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Lineamenti Regionali

    LINEAMENTI REGIONALI

    In una suddivisione dell’Abruzzo e del Molise dobbiamo anzitutto constatare l’impossibilità di basarci su di un contesto formato da antiche unità sub-regionali che abbiano un loro nome e una loro spiccata individualità. Pur abitando un territorio a struttura pluricellulare, le antiche e diverse genti che popolavano la regione hanno lasciato una traccia soltanto nella Màrsica; infatti non si può certo accettare come sub-regione la terra che conserva il nome dei Peligni, estendendosi questa dalla conca di Sulmona fino alle alture di spartiacque fra il Sangro e l’Aventino. E troppi sono i motivi di ordine fisico, antropico, economico, amministrativo che si incrociano, per poter dare una delimitazione sub-regionale che non sia per lo più soggettiva. Con le dovute riserve ho creduto quindi di identificare una diecina di unità regionali minori, sette abruzzesi e tre molisane: l’Aquilano; la Màrsica e la Val Roveto; la conca peligna e la Maiella; l’alto e medio Sangro con i grandi altipiani centrali e il Parco Nazionale; il Teramano; la regione urbano-industriale di Pescara e Chieti; il Subappennino Frentano; il basso e medio Molise; l’alto Molise;- l’alto Volturno.

    L’Aquilano.

    Finora spesso si è parlato di Abruzzo aquilano, che per convenzione si ritiene di dover far coincidere con l’antico Abruzzo Ulteriore 2°, equivalente all’attuale provincia dell’Aquila. L’Aquilano ha invece un ambito molto più limitato, corrispondendo, a mio parere, all’area di attrazione del capoluogo, che comprende essenzialmente il bacino dell’Aterno e in parte gli altipiani delle Rocche. Regione ampia, aspra, montuosa, dominata dall’alta mole del Gran Sasso, che ha il suo fulcro vitale nella conca aquilana, vera e propria oasi intermontana.

    L’Aquila è posta proprio al centro della conca, là dov’essa sembra dividersi in due, stretta ancor più dai rilievi che costringono l’Aterno a incassare il proprio corso per discendere poi in una lunga incisione dirupata e alpestre. Dall’alto sembra quasi che l’abitato si distenda in piano, ed è solo avvicinandosi alla città che la vediamo stagliarsi, coronata di cupole e campanili, su un allungato dosso calcareo emergente dai fertili terreni circostanti. Il sito topografico dell’Aquila non è perciò

    propriamente di conca, ma dominante sopra un poggio come decisamente fu nelle intenzioni di coloro che nel medioevo la fondarono. Città di difesa e di guarnigione che sostituisse i numerosi piccoli castelli sparsi ovunque nella regione e inadatti a sostenere un ruolo di prima grandezza.

     

     

     

    L’Aquila ha quindi origini piuttosto recenti, non romane come varie altre città abruzzesi; la sua romanità si può circoscrivere a qualche raro avanzo, come il cosiddetto Tempio di Vesta a 4 km. dall’abitato. Non dobbiamo però trascurare il fatto che non lontano, nella stessa conca, sorgeva al tempo dei Romani l’importante centro di Amiternum le cui rovine, con i cospicui avanzi del teatro e dell’anfiteatro, si scorgono tuttora presso il fiume. Questa città, patria di Sallustio, fu fondata dai Sabini ed ebbe il maggiore sviluppo nell’età imperiale. Con l’avvento del cristianesimo, essa divenne ben presto sede vescovile, e da qui si levò la predicazione della nuova fede da parte del vescovo e martire San Vittorino.

    L’Aquila è dunque figlia diretta di Amiternum, della quale affrettò la scomparsa, affermandosi come città fortificata e in ottima posizione. Pur essendo stato Federico II l’ideatore della riunione in una sola città dei molti castelli, divenuti

    poi leggendariamente 99, il fondatore fu il figlio Corrado nel 1254. Le cronache narrano che la città ebbe subito un grande sviluppo, poiché i 99 castelli riuniti vollero qui ricostruire la propria chiesa, la propria piazza, la propria fontana. E questo numero si è poi radicato talmente nella coscienza degli Aquilani che tuttora, ogni giorno, l’orologio della Torre civica fa risuonare sulla città 99 rintocchi. Tale è pure il numero delle cannelle della famosa fontana costruita nella parte più bassa, presso la Porta Rivera, di fronte alla piccola chiesa di San Vito dal bel portale romanico. In pratica, prescindendo dalla leggenda, si può dire che la città fosse stata divisa in quattro quartieri, con molti rioni ciascuno, e che motivo essenziale del suo aspetto, riflettentesi dopo tanti secoli ancora nel tipico volto attuale, sia stato nel medioevo la predominanza dell’architettura religiosa su quella civile.

    Già nel 1257 la città fu insignita di dignità vescovile con il trasferimento del vescovo di Forcona. Distrutta dopo due anni da Manfredi, risorse ben presto e fu cinta da poderose mura, portate a compimento nel 1316. Da allora la prosperità fu sempre più grande e la nuova città si estese fino a diventare, con circa 60.000 ab., il secondo centro a sud di Roma, dopo Napoli. La sua importanza si manifestò appieno nel 1294 quando nella magnifica basilica di Santa Maria di Col-lemaggio, allora finita di edificare, alla presenza di Carlo II d’Angiò fu incoronato papa Celestino V. Questo fu il periodo di maggiore tranquillità, e i cittadini poterono dedicarsi all’abbellimento della città con la costruzione di pregevoli edifici, giunti solo in parte fino ai nostri tempi. Le belle costruzioni, che spiccano con il rossiccio delle pietre, e le chiese dalle tipiche facciate rettangolari ornate da bei portali e rosoni ci danno l’idea, nella varietà di influenze che penetravano sia dalla Lombardia che da Roma, sia dalla Campania che dalla Puglia, di un fondamentale indirizzo romanico-gotico, espressione nobile del volto artistico cittadino che dominerà fin oltre la metà del Quattrocento.

     

     

     

    Purtroppo anche qui iniziarono aspre contese fra le maggiori famiglie, fra le quali ebbe a lungo la prevalenza quella dei Camponeschi, prima contro i Pretatti, poi contro i Gaglioffi. Per quanto riguarda le lotte esterne, la città prese le parti degli Angioini contro i Durazzo fino alla fine del Trecento, poi parteggiò per questi ultimi, ma sempre divisa da fieri dissidi interni.

    Fervida era la vita economica, basata, come abbiamo già visto, sul commercio dello zafferano e sulla lavorazione dei metalli, dei merletti e del cuoio. La città ebbe una propria zecca dal 1382 al 1556. Ma la maggiore importanza, in connessione con l’allevamento ovino del contado, fu data all’industria della lana. Creato l’importantissimo Collegio de’ Lanari, tale industria dette lavoro a una grande quantità di operai, suddivisi in battilani, scardalani, pettinatori, orditori, filatori, e in molte altre specializzazioni ordinatamente distinte in varie classi e sezioni.

    Fiorente era anche la vita culturale. Nel 1458 fu fondata l’Università e all’Aquila fu impiantata dal tedesco Adamo di Rotwil una delle prime tipografie d’Italia (1481), della quale rimangono ora alcune edizioni quattrocentesche di eccezionale valore. Un segno di quanto fossero tenute in conto le scienze e la cultura ci è dato dal documento in cui si parla delle accoglienze fatte dalla città al noto corografo Padre Vincenzo Coronelli che, recatosi all’Aquila nel 1701 per dirimere una controversia religiosa, fu ricevuto con squilli di tromba dai Signori che lo nominarono solennemente « cittadino, nobile e cavaliere della città dell’Aquila ».

    Purtroppo alle calamità dovute alle lotte politiche si aggiunsero quelle dei numerosi terremoti. Particolarmente rovinoso fu quello del 1703, che causò la distruzione quasi totale della città, con la perdita di 5000 persone. In seguito ad esso si ebbero gravi ripercussioni nelle attività economiche, e specialmente l’arte della lana ebbe un rapido declino, smembrandosi in limitate attività artigianali. Molti bei palazzi rinascimentali e molte chiese crollarono, e il restauro o la ricostruzione riguardarono più che altro queste ultime. Di tale fatto possiamo vedere tuttora la conseguenza nella scarsità di palazzi quattrocenteschi, dei quali avanzano i tratti originari soltanto in alcuni bei cortili. Pochi esempi sono rimasti anche delle tipiche case mercantili con l’abitazione congiunta alla bottega, di cui si conserva un bell’esemplare nell’edificio detto « le Cancelle », in Piazza del Duomo. Ben minori furono i danni riportati dal poderoso Castello, una delle maggiori opere d’arte militare del Cinquecento, eretto dall’architetto spagnolo Pierluigi Escriva, a pianta pressoché quadrata e a grandi baluardi angolari a speroni, con un fastoso portale sormontato dall’aquila bicipite. Così è giunta fino a noi quasi integra la più bella espressione del Rinascimento aquilano, cioè la basilica di San Bernardino, consacrata nel 1571. In sostanza, però, il terremoto cambiò parzialmente il volto della città, che vide in seguito sorgere i bei palazzi barocchi nei quali si avverte sia il legame con il passato, sia l’affiorare di tendenze neoclassiche. Giustamente famosi sono per l’eleganza delle forme i palazzi Pica-Alfieri, Centi e Rivera. Le chiese furono ricostruite o restaurate esternamente nel loro stile originale romanico-gotico, mentre all’interno le forme barocche si sovrapposero all’antica semplicità delle linee.

    La decadenza riprese nel 1799, dopo il saccheggio e le stragi compiute dai Francesi. L’importanza della città andò costantemente declinando, il diboscamento di vaste aree le tolse una non esigua fonte economica, l’ambiente naturale chiuso influì in maniera determinante, riducendola essenzialmente a centro di mercato di una vasta zona dedita in prevalenza alla pastorizia.

    Così è giunta la città fino al nostro secolo, cristallizzata in una vita angusta e provinciale, tagliata fuori dalle grandi correnti del traffico, le sole che attualmente possano far rifiorire e prosperare un centro di antiche tradizioni. Tolti alcuni moderni edifici ai margini, l’apparato urbano ha avuto ben scarso sviluppo, almeno raffrontandolo con quello di tanti altri centri. Restano ancora quasi integre le mura medioevali, nelle quali si aprono sette porte, ed è tuttora conservata l’antica divisione in quattro quartieri, ognuno dei quali ha per simbolo un colore: Santa Giusta

    (verde), Santa Maria di Pagànica (azzurro), San Pietro di Coppito (bianco) e San Marciano (rosso).

    Lo scarso sviluppo urbano al di fuori delle mura è dovuto anche al fatto che sono stati riempiti molti spazi vuoti interni alla cinta. Eccettuata l’ampia via che dalla Villa Comunale conduce fino al termine dei portici, fiancheggiando a metà percorso la vasta Piazza del Duomo, le altre strade sono strette e in pendenza più o meno forte. Centro della vita cittadina è il Corso, con gli ampi portici intensamente frequentati in varie ore della giornata. Questo è il vero e proprio « quartiere degli affari », con la maggior parte delle sedi di rappresentanza, degli uffici, dei caffè e dei più eleganti negozi. Fa uno strano effetto, dopo avere sostato sotto i portici, incamminarci attraverso anguste strade, nelle altre zone della città. Il contrasto è nettissimo: sembra di passare improvvisamente da un emporio di importanza nazionale a un antico borgo abbandonato. E nel silenzio delle piccole strade ancor più subiamo il fascino della vecchia Aquila, quella dei Camponeschi e del

    Collegio de’ Lanieri, dai frequenti portali durazzeschi al sommo dei quali spesso un segno circolare con il monogramma del nome di Gesù ci richiama alla mente San Bernardino da Siena che qui, nel fastoso tempio a lui dedicato, giace in una magnifica arca rinascimentale. Non è nell’affollata vita dei portici che si comprende l’anima di questa città ma nelle vie dagli scorci suggestivi che inquadrano talvolta le montagne, nei suoi monumenti, nelle sue pietre antiche che ancora possono darle senza dubbio l’attributo legittimo di capoluogo storico e culturale dell’Abruzzo. E non è che dal punto di vista culturale la città viva soltanto del suo notevole passato: l’Università, la Società dei Concerti, sotto il patrocinio della quale è stata costruita nel Castello la bella sala d’audizione a forma di liuto, il Teatro Stabile, l’importante Museo Nazionale d’Abruzzo, che ha trovato anch’esso degna sede nel Castello, conservano ancora all’Aquila un posto privilegiato fra le città provinciali italiane. Molto è stato fatto anche per lo sport, con la creazione di un grande stadio col velodromo, campi da tennis, piscina coperta e molte altre attrezzature. Il turismo, che si basa sia sulle bellezze artistiche cittadine, sia sull’escursionismo estivo e gli sport invernali, specialmente nella zona del Gran Sasso, può avere ben maggiore impulso, non essendo ancora le attrezzature consone all’importanza artistica e naturale della zona. Per le funzioni industriali c’è ben poco da dire: l’importante centro manifatturiero e commerciale dei tempi passati ha ormai cambiato la propria vocazione. La città, posta in una zona di difficile accesso, in mezzo ad una regione sottosviluppata e in pieno spopolamento, non dà molte speranze al riguardo. La moderna industria, basata sulla facilità e sulla rapidità delle comunicazioni e degli scambi, non potrà trovare qui un nucleo di sufficiente espansione, almeno fino a che non sarà portata a compimento la rete autostradale in fase di costruzione. E questa faciliterà la città anche nelle funzioni di centro direzionale e burocratico-amministrativo che attualmente svolge con una certa difficoltà. Per ora alcuni uffici regionali risiedono all’Aquila, altri a Pescara. I più importanti dell’Aquila sono: la Corte d’Appello, con l’Avvocatura dello Stato e il Foro Erariale, il Provveditorato Regionale per le Opere Pubbliche con sezione della Corte dei Conti, la Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna, l’Ispettorato Compartimentale per le Foreste.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    A nordovest e a sudest del capoluogo che è il terzo in Italia per altitudine, estendendosi l’abitato dai 611 m. della Stazione ferroviaria ai 721 del Castello, si allargano le due conche, una leggermente più alta dell’altra, fertili e ben coltivate, limitate da un lato dalle scoscese pendici del Gran Sasso, dall’altro dalla dorsale del Monte d’Ocre, ultima appendice del massiccio del Velino. Verso nord la valle dell’Aterno, alla quale fanno corona piccoli agglomerati ai margini della piana, dopo il grosso centro di Pizzoli si restringe, per salire all’ampia conca di Monte-reale, bordata di bei castagneti e cosparsa di numerosi villaggi.

    In quasi tutta la plaga gli effetti della deforestazione sono ben evidenti, e i piccoli campi, ricavati nella parte più bassa delle pendici montane, danno l’idea di una vita rurale depressa e angusta. Unica nota di progresso è il cementifìcio di Cagliano Amiterno, che spicca nel fondovalle prima della stretta forra attraverso la quale l’Aterno discende dal bacino sorgentifero di Montereale. Più in alto invece il paesaggio è stato profondamente modificato dall’ampio lago artificiale di Campotosto, frequente meta turistica e riserva inesauribile di alto potenziale idroelettrico.

    A sud dell’Aquila, l’ampio slargo della conca si estende da Bazzano — rustico villaggio che conserva, con la chiesa di Santa Giusta (1238), uno dei monumenti più insigni del medioevo abruzzese — fino al centro maggiore di Pagànica e verso sud si restringe in corrispondenza del ripiano carsico di San Demetrio ne’ Vestini che si avvicina alle pendici del Monte d’Ocre. In questa plaga si staglia, al centro della valle, l’imponente dosso calcareo del Monte Cerro che emerge come un’isola, dividendo in due bracci il corso dell’Aterno.

    Il centro principale è qui San Demetrio ne’ Vestini, composto da numerosi piccoli nuclei ormai quasi completamente congiunti fra di loro, non privo di interesse per alcuni pregevoli edifici barocchi, fra cui la secentesca parrocchiale di San Demetrio e i palazzi Dragonetti e Cappelli di Torano, oltre al palazzo del duca Arcamone, in località Cardabello, che risale al XV secolo. Sulla destra del fiume il pendio alquanto ripido è dominato dal grandioso Castello d’Ocre, di antichissima fondazione — probabilmente edificato sul posto dell’acropoli di Aveia, importante città dei Vestini — con grande cinta di mura rafforzata da torri quadrate, ormai in rovina. Come pure è in stato di completo abbandono, assai più in basso, poco al di sopra di Fossa, il monastero di Santo Spirito d’Ocre, del XIII secolo, monumentale complesso di edifici cinto da mura, comprendente una chiesa gotica cistercense. Nei pressi di Fossa, che abbiamo già ricordato come tipico centro di dolina, è degna di particolare nota la chiesa isolata di Santa Maria ad Cryptas (o delle Grotte) non tanto per l’esterno semplice e dimesso quanto per gli splendidi affreschi che ne adornano l’interno e rappresentano due distinti cicli pittorici, il più antico dei quali è di scuola benedettina del Duecento, l’altro di scuola toscana dei secoli XIV-XV. E poco più a sudest, a Sant’Eusanio Forconese, si innalza la monumentale chiesa di Sant’Eusanio, di fondazione antichissima ma più volte danneggiata e rimaneggiata, dalla facciata quattrocentesca adorna di un bel portale e di un grande occhio, che conserva all’interno l’antica cripta.

     

     

     

    La conca di Pagànica mette in comunicazione, attraverso le strette gole del Ra-iale, con il Gran Sasso, che dopo Assergi appare come un’immensa bastionata brulla e scoscesa. Dalla Fonte Cerreto, dove presso la stazione inferiore della funivia sta sviluppandosi un complesso di villette residenziali, una bella strada, la più importante realizzazione di questi ultimi anni, sale al Campo Imperatore e lo attraversa in tutta la sua lunghezza fino a Castel del Monte. Un particolare interesse rivestono nella valle del Raiale il pittoresco borgo di Assergi, con la caratteristica piazza nella quale si eleva l’antica chiesa di Santa Maria Assunta (secolo XV), e il suggestivo santuario della Madonna d’Appari (secoli XIII-XIV) scavato parzialmente nella roccia là dove la gola è più angusta.

    Più a sud, dalla valle dell’Aterno, che tende a incassarsi sempre più profondamente fra San Demetrio ne’ Vestini e Molina Aterno, i rilievi carsici salgono a gradini e a lunghe depressioni chiuse verso il Gran Sasso. Il paesaggio si esprime nei forti contrasti fra le depressioni verdeggianti — con prati e colture sul fondo e mandorleti che orlano le prime pendici — e i nudi rilievi calcarei. Particolarmente caratteristiche sono le lunghe depressioni fra Barisciano e Collepietro, dalla più vasta delle quali — la piana di Navelli — si apre una facile comunicazione per la conca di Capestrano. Di grande interesse è Bominaco, che possiede uno dei maggiori complessi artistici dell’Abruzzo, con due chiese — Santa Maria (secoli XI-XII) e San Pellegrino — che insieme al castello, di cui avanzano soltanto i ruderi, formava il monastero detto anticamente di Momenaco, esistente già nel X secolo e dipendente da Farfa, distrutto nel Quattrocento da Braccio da Montone. Gli affreschi del XIII secolo che adornano l’interno di San Pellegrino costituiscono uno dei più importanti cicli pittorici della regione. E non distante, presso Prata d’Ansi-donia, coronano la sommità di un colle le rovine dell’antica Peltuinum, con avanzi delle mura e la bella chiesa di San Paolo, del XII secolo. Impronte veramente preziose dell’antica civiltà cristiana, che in questi luoghi ebbe una vitalità veramente sorprendente e trovò più tardi la sua più alta espressione nell’opera di San Giovanni da Capestrano (1386-1456) del quale restano tracce notevoli nel suo borgo natale. Qui il paesaggio, spesso arido e pietroso, si ravviva quasi improvvisamente nell’ampia conca dove copiose sgorgano le acque del Tirino e dove l’olivo si mescola al mandorlo, cogliendo i primi tepori del non lontano Adriatico.

     

     

     

    Dai margini della conca di Capestrano si può scorgere per intero la plaga che con essa si può considerare in perfetta antitesi, cioè il versante meridionale del Gran Sasso con i piccoli villaggi sempre più deserti e più poveri, ancorati a una economia agricolo-pastorale misera e senza prospettive future. L’unico centro che riesce a conservare una certa importanza è Castel del Monte, mentre dall’alto la rocca di Calascio domina il villaggio abbandonato e in rovina, e gli altri piccoli centri (Santo Stefano di Sessanio, Castelvecchio Calvisio, ecc.) stanno lentamente estinguendosi. Le cavità carsiche, piccole e grandi, concentrano tutte le possibilità della scarsa agricoltura, l’allevamento ovino è per ora sempre meno redditizio; è così che la zona ha fra i più alti indici regionali di spopolamento umano.

    Ben altre prospettive hanno gli altipiani delle Rocche ai quali si accede dall’Aquila attraverso una zona profondamente carsificata, ricca di doline e di altre cavità naturali. Due grandi piane sono separate dalla soglia rocciosa dove si estende sul pendìo il villaggio di Ròvere. Da una parte si trovano Rocca di Cambio e Rocca di Mezzo, dall’altra Ovìndoli, centri di soggiorno estivo e invernale sempre più attrezzati.

    La Màrsica e la Val Roveto.

    Fra le varie sub-regioni abruzzesi, l’unica che può con sicurezza essere delimitata è la Màrsica, corrispondente all’ampia depressione del Fùcino e ai territori montani che ad essa fanno corona, elevantisi al di sopra dei 2000 metri. Nei tempi storici fu sede dei Marsi, che ad essa dettero il nome, ma ben più anticamente l’uomo lasciò nella conca le sue prime orme. Dai reperti archeologici abbiamo sicure prove che la regione sia stata abitata fino dal Paleolitico medio, con i rinvenimenti nei pressi di Massa d’Albe di reperti musteriani, e molto più abbondanti sono gli avanzi delle epoche successive. Tali scoperte archeologiche dimostrano che la regione è stata abitata almeno da 13.000 anni, secondo il ben noto motivo degli insediamenti umani ai margini dei bacini lacustri, quale si può ritrovare anche nelle conche di Sulmona e dell’Aquila.

    Il popolamento alquanto notevole è dovuto anche alla posizione della conca, situata all’incrocio di importanti itinerari obbligati fra il Tirreno e l’Adriatico. Il più famoso di tali insediamenti è quello che sorgeva sull’altura di Alba Fucens, ergentesi al di sopra del lago nella parte nordoccidentale; qui fu costruito, nel I millennio a. C., un borgo fortificato italico, difeso da mura megalitiche, mentre sulle pendici sorgevano numerose capanne.

    Il lago è stato quindi per millenni motivo di attrazione e fonte di vita, ma fino dall’epoca romana, come già abbiamo detto, si cercò di prosciugarlo, per usufruire della vasta superficie pianeggiante da esso occupata. L’impresa riuscì all’imperatore Claudio, ma soltanto per un periodo limitato. Fu solo nel 1875 che l’alveo nuovamente prosciugato, ebbe un assetto stabile. La fertilità delle terre dette una nuova vitalità alla zona, e dei progressi economici che ne derivarono usufruì soprattutto Avezzano.

     

    Fino ad allora la città aveva sempre avuto una modesta importanza. Nata come piccolo villaggio al tempo dei lavori per l’emissario claudiano, costituiva una ben scarsa entità in confronto con le fiorenti città che allora popolavano la conca: la vicina Alba Fucens, Marruvium presso l’attuale San Benedetto e Angitia presso Luco dei Marsi.

    Decaduti i centri romani, altri, come Celano e Trasacco, ebbero una vita ben più vivace nell’epoca medioevale, della quale conservano tuttora insigni monumenti. Divenuta feudo degli Orsini, Avezzano fu arricchita nel 1490 da un maestoso castello, abbellito e trasformato in residenza principesca dai Colonna. Il suo sviluppo ebbe inizio nella seconda metà del secolo scorso in seguito ai lavori di prosciugamento del lago, quando la città divenne sede dell’amministrazione dei latifondi dei Torlonia. Molto indicative sono le cifre dei suoi abitanti: 1100 nel 1669, 2550 nel 1795, 5116 nel 1861, 11.208 nel 1911. Avezzano era allora capoluogo di circondario e di collegio elettorale, sede di sottoprefettura e di tribunale civile e penale.

    L’improvviso, rapido sviluppo fu troncato il 13 gennaio 1915 dal catastrofico terremoto che la distrusse completamente: dei 12.000 abitanti se ne salvarono soltanto 2000. Alla tremenda scossa, durata non più di mezzo minuto, non resistettero nemmeno gli edifici più robusti, come il massiccio castello ridotto al troncone inferiore, il grande Palazzo Torlonia, i vasti e solidi magazzini con le rampe esterne che permettevano ai carri di raggiungere direttamente il piano superiore. Di fronte a questa considerazione passa in seconda linea il fatto che molti edifici fossero già vecchi e consunti, altri fossero stati edificati con materiale scadente e con cattivi metodi costruttivi.

    Dopo l’immane tragedia iniziò l’opera di ricostruzione che suscitò non poche critiche e polemiche. In una pubblicazione del 1928 si legge che dopo 13 anni nella Màrsica non era stato ricostruito che un quinto delle abitazioni rovinate. Soltanto Avezzano, centro amministrativo dei Torlonia, era stato riedificato con larghezza di mezzi, con eleganti edifici e vaste piazze, dimenticando gli altri centri. Nella cittadina, che rinasceva speditamente, si riversarono numerosissimi lavoratori, professionisti e impiegati, determinandovi un certo cambiamento nella composizione sociale, basata prima della distruzione su un cospicuo numero di agricoltori. L’abitato, ricostruito a pianta regolare con vie intersecantisi ad angolo retto ed altre radiali convergenti verso la piazza del castello, venne spostato più vicino alla ferrovia e agli incroci delle principali vie di comunicazione. Gli edifìci furono costruiti con criteri antisismici, non più alti perciò di tre piani. Il provvedimento determinò una certa monotonia nella struttura urbana, solo parzialmente ravvivata dall’ampiezza dei viali alberati e dai frequenti giardini che ancora fanno somigliare Avezzano più a una stazione termale che a una città montana. Altre distruzioni furono causate dai massicci bombardamenti durante l’ultima guerra. Ma ormai anche queste ferite sono rimarginate: la città ha superato i 24.000 ab. ed è in pieno sviluppo edilizio. Una nuova vita, alla quale hanno contribuito sia la riforma agraria che le nuove industrie, ferve nel centro cittadino che si impernia sulla vasta Piazza del Duomo, particolarmente animata in varie ore della giornata. Basta sostarvi in un giorno qualsiasi della prima metà di agosto, quando l’annuale manifestazione della « Settimana Marsicana », fervida di iniziative, dà ancora maggiore vitalità alla città, per comprendere che essa è indiscutibilmente uno dei più importanti centri economici di tutto l’Abruzzo. Infatti alle importanti funzioni di grosso mercato agricolo, si sono recentemente unite quelle industriali, con un forte potenziamento del commercio nei più vari settori merceologici. E se alcuni sintomi di crisi hanno fatto la loro comparsa, non si deve dimenticare che è in fase di avanzata costruzione l’autostrada per Roma, che sicuramente inserirà con maggiore decisione la città nel processo produttivo sia regionale che nazionale.

     

     

     

     

    Ma purtroppo soltanto Avezzano presenta un quadro economico favorevole, mentre quasi tutto resta da fare nella regione. Le tracce dell’antica miseria non sono certo cancellate da centri un tempo importanti come Celano, Pescina e Trasacco. Se dalle piazze centrali di questi antichi borghi penetriamo nelle strade secondarie, per lo più sterrate o pavimentate con lastricato sconnesso e fiancheggiate da muri nerastri, scompare l’impressione di vita fervida di attività che ci ha dato

    Avezzano. Ed ho ricordato i tre centri principali senza pensare ai villaggi minori, come Collelongo, Ortona dei Marsi, Aielli, Rosciolo, che, annidati sulle pendici montane, ancora ben poco risentono della riforma e della industrializzazione del grande piano. Talvolta troviamo agglomerati di case sopravvissute al cataclisma, cadenti e corrose dai secoli, talvolta ci colpisce il susseguirsi monotono e squallido di baracche in muratura con il solo piano terreno, che sono indubbiamente il risultato delle misure di emergenza adottate dopo il terremoto: emergenza che ormai dura da più di mezzo secolo!

    Vedi Anche:  La popolazione

    E il contrasto si rivela ancor più stridente se pensiamo che oltre all’agricoltura in costante progresso e modernamente meccanizzata, oltre alla zona industriale, fervida di iniziative anche se non pienamente inserita in un quadro organico nazionale, proprio nel Fùcino, quasi al centro dell’alveo, troviamo una delle più avanzate realizzazioni tecniche del nostro Paese. Si tratta dell’impianto della Telespazio, che con la recente aggiunta di una nuova antenna parabolica del diametro di oltre 27 m., è divenuto la più perfezionata stazione per le comunicazioni via satellite fra le 11 oggi esistenti in tutto il mondo. L’Italia si è inserita in questo nuovissimo campo della tecnica fino dal 1963, quando nella stazione, costruita in circa un anno, furono iniziati i primi esperimenti di ricezione. In seguito a continuo potenziamento, nel 1965 è cominciato l’esercizio commerciale del servizio telefonico, telegrafico e televisivo tra l’Europa e l’America settentrionale da parte della Società Telespazio, affiliata al Consorzio internazionale dell’« Intelsat », cui aderiscono ben 55 nazioni. Attualmente le apparecchiature riceventi e trasmittenti sono ormai in grado di funzionare continuamente con 60 circuiti telefonici ed uno televisivo.

     

     

     

    Il centro principale della conca, dal quale prendeva nome il lago, era un tempo Celano, in ottima posizione sul punto di passaggio obbligato della strada che congiunge il Fùcino con L’Aquila, attraverso gli altipiani delle Rocche. Erede di un glorioso passato, quando i suoi conti erano signori di tutta la Màrsica e del Molise, la cittadina non ha saputo conservare la sua posizione di privilegio, riducendosi essenzialmente a grosso borgo agricolo. La maggiore attrazione è costituita dall’imponente castello, forse troppo restaurato, che domina la grigia massa delle case agglomerate sull’erto pendìo, mentre sul fianco della montagna si stagliano nette le famose gole, orride e selvagge per le enormi pareti a picco. Così è avvenuto per Pescina, città natale del cardinale Mazzarino — della cui casa rimane soltanto una loggia a bifore — e antica fortezza di grande importanza dopo la distruzione della vicina Marruvium. Il vecchio agglomerato, dominato dagli avanzi del castello, è rimasto semidistrutto dal terremoto, mentre il centro si è sviluppato più in basso, in due grossi nuclei. Trasacco, soltanto in parte distrutto nel 1915, era il centro di pesca di maggiore rilievo, per il quale il lago rappresentava la fonte economica principale. Nella parte centrale si conserva integra la bella chiesa dei Santi Rufino e Cesidio, del XIII secolo, adorna di due magnifici portali. Questi sono i principali fra i numerosi centri disposti a corona intorno all’alveo prosciugato. Fra le altre cose notevoli sono da citare gli avanzi romani di Marruvium — due monumentali tombe dette « i Morroni » e l’anfiteatro — a San Benedetto dei Marsi, dove è rimasto indenne dal terremoto il grandioso portale romanico dell’antica cattedrale di Santa Sabina; la chiesa romanica di Santa Maria delle Grazie, isolata presso il luogo dove sorgeva il bosco sacro ad Angitia, in vicinanza di Luco dei Marsi, il grande Castello Piccolomini di Ortucchio.

    Verso nord, alle spalle di Avezzano, presso il piccolo villaggio di Albe, ha un grande interesse la zona archeologica di Alba Fucens, con gli avanzi ben conservati della poderosa cinta murata poligonale, entro la quale si ergono la Basilica, le Terme, il Teatro e l’Anfiteatro. Alle pregevoli testimonianze dell’epoca romana si aggiunge il fascino di uno dei più insigni monumenti religiosi abruzzesi, la chiesa benedettina di San Pietro (secolo XII), che domina dall’alto di un colle la zona degli scavi. Altri motivi di attrazione sono, nella zona, Magliano dei Marsi che, pur quasi distrutta dal terremoto, ha conservato nella parte più alta del paese la bella chiesa romanica di Santa Lucia, Rosciolo con il pittoresco complesso di Santa Maria delle Grazie e, nei dintorni, isolata in una valletta, l’interessantissima chiesa romanica di Santa Maria in Valle Porclaneta dell’XI secolo.

    Come si vede, le attrazioni per un più vigoroso sviluppo turistico non mancano nella regione. Ma il problema di maggiore gravità è rappresentato dalle zone più elevate, ridotte dalla degradazione del bosco e dei pascoli a veri e propri deserti.

    Per rendersene conto basta salire dopo Collarmele le rampe della ripida strada della Forca Caruso o la rotabile che da Pescina risale le pendici del Monte della Selva per discendere in un paesaggio scabro, quasi lunare, verso Cocullo. Il problema della bonifica montana si presenta qui in tutta la sua grandiosità: soltanto nella valle di San Potito, a monte di Celano, erte pendici sono state recentemente rimboschite a gradoni, in un più vasto piano di valorizzazione del territorio.

    Nella Val Roveto, che potrebbe essere ben altrimenti sfruttata nella sua bellezza, notiamo un abbandono che non può avere alcuna giustificazione. Basta vedere le baracche in muratura di San Giovanni o di San Vincenzo, che formano la maggior parte dell’abitato, basta volgere lo sguardo dall’alto della strada scavata nella roccia sul pittoresco ma semiabbandonato villaggio di Pescocanale, per capire le cause del forte spopolamento della valle. Eppure, essa è la naturale via di comunicazione, seguendo il corso del Liri, tra il Fùcino e la zona ricca di industrie di Sora e Ce-prano, ancor più valorizzata dalla prossimità dell’Autostrada del Sole. La strada e la ferrovia hanno determinato lo sdoppiamento di vari centri, a causa dell’isolamento delle antiche sedi poste in alto sulle aspre pendici montane, ma i villaggi più recenti hanno avuto un ben mediocre sviluppo. La stessa organizzazione turistica è tuttora agli inizi anche a Civitella Roveto, che è il centro principale della valle, e a Balsorano, dove il bel Castello Piccolomini, a pianta pentagonale e torri cilindriche, è stato restaurato e adattato ad albergo.

     

     

     

    La parte più alta della valle del Liri perde il nome di Val Roveto, e inizia a Capistrello, dove una breve soglia conduce ad est alla vasta piana dei Campi Pa-lentini, di recente bonificata; la dorsale del Monte Saiviano, parzialmente rimboschita con pini, la separa dalla conca fucense. Il fiume proviene da nord, dove in una plaga di spartiacque attenuato, fra Cappadocia, Petrella Liri e Verrecchie, si possono trovare numerose cavità carsiche, tra cui l’inghiottitoio dell’Imele, le acque del quale ricompaiono nel versante opposto molto più in basso presso Tagliacozzo, all’inizio di una suggestiva forra densa di vegetazione. Tagliacozzo è la cittadina più interessante fuori della conca fucense. L’abitato è composto di due parti: quella moderna in basso, caratterizzata da viali e da belle piazze alberate, quella antica in forte pendìo, arrampicata scenograficamente al dorso calcareo che sovrasta l’ultimo lembo della piana. Il limite fra i due abitati è, in basso, la pittoresca Piazza dell’Obelisco, sulla quale prospettano interessanti case antiche adorne di tipici loggiati, mentre più in alto dominano il Palazzo Ducale, dalle belle forme rinascimentali, compiuto dagli Orsini nel Quattrocento ed oggi utilizzato come sede di una colonia estiva, e le antiche chiese di San Francesco e dei Santi Cosma e Damiano. La cittadina ha avuto anche una notevole valorizzazione turistica, con buoni impianti alberghieri.

    A nord di Tagliacozzo si estende la regione dei Carseolani, con le più grandi cavità carsiche di tutto l’Appennino centrale (inghiottitoi di Luppa e di Pietra-secca). Al di là del valico dei Colli di Monte Bove si apre la vasta Piana del Cavaliere, con al centro l’antico borgo di Carsòli, dominato dagli avanzi del castello, e ai margini numerosi villaggi in via di spopolamento. La maggiore attrazione è costituita dalla bella chiesa, isolata al centro della piana, di Santa Maria in Cellis, mentre anche a Rocca di Botte e a Pereto si conservano pregevoli opere d’arte. Nei pressi di Rocca di Botte si trova Camerata Nuova, villaggio costruito dopo l’incendio che nel 1859 distrusse Camerata Vecchia, di cui si vedono le rovine circa 400 m. più in alto.

     

     

     

     

    La conca peligna e la Maiella.

    Delle tre maggiori conche abruzzesi quella peligna è al tempo stesso la più esterna e la meno elevata, aggirandosi all’incirca tra i 300 e i 400 m. di altitudine. E per contrasto si trova alla base di uno tra i più elevati massicci, la Maiella, la quale incombe sulla vasta piana con la propaggine dell’allungata Montagna del Morrone, che forma un erto bastione fino alle gole di Pòpoli. E questa una delle plaghe più ricche dell’Abruzzo montano, favorita dal convergere in essa dell’Aterno, che qui riceve le sorgenti della Pescara, e dei numerosi affluenti ricchi di acque, quali il Sagittario, il Gizio e il Velia. La sua ricchezza si basa essenzialmente sull’agricoltura, molto evoluta e specializzata, che da secoli è fonte di benessere per la densa popolazione, in buona parte agglomerata e solo in esigua percentuale abitante nelle case sparse. L’abbondanza delle acque ha permesso, fino dal tempo dei Romani, l’irrigazione di vasti tratti della piana; ancora è utilizzato, pur con opportune modifiche e restauri, il Canale Corfinio, che risale a tale epoca e serviva per l’approvvigionamento idrico della città omonima. La particolare mitezza del clima e l’abbondanza delle acque determinano così un paesaggio agrario quanto mai vario, in forte contrasto con i nudi fianchi dei rilievi.

     

     

     

    Popolata fino dai tempi più antichi, come del resto tutte le conche interne abruzzesi, la regione ebbe nei Peligni un popolo rude e bellicoso che per lungo tempo la difese dagli assalti esterni. Corfinium, l’antica e illustre metropoli peligna,

    fu, come già abbiamo scritto, il simbolo della resistenza contro la potenza romana. Con la decadenza di Corfinio il primato della regione passò alla non lontana Sulmona, città natale di Ovidio, il quale ne fa leggendariamente risalire le origini a Solimo, compagno di Enea.

    Sulmona è senza dubbio di antichissima fondazione ed ebbe un fiorente periodo ai tempi di Cesare, quando, fatta municipio e cinta di mura, si arricchì di templi, di acquedotti, di terme, di un teatro e di un anfiteatro, mentre intorno le fertili campagne, già da allora irrigate, fornivano vari e abbondanti prodotti a tutta la regione. Con la caduta dell’Impero Romano, dopo un periodo alquanto oscuro ritroviamo la città gastaldato longobardo alle dipendenze del Ducato di Spoleto, mentre Corfinio, cambiato nome in Valva, riprendeva una notevole importanza civile e religiosa come sede anch’essa di gastaldato e di vescovato. Dell’antico splendore sono giunti fino a noi notevoli avanzi romani e la magnifica Basilica Valvense, o di San Pelino, del secolo XII, annesso alla quale si trova un interessante museo. Nel 1233 troviamo Sulmona capitale del famoso Justitieratus Aprutii, e nei secoli seguenti la città, in un alternarsi di vicende contrastanti, ebbe sempre un ruolo di una certa importanza, dimostrato dai bei monumenti che sono giunti fino a noi malgrado la violenza di molti terremoti che causarono gravi distruzioni; fra questi sono rimasti tristemente famosi quelli del 1456, 1676 e 1706. Grande fama hanno avuto nel passato gli splendidi lavori di oreficeria, specie nel Trecento e nel Quattrocento, e l’arte tipografica fino al Cinquecento. Attualmente la città, che si avvicina ai 20.000 ab., non ha un grande sviluppo, benché l’importante mercato agricolo settimanale sia fonte di attrazione economica nei riguardi di una vasta zona attorno, che supera il più ristretto ambito della conca. Di tale sviluppo non molto pronunciato possiamo intuire le cause, oltre che in un certo ristagno attuale dell’economia agricola, nella scarsità di attività industriali. E non sono certo le fab-brichette tradizionali di confetti e di liquori aromatici, che possono essere considerate come fulcro di un’ulteriore espansione.

     

     

     

     

     

     

    Posta a 403 m. di altitudine al margine meridionale della conca, là dove le ultime propaggini della Maiella e del Monte Genzana raggiungono la pianura solcata dal Gizio e dal Velia, la cittadina presenta un abitato alquanto regolare. Il cardine della vita economica e amministrativa è il Corso Ovidio, sul quale prospetta la mirabile facciata dell’Ospedale dell’Annunziata, fiancheggiato dall’omonima chiesa barocca, che è il più insigne complesso architettonico sulmonese. Il Corso attraversa tutta la città, dai bei giardini pubblici al Parco della Rimembranza. Quasi al centro si trova la Piazza Garibaldi, sede del mercato, fiancheggiata dai resti ben conservati di un antico acquedotto, le cui acque sgorgano dalla fontana rinascimentale del Vecchio, così chiamata dalla testa barbuta che la sormonta. Belle chiese dai portali romanico-gotici aumentano l’importanza storica e artistica della città; il Duomo, contrariamente alle regole, si trova non al centro, ma all’estremità settentrionale dell’abitato, isolato dalla fascia verde dei giardini pubblici. Al margine, le due strade di circonvallazione prospicienti il Velia e il Gizio permettono ampie vedute sui monti circostanti. Le attrezzature turistiche sono però appena sufficienti, se si considerano in rapporto alle bellezze naturali e artistiche della città e al fatto che essa è il punto di convergenza di importanti vie di comunicazione stradali e ferroviarie. Oltre ai numerosi resti romani, presso la città hanno una notevole importanza la Badia Morronese, grandioso fabbricato a pianta rettangolare cinto da un’alta muraglia e, più in alto, sulle nude pendici rocciose, l’Eremo di Sant’Onofrio, rifugio di Celestino V prima del suo avvento al soglio pontificio.

    La rete delle comunicazioni che convergono sulla conca è assai fitta e complessa, pur seguendo le antiche direttrici per le più importanti vie. E tale posizione favorevole è causa della continuità di un certo sviluppo di altri centri alquanto importanti. In primo luogo Pòpoli, antica cittadina di quasi 10.000 ab., al margine settentrionale della conca, che è il punto di passaggio obbligato della strada fra L’Aquila e Pescara, tanto che fu chiamata la « chiave dei Tre Abruzzi ». L’abitato, posto fra le sorgenti della Pescara e l’imboccatura delle gole di Tremonti, in parte si estende nella pianura, in parte si arrampica al pendìo, dominato dalle rovine dell’antico castello. Nata sotto i Romani con il nome di Pagus Fabianus, la cittadina conserva tracce della sua antica nobiltà in vari edifici medioevali, fra i quali il più noto è la Taverna Ducale, dalle tipiche forme della casa-bottega abruzzese, edificata nella seconda metà del Trecento per la raccolta e la vendita dei prodotti agricoli spettanti al feudatario e adibita in seguito ad albergo ed a posto di sosta e di cambio dei cavalli. Un altro centro notevole è Pràtola Peligna, posta nel mezzo della conca su di una collina presso il fiume Sagittario, popoloso borgo che basa la propria economia sulle colture intensive circostanti. Una certa attrazione è qui esercitata dal Santuario della Madonna della Libera, al quale nella prima domenica di maggio accorrono migliaia di pellegrini, con pittoreschi costumi.

    Il paesaggio e l’economia cambiano nettamente allontanandoci dalla conca. Sia che penetriamo nelle anguste gole di San Venanzio, percorse sul fondo inaccessibile dalle acque dell’Aterno, fino a Castelvecchio Subequo, sia che risaliamo il corso del Sagittario fino ad Anversa degli Abruzzi, ci troviamo di fronte ai consueti agglomerati compatti che formano la ben nota caratteristica dell’Abruzzo interno. L’agricoltura torna ad essere per lo più estensiva, accoppiata alle magre risorse della pastorizia. La bellezza dei luoghi presupporrebbe notevoli iniziative turistiche che rimangono invece allo stadio embrionale: Anversa degli Abruzzi, ad esempio, posta a 660 m. di altitudine su un pendìo ammantato di olivi all’inizio delle spettacolari, dirupate gole del Sagittario, potrebbe avere un certo sviluppo. Qui la strada che proviene da Sulmona si biforca per il bacino del Fùcino e per il noto centro di villeggiatura di Scanno; qui siamo in prossimità di Cocullo, antico e pittoresco borgo noto per il secolare rito dei « serpari », uno dei più suggestivi e originali di tutto l’Abruzzo. Eppure, nessun albergo o ristorante accoglie i turisti, che debbono raggiungere così da una parte Sulmona, dall’altra Scanno. Quest’ultima, situata a più di 1000 m. di altitudine alla testata del bacino del Sagittario (percorsa dal fiume Tasso), è un’attrezzata stazione di soggiorno estivo e invernale, nella quale ai moderni impianti alberghieri si unisce il fascino dell’antico agglomerato — dalle vecchie case di pietra spesso adorne di bei portali e disposte a gradinata — e dei tradizionali costumi. Un notevole richiamo è costituito anche dal piccolo lago, ricco di pesci di varie specie.

     

     

     

    Un’economia alquanto depressa caratterizza gli altri centri, anche quelli di una certa importanza, come Castelvecchio Subequo e Castel di Ieri, situati in bella posizione ai piedi del gruppo del Sirente, Goriano Sìcoli, un tempo fiorente per l’industria della seta, Pettorano sul Gizio, che ancora mostra al forestiero i bei costumi locali, residuo di antiche tradizioni che tendono a scomparire.

    Ad est della conca peligna, al di là della ripida muraglia della Montagna del Morrone, si estende, elevato e compatto, il gruppo della Maiella. Come del resto quasi tutti i grandi massicci calcarei, non è possibile includerlo organicamente in una sola regione, dato che su un largo cerchio si estende la corona dei centri che ne popolano la base e gravitano sulle plaghe più basse con le quali essi sono a diretto contatto. E proprio sulla vetta più alta della Maiella, il Monte Amaro, si congiungono i confini che dividono il massiccio fra le tre province dell’Aquila, di Chieti e di Pescara.

    Da Sulmona una ripida e tortuosa strada sale, passando per Pacentro — grosso borgo che si è andato rapidamente spopolando — al Guado San Leonardo, fra la Maiella e il Morrone, per poi discendere verso nord a Sant’Eufemia a Maiella e Caramànico Terme, verso sud a Campo di Giove, tutte località di villeggiatura di una certa importanza. Sul versante meridionale, solcato da profondi valloni, i centri marginali della Maiella gravitano lungo la valle dell’Aventino sul Subappennino Frentano. Si tratta dei villaggi di Palena, Lettopalena, Tarànta Peligna e Lama dei Peligni, che più volte hanno subito tragiche vicende per i numerosi terremoti, fra i quali particolarmente rovinoso quello del 1933, e per le grandi distruzioni dell’ultima guerra dovute alla posizione sulla prima linea difensiva tedesca dopo gli sbarchi alleati e l’armistizio. Qui ferveva un tempo la lavorazione della lana, rimasta come attività artigianale con la tessitura delle note « tarante ». I larghi vuoti sono stati soltanto in parte colmati, a causa dello spopolamento dovuto all’intenso movimento migratorio. Motivo di attrazione della zona è, sopra Tarànta Peligna, la celebre Grotta del Cavallone, alla quale, per una maggiore valorizzazione, abbisognerebbe un accesso più agevole. Sugli altri versanti i centri abitati possono essere inclusi nella zona subappenninica frentana e nella sfera di attrazione della Val Pescara, essendo ancor più marginali rispetto al grande massiccio calcareo. Si può solo rammentare l’intensa valorizzazione turistica della Maielletta, con le recentissime località di soggiorno estivo e invernale nella zona di Passo Lanciano, delle quali abbiamo già sufficientemente parlato.

     

     

     

     

    L’alto e medio Sangro, il Parco Nazionale e i grandi altipiani centrali.

    La valle del Sangro ha inizio, al di là dello spartiacque che la divide dal bacino del Fùcino, al Passo del Diavolo, presso il quale si possono ancora notare le rovine di Gioia Vecchio, l’antico borgo i cui abitanti si sono a poco a poco trasferiti ai margini della conca fucense. E con l’alto Sangro ha inizio la vasta e boscosa zona del Parco Nazionale d’Abruzzo, che ne segue fino a Barrea il versante destro per estendersi poi, verso sud, sul massiccio della Meta. Il centro principale dell’alto Sangro è Pescassèroli, che estende l’abitato in una verde conca circondata da fitti boschi di faggio e di pino, ed è sede dell’Ufficio distaccato dell’Ente Autonomo del Parco Nazionale, che ospita un interessante museo delle scienze naturali e del folklore, oltre a un piccolo zoo ricco dei principali esemplari della fauna locale. Il centro ha un’attrezzatura turistica notevole che richiama anche nella stagione invernale numerosi ospiti. Nel 1866 vi nacque Benedetto Croce.

    Le caratteristiche della zona, oltre a quelle più spiccatamente di impronta naturalistica che già sono state sufficientemente esaminate, risiedono nella scarsità e nella tuttora limitata importanza dei centri abitati, dal pittoresco villaggio di Opi aggrappato in alto a uno spuntone calcareo, presso l’imbocco della strada che attraverso la Forca d’Acero porta nella Val di Cornino, a Civitella Alfedena, Villetta Barrea e Barrea, alle quali nemmeno il recente, suggestivo lago artificiale ha portato grandi vantaggi. Il lago ha cambiato per un lungo tratto il paesaggio della valle ed è sbarrato proprio all’imbocco delle orride gole che da Barrea giungono con un percorso fra pareti aspre e dirupate a Scontrane, dove inizia la vasta piana di Castel di Sangro. Maggiore importanza ha in questo tratto il centro di Alfedena, edificato sul luogo dell’antica Aufidena, capitale dei Caraceni, della cui vasta necropoli conserva i reperti nel Museo Civico Aufidenate, per buona parte dispersi nell’ultima guerra ed ora in via di riordinamento. Ma indubbiamente il principale centro economico, che esercita una notevole attrazione su una regione alquanto vasta, è la cittadina di Castel di Sangro, importante centro commerciale nel quale è ancora vivace l’artigianato del ferro battuto, mentre ormai è quasi scomparsa la fervida attività di tessitura del passato. Come tutti gli agglomerati di questa zona, che si trovavano sulla principale linea difensiva tedesca, fu quasi completamente distrutto nel 1944, e la ricostruzione è avvenuta con criteri moderni che hanno tolto completamente all’abitato le interessanti caratteristiche del passato. L’importanza della cittadina risiede anche nel fatto di trovarsi all’incrocio di numerose vie di comunicazione, di cui le principali sono quella verso il Piano delle Cinquemiglia, quella verso la valle del Volturno e quella che seguendo la valle del Sangro porta al litorale frentano. Ed è a causa della strada per il Piano delle Cinquemiglia che la cittadina può essere considerata come la base della più importante zona turistica dell’Appennino centro-meridionale, che nei grandi altipiani raccoglie uno sviluppatissimo complesso di attrezzature per gli sport invernali nei risorti centri di Roccaraso e Rivisòndoli. Maggiormente attrezzata per il soggiorno estivo è invece la vicina Pescocostanzo, centro storico e artistico di prim’ordine. Quantunque sia situata in una delle più elevate zone dell’Appennino, conobbe periodi di grande floridezza economica e di notevole rigoglio artistico e culturale durante i periodi rinascimentale e barocco. Le cospicue risorse dell’industria laniera, l’apporto di raffinate tradizioni artigiane da parte di una colonia immigrata dalla Lombardia, i frequenti contatti culturali con Napoli, Roma, Montecassino e L’Aquila furono i fattori della mirabile fioritura della civiltà nei secoli scorsi. Questa civiltà si può ritrovare nella struttura urbana del centro, nelle pregevoli case e palazzetti rinascimentali, nella Collegiata, ritenuta fra le più notevoli chiese abruzzesi, che mostra nell’interno un cospicuo esempio della tradizionale attività del ferro battuto, il magnifico cancello della Cappella del Sacramento. Come Roccaraso ci dà l’idea di un complesso estremamente moderno e razionale, così la vicina Pescocostanzo ci riporta alla nobiltà e allo splendore dei tempi passati.

     

     

     

     

     

     

     

     

    A nord di Castel di Sangro la piana si restringe ed i centri abitati si dispongono a una certa distanza dal fondovalle. Il più importante e caratteristico è Villa Santa Maria, situato in posizione pittoresca ai piedi di aguzze rupi dalle singolari stratificazioni rocciose quasi verticali. In alto, sulla sinistra del fiume, i due villaggi di Gamberale e di Pizzoferrato, i centri più elevati della provincia di Chieti, mostrano i primi segni di un’organizzazione turistica che potrebbe dare nel futuro ottimi risultati. D’altra parte tutta la zona non può che vivere essenzialmente delle attività turistiche, mancando qualsiasi altra forma economica che possa dare un reddito sufficiente e determinare un certo ristagno nel continuo esodo della popolazione. E specialmente per la zona del Parco Nazionale, troppo spesso ostacolata nelle iniziative dai vari vincoli che tutelano il paesaggio naturale, si sente il bisogno di un piano di valorizzazione, che rispettando le esigenze per le quali lo stesso Parco fu istituito, riesca a incrementare l’economia tuttora depressa della regione.

     

     

     

     

    Il Subappennino Aprutino.

    Come abbiamo visto, il Subappennino Aprutino è formato dalla regione collinare e litoranea che si estende fra il Tronto e la Pescara. Corrisponde quindi essenzialmente al Teramano e a una parte della provincia di Pescara, che ho limitato al corso del Tavo-Saline, per distinguere la fascia che maggiormente gravita sulla Val Pescara ed è sotto la più immediata attrazione del grande capoluogo. Al tempo stesso, per non rendere troppo frammentaria la trattazione, ho creduto di far rientrare nell’ambito della regione subappenninica anche quelle porzioni del Teramano di limitata estensione e scarsamente popolate (Monti della Laga, versante marittimo del Gran Sasso) che geograficamente dovrebbero restarne escluse.

    La città più importante è indubbiamente Teramo, posta su un ripiano presso la confluenza del Tordino con il Vezzola, i fiumi che le dettero l’antico nome latino di Interamnia Praetutiorum. Incerte sono le sue origini, sulle quali molto si è discusso con scarso profitto. È certo tuttavia che la regione è stata abitata da popoli antichissimi, come è dimostrato dagli abbondanti reperti archeologici trovati in varie località, fra cui principalmente nella non lontana valle della Vibrata. Capoluogo della piccola comunità dei Pretuzi, con l’acquisizione della cittadinanza romana, nel 485, fu ascritta alla tribù Velina ed ebbe costituzioni municipali. In seguito vi fu dedotta anche una colonia, e nella suddivisione augustea appartenne alla V Regio (Picenum). Divenuta ben presto sede episcopale, la città, dopo un alternarsi nel medioevo di vicende contrastanti che condussero, a quanto sembra, alla sua distruzione nel 1156, ebbe un periodo di grande floridezza nell’epoca angioina, durante la quale fu difesa da una potente cinta di mura, in cui si aprivano sette porte, e da una ben munita cittadella. Ma alla fine del Trecento, divenuta teatro di aspre contese fra i Melatino, i De Valle e gli Acquaviva, andò rapidamente decadendo, perdendo ogni importanza politica e seguendo così le vicende del Regno di Napoli.

    Vedi Anche:  Utilizzazione del suolo ed economia agraria e forestale

     

     

     

     

    Mediocre è stato lo sviluppo della città, che ai primi del secolo non raggiungeva i 10.000 ab. e nel 1936 aveva superato appena i 16.000. E anche le cifre dell’ultimo censimento, alla cui data Teramo aveva raggiunto i 25.000 ab., non ci suggeriscono certo l’idea di una particolare vitalità delle sue funzioni urbane. L’abitato è disposto per lo più in piano, fra i due fiumi come nei tempi antichi, con vie a maglie regolari intersecantisi ad angolo retto, fatta eccezione per la zona centrale a sud e ad est del Duomo, che ha vie strette e tortuose. Lo sviluppo più recente si è manifestato ad occidente, al di là degli spazi verdi rappresentati dalla Villa Comunale prospiciente la vasta Piazza Garibaldi, cui fa seguito l’alberato Viale Mazzini, per quanto riguarda i quartieri residenziali. Al di là del Tordino, attorno alla Stazione ferroviaria, seguendo l’asse principale della strada per Giulianova, si sta sviluppando vigorosamente la nuova zona industriale con estesi quartieri operai.

    Sono queste le uniche direttrici possibili di espansione, dato che i pendii che discendono ai due corsi d’acqua, delimitati in alto dai viali di circonvallazione, costituiscono un invalicabile diaframma. Come è caratteristica di un po’ tutte le città provinciali, e non soltanto abruzzesi, la vita cittadina si svolge su un unico asse centrale, il rettilineo Corso San Giorgio, fra la Piazza Garibaldi e la Piazza del Duomo, meta della consueta passeggiata serale; qui si trovano i negozi più eleganti, le banche e i maggiori uffici pubblici cittadini. Il centro monumentale della città è intorno alla Piazza del Duomo, con le due testimonianze più insigni dell’epoca romana e del medioevo cristiano: gli avanzi ben conservati del teatro romano, bella costruzione in travertino del I secolo, a contatto con i resti minori dell’Anfiteatro, e la bella Cattedrale dalla duplice facciata, iniziata nel 1158 e ingrandita nel 1335, che conserva nell’interno il celebre paliotto d’argento, capolavoro di Nicola da Guardiagrele (1448). Altri bei monumenti arricchiscono la città, quali la singolare Casa dei Melatini (1372) e le chiese di San Francesco, romanico-ogivale in cotto, e di San Getulio, unico resto della primitiva cattedrale, bruciata nel 1156 durante la distruzione della città da parte dei Normanni. Anche se non si può chiamare città industriale, Teramo ha quindi un certo sviluppo in questa attività, e se non si può annoverare fra le città artistiche, essa possiede notevoli monumenti, tali da giustificare un maggiore afflusso di forestieri. Alquanto limitate sono però le attrezzature alberghiere, e di questo certamente ne risente il turismo, che resta per lo più di transito. Teramo è dotata di un importante Osservatorio astronomico, eretto nel 1880 sulla collina di Collurania, dipendente direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione e in connessione con l’Università di Napoli; presso l’Osservatorio sono pure in funzione un sismografo e una stazione meteorologica. La città è inoltre sede universitaria, anche se dotata della sola Facoltà di Giurisprudenza.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Alle spalle di Teramo si estende la zona montana, depressa e in continuo spopolamento. Nessun centro abitato che abbia una minima importanza si può notare nella regione dei Monti della Laga, cosparsa di minuscoli villaggi privi di qualsiasi organizzazione turistica. I centri più elevati di una certa importanza sono alle falde del Gran Sasso: Pietracamela, stazione climatica estiva, con la località dei Prati di Tivo attrezzata per gli sport invernali, e Fano Adriano, sospesa a mezza costa sopra le gole del Vomano, dove alcuni monumenti di un certo pregio (fra cui la parrocchiale di San Pietro e la Fontana della Cannalecchia) e le villeggiature estive portano un limitato movimento turistico. Allo sbocco delle gole del Vomano si adagia la cittadina di Montorio, formata da una parte moderna e pianeggiante lungo la Statale e da una parte medioevale sull’altura, nella quale si vedono i resti del Forte San Carlo, antico rifugio di banditi.

     

    Nella fascia subappenninica, molte sono le cittadine ricche di storia e di arte. A nord del Vomano le principali sono Campii e Civitella del Tronto, a sud Atri, Città Sant’Angelo, Penne e Loreto Aprutino, e al margine occidentale, ai piedi del Gran Sasso, Castelli e Isola del Gran Sasso.

    Campii, che allunga l’abitato fra le profonde incisioni di due torrentelli, rivela l’antica origine e l’importanza medioevale nelle chiese trecentesche, nel cospicuo Palazzo del Comune anch’esso del Trecento e nella Porta Orientale, bell’esempio di opera difensiva dello stesso periodo. Più a nord, Civitella del Tronto si erge sul pendìo meridionale di un colle dominato dalla storica fortezza che fu nel 1861 l’ultimo baluardo del potere borbonico, ricca di numerosi edifici medioevali e rinascimentali.

     

    Atri, fra il Vomano e il Piomba, posta al margine di un ripiano argilloso dai fianchi solcati da grandiosi fenomeni di erosione, è senza dubbio, dopo il capoluogo, la più illustre città del Teramano. Nota nell’antichità con il nome di Hadria, posta sulla via fra Castrum Novum (Giulianova) e Aternum (Pescara), fu colonia romana dal III secolo a. C. e dette i natali all’imperatore Adriano. Nel medioevo acquistò una notevole importanza con l’istituzione della sede vescovile (1251), che favorì la costruzione o l’abbellimento di insigni edifici religiosi, fra i quali ha un particolare spicco il monumentale Duomo, elevato fra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV sopra una chiesa più antica, a sua volta sovrapposta a un edificio romano. L’ampia facciata rettangolare, in pietra di Bisenti, ha un grandioso portale sormontato da un rosone finemente scolpito, mentre altri tre portali si aprono sul fianco destro. Nell’interno hanno un cospicuo rilievo gli affreschi quattrocenteschi di Andrea Delitio e la cripta con frammenti di pavimento musivo romano. L’alto campanile, con slanciato tamburo ottagonale cuspidato, può essere considerato, insieme a quello del Duomo di Teramo, il prototipo degli antichi campanili di tutta la zona. Nel chiostro, con loggiato a due ordini di arcate, sono ospitate le pregevoli opere d’arte del Museo. Notevoli sono anche le chiese di Sant’Agostino, con facciata trecentesca ornata da un ricchissimo portale di stile gotico-fiammeggiante, e di San Domenico, che conserva la struttura medioevale nella parte inferiore della facciata adorna di un portale del Trecento. Il palazzo dei duchi di Acquaviva, sede del municipio, è il principale esempio di architettura civile del Trecento, pur avendo la facciata del tardo Rinascimento.

     

     

     

     

     

    Un fascino particolare ha Penne, posta su due colli fra le valli del Fino e del Tavo, con bella vista retrospettiva verso il Gran Sasso. Antico centro dei Prestini, nel medioevo fu contea e rimase a lungo sotto la giurisdizione dei vescovi. Molto più tardi, ebbe una certa importanza dal punto di vista amministrativo come capoluogo di circondario, ed ora è una calma cittadina dalle vie strette e tortuose con numerosi resti medioevali, dominata dalla possente mole della Cattedrale. La natura argillosa del territorio ne ha determinato il tipico aspetto, che si rivela nelle costruzioni e spesso anche nella pavimentazione delle vie, quasi completamente in mattoni. Isolato su un’altra collina ammantata di oliveti, a soli 7 km. di distanza, domina Loreto Aprutino, antico borgo dalla suggestiva disposizione scenografica dell’abitato, che ospita un importante museo di ceramiche antiche e un’originale biblioteca di opere di scrittori abruzzesi o riguardanti l’Abruzzo stesso. Un po’ discosta dall’agglomerato si trova la nota chiesa di Santa Maria in Piano, edificata in epoca longobarda e ornata all’interno da interessanti affreschi che la critica più recente tende ad attribuire al primo Quattrocento. In posizione ancor più dominante, protesa verso l’Adriatico su un alto dosso isolato fitto di olivi, la piccola Città Sant’Angelo, nota per la rivolta repubblicana contro Murat del marzo 1814, mostra, fra vari e pregevoli edifici antichi, la grande Collegiata (1353) adorna di un elegante portico ad archi ogivali e di un bel portale gotico.

     

    Sul vicino litorale si estendono sempre più fitte e popolate le marine. E fra i frequenti casi di sdoppiamento dei centri dalla collina alla costa, il più cospicuo è quello di Giulianova, che potrebbe dirsi un ritorno alle origini. Infatti sul mare è nata la romana Castrum Novum alle foci del Batinus (Tordino), sbocco economico

    della più grande Interamnia. Il fervore dei traffici subì un duro colpo con la caduta dell’Impero Romano, pur continuando per tutto il medioevo, come attesta la notizia dello sbarco di un forte quantitativo di grano, inviato nel 1338 dal Pontefice al vescovo di Teramo. Ma le condizioni di sicurezza della popolazione costiera erano ormai mutate, e nel Quattrocento l’abbandono del litorale fu portato a compimento, sotto l’impulso della malaria che aveva cominciato a dominare nelle bassure, specialmente presso la foce dei fiumi. Nel 1470 Giulio Antonio Acquaviva di Aragona, duca di Atri, fece costruire la nuova città, che da lui prese il nome attuale, tre miglia all’interno, in posizione elevata, a pianta rettangolare, cinta da mura e difesa da sette torri. Il centro principale della città era la vasta piazza, sulla quale prospettavano il Palazzo del Conte e il grandioso tempio ottagonale dedicato a San Flaviano, protettore dell’antica città, cui aveva dato il proprio nome (Castel San Flaviano) fino dall’alto medioevo. Dell’antica città rimase, emergente dagli acquitrini, la piccola chiesa di Santa Maria a Mare, eretta nel Trecento da maestranze di Atri su una precedente chiesa benedettina farfense. Lo sviluppo durante questo secolo è stato notevole: dai 745 ab. della marina che si aggiungevano ai 2500 del vecchio centro nel 1901, Giulianova, unita ormai in un unico complesso urbano, ha ampiamente superato i 10.000 ab. ed ha avuto una sensibilissima evoluzione economica, basata sulle attività industriali, turistiche, della pesca e delle colture orticole.

     

     

     

     

    L’espandersi delle marine ha fermato l’evoluzione dei vecchi centri situati in alto, sulle ultime propaggini collinari, i quali costituiscono ancora un certo richiamo per l’ampiezza dei panorami e per le antiche strutture che spesso conservano ancora il fascino del medioevo, talora con pregevoli edifici. Un particolare interesse hanno Colonnella, sorta in epoca longobarda in seguito alla distruzione del vicino Castrimi Truentum, con l’importante Palazzo Marzi; Tortoreto, dalle belle chiese fra le quali eccelle la trecentesca Santa Maria della Misericordia, ora sconsacrata, con importanti affreschi del Cinquecento; Silvi Paese, l’antico Castrimi Silvi, con l’elegante chiesa parrocchiale del Trecento adorna di tre portali.

    All’interno, ai piedi del Gran Sasso, ricca di storia e di monumenti è la valle del Mavone, affluente del Vomano, detta Valle Siciliana per una deformazione del toponimo originario, tratto dall’antica Via Caecilia che la percorreva. Il centro più noto è indubbiamente Castelli, posto su di uno sprone — protetto da un imponente muraglione ad arcate cieche — fra il fosso Rio e il torrente Leomogna, in una plaga squarciata da molteplici fenomeni di erosione e dominata dall’erta parete verticale del Monte Camicia. La notorietà di Castelli è dovuta essenzialmente alla tradizionale arte della ceramica, che risale al Duecento e che ha avuto periodi di particolare splendore con le famiglie Grue e Gentile, come già è stato scritto in un precedente capitolo riguardante le forme dell’artigianato. Il centro conserva sulla nuda facciata della parrocchiale, ornata da un portale rinascimentale, gli avanzi di un pergamo del XII secolo provenienti dalla distrutta abbazia di San Salvatore, e all’interno numerose opere d’arte. Più in alto dell’agglomerato, nell’ex convento dei Francescani — con antico chiostro — ha trovato sede l’Istituto statale d’Arte F. A. Grue, che ospita un’esposizione permanente di ceramiche antiche. Un notevole interesse riveste l’annuale Mostra della ceramica antica, che viene tenuta in agosto, associata ad altre manifestazioni culturali e folkloristiche.

     

    Su di uno sprone alla confluenza del torrente Ruzzo con il Mavone si distende l’abitato di Isola del Gran Sasso, il più grosso centro della Valle Siciliana, importante base per le ascensioni sul gruppo del Gran Sasso. Nella parte vecchia conserva tipiche case antiche con sentenze latine scolpite sugli stipiti in pietra delle finestre e bei palazzi con cortili e loggiati; la parrocchiale di San Massimo, con un portale gotico-fiammeggiante (1420) e il battistero rinascimentale all’interno, e la Cona di San Sebastiano, elegante cappella quattrocentesca ornata da affreschi di Andrea Delitio, sono i maggiori monumenti. Nei dintorni, a circa 2 km. di distanza, si trova il Santuario di San Gabriele, fondato da San Francesco d’Assisi e recentemente ricostruito in brutto stile neo-barocco, rilevante meta del turismo religioso regionale.

     

     

     

     

    Grande importanza hanno in questa valle due antiche chiese isolate nel maestoso quadro del Gran Sasso. San Giovanni al Mavone (o ad Insidam), pittoresco edificio posto presso il fiume in mezzo a costruzioni difensive in rovina, ha la facciata duecentesca — con un portale rozzamente scolpito e due bifore — sulla quale domina un campanile a vela di epoca più tarda; nell’interno a tre navate, in cui spicca nella calotta absidale un grande affresco del Quattrocento, si apre sotto il presbiterio sopraelevato una pregevole cripta. Più a valle, a nord di Castel Castagna, in posizione lievemente rialzata sorge Santa Maria di Ronzano, con la semplice facciata a timpano e l’abside, sormontata da un campanile a vela, adorna di una monofora di mirabile fattura, di indubbi influssi pugliesi. La grande importanza della chiesa è data, nell’interno a tre navate, dal ben conservato ciclo di affreschi della fine del XII secolo che ne ricoprono il transetto e due delle absidi con grandi figure dipinte nella scia della tradizione paleocristiana, scevre da ogni influenza bizantina.

     

    A sud di Notaresco, nella valle del Vomano, si possono trovare, non lontani l’uno dall’altro, altri due gioielli isolati di arte religiosa medioevale: Santa Viaria di Propezzano e San Clemente al Vomano. Del complesso conventuale della prima rimangono ben conservati un ampio chiostro a pianta quadrata con doppio ordine di arcate poggianti su colonne in laterizio e la chiesa della fine del Duecento, dalla facciata pittorescamente irregolare e dall’alto campanile, mutilo nella parte superiore; il corpo centrale della chiesa è preceduto da un basso portico ad archi ogivali che protegge il portale originario e avanzi di affreschi quattrocenteschi, quello laterale, più basso, è quasi per intero occupato anteriormente da un grande portale trecentesco, detto Porta Santa. Imponente è l’interno basilicale a tre navate, con affreschi della fine del Quattrocento. La chiesa abbaziale di San Clemente al Vomano, fondata nel IX secolo e ricostruita nel 1108, mostra nella facciata, deturpata da due grandi contrafforti di sostegno, un bel portale architravato con stipiti scolpiti a motivi floreali, ed è abbellita nell’interno basilicale a tre navate da un prezioso ciborio (metà del XII secolo) e da altre notevoli opere d’arte.

    Sono inoltre degni di nota, sia per la posizione che per i pregevoli monumenti in essi conservati, molti centri minori. Fra il Tronto e il Vomano, Mosciano Sant’Angelo, con avanzi delle mura quattrocentesche e la massiccia torre civica (1396); Nereto, grosso e industre borgo della valle della Vibrata, in una zona di antichissimi insediamenti preistorici, con la chiesa romanica di San Martino; Sant’Omero, con il bel Palazzo Marchesale del Rinascimento e gli avanzi del castello medioevale, nel cui territorio sorge isolata l’interessante chiesa di Santa Viaria a Vico, unico monumento abruzzese anteriore al Mille conservatosi quasi integro, con la facciata incorporata in una rozza torre campanaria e adorna di un semplice portale ad architrave sormontato da un rosone; Morro d’Oro, che nella parrocchiale di San Salvatore conserva un fianco con le primitive strutture romaniche in cotto, con bel portale e monofore.

     

    E a sud del Vomano suscitano un particolare interesse Tossicia, con la piccola chiesa di Sant’Antonio Abate dal grande, ricco portale quattrocentesco e con interessanti case medioevali; Cellino Attanasio, in posizione dominante sulla cima di un colle, che conserva torrioni e tratti delle antiche mura merlate e possiede la bella chiesa di Santa Maria la Nova con ricco portale quattrocentesco di forme romaniche sormontato da un ampio rosone; Èlice, con un massiccio castello ben conservato; Basciano e Bisenti, con i caratteristici vecchi borghi medioevali e interessanti chiese; Carpinete della Nora, con il complesso abbaziale di San Bartolomeo del quale rimane l’antica chiesa, con il portico a due archi e un portale architravato a decorazioni zoomorfe, sormontata dall’alto campanile a vela; Civitaquana, con la chiesa di Santa Maria delle Grazie (XII secolo), riportata alle linee primitive da un recente restauro che ne mette in mostra la bella facciata con elegante trifora e archetti pensili e l’interno a tre navate, interessante soprattutto per lo stile di transizione dal romanico al gotico.

     

    La regione urbano-industriale di Chieti e Pescara e la Val Pescara.

    In nessuna regione d’Italia due capoluoghi di provincia sono così vicini e uniti economicamente come Pescara e Chieti; ma raramente possiamo trovare in due città distanti tra loro meno di 20 km. tanta diversità, sia nel sito topografico che nell’aspetto. Mentre Pescara espande il proprio moderno abitato lungo la spiaggia adriatica orlata di pinete e di giardini, Chieti, arroccata al sommo di una collina fertile di campi e di oliveti, può essere giustamente chiamata, come ho trovato in una vecchia descrizione divulgativa, la città aerea. E non tragga in inganno la sua modesta altitudine di 330 m. sul livello del mare, poiché la sommità sulla quale essa si estende è per largo tratto intorno la più elevata, aprendo un panorama vastissimo e quanto mai vario, dalla distesa dell’Adriatico alle più alte vette abruzzesi che formano un lontano anfiteatro. Alla base del colle, ad est, si allunga l’ampia valle della Pescara, ben coltivata e fervida di industrie, percorsa dalla statale Tibur-tina-Valeria che è la principale via di penetrazione verso l’Abruzzo montano. L’isolamento di Chieti è quindi soltanto apparente, poiché varie strade, tortuose ma brevi, la uniscono alla grande arteria e ne determinano l’espansione verso di essa.

    La città vanta origini antichissime, tanto è vero che su di essa sono nate leggende che attribuiscono la sua fondazione ad Ercole o ad Achille. Specialmente quest’ultima attribuzione è rimasta così tenace che la popolazione ha fatto rivivere l’eroe omerico nello stemma civico. Chiamata in principio Teate Marrucinorum dalla popolazione dei Marrucini che, cacciati gli Osci, occuparono una vasta regione intorno, ben presto raggiunse notevole importanza, essendo l’unico centro cittadino di questo popolo, e sotto i Romani, dopo la guerra sociale, divenne municipio, poi colonia. La sua importanza decadde con le invasioni barbariche e nell’801 fu distrutta da Pipino re d’Italia, che, strappatala ai Longobardi, ne annesse il territorio alla provincia Valeria. In tale periodo la “città, dopo una limitata ricostruzione, conservò una certa importanza soltanto come giurisdizione ecclesiastica, essendo divenuta diocesi fino dall’879. Fu sotto gli Angioini che risorse a nuova vita divenendo capoluogo dell’Abruzzo Citra e in seguito sede di giustizierato con giurisdizione anche oltre il fiume Pescara. Pure con gli Aragonesi la città ebbe un certo benessere, e nel 1443 fu dichiarata metropoli degli Abruzzi, mentre non molto più tardi potè battere moneta propria e nel 1526 divenne sede arcivescovile e metropolitana. Alquanto esiguo è sempre stato invece il numero degli abitanti: soltanto 3750 alla metà del secolo XVI, circa 9000 nel 1669,’non più di 10.000 nel primo Ottocento.

     

    Di questo suo passato Chieti conserva notevoli tracce. Resti di capanne neolitiche trovati nella località Madonna del Freddo e una necropoli presso la Porta Sant’Anna con tombe che risalgono alla tarda età del ferro, testimoniano l’antichità del suo insediamento. Ma particolarmente interessanti sono gli avanzi dell’epoca romana: il teatro situato sul Colle della Civitella, che si ritiene potesse ospitare circa 5000 spettatori, la cisterna, della quale avanzano imponenti arcate, e i tre tempietti posti quasi al centro della città e riportati alla luce nel 1935. Ben poco ci rimane dei molti secoli trascorsi dal medioevo al Settecento: il bel campanile trecentesco del Duomo, qualche particolare architettonico medioevale in altre chiese, ormai rifatte o deturpate nel secolo scorso, pochi palazzi barocchi. L’impronta che la città ha più conservato è essenzialmente ottocentesca, con aggiunte del primo

     

     

     

    Novecento, impronta austera alla quale però nuoce la monumentale pretenziosità di non pochi edifici.

    Ora Chieti ha superato i 30.000 ab. ed è perciò, dal punto di vista della popolazione, la seconda città d’Abruzzo, superiore, pur se di poco, anche all’Aquila. La sommità della collina, dorsale convessa verso la valle della Pescara, con ampia e più ripida concavità ad est, dove scorrono alcuni torrentelli tributari dell’Alento, ne ha condizionata la pianta ad una forma stretta ed arcuata, fra le due estremità corrispondenti alla Villa Comunale e al Largo Garibaldi. Data la limitatezza del centro urbano, non è possibile dividere la città in quartieri distinti secondo le diverse funzioni. Possiamo solo individuare nel rettilineo Corso Marrucino, parzialmente fiancheggiato da portici, l’asse fondamentale della vita amministrativa e commerciale. Lungo questa strada vien fatto di ricordare il Corso dell’Aquila, per le molte caratteristiche comuni: qui ferve quasi unicamente la vita cittadina, qui avviene il monotono e abituale passeggio serale e domenicale, qui troviamo i negozi e i caffè eleganti, le sedi commerciali, gli uffici pubblici, i grandi magazzini. Eccettuato il Corso, le altre vie sono ben più modeste, anguste e molto spesso in pendìo, ma non hanno il fascino di quelle aquilane, dove ogni tanto uno scorcio suggestivo, un bel portale, una bifora, ci riportano a contatto con un passato di nobili tradizioni.

    Attorno al vecchio nucleo urbano un cospicuo sviluppo edilizio ha coronato le pendici di moderne costruzioni, situate a varie altezze, che hanno dato vita a veri e propri rioni. Gli edifici recenti sono stati posti in modo da non nuocere alla magnifica veduta che fa dei viali di circonvallazione una delle maggiori attrattive cittadine. Ma certi rioni, costruiti sulle argille franose nonostante i rapporti del Servizio Geologico, hanno mostrato ben evidenti i segni della scarsa stabilità che ha già dato luogo a molti inconvenienti. Riguardo all’attività turistica, Chieti non è certamente ai primi posti tra le città abruzzesi: le sue attrezzature ricettive si riducono a pochi alberghi, uno dei quali di prima categoria. Le funzioni cittadine sono essenzialmente burocratiche, commerciali e culturali. Sede di una delle facoltà della « tripartita » Università abruzzese, può vantare, oltre ai cospicui avanzi romani, l’interessante Museo Nazionale Archeologico d’Abruzzo, nel quale ha un particolare risalto la statua del Guerriero di Capestrano, di cui si è già fatto cenno, e

    alcuni pregevoli monumenti, fra i quali è particolarmente caratteristica la chiesa di Santa Maria del Tricalle, del 1317, bella costruzione in laterizio a pianta ottagonale. Via la città tende ormai verso il basso, sull’ampio fondovalle della Pescara dove il centro sdoppiato di Chieti Scalo sta progressivamente espandendosi con i suoi notevoli stabilimenti verso Pescara, lungo il grande asse di industrializzazione imperniato sulla Via Valeria. Espansione che a sua volta tende a formare una ininterrotta fascia di intensa umanizzazione fra i due capoluoghi, fino alla loro unione in un organico complesso urbano-industriale.

    Pescara è ormai una grande città, la maggiore dell’Abruzzo, avendo da poco superato i 100.000 abitanti. Nello stemma civico porta i simboli dei due centri che la costituiscono, cioè Castellammare Adriatico e Pescara, i quali furono aggregati nel 1927 nel nuovo capoluogo di provincia abruzzese. Da allora essi sono uniti inscindibilmente in un grande agglomerato che, per le vicende della sua prodigiosa crescita, specialmente dopo le grandi distruzioni dell’ultima guerra, può annoverarsi fra i maggiori esempi di sviluppo urbano non solo della regione ma di tutta l’Italia. Se facciamo ancora riferimento allo stemma, possiamo immediatamente capire le ragioni essenziali di tale sviluppo, dovute in gran parte all’ottima posizione geografica, nella scritta « Haec est civitas Aterni, porta Aprutii et sera Regni ». Porta dell’Abruzzo quindi, così giudicata anche dalle antiche genti che la fondarono con il nome di Aternum, e che in questo luogo trovarono il punto più adatto di incontro fra i popoli provenienti dal mare e quelli che discendevano dalle zone montuose, formando un emporio di una certa importanza, divenuto in seguito il cardine per la difesa dell’Abruzzo interno.

     

     

     

     

    Nonostante l’antica origine e l’importanza della posizione geografica, le notizie sulla città sono scarse e, riguardo alla sua fondazione, molto incerte. Forse la città romana si sovrappose ad un preesistente insediamento pelasgico, ma il fatto è che non sappiamo nemmeno con precisione se la popolazione che vi ebbe la predominanza appartenesse ai Vestini, ai Marrucini oppure ai Frentani, dato che proprio qui era situato il punto d’incontro fra questi popoli. In base ai reperti archeologici e a pochi documenti è stata fatta anche una ricostruzione dell’antica città che vediamo a cavallo del fiume cinta da mura, con le due parti collegate da un ponte in pietra; sulle rive ci sono magazzini e arsenali, al centro il Foro con vari templi e un collegio dei Nocchieri; immediatamente a sudest doveva trovarsi un grande stagno di acqua salmastra e a nordest una palude. Di tale cittadella sappiamo che non ebbe mai un grande sviluppo, dato che per essa, nei pochi scritti che la riguardano, non fu usata la parola « civitas » ma quella, ben più limitata, di « vicus ». Non è facile quindi seguire lo sviluppo della città o le sue fasi di involuzione riferendoci a documenti sicuri e non al desiderio di taluni pur meritevoli cittadini di trovare per essa eventi storici spesso non suffragati da prove. In fin dei conti possiamo affermare che Pescara non abbia avuto una sua storia, ma abbia seguito quella di città che nei lunghi secoli del passato avevano un nome più illustre e una più marcata influenza come, ad esempio, la vicina Chieti.

    Vedi Anche:  Le altre attività primarie: allevamento e pesca

     

    Il nome di Aterno in Pescara fu cambiato dai Longobardi, che durante il loro dominio non aumentarono molto le risorse della città. Nei tempi successivi, anche per un abbassamento della costa dovuto a bradisismo e per l’interrimento del porto-canale, Pescara si ridusse a un borgo di ben poca importanza, popolato da agricoltori, e quindi ormai volto più verso l’interno che verso il mare, causa del suo primitivo sviluppo. Se pensiamo all’Aquila, sorge istintivo il desiderio di fare un raffronto: come questa ha avuto un passato ricco di una propria vita e di vicende che hanno lasciato alla città parte dell’austero antico volto, al contrario Pescara, per molteplici ragioni povera di storia autonoma, nulla ha conservato del proprio passato e presenta oggi il caratteristico aspetto, talvolta un po’ anonimo, di città completamente moderna. Credo che le ragioni principali si debbano ascrivere alla sua posizione che l’ha esposta a più riprese alle distruzioni belliche, ed anche al fatto che la città ha sempre avuto le proprie fondamenta sulle mobili sabbie del litorale, ben poco adatte a conservare le tracce della sua antichissima origine e dei tempi successivi. Certamente ha nuociuto in seguito allo sviluppo urbano la costruzione della poderosa fortezza da parte del duca d’Alba, nella seconda metà del Cinquecento. Nella carta dell’Abruzzo Ulteriore di Natale Bonifaci (1587) troviamo «Pi-scara fortezza regia », e in uno stemma del comune della fine del Settecento « Città di Pescara, regia piazzaforte ». Anche se le nuove fortificazioni erano più ampie delle precedenti, a cavallo del fiume, la città fu costretta all’interno di esse ed ebbe un mediocre sviluppo, data la prevalenza delle funzioni militari su tutte le altre; infatti le numerose caserme e le altre attrezzature militari toglievano spazio ad un armonico sviluppo urbano. L’antico ponte romano era stato sostituito con uno di barche collegante le due parti della piazzaforte; a sud della Pescara si trovava la parte più estesa con vari edifici religiosi, fra i quali la chiesa di San Cetteo, dedicata al patrono della città, e quella di Sant’Agostino, utilizzata in seguito come magazzino di sale. La città conservò questo volto anche sotto i Borboni, fino a quando, nel 1867, la fortezza fu completamente smantellata. Già però dai primi dell’Ottocento il fiume aveva determinato la divisione dell’abitato in due agglomerati distinti, essendo stato aggregato il nucleo di Castellammare alla provincia di Teramo, quello di Pescara alla provincia di Chieti. Minima era l’importanza amministrativa dei due centri, che non furono nominati nemmeno capoluoghi di mandamento, dipendendo il primo da Città Sant’Angelo, il secondo da Francavilla al Mare.

    Lo sviluppo si manifestò improvviso come diretta conseguenza della costruzione, nel 1862, della grande linea adriatica da Ancona a Foggia, della quale Castellammare fu importante scalo di smistamento, quando divenne anche capolinea della ferrovia di penetrazione verso l’interno dell’Abruzzo e verso Roma. In tal modo il centro più giovane, formato verso la metà del Seicento da pochi agricoltori e rimasto per lungo tempo in condizioni di dipendenza da Pescara, cominciò a crescere con ritmo molto più intenso di Pescara stessa. Questa, abitata allora da uno strato predominante di popolazione borghese, non contese nemmeno a Castellammare il privilegio di ottenere la stazione ferroviaria; sembra che i depositi delle locomotive, con il fumo che si spandeva tutto intorno, dessero fastidio ad alcuni fra i più influenti cittadini. Così i grandi depositi e la stazione stessa furono collocati a Castellammare, dove sorse un grosso nucleo di case per ferrovieri, mentre il commercio marittimo del porto-canale ebbe un valido sostegno nella strada ferrata. Il primo animatore e coordinatore di questo sviluppo è stato alla fine del secolo scorso Leopoldo Muzii, per molti anni sindaco benemerito, sotto la cui amministrazione la cittadina ebbe una struttura a strade rettilinee incrociantisi ad angolo retto e una valorizzazione come stazione balneare con la spinta dell’abitato, formato da numerosi villini, verso la spiaggia. Così nel primo quarto del nostro secolo Castellammare superò la vecchia Pescara, mentre venivano fatte pressanti istanze, malgrado l’accesa rivalità esistente fra le due sponde, per riunire gli abitati in una sola città. Al 1926 risale la legge per il riconoscimento di Castellammare come stazione di cura, soggiorno e turismo, che dette alla città nuove possibilità di sviluppo, e nel 1927 le due città si fusero finalmente in un unico capoluogo di provincia, crescendo rapidamente. Nel 1931, quando ormai la fusione era completa, il numero degli abitanti era di 26.600, nel 1936 era già giunto a 41.500.

     

     

     

     

    La guerra, con le inevitabili catastrofiche conseguenze, interruppe questo sviluppo: quattro quinti dell’abitato vennero rasi al suolo, ma con prodigiosa celerità Pescara seppe risorgere dalle rovine. Il primo periodo del dopoguerra è stato forse il più avventuroso: nella città si incontravano marinai, agricoltori, pastori, commercianti improvvisati, in un convergere disordinato di affari su questo che era quasi divenuto un punto di incontro fra il Nord più ricco e il Sud che si scuoteva da una secolare depressione. Fu allora che lo sviluppo urbano avvenne caoticamente, senza un piano preciso, dovuto quasi unicamente alla libera iniziativa dei privati più facoltosi o più avventurosi. La città risorge, ma perde molto del suo primitivo aspetto: le palazzine e i villini a due piani che caratterizzavano gran parte dell’abitato lasciano ormai il posto a ben più estese e più elevate costruzioni. Lo stile « Liberty », così diffuso nell’anteguerra, cede il passo alle linee ultramoderne dei colossi di cemento armato dalle ampie vetrate. E in questo sviluppo costante e poderoso la città non si estende come farebbe pensare il grande aumento della popolazione. Vengono occupati tutti gli spazi disponibili, il verde cittadino spesso è sacrificato alle esigenze edilizie, l’abitato si espande in altezza molto più che in ampiezza. Di tale cambiamento ha risentito in maniera ben maggiore la parte un tempo chiamata Castellammare, che è oggi il vero e proprio fulcro cittadino. La vecchia Pescara ha conservato invece in più di una via le caratteristiche di altri tempi, di quando cioè il suo figlio più celebre, Gabriele D’Annunzio, la descriveva come quasi immersa in una idillica pace agreste. La stessa casa natale del poeta, che è un’armoniosa costruzione del Settecento con balconcini in ferro, si è salvata dalla distruzione ed ospita preziosi cimeli. Del resto, nelle strade più recenti della vecchia Pescara si ha quasi la sensazione di trovarci nei sobborghi di una grande città, con quella caratteristica parvenza di incompiuto che non si nota più quando, oltrepassato il fiume, ci troviamo nel cuore della città moderna. Questa ha il suo asse principale nel Corso Umberto, che dalla stazione centrale porta alla Rotonda sul Lungomare, mentre il quartiere amministrativo con i grandi palazzi pubblici, lasciati in eredità dal passato regime, sono decentrati in una vasta area sulla sinistra del fiume. Qui ha fine il lungo Corso Vittorio Emanuele, che è la principale via di scorrimento longitudinale e si identifica con la Statale Adriatica. Vivacissimo e affollato durante la stagione estiva è il bel viale lungomare chiamato Riviera, che ha una lunghezza di circa 9 km. e sul quale si allineano alberghi e moderne palazzine che tendono a sostituire progressivamente i vecchi villini circondati dal giardino. Di fronte si allunga l’ampio arenile sul quale sono stati impiantati numerosi moderni stabilimenti balneari, mentre le palme lungo il viale danno una nota di verde esotico a tutto l’insieme. La Riviera termina a un capo al porto-canale, all’altro a Montesilvano, dove si riallaccia, ormai fuori dell’abitato urbano, alla Statale Adriatica presso la foce del Tavo-Saline. Per la bella spiaggia esiste tuttavia il problema determinato dal lento processo di erosione che tende a ridurne l’estensione, ma già sono stati presi adeguati provvedimenti con l’installazione di alcuni frangiflutti.

     

     

     

    Il problema essenziale per la città è dato dalle direttrici del suo sviluppo, che tenderebbero, risalendo il fiume, alla vasta pianura alluvionale situata a sudovest. Tale tendenza è notevolmente ostacolata dalla ferrovia che ne rallenta lo sviluppo al punto tale da avere stimolato un costoso progetto di deviazione dei binari verso

     

    Da vari anni, facendo leva sull’importanza sempre crescente che Pescara assume nei confronti degli altri centri abruzzesi, vengono fatti voti affinchè la città sia ufficialmente riconosciuta come capoluogo regionale. La questione è però molto controversa, specialmente riguardo all’Aquila, che, pur possedendo un’economia di gran lunga meno vitale, aspira anch’essa a tale funzione. Già Pescara è sede di vari uffici regionali, fra i quali l’Ispettorato Agrario Compartimentale, l’Ufficio Idrografico, l’Ispettorato Compartimentale dei Monopoli, la Direzione Compartimentale dei Telefoni, ecc. Molte sono le ragioni che i pescaresi adducono per ottenere una decisione affermativa a questo proposito: alcune legittime, altre discutibili. Ma il fatto fondamentale da tener presente è che il problema va inteso non dal punto di vista campanilistico, ma considerando la regione nel suo quadro generale. Che Pescara abbia un assoluto predominio economico non è una ragione definitiva per dare ad essa ancora maggiori funzioni, con l’aggiunta di quelle politico-amministrative. E non è lecito pensare senza un certo dispiacere alla progressiva decadenza, che diventerebbe inevitabile e definitiva, di una città così piena di fascino e di nobili tradizioni storiche, artistiche e culturali qual è indubbiamente L’Aquila, al di sopra di tutte le altre città abruzzesi.

    Strettamente legata a Pescara è Francavilla al Mare, la più antica stazione balneare abruzzese, un tempo capoluogo del mandamento che aveva giurisdizione fino alla foce della Pescara. Una nuova strada litoranea, che passa dalla Pineta e lungo la quale sull’ampia spiaggia appare ogni anno un numero sempre crescente di stabilimenti balneari, ha sostituito in questo tratto la Statale Adriatica, utilizzata in prevalenza per il traffico pesante. Solo 4 km. separano la Pineta da Francavilla, e la cittadina ci appare adagiata su un lieve pendio con i suoi modernissimi edifici posti fra i giardini e il verde intenso della vegetazione. E composta di due parti, in basso la città balneare con gli alberghi, il lungomare e gli stabilimenti, più in alto la città vecchia, a monte della Statale Adriatica. Città vecchia per modo di dire, poiché le gravissime distruzioni portate dalla guerra hanno fatto sì che il centro sia stato quasi completamente ricostruito. Presso l’abitato, su un’altura cinta da olivi, si trova l’eremo francescano detto « il Convento », celebre perchè nell’ultimo scorcio del secolo scorso divenne il rifugio di alcuni fra i maggiori esponenti dell’arte e della letteratura dell’epoca, fra i quali il pittore Francesco Paolo Michetti, che qui a lungo abitò ed ebbe spesso la compagnia del D’Annunzio.

    Nell’area di immediata gravitazione di Pescara, a nord della città, la località balneare di Montesilvano Marina presenta un modernissimo ed elegante complesso alberghiero di elevata capacità ricettiva, presso la foce del fiume Saline, unito al capoluogo dal lungo e rettilineo viale lungomare.

     

     

     

     

    Sull’area industriale di Pescara e di Chieti gravita in maniera particolare la Val Pescara, fino alle gole di Tremoliti che la separano dalla conca peligna. Tralasciando l’argomento dei grossi insediamenti industriali che vi hanno trovato sede, il fondo-valle è scarsamente popolato. L’unico centro di fondovalle che abbia antiche tradizioni è Torre de’ Passeri, presso il quale si trova l’abbazia di San Clemente a Casàuria, uno dei principali complessi religiosi della regione, importantissimo monumento di transizione dal romanico al gotico cistercense. L’abbazia fu fondata nell’871 dall’imperatore Lodovico II, come adempimento di un voto, e subì vari saccheggi e rovine, tanto che solo in parte ha conservato le pregevoli strutture antiche, che risalgono al XII secolo per la bella chiesa, alla quale attualmente è annesso l’interessante Museo Casauriense. Un altro pregevole edificio religioso si innalza, poco al di sopra di Manoppello Scalo, sul fianco destro della valle: l’Abbazia di Santa Maria d’Arabona (1208), primo edificio cistercense della regione, di altezza imponente e pittoresco per il movimento delle masse accentuato dagli speroni angolari di ciascun corpo di fabbrica.

    I centri abitati posti sulle colline che delimitano l’ampia valle hanno tutti una importanza piuttosto modesta, sia economica che storico-artistica, da Tocco da Ca-sàuria, borgo natale del pittore F. P. Michetti, a Castiglione a Casàuria, da Alanno, dove tempo fa era nata l’illusione dei giacimenti petroliferi, ai centri sulla destra della valle (San Valentino, Abbateggio, Manoppello, ecc.) spopolati e depressi, nei quali, oltre all’agricoltura, l’unica fonte economica è rappresentata dagli impianti di estrazione delle rocce asfaltifere. Alle ultime falde della Maiella, a breve distanza da Serramonacesca, s’innalzano, in mezzo ai cipressi, gli avanzi della chiesa di San Liberatore a Maiella, che faceva parte di una delle più antiche abbazie dell’Ordine dei Benedettini cassinesi, già esistente prima dell’anno 884 e ricostruita nel secolo XI. Le rovine sono dominate dal poderoso campanile e dalle tre grandi absidi; il bel portale mediano e parte del pavimento in opus sedile sono stati asportati e adornano ora la chiesa dell’Assunta di Serramonacesca.

     

     

     

     

     

    Nella zona collinare sulla sinistra del fiume — fra questo e il Tavo — che rientra nella sfera di attrazione immediata di Pescara, hanno un particolare rilievo i centri agricoli di Pianella e di Moscufo, per due pregevoli edifici religiosi del XII secolo: rispettivamente la chiesa di Sant’Angelo, dalla bella facciata con portale architravato e grande rosone, e quella di Santa Maria del Lago, ambedue arricchite all’interno da un prezioso ambone.

    Degno di nota è infine, nella valle del Tirino, il centro di Bussi, dominato dalla mole del bel castello turrito già esistente intorno al Mille, con strade dal tipico aspetto medioevale. Nei suoi dintorni si trovano i pittoreschi avanzi della chiesa di Santa Maria di Cartignano, appartenuta a un’abbazia benedettina fondata nell’XI secolo e dipendente da Montecassino.

    Il Subappennino Fremano.

    L’ampia fascia collinare che, limitata a occidente dal massiccio della Maiella, si estende fra la Pescara e il Trigno intersecata da numerosi corsi d’acqua, è chiamata abitualmente Frentania, anche se i limiti della regione popolata anticamente dai Frentani si spingono più a sud, comprendendo pure una parte del basso Molise. Regione eminentemente argillosa, nella quale le attenuate dorsali collinari si appoggiano ai ripidi calcari della Maiella, squarciati sovente da profonde gole, mette in evidenza una particolare varietà di paesaggi agrari, dai seminativi arborati ai vigneti, dagli orti agli oli veti ed alle vaste plaghe aperte coltivate a cereali. Tre sono i centri principali disposti su di un triangolo, a due vertici del quale si trovano sul litorale Ortona e Vasto, mentre al vertice interno è situata Lanciano, che si può ancora ritenere il vero e proprio capoluogo della regione.

    Tralasciando le mitiche origini di questa città, che si perdono nella notte dei tempi, si può dire che Lanciano è indubbiamente di origine antichissima, grande emporio dei Frentani, denominato in seguito Anxanum quando il centro, prima di essere municipio, divenne colonia romana. Pare che l’antica città sia stata distrutta dai Goti verso la metà del VI secolo, ed è probabilmente per questo che nessuna vestigia romana è giunta fino a noi, fatta eccezione per le tre arcate del cosiddetto Ponte di Diocleziano. Situata su una frequentata via di transito, Lanciano ebbe una eccezionale importanza per i floridi mercati.

    Non si sa quando questa tradizione abbia avuto inizio, ma indubbiamente la ricchezza della città era già notevole nell’epoca romana, quando si celebravano intorno al tempio di Apollo annuali nundinae che attraevano mercanti sia dall’Italia che dalla Grecia. Un periodo di particolare floridezza si ebbe nel medioevo con Federico II, che ne decretò la franchigia di dazi e gabelle. Nella seconda metà del Trecento la regina Giovanna cercò di favorire ancor più l’economia locale concedendo nel 1365 ai lancianesi « per poter celebrare la loro fiera con sicurezza e con quiete maggiore, la facoltà speciale di fabbricare il porto nel lido del castello di San Vito»; e a questo provvedimento fece seguito tre anni dopo l’esenzione dal pagamento del fondaco di Ortona a tutti i mercanti che affluivano alle due fiere di maggio e di agosto. E benché ne derivasse grande ostilità da parte degli ortonesi, preoccupati per il potenziamento di Lanciano a scapito dei loro traffici, anche i monarchi che seguirono cercarono di favorire sempre più il commercio lancianese, considerato come uno dei cardini dell’economia del regno. Il re Alfonso, ad esempio, stabilì nel 1450 che durante le due fiere annuali di Lanciano non se ne potessero tenere altre per un raggio di 20 miglia, disposizione che obbligò gli ortonesi a spostare la loro fiera da maggio a marzo. Alla fine del Quattrocento Ferdinando II favorì ancor più la città, disponendo « che non si possa fare altre fiere per 30 miglia da essa, tre mesi prima e tre mesi dopo le sue ».

    Sino agli ultimi del Quattrocento i due grandi fulcri del commercio regionale erano LAquila e Lanciano, con una certa preponderanza per la prima, politicamente potente e dalla florida economia. Il primato commerciale di Lanciano si ebbe in seguito alle vicende politiche che portarono alla revoca e alla scomparsa nella prima metà del Cinquecento dei numerosi privilegi economici di cui godeva la maggiore città abruzzese. Fu allora che Lanciano raggiunse l’apogeo della prosperità economica e divenne l’emporio di tutto il regno, proprio per mezzo delle fiere. In esse le merci più varie erano oggetto di scambio, mentre le operazioni finanziarie erano esercitate da un cospicuo gruppo di banchieri che qui inviavano i loro rappresentanti. Nella straordinaria varietà merceologica, si distinguevano in maniera particolare alcuni settori: quello dei famosi vetri di Murano, che venivano in buona parte inviati verso Napoli; quello delle campane, che provenivano da Agnone nel Molise e dalla vicina Guardiagrele; quello dei libri da Venezia; quello delle spezie che affluivano copiose sia dal Levante che da Venezia. Inoltre convenivano numerosi alla fiera i berrettai veronesi, i mercanti aquilani di zafferano, i dàlmati che contrattavano cavalli, pelli e cuoi, i siciliani che portavano agrumi e uve passite, mentre dalle località più vicine affluivano ovini, cereali, vino, olio d’oliva, prodotti tessili ed anche opere d’arte. Nel secolo XVII le fiere lancia-nesi cominciarono a perdere progressivamente d’importanza, sia per le scorrerie dei pirati, sia per le esose restrizioni del governo spagnolo, sia per le contese interne che portarono ad una generale decadenza economica della città. A tutto ciò vanno aggiunte le varie pestilenze che tennero lontano per alcuni anni i mercanti forestieri e, dal 1718, la concorrenza dell’importantissimo mercato di Senigallia.

     

     

     

     

     

     

    Da allora la città, in mezzo a continue lotte con la potente casa D’Avalos, ebbe una progressiva decadenza e seguì, sotto la giurisdizione di Chieti, le sorti regionali fino all’unificazione. Al principio del nostro secolo essa non raggiungeva gli 8000 ab., ristagnando poi sui 10.000 dal 1921 fino alla seconda guerra mondiale. Soltanto nel 1961 la città ha superato i 15.000 ab., e lo sviluppo appare piuttosto mediocre se viene confrontato con quello di tanti altri centri più favoriti dal progresso industriale e dalla facilità delle comunicazioni.

     

    La città attuale si divide nettamente in due parti, separate dalla profonda valletta della Petrosa: la città vecchia, costruita su tre colli e nobilitata da insigni monumenti medioevali, fra cui la chiesa di Santa Maria Maggiore (1227), una delle più importanti dell’Abruzzo, adorna di un magnifico portale trecentesco. La città nuova occupa il pianoro ad est dell’agglomerato antico, utilizzato un tempo per le grandi fiere ed ora caratterizzato da una struttura a scacchiera con strade incro-ciantisi ad angolo retto; al centro, fra i due agglomerati, si innalza la mole imponente della cattedrale, costruita sulle arcate del Ponte di Diocleziano. Le attività cittadine, malgrado l’istituzione di una zona industriale ancora allo stadio iniziale, si basano più che altro sull’agricoltura e sul commercio. L’arte della stampa, per tanto tempo rappresentata dalla nota casa editrice Carabba, è ormai in decadenza, mentre si tende a elevare il tono culturale con alcune iniziative, fra le quali il premio annuale di poesia dialettale abruzzese.

    Alquanto stretti sono i contatti della città con la vicina Ortona, che vanta anch’essa antichissime origini, un tempo principale porto dei Frentani e in seguito colonia e municipio sotto Roma. Il periodo più notevole della storia di Ortona fu quello svevo, durante il quale furono incrementate notevolmente le sue attività marinare con l’estendersi dei commerci specialmente verso il Levante. Lo sviluppo continuò con gli Angioini, quando la città, feudo dei Caldora, fu fortificata e cinta di potenti mura. Un effetto negativo ebbero le aspre contese con Lanciano per la supremazia del porto, terminate soltanto con la pace del 1427. Nel secolo successivo le numerose calamità belliche — culminate con il sacco nel 1566 da parte delle truppe ottomane di Pialy Pascià — portarono la città e la sua economia ad un’accentuata decadenza, dalla quale ben poco si sarebbe in seguito sollevata.

     

     

     

    All’inizio del nostro secolo Ortona contava 7000 ab., che solo nel 1936 superarono il numero di 10.000. Durante l’ultima guerra è stata fra le città abruzzesi più provate, ridotta quasi completamente a un cumulo di rovine. Con la ricostruzione postbellica il centro ha assunto un nuovo volto, pur avendo conservato lo stesso sito topografico, e si presenta disposto a semicerchio su un terrazzo che si eleva a m. 64 s. m., al di sopra del porto e dello scalo ferroviario. Pur avendo avuto un ben scarso incremento come popolazione (11.315 ab. nel 1961), in questi ultimi anni Ortona ha manifestato un certo risveglio economico, specialmente nelle attività commerciali basate sull’agricoltura, nel turismo (soprattutto per i due recenti lidi discosti dalla città) e nella pesca. Alcuni antichi monumenti — la Cattedrale, le chiese di Santa Caterina e di Santa Maria di Costantinopoli, i resti del Castello Aragonese — hanno potuto, in seguito ad accurati restauri, sopravvivere alla distruzione.

    Delle città frentane, Vasto ha di recente mostrato un più vigoroso dinamismo, dovuto in buona parte alla vicina industria vetraria di San Salvo. Di origine oscura ed antichissima, probabilmente illirica, ebbe col nome di Histonium una certa notorietà come municipio romano, ma nel medioevo e nei secoli successivi mai riuscì a raggiungere l’importanza di Lanciano e di Ortona. Attraverso intricate vicende storiche — anch’essa dovette subire il sacco dei Turchi — e sotto la giurisdizione di vari feudatari, in primo luogo i D’Avalos che la tennero per tre secoli, dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento, la cittadina si è affermata più che altro come centro di mercato agricolo. Come ad Ortona, anche qui l’abitato è disteso al limite di un ciglio che guarda dall’alto (m. 144) il mare. La parte più antica è quella orientale, a ridosso della balza, parzialmente distrutta dalla rovinosa frana del 1816; qui si trovano pregevoli edifici, fra cui il Duomo, che conserva dell’antica costruzione della fine del Duecento parte della facciata, la chiesa di Santa Maria Maggiore con la bella torre campanaria trecentesca, il Palazzo D’Avalos e il poderoso castello quadrilatero. Alla fine del secolo scorso lo sdoppiamento della Marina avvicinò al mare la città, con la conseguenza di nuove attività pescherecce e turistico-balneari, attività che recentemente hanno avuto — soprattutto il turismo — un forte impulso. Attualmente Vasto è in pieno fervore (anche se nel 1961 superava di poco i 13.000 ab.) e necessita sempre più di un piano organico per rendere maggiormente efficaci le numerose iniziative locali.

     

     

     

     

     

    All’interno, in mezzo a un dedalo di colline argillose dalle pendici spesso intagliate da calanchi, si distende su una dorsale allungata l’interessantissima cittadina di Guardiagrele, cara al D’Annunzio che ne dette una bella immagine ne II Trionfo della Morte: « … la nobile città di pietra con le sue torri millenarie, la fiera guardia posta a fianco della Maiella, della montagna madre, del gran ceppo incrollabile… ». Centro nobile e antico, ha le più insigni tradizioni nell’arte dell’oreficeria, nella quale eccelse fra tutti il noto Nicola da Guardiagrele, discepolo a Firenze di Lorenzo Ghiberti. Anche l’arte del ferro battuto, tuttora ben rappresentata, vi ha conosciuto periodi di particolare splendore, mentre è scomparsa del tutto quella della fusione delle campane. Ormai la cittadina vive essenzialmente dell’agricoltura e dell’attrazione esercitata dai bei monumenti, in primo luogo la chiesa di Santa Maria Maggiore, dominata dalla possente torre campanaria del XII secolo e arricchita da un prezioso portale ogivale trecentesco.

    Molteplici sono le attrattive dei centri minori, da Càsoli che domina la vallata dell’Aventino dall’alto del turrito castello, ad Atessa nella quale spicca la bella facciata del Duomo adorna di un portale ogivale e di un grande rosone; dagli avanzi suggestivi dell’Acropoli, del Teatro e del Foro di Iuvanum, antica città frentana situata fra le attuali Torricella Peligna e Colledimàcine, alla mirabile abbazia di San Giovanni in Venere, presso Fossacesia, che domina dall’alto di un promontorio il mare e la vallata del Sangro. Quest’ultima è uno dei più notevoli edifici religiosi abruzzesi, di grande interesse sia per la facciata dal bel portale marmoreo duecentesco, sia per le tre eleganti absidi, sia per il solenne interno adorno di preziosi affreschi del secolo XII. Il suo nome deriva dal fatto che il primo edificio fu costruito, non più tardi del secolo VIII, sull’area di un antico tempio di Venere Conciliatrice.

    E non sono infine da dimenticare le bellezze del paesaggio che ci pone di fronte tanto a suggestivi scorci alpestri, come a Bocca di Valle, presso Guardiagrele, allo sfocio di un profondo vallone della Maiella, quanto ad ampi orizzonti marini, come sul belvedere dell’antico centro di San Vito, che abbraccia il litorale da Ortona fino a Punta della Penna.