIII Provincia, ì’Aemilia, e l’Oltrepò pavese era diviso tra questa e la Liguria, che costituiva la IX Provincia. Inserita da Augusto nell’Impero come parte integrante dell’Italia, la vasta pianura aveva visto accrescersi la sua prosperità, sicché — poteva affermare Strabone — « per la frequenza degli abitanti, per l’ampiezza e l’opulenza delle città, i Romani di quelle contrade sovrastavano a tutti gli Italiani ». Quelli che erano stati minuscoli insediamenti di remota origine ligure, etrusca e gallica erano divenuti

    fiorenti municipi, come Novum Comum, Bergomum, Brixia, Mediolanum, Ticinum, Cremona e Mantua. Con la Tetrarchia, Milano raggiunse l’acme dello splendore, sì da essere chiamata da Ausonio « la seconda Roma ». Qui fu proclamato quell’editto del 313, in nome di Costantino e del collega d’oriente Licinio, che significò la grande vittoria del Cristianesimo sul paganesimo. Quell’influsso « fatale » che venne attribuito a Milano data forse da questo grandioso avvenimento.

    Il Cristianesimo si diffuse ben presto nella pianura padana e le antiche basiliche dedicate ai martiri ricordano la secolare persecuzione e il trionfo definitivo nel secolo che fu di Sant’Ambrogio (333-397), personalità politica e religiosa che nella storia lombarda risuonerà quanto alcun’altra mai, anche per il suo romano patriottismo di fronte ai barbari. E tra gli ospiti illustri del tempo, a cui Milano offrì dimora, sopra tutti avanza Sant’Agostino, che nella vicina campagna, ove trovò quiete il suo animo, scrisse Le Confessioni.

    Milano. Le Colonne di San Lorenzo Maggiore. Esse sono la testimonianza più suggestiva di Milano romana; provengono da un edificio (tempio o terme) del II o III secolo e vennero qui trasferite quando fu eretta, nel IV secolo, la basilica cristiana.

    Pavia. Piazza Leonardo da Vinci con tre torri medioevali, superstiti delle moltissime dominanti sull’antica città, che pertanto era chiamata civitas centum turrium.

    Poi venne l’ora, nel V secolo, delle invasioni barbariche; e tra le tante orde, gli Eruli, i Goti, i Longobardi, che calarono nella pianura padana, vi si soffermarono definitivamente gli ultimi, per lasciarvi, dopo la fusione con i vinti Romani, il retaggio del nome. Quanto abbia sofferto delle invasioni la pianura tra le Alpi e il Po è noto nelle linee essenziali: dalla devastazione subita da Milano ad opera degli Unni di Attila, alle battaglie combattute in campo aperto tra i barbari stessi e tra questi e i Bizantini, dalla battaglia dell’Isonzo (28 agosto 489) che, vinto Odoacre, aprì la via verso la parte occidentale della pianura a Teodorico, alla battaglia dell’Adda (11 agosto 490) che decise il duello mortale tra i due barbari, è tutto un susseguirsi di avvenimenti che coinvolgono i centri maggiori e minori del vasto territorio, facendone preda di guerra e di confisca. La guerra greco-gotica aggravò i danni e la distruzione di Milano, fatta da Uraria, completò il campo delle rovine. Procopio narra lo scempio dell’ira barbarica sopra trecentomila persone, ossia quante ne avrebbe avute nel 539 Milano, che durante la guerriglia e la guerra combattuta, aveva generosamente aperto le porte ai profughi delle campagne. Ben diverso destino toccò a Pavia, eletta da Teodorico, dopo Verona e Ravenna, a terza capitale del suo Regno, rinnovata e arricchita di un Palatium, delle terme e dell’anfiteatro: fu allora che Ticinum cominciò a chiamarsi Papia. Tra le sue mura i Goti opposero estrema resistenza ai Bizantini e poi questi, a loro volta, per tre lunghi anni, ai Longobardi, che poi elessero la città a sede dei re e della corte regia. Per qualche tempo questa preminenza fu contesa da Monza, dove, presso il Palatium, Teodolinda fece innalzare la basilica di San Giovanni Battista, al cui fonte battesimale volle che il figlio Adaloaldo divenisse cristiano e cattolico e, come tale, fratello in Cristo del popolo oppresso e quindi suo naturale difensore di fronte agli oppressori longobardi, di cui era il re. A Pavia si adunavano i grandi del Regno e fu in una di queste assemblee che, nel 643, re Rotari emanò il famoso editto, in cui, nella codificazione delle consuetudini longobarde, affiorano gli influssi della romanità: della lingua e del diritto. Ma nel lungo susseguirsi di lotte, la floridezza economica della regione, che già aveva raggiunto alti livelli, era venuta via via declinando: i commerci s’erano arenati, la vita cittadina s’era illanguidita, l’attività s’era immiserita. Sul capo di Desiderio gravò la sconfitta e la fatale espiazione di Ermengarda, come vuole il dramma romantico, se non la storia che non ha risposto generosamente alle appassionate ricerche dei longobardisti.

    Ai Longobardi successero i Franchi (774). Con questi la tradizione regia di Pavia non soffrì soluzione di continuità, anche quando alla ripudiata intitulatio di Regnum Langobardorum si sostituì quella fatidica di Regnum Italiae. Il sistema feudale iniziato dai Longobardi si consolidò con il dominio dei Franchi: ai duchi e ai conti era demandato il governo delle città, e su questi esercitava l’autorità imperiale un principe, elevato alla dignità di re d’Italia, alla cui scelta partecipavano elettori italiani, tra i quali, primo, l’arcivescovo di Milano, la cui potenza s’accrebbe in questo periodo in modo cospicuo, tanto da poterla spuntare anche con Carlo Magno a proposito del rito. Ciò valga per misurare la potenza spirituale della Chiesa ambro siana, la quale, ripetendo il nome del santo vescovo attraverso i secoli, dal tardo impero alle invasioni germaniche e ai regimi successivi, difese con vigore il suo dominio spirituale e curiale, sì che si può affermare che la storia dell’arcidiocesi ambrosiana s’identifica con la storia della regione su cui essa si estese, ossia su buona parte della Lombardia e, oltre i confini, sul Canton Ticino, che rimase dipendente ecclesiasticamente dall’arcivescovo di Milano fino al 1888. Carlo Magno fu costretto a riconoscere il rito ambrosiano e non potè, pertanto, dar esecuzione, in buona parte della sua nuova conquista italica, al capitolare del 789, col quale si imponeva in tutti i territori soggetti il cantus romanus. Fu tra la fine della dominazione longobarda e l’inizio della dominazione carolingia, e più precisamente dalla prima alla seconda metà del secolo Vili, che il metropolita ambrosiano s’intitolò arcivescovo. Il primo fu Tommaso: il sanctissimus vir domnus Thomas archiepiscòpus sanctae Mediolanensis Ecclesiae, che governò la cattedra santambrosiana dal 755 al 783. Il suo successore, l’arcivescovo Pietro, il 22 ottobre dell’anno 789, circondato da tutta la sua curia, come il solenne avvenimento comportava, fondava il monastero di Sant’Ambrogio presso la chiesa dove riposava, tra i santi martiri Protaso e Gervaso, il santo padre e fondatore, confessore di Cristo.

    Vedi Anche:  La popolazione e la sua distribuzione

    La Basilica di San Pietro ad Agliate Brianza. È tra le più antiche della Lombardia e la tradizione ne attribuisce la fondazione ad Ausperto, arcivescovo di Milano (880 circa).

    Pavia, che durante la dominazione longobarda s’era affrancata dalla Chiesa ambrosiana, teneva pur essa alta nominanza e fu durante la dominazione carolingia che, fermi restando pur ivi la corte e il tribunale regio, ebbe vita nella città, per effetto del Capitolare di Corteolona (maggio 825), quella scuola in cui si ricercano le origini della famosa Università. Il primo insegnante fu Dungal, di origine nordica e monaco, il quale donò la sua biblioteca al Monastero di Bobbio (fondato al principio del secolo VII dall’irlandese San Colombano), sede di uno scriptorium illustre, che lasciò splendidi codici conservati per la maggior parte nella Biblioteca Ambrosiana, nella Vaticana e nella Universitaria di Torino.

    Durante la dominazione carolingia, anche Como si riaffacciò alla storia. Al tempo delle invasioni aveva subito anch’essa le angherie dei soldati di Attila: forse aveva avuto modo di riaversi, ma le fortificazioni di Narsete non le erano giovate contro i Longobardi, che la legarono al territorio di Milano. Sotto i Franchi, Como fu innalzata a comitatus; a ciò le giovò la posizione notevolissima dal punto di vista militare e ben presto la città crebbe in potenza.

    E ancora nel secolo IX, tra quelle che oggi sono le maggiori città lombarde, un’altra emerse dall’oscurità: Mantova. Il primo accenno al suo nome è legato al vescovo Laiulfo vivente nell’827; poi su di essa cala di nuovo il silenzio, fino a quando Bonifacio di Canosa non la scelse come sua sede. La ripresa cittadina avvenne nel secolo X e sboccherà nell’XI e nel XII in quella fioritura di vita e di civile progresso, donde sorge il Comune e una nuova storia nella vita del popolo italiano.

    Nell’ordine delle successioni dinastiche che s’ebbero dopo la deposizione di Carlo il Grosso (887), a cui, ultimo dei Carolingi, la sorte beffarda aveva serbato il nome del primo sacro romano imperatore, si annoverano casate italiane e casate d’oltralpe, quelle di Provenza, di Borgogna e, infine, di Sassonia che legherà la Corona d’Italia a quella di Germania per secoli. Nella lotta, intessuta di violenze, d’astuzie e d’inganni, per il possesso della Corona, la storia della Lombardia nel declinante millennio non si dissociò da quella del Regno d’Italia. Per la loro posizione geografica le città lombarde, specialmente Milano e Pavia, ebbero tuttavia un ruolo non secondario; ma fu soprattutto l’immensa autorità dell’arcivescovo di Milano (ritenuto per gran tempo il depositario legittimo del diritto di incoronazione dei re d’Italia) che fece di questa città il fulcro di molti avvenimenti storici.

    La Casa di Sassonia regnò sull’Italia sino al 1024 e ad essa succedette la Casa di Franconia, la quale imperò in Germania e in Italia esattamente un secolo.

    Il sorgere dei Comuni

    Il secolo di supremazia della Casa di Franconia fu contrassegnato da avvenimenti solenni. Fu infatti l’età della prima formazione degli Stati nazionali in Europa, del rinnovamento sociale ed economico, delle Repubbliche marinare, della lotta per le investiture, delle Crociate, del Comune. Nei duelli dinastici, nelle lotte tra l’Impero e il Papato e negli avvenimenti connessi, i grandi vassalli e gli alti ecclesiastici fanno valere il loro apporto alla contesa, il popolo acquista coscienza del suo stato: i centri lombardi, da Milano a Como a Pavia, gareggiano in quel risorgimento sociale, anelanti a più ampie libertà.

    Cominciò Pavia: nel 1024, alla morte di Enrico II, distrusse il Palatium. Milano accolse Corrado II che, autorevolmente sostenuto dall’arcivescovo Ariberto, fu incoronato re in Sant’Ambrogio.

    Ariberto da Antimiano appare una tra le figure politiche di più alta risonanza del secolo XI. Disceso da stirpe longobarda, fattosi sacerdote, rifiutò la sua legge e visse, in conformità del canone, secondo la legge romana. Nel governo dell’arci-diocesi (esercitata con severa autorità) e nella lotta contro l’imperatore (da amico divenutogli nemico a causa della questione dei valvassori) non volle mai piegarsi, anche quando i valvassori, ribellatisi, si unirono in una poderosa alleanza, la « Motta », e sconfissero i suoi fedeli vassalli e «capitanei» o «cattani», a Campomalo (1036). Corrado II, invocato dai valvassori, scese in Italia e, preoccupato del crescente potere della feudalità ecclesiastica, elargì la Constitutio de feudis e marciò su Milano. I Milanesi si strinsero allora attorno al loro arcivescovo e combatterono sotto la strana insegna militare e religiosa ad un tempo costituita da un carro con sopra la croce e il gonfalone, il Carroccio, che diventerà poi il simbolo della libertà comunale; combatterono con tanto accanimento che Corrado fu costretto a levar le tende. Enrico III, succeduto a Corrado, trovò una forma d’accordo con Ariberto. Però, pochi anni appresso (1041), nuovi contrasti tra il popolo, ormai conscio della sua forza, e i valvassori, con i quali questa volta si era schierato l’arcivescovo, costrinsero questo e quelli a lasciar la città. Il timore di più gravi danni per un intervento dell’imperatore indusse le parti avverse a un accordo, ma ormai l’autorità dell’arcivescovo e i privilegi dei valvassori erano tramontati. Il Comune nasceva così integro e indipendente.

    Se, dopo aver accennato ai fatti politico-religiosi, si vuol ricercare nella cronologia una data o un avvenimento che sia indizio dell’evolversi della vita civica, ecco, con l’anno 1066, tralucere dai documenti cenni su arti e mestieri operanti nella città di Milano, sicché facilmente si può arguire l’operosità diffusa e la ricchezza circolante: si parla di contrade degli spadari e degli armorari, degli speronari, dei borsai, dei cappellai, degli orefici, dei mercanti e di altri mestieri ancora e della pescheria vecchia e di simili cose: una società alacre e vivace in cui non mancavano già i primi accenni a lotte di classe.

    Brescia. La Torre del Popolo, del secolo XI, e il Palazzo del Broletto, del secolo XII, con la Loggia delle Grida, monumenti tra i più suggestivi dell’età comunale lombarda.

    Como. La torre di Porta Vittoria, del 1192, e le mura di età comunale che, con planimetria rettangolare, recingono la città vecchia. Il loro perimetro segue dappresso lo sviluppo delle difese romane; in prossimità della Torre, sotto un edificio scolastico, vi sono intatti avanzi della Porta Praetoria, del II o III secolo dopo Cristo.

    Intanto anche altre città lombarde erano sorte a Comune; ma dobbiamo pur credere che ciò non piacesse a Milano, la quale con ogni mezzo, anche con la guerra e la distruzione, perseguì il suo programma di espansione e di accentramento, per sempre e vieppiù imporre il suo prestigio di metropoli. Prima cadde Como: fu nell’agosto del 1127, dopo una guerra decennale alla quale presero parte, contro il fiorente Comune del Lario, città di qua e di là del Po: Asti e Cremona, Piacenza e Parma, Modena e Bologna. Poi fu la volta di Pavia e di Novara per il possesso e la difesa di Crema. Ma contro i Pavesi era riservata anche un’altra sconfitta: quella ch’essi subirono a Marcinago il 23 luglio 1132, dove gli scampati divennero prigionieri dei Milanesi. Il trionfo di Milano era schiacciante. Anche l’imperatore Lotario si schierò dalla parte di Milano nella Dieta di Mantova, il che giustificò la guerra contro i Cremonesi nell’anno 1137.

    Nella città vittoriosa fermentava intanto nuovo fervore di attività e anche un rinnovato fervore religioso per il quale lavorava, sebbene sopita, la patarìa: ecco la fondazione del monastero di Chiaravalle; ecco in città l’erezione del monastero di Brera ad opera degli Umiliati, noti per l’importanza ch’ebbero poi nei fasti economici della vita civica.

    Tutto sembrava ben promettere all’avvenire di Milano, allorché in Germania, nel n 52, venne eletto Federico Barbarossa. Due anni dopo avvenne la prima calata di carattere esplorativo del nuovo sovrano in Italia; si ebbero la Dieta di Roncaglia, energica rivendicazione dei diritti imperiali, e, contro Milano, le rimostranze dei Pavesi, dei Lodigiani, dei Comaschi e dei Cremonesi; quindi fatti più gravi: la distruzione di Tortona, di Chieri e di Asti. Milano, che non aveva nascosto la sua ostilità all’imperatore, si mise in allarme. Ma la città era troppo forte e le forze imperiali troppo modeste e Federico, dopo essere stato incoronato prima a Pavia poi a Roma, ritornò in Germania (1155). Riapparve tre anni dopo in Italia e rinnovò la Dieta di Roncaglia, dove prevalse il programma rigoroso dell’Impero contro le libertà comunali. Crema e Milano si ribellarono. Il 1159 vide la distruzione di Crema e le sconfitte dei Milanesi ad opera dei Lodigiani e dei Pavesi. Ma non bastò: la guerra contro Milano proseguì aspra; Federico voleva stroncare la sua potenza nascente, nè valsero gli aiuti dei Bresciani e dei Piacentini ai Milanesi, ormai in tragiche condizioni economiche. La città, soffrendo ogni più dura miseria, resistè per l’intiero nói e per tutto il rigido inverno fino al marzo dell’anno seguente; alla fine fu costretta a capitolare. Il Barbarossa ordinò la distruzione, e lo sterminio avvenne tra il 26 marzo e il 1° aprile.

    Ma ecco che il nuovo arcivescovo Galdino, consacrato nel 1166 da Papa Alessandro III, giunse da Roma a ricondurre alla patria i dispersi cittadini e a sostenerli nella dura fatica di ricostruire la città. Il convegno di Pontida, il cui nome più che nella storia risuona nella poesia, è dell’anno seguente: la Lega lombarda riunì Bergamaschi, Bresciani, Cremonesi, Milanesi e Mantovani. Ad un tentativo di rivincita del Barbarossa, ritornato da Roma in Pavia, diedero risposta, con i fondatori della prima Lega, i nuovi alleati: Venezia, Verona, Padova e Vicenza e altre città. La lotta continuò fino alla sconfitta imperiale e alla pace di Costanza (1183), a sette anni e un mese di distanza dall’epica vittoria sui campi di Legnano (29 maggio 1176), così luminosa negli annali della storia d’Italia.

    Legnano. Il monumento eretto a ricordo dell’epica battaglia del 29 maggio 1176, con la quale gli eserciti della Lega Lombarda sbaragliarono le forze del Barbarossa.

    La Rocca Scaligera a Sirmione sul lago di Garda. Venne edificata nel sec. XIII (forse da Mastino della Scala) e la tradizione vuole che vi abbia soggiornato Dante.

    La Signoria dei Visconti e degli Sforza

    Ormai il corso della nuova storia nella valle padana portava l’impronta di Milano: dal Comune, vittorioso sull’Impero, alla Signoria gli avvenimenti si incalzano dalla seconda metà del XII alla prima metà del XIII secolo.

    Dopo la morte di Federico Barbarossa (1190), cui successe il figlio Enrico VI, le lotte tra i Comuni si riaccesero. Ma le Leghe di Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo non ebbero potere di indebolire Milano, anche se il Comune era travagliato da discordie intestine, dalle quali ebbe origine la «Credenza di Sant’Ambrogio». Era, questa, un governo del popolo, che, come ha scritto il Giulini, rappresentava « uno strepitoso avvenimento»; sorse contro le vessazioni dei nobili, ma poi, per le lotte interne, perse il mordente della sua origine e del suo programma. Nè fu, del resto, un caso unico, anche in quel periodo. Se s’indaga nella storia di un altro Comune lombardo, ad esempio Bergamo, si può osservare come dopo la fase iniziale del Comune (quella che è stata definita eroica, perchè la città conquistò l’indipendenza sul campo di battaglia e ascese a tanta dignità e ricchezza mercè l’operosità dei cittadini), il periodo successivo fu contrassegnato dalle lotte faziose e dalle discordie delle classi. La seconda Lega lombarda e il bellum civile del 1226 fecero proseguire le lotte intestine. Finalmente nel 1230 la parte popolare riuscì anche a Bergamo a partecipare al Governo : sorse così la « Società del Popolo ».

    Vedi Anche:  Test

    Ma ormai, qui e altrove, le libertà comunali volgevano al tramonto. L’evoluzione costituzionale del Comune passando, o per libera scelta o per intervento imperiale (come avvenne nel 1158 a Piacenza, a Cremona e in altre città, per volere del Barbarossa), dall’istituto del console a quello del podestà e, ancora, a quello del capitano del popolo, ci porta al secolo XIII, allorché dai contrasti tra i cittadini e dalle lotte di classe sorse la Signoria. Questa, a Milano, dai Torriani (1240-1259) si trasferì ai Visconti (1277), i quali, alla fine del secolo seguente, ascenderanno al principato.

    I Torriani, cioè quelli della casata Della Torre, venivano dalla Valsàssina: il più famoso, Pagano, aveva acquisito benemerenza raccogliendo i dispersi Milanesi, sconfitti a Cortenuova e rincorsi nella fuga dai Bergamaschi fedeli a Federico II. La Credenza di Sant’Ambrogio lo elesse quindi a suo capo (1240), e la vittoria di Cassano d’Adda (1259) su Ezzelino da Romano significò la vittoria dei guelfi nella Credenza e in Milano. In breve, i Della Torre divennero potenti a Bergamo, a Como, a Lodi, a Novara; ma contro di essi s’avventarono le spire della biscia viscontea e il duello fu feroce e decisivo. La fortuna dei Visconti si profilò con l’arcivescovo Ottone, che, vincitore a Desio nel 1277, ebbe in sue mani Napo Della Torre. Il quartiere dei Torriani in Milano fu raso al suolo e la via delle Case Rotte con il suo nome perpetua nella metropoli il ricordo del fatto.

    L’origine dei Visconti è avvolta in una leggenda di conio umanistico: essa narra che la famiglia provenisse dalla rocca di Angera, che s’erge solenne sul lago Maggiore. Ora, nell’etimologia encomiastica, Angera proviene da Anglus, il mitico nipote di Enea, che, abbandonato il Lazio dopo l’arrivo da Troia, avrebbe valicato l’Appennino, attraversato la pianura e si sarebbe fermato sulla rocca; perciò la gente dei Visconti da lui discenderebbe. E la biscia che il « melanese accampa » avrebbe anch’essa origini favolose e guerriere, perchè risalirebbe a uno degli antenati che, fattosi crociato, si sarebbe distinto in battaglie e duelli, riportando lo scudo del più forte infedele ucciso sul campo. E non meravigli se altre versioni in argomento si possono raccogliere tra i genealogisti dei Visconti, poiché furono molti e con scarsi scrupoli documentari.

    I Visconti erano ghibellini e il loro sopravvento sui guelfi in Milano aprì le porte al dominio della valle padana: Matteo I, portato sulla scena politica dal prozio Ottone, divenne nella famiglia e nel governo veramente quel « grande » come è ricordato negli annali storici.

    La divisione politica del territorio lombardo verso il 1300.

    Nel 1315 la Signoria viscontea dominava da Milano a Pavia e dall’uno all’altro capo di Lombardia, da Bergamo a Como, a Cremona, a Novara e si spingeva ad Alessandria, a Vercelli; nel 1320 puntava su Genova; e, nella lotta, gli ostacoli erano infranti, fossero essi rappresentati da Roberto d’Angiò o da Filippo di Valois o da un legato pontifìcio come Bertrando del Poggetto. A Matteo seguì il figlio Galeazzo, che continuò la politica antiguelfa; ma non gli giovò il suo ghibellismo con Ludovico il Bavaro, dal quale fu rinchiuso nel castello di Monza (1327), morendo l’anno seguente a Pescia. Dei suoi fratelli, Marco, che pur seppe battersi sul campo di battaglia nel 1313 alla conquista di Tortona, nel 1320 a Moncalieri, nel 1322 a Bassignana sul Po, implicato nella congiura del cugino Lodrisio, finì tragicamente (1329); Giovanni, divenuto arcivescovo, seppe creare alla signoria della sua famiglia buone relazioni con i signori fuori di Lombardia; Luchino si distinse nella politica interna del dominio con provvedimenti fiscali e con giustizia civile. Nel 1354, morto l’arcivescovo Giovanni, i nipoti, per volontà del defunto, si suddivisero il dominio visconteo: Matteo ebbe, al di qua del Po, Lodi e Monza e, al di là, Piacenza, Parma e Bologna; Galeazzo II ebbe invece Como, Novara, Vercelli e altre città e, quantunque avesse ottenuto il primato nel Consiglio generale di Milano, dovette tuttavia dividere il dominio della città col fratello Bernabò, al quale toccarono i quartieri da Porta Orientale a Porta Romana. Del loro dominio rimase un ricordo efferato: Matteo, torbido e vizioso, fu avvelenato l’anno successivo; Galeazzo rimase celebre per le sue raffinate torture (Quaresime di Galeazzo); Bernabò per le sue bizzarrie d’inaudita ferocia. Ma presto la figura di Gian Galeazzo, figlio di Galeazzo, s’impone nella storia degli avvenimenti del tempo. Il giovanetto, che l’imperatore Carlo IV armava cavaliere, che il Petrarca elogiava, che il re di Francia Giovanni II accoglieva come figlio, dandogli in isposa la figlia Isabella, doveva far tremare al cenno del suo comando amici e nemici. Ogni altra sua impresa cede a quella che il 30 marzo 1397 lo portò sul soglio per investitura di Venceslao imperatore, che gli concesse il titolo di duca di Milano. Già oltre i confini del ducato la biscia viscontea avvinghiava nelle sue spire Comuni e Signorie e già anche Firenze vacillava, allorché si sparse la notizia della morte del duca nel Castello di Melegnano il 3 settembre 1402. La morte richiamò alla realtà anche coloro che, poeti o no, avevano esaltato il dominatore, invocandogli sul capo il diadema reale.

    Bergamo. La poderosa mole della Rocca, iniziata nel 1331, nel luogo ove si suppone che vi fosse il Castrimi e il Campidoglio romano. Essa fu teatro di furiosi assalti, resistendo validamente. Le mura venete ne accrebbero la forza difensiva. Nel 1849 i cittadini insorti vi assediarono gli Austriaci, che bombardarono l’abitato.

    Brescia. Santo Stefano in Arce e la Torre Mirabella sul Colle Cidneo, dove secondo la tradizione ebbe sede il primo insediamento dal cui nome Brich derivò Brixia. In età romana vi sorse l’Arce. Per opere successive, del Comune, dei Visconti e della Serenissima si formò il complesso fortificato, il Castello, che domina la città.

    Pavia. Il Castello Visconteo fatto erigere tra il 1360 e il 1365 da Galeazzo II e completato dal figlio Gian Galeazzo. Il grandioso complesso a pianta quadrata è considerato una tra le più belle opere civili del Trecento lombardo.

    Gian Galeazzo lasciava due figli, Giovanni Maria e Filippo Maria, natigli dal secondo matrimonio con la cugina Caterina, figlia di Bernabò. I due eredi erano minorenni per cui il governo del Ducato fu affidato ad una reggenza di Caterina e di altri fedeli in nome di Giovanni Maria. Il quale non mancò, crescendo, di farsi conoscere come indegno successore del padre, sì che finì trucidato il 16 maggio 1412. Gli successe il fratello, Filippo Maria, mentre il Ducato andava in sfacelo. Ma il giovane principe seppe riunire in unità lo Stato di Milano e abilmente destreggiarsi nel governo del dominio e rintuzzare le offensive di Venezia, di Firenze e del Papato; e se amò l’astrologia, come gli uomini del suo tempo, non fu quello spirito bizzarro come le vecchie biografie ci han tramandato. Certo la sua vita familiare fu torbida: fatta assassinare, nel castello di Binasco, la prima moglie (che gli era servita per ricostituire il dominio) e poscia ripudiata la seconda, Maria di Savoia, egli ebbe dalla concubina Agnese del Maino una figlia, Bianca Maria, che predilesse, legittimò e sposò a Francesco Sforza, allora condottiero, e poi, in ragion di tal matrimonio, erede del Ducato di Milano.

    Filippo Maria morì il 13 agosto 1447. I Milanesi insorsero allora a libertà: irruppero nel Palazzo ducale, diedero fiamme all’Archivio della cancelleria e proclamarono l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Questa, tra governo provvisorio e dei Capitani e Difensori, tra guerre interne ed esterne, stremata di forze, sopravvisse fino alla fine del febbraio 1450. La mattina del 26, Francesco Sforza, alla testa delle sue truppe, entrava trionfalmente in Milano e veniva acclamato duca, dando origine alla dinastia visconteo-sforzesca, chiusasi nel 1535 con Francesco II.

    Ma prima di seguire i successivi sviluppi della storia di Milano (che pur domina su quella delle altre città lombarde), occorre qui far cenno alle città lombarde che durante il dominio visconteo furono perdute per il Ducato e di qualche altra che ebbe una storia indipendente ed illustre. Le città che lo Stato di Milano perdette durante il duello combattuto contro Venezia, che tendeva ad ingrandirsi nel retroterra, furono: Brescia, che aprì le porte alla Repubblica di San Marco (1426) e alla quale restò legata fino al 1509, riunendosi poi alla stessa dopo il breve periodo della dominazione francese (1509-1516) fino al 1797; Bergamo, conquistata da Venezia nel luglio del 1428, e Crema, che si diede al governo veneziano dopo la morte del duca Filippo Maria: dedizione che fu riconosciuta nei patti del 1454 da Francesco Sforza.

    La divisione politica del territorio lombardo dopo la Pace di Lodi (1454).

    1, Guastalla (Torcili); 2, Novellare (Gonzaga, ramo cadetto); 3, Correggio (Correggeschi) ; 4, Carpi (Pii).

    Milano. L’imponente mole del Castello Sforzesco. La sua costruzione fu voluta da Francesco Sforza e iniziata il 1° luglio 1450 sulle rovine di un Castrum Portae Jovis distrutto durante la Repubblica Ambrosiana.

    Mantova è la seconda città lombarda, che assurse alla dignità di capitale d’uno Stato, di notevole importanza nella storia, anche per la sua posizione tra Venezia e Milano. La famiglia dei Gonzaga, le cui vicende sono legate alla storia di Mantova, si affermò nel Trecento; ma già nel secolo precedente aveva fatto parlare di sè per aver dato appoggio ai Bonacolsi contro i Casalodi. Contro la signoria dei primi insorse poi Luigi Gonzaga che, il 16 agosto 1328, venne proclamato dal popolo Capitano generale. Creato poscia Vicario imperiale da Ludovico il Bavaro, per i suoi tre susseguenti matrimoni s’imparentò con i Ramperti di Brescia, con i Malatesta di Rimini e con i Malaspina. Seguì, nel governo di Mantova, il figlio Guido (1360-1369), col titolo di Capitano generale; a questo il figlio Luigi II (1369-82), al quale, a sua volta, succedette Francesco I (1382-1407), la cui signoria si consolidò, estendendo i suoi possessi da Legnano a Castelgoffredo, a Viadana, a Gazzuolo e ad altre terre. Nel 1403 ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di marchese e in tal modo apriva la via al principato. Il successore Gian Francesco tenne alto il nome dei Gonzaga manovrando abilmente negli avvenimenti politici e militari, che impegnavano il Ducato di Milano, in fase di ricostituzione, e la Repubblica di San Marco, che cercava di ingrandire il retroterra veneto. Il dominio gonzagesco perdette nel frangente Asola, Lonato e Peschiera, ma, per altro, aprì a Mantova queirorizzonte di capitale e di mecenatismo di cui andrà più famosa. Luigi III, detto il Turco, non fu da meno: seppe destreggiarsi con sagacia con gli altri potentati e governare con saggezza il suo dominio fino al 1478. Il matrimonio con Barbara di Brandeburgo gli procurò l’amicizia della Corte imperiale; la personale capacità gli accattivò la fiducia di Francesco Sforza, il quale pensò persino di allacciare con i Gonzaga rapporti più stretti e familiari (che tuttavia non poterono aver luogo).

    Intanto a Milano, Francesco Sforza governava saviamente quello Stato che le potenze firmatarie della Lega italica, dopo la pace di Lodi, gli avevano riconosciuto (1454). Il «Gran Sforzesco», com’è chiamato, dominò la situazione politica e ridiede allo Stato i confini dei tempi più felici del dominio visconteo, dalle Alpi al Mar Tirreno, e nel 1464, con l’acquisto di Genova, fin sulle terre di Corsica. Ebbe accanto a sè, nella ripresa politico-amministrativa del dominio, uomini capaci e fedeli quali quelli della famiglia Simonetta. Così s’accrebbe il prestigio dello Stato di Milano e non solo tra gli altri Stati dell’Italia, ma anche tra i potentati d’Europa: si racconta che Luigi XI, quando parlava del duca di Milano, si togliesse il cappello. La corte sforzesca aprì le porte all’umanesimo : col Filelfo, il Lascaris e altri uomini illustri, l’educazione dei principi ducali fu nelle mani di validi maestri. Tra i tanti, valga un esempio: Ippolita, che divenne la sposa di Alfonso, erede al trono aragonese di Napoli, sapeva di latino e di greco (a lei il Lascaris dedicò la sua grammatica) e, inoltre, danzava in modo da destare ammirazione.

    Vedi Anche:  Ghiaccia, fiumi e laghi

    La Certosa di Pavia, testimonianza tra le più illustri del fervore rinascimentale alla corte dei Visconti e degli Slorza. La costruzione tu iniziata nel 1396 per volere di Gian Galeazzo Visconti e proseguita nel corso dei due secoli seguenti.

    Mantova. Il Castello San Giorgio, costruzione del secolo XIV, eretta per volere di Francesco I Gonzaga. Il Castello non è che una piccola parte di quell’immenso complesso di edifici, che costituisce il Palazzo Ducale o Reggia dei Gonzaga.

    Il figlio primogenito di Francesco Sforza e suo successore, Galeazzo Maria, dopo la morte del padre (1466), governò, in un primo momento, con la madre Bianca Maria; poi, unico signore, rinnovò le scelleratezze dei Visconti. Tuttavia, nutrito di studi umanistici continuò la munificenza paterna, arricchì di codici la biblioteca ducale nel castello di Pavia, accolse in Milano i primi stampatori. Ancor giovane, cadde in una tragedia di sangue, ucciso nella notte di Santo Stefano del 1476. L’episodio è diversamente interpretato; alla tesi del delitto privato si oppone quella che vede nei congiurati, nutriti di studi umanistici, l’ira di Bruto: la vendetta del Montano, del Lampugnani e dell’Olgiati contro il tiranno che aveva abusato del potere, distruggendo la libertà.

    L’erede Gian Galeazzo, primogenito di Galeazzo Maria, era giovanissimo e governò quindi sotto la reggenza della madre, Bona di Savoia. L’anima del governo era però Cicco Simonetta, l’uomo che Francesco Sforza aveva avuto al suo fianco nella ricostituzione dello Stato, l’uomo dal polso fermo, che per qualche tempo seppe tenere a freno anche le voglie dei fratelli del duca ucciso, volti ad impossessarsi del potere; preso però a tradimento da uno di questi, Ludovico il Moro, fu decapitato nel castello di Pavia (1480). Si narra ch’egli, dopo la cattura, dicesse coraggiosamente al Moro : << Io perderò la testa, ma tu lo Stato ». In seguito Ludovico il Moro, dopo l’avvelenamento del nipote Gian Galeazzo (così dicono alcune cronache del tempo), per odio verso la Casa d’Aragona di Napoli, trascinò in Italia Carlo Vili; in tal modo aprì le porte ai Francesi, onde Luigi XII s’impossessò del Ducato nel 1499 e, dopo alterna vicenda, preso prigioniero il Moro e mandatolo a morire in Francia, governò Milano fino al 1512. Se dal punto di vista politico è difficile difendere la vita e l’opera di Ludovico il Moro, riguardo al suo mecenatismo l’esaltazione è conveniente e giusta. La corte ducale di Milano, perseguendo la tradizione viscontea, della quale si professava fedele continuatrice, al tempo di Ludovico raggiunse l’acme dello splendore, e i nomi di Bramante e di Leonardo da Vinci valgono per tutti.

    La Rocca di Solicino (cittadina presso la sponda destra dell’Oglio), fatta edificare da Galeazzo Maria Sforza nel 1473.

    Dal dominio spagnolo all’unità d’Italia

    Dal dicembre del 1512 all’ottobre del 1515, si ebbe una breve ripresa sforzesca con Massimiliano, figlio di Ludovico. Poi i Francesi, con Francesco I, conquistarono di nuovo il Ducato, mettendosi in lotta con Carlo V. La battaglia di Pavia fu decisiva nel duello: e se essa potè riportare sul trono l’ultimo Sforza, Francesco II, dopo la morte di lui (1535) giovò ad assicurare il dominio del Ducato di Milano agli Asburgo di Spagna. Le guerre franco-spagnole per la supremazia in Europa ebbero per campo di battaglia la valle padana, dove la fine dell’indipendenza del Ducato di Milano significò anche il tramonto delle libertà in Italia. Mantova tuttavia si salvò nella sciagura. Essa al principio del secolo ebbe un governo esemplare per merito soprattutto della consorte di Francesco II, Isabella d’Este, che brillò nel mondo rinascimentale per il suo ingegno e il suo mecenatismo. In seguito da Federico II a Francesco III a Guglielmo e a Vincenzo I, le vicende dinastiche di Mantova s’associarono a quelle del marchesato monferrino. Infatti Federico, creato duca di Mantova nel 1530 da Carlo V, seppe talmente guadagnarsi la stima dell’imperatore che s’ebbe anche la corona marchionale del Monferrato, la quale tuttavia finì con essere un gravame rovinoso per l’economia dello Stato dei Gonzaga.

    Divisione politica del territorio lombardo nel 1559 (Pace di Càteau-Cambrésis).

    Caravaggio. Il Santuario, iniziato da Filippo Maria Visconti, fu in seguito ricostruito e ampliato per volontà di San Carlo Borromeo. E’ attualmente meta di devoti pellegrinaggi soprattutto tra marzo e settembre.

    Sala dell’Esedra Virgiliana nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano. La galleria d’arte, come la Biblioteca, fu fondata dal Cardinale Federico Borromeo.

    Come la Spagna abbia governato nel Ducato di Milano è oggi argomento di indagini nuove, che hanno offerto risultati diversi da quelli della storiografia tradizionale e risorgimentale, di cui l’eco è viva nell’immortale romanzo di Alessandro Manzoni. Certo, non si può affermare che il periodo che corre tra il 1535 e il 1706 sia stato di prosperità e progresso. I governatori, durante questi centosettant’anni, tra spagnoli e italiani e anche portoghesi, si contano fino a cinquantaquattro; ma nel governo del Ducato, il Senato ebbe la sua parte e le « grida » furono sempre concordate con le magistrature milanesi competenti; il Magistrato camerale, il Capitano di giustizia, giudici e magistrati amministrativi furono milanesi e i lombardi furono sempre rappresentati nel Consiglio supremo d’Italia, istituito a Madrid per regolare giuridicamente le questioni italiane. Nella vita religiosa milanese dominarono in quel tempo i Borromeo, Carlo e Federico: al nome dell’uno è rimasta legata la implacabile difesa dal protestantesimo; al nome dell’altro, oltre al resto, la fondazione della Biblioteca Ambrosiana.

    La vita economica del Ducato, nel corso dei secoli XVI e XVII, regredì progressivamente. La rivoluzione dei prezzi a Milano non fu indice di prosperità; i prezzi aumentarono sempre più e sulla fine del Cinquecento raggiunsero livelli altissimi; nonostante ciò, la grande crisi tardò fino agli inizi del Seicento. Ne seguì la decadenza, specialmente industriale, dei grandi centri, da Milano a Como, a Pavia, a Cremona. Eppure il medesimo periodo ha lasciato opere grandiose: chiese e palazzi privati, ad opera di uomini che nella storia dell’arte portano nomi di alta risonanza.

    La divisione politica del territorio lombardo nel 1714.

    Quando il 24 settembre 1706, Eugenio di Savoia entrò in Milano alla testa delle truppe austro-piemontesi, al servizio dell’imperatore Giuseppe I d’Asburgo, la situazione economica del Ducato non si presentava certamente fiorente; e le condizioni, sotto l’urto delle truppe occupanti, peggiorarono dall’una all’altra guerra di successione. Gravi furono per l’economia della regione anche le perdite territoriali dell’Oltrepò, della Lomellina e del Novarese (1734). In compenso, nel 1745 Mantova venne aggregata al residuo territorio dell’antico Ducato, dando origine così alla Lombardia austriaca.

    Chiusasi, nel 1748, la guerra di successione austriaca col riconoscimento dei diritti di Casa d’Asburgo sulla Lombardia, Maria Teresa e quindi il figlio e successore Giuseppe II diedero opera a quelle riforme illuminate che favorirono il progresso civile ed economico e anche culturale. Lo Stato assoluto consentì e favorì l’avanzare di una nuova classe sociale titolata, già forte in mezzi economici, la cosiddetta borghesia, alla quale s’aprirono nuove possibilità nel campo amministrativo, prodromi di una futura espansione politica. La città di Milano si trasformò; l’edilizia privata si rinnovò. Già nel secolo precedente erano sorti palazzi signorili di notevole architettura; ora le case comuni perdevano del tutto la rude scorza medioevale: sparivano logge e « baltresche » ; i muri venivano intonacati e imbiancati ; le strade selciate e cordonate di granito; l’arbitrio privato disciplinato dall’interesse generale. Fu in questa atmosfera che l’Università di Pavia raggiunse quella fama di antesignana nel risorgimento degli studi « novatori » e « luminari » (A. Visconti).

    Sopraggiunge il 1796 e, sotto l’incalzare delle truppe francesi guidate da Napoleone Bonaparte, Milano si svuotò delle autorità austriache. Il 9 maggio si formò la Giunta interinale di governo. Il 15 dello stesso mese, dopo la vittoriosa battaglia di Lodi, Napoleone entrò in Milano. Il risveglio nazionale ebbe allora il suo momento propizio. Il 21 giugno del 1797 la Valtellina affermò la sua indipendenza. Il 9 luglio venne proclamata la Repubblica Cisalpina che comprendeva la Lombardia, parte dell’Emilia e un lembo di Toscana. Parve tutto crollare con l’occupazione austrorussa, ma fu una breve pausa: il pericolo dileguò sui campi di Marengo (1800). La «seconda» Cisalpina rinacque per cedere presto il posto alla Repubblica italiana proclamata nei Comizi di Lione (gennaio 1802). Infine, il 26 maggio 1805, Napoleone s’incoronò re d’Italia nel Duomo di Milano. Così la metropoli lombarda, divenuta sede di un regno, raggiunse il sogno delle generazioni dei Visconti e degli Sforza che, nella storia della tradizione regale, risale al lontano Medio Evo, allorché, in Sant’Ambrogio, i monarchi cingevano quella stessa Corona ferrea che Napoleone si era posta sul capo.

    Milano, capitale del Regno d’Italia, divenne il centro delle aspettative nazionali: a Milano giungevano poeti e letterati, scienziati e pensatori d’ogni parte d’Italia, arricchendola di passione patriottica e di esperienze letterarie. Dall’Università di Pavia, il Foscolo richiamava gli Italiani al culto della storia e l’esortazione scaturiva dalla contemplazione d’una eredità luminosa, che il Muratori aveva illustrato nei Rerum Italicarum Scriptores e in altri solenni volumi, stampati in Milano dalla Società Palatina, nella prima metà del Settecento.

    Veduta su Milano da Porta Ticinese in un disegno dell’Ottocento. In primo piano il propileo del Cagnola innalzato a ricordo della vittoria napoleonica di Marengo. Ai lati i bastioni delle mura spagnole. Sulla fuga dei tetti, il campanile di Sant’Eustorgio e la cupola di San Lorenzo Maggiore.

    Quando la stella di Napoleone tramontò, si verificò anche lo sfacelo delle sue imprese. Il tentativo di un regno italico nazionale fallì miseramente e gli avvenimenti di portata internazionale coinvolsero nuovamente l’Italia, dandole un nuovo volto politico. La Lombardia ritornò sotto l’Austria, inglobata nel Regno lombardo-veneto sanzionato costituzionalmente con l’atto emanato il 7 aprile 1815 dall’imperatore Francesco I. Il nuovo Regno fu diviso in due parti separate dal Mincio, una lombarda sotto il Governo milanese, l’altra veneta sotto il Governo veneziano. La Lombardia comprendeva i territori dell’antico Ducato di Milano (escluso l’Oltrepò e la Lomellina), del Bergamasco, del Bresciano, del Mantovano, delle contee di Chia-venna, di Bormio e la Valtellina. Il 3 gennaio 1818 l’arciduca Ranieri fu creato primo viceré.

    Come nel Regno lombardo-veneto si attuasse il governo austriaco e quali siano stati l’ardore di opposizione, il sacrificio e il martirio dei Lombardo-Veneti sta in una delle pagine più fulgide della nostra epopea risorgimentale, un’epopea che appartiene a tutti gli Italiani. E una folla di nomi che si affacciano alla memoria; ogni terra di Lombardia vanta un eroe del pensiero e dell’azione: da coloro che nelle carceri dello Spielberg languirono o ascesero sui patiboli di Belfiore e con l’olocausto della vita fecero trionfare l’ideale, vissuto nelle barricate del 1848, a coloro che si immolarono sui campi di battaglia delle guerre d’indipendenza: alpigiani e uomini della pianura, d’illustre casato o di umile origine, provenienti e dalle città e dai villaggi più oscuri. I fatti gloriosi del 1859 coronano questa epopea con l’unità d’Italia.

    E come nell’Italia nuova i Lombardi abbiano risposto all’appello della Patria, lo documentano il fervore di vita e le conquiste civili, di cui si orna la nostra storia contemporanea, nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio, nella scuola: nello sviluppo della istruzione sta la leva d’ogni vitale energia; nella capacità organizzativa, nell’esecuzione ferace e diuturna del dovere, la fonte di ogni sicuro progresso.