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La popolazione

    La popolazione

    Una valutazione approssimativa per i secoli scorsi.

    Non è facile una precisa ricostruzione delle vicende riguardanti il popolamento delle due regioni durante i secoli passati, sulla scorta dei documenti a noi pervenuti. La prima rilevazione statistica del Regno di Napoli fu ordinata nel 1447 da Alfonso dAragona e si basò sul computo, per scopi fiscali, dei nuclei familiari denominati « fuochi ». Nel 1669 avvenne l’ultimo censimento per fuochi, e soltanto nel secolo seguente cominciò ad essere praticato il computo individuale col sistema degli « stati delle anime », che venivano annualmente compilati nelle parrocchie. Fra queste due date si procedette per più di due secoli all’accertamento delle famiglie che dovevano pagare il « focatico » per mezzo di appositi messi che venivano inviati casa per casa (ostiatim).

    I difetti del sistema sono evidenti. A prescindere dal fatto che, per motivi ben comprensibili, gli accertamenti a scopo fiscale risultano per lo più in difetto, troppo differente è stata la valutazione fra un censimento e l’altro, e anche fra due diverse regioni durante lo stesso censimento, per potere attribuire ai fuochi una particolare attendibilità. Oltre a ciò, sulla scorta degli storici della fine del Settecento, non possono essere tralasciate le perplessità riguardo a una precisa valutazione numerica « poiché da alcuni si valutavano sette persone per fuoco, da altre sei e da taluni cinque » (Giustiniani).

    Tuttavia, anche se fra notevoli incertezze, è possibile, aiutati dalle opere del Beloch, tentare una ricostruzione del numero degli abitanti dell’Abruzzo e del Molise. Una prima base ci è offerta dalle statistiche del 1532, dato che i documenti relativi a quelle precedenti sono andati distrutti durante l’ultima guerra. In quell’anno furono rilevate complessivamente 58.000 famiglie, per le quali si può fare una stima approssimativa di quasi 300.000 abitanti. Di questi poco meno di 70.000 appartenevano al Molise, mentre 90.000 circa erano gli abitanti dell’Abruzzo Citra (Chieti) e più di 135.000 quelli dell’Abruzzo Ultra (Teramo e Aquila). Le cifre sono sicuramente inferiori al vero, poiché venne omesso un certo numero di comuni, cosa che del resto è stata riscontrata anche per la numerazione del 1545.

    Si può notare così durante tutto il secolo XVI un netto incremento della popolazione, che il Beloch ritiene però superiore alla realtà. E vero che fino ai primi decenni del Cinquecento il Regno fu travagliato da guerre mentre dopo l’avvento del dominio spagnolo iniziò un periodo di pace; è vero che dal 1530 le due regioni rimasero immuni, per più di un secolo, da qualunque grave epidemia. Ciò nonostante le cifre riguardanti la popolazione verso la fine del secolo (rilevamento del 1595) sembrano ugualmente alquanto esagerate. Risultano infatti ben 95.168 fuochi, corrispondenti a quasi mezzo milione di abitanti, e ciò significa un aumento di popolazione del 67% in 63 anni. Il Molise si aggirava così sui 90.000 ab. (31 per kmq.), l’Abruzzo Citra sui 150.000 (38 per kmq.) e l’Abruzzo Ultra sui 250.000 (33 per kmq.). Per il Beloch l’aumento dei fuochi corrisponde solo in parte a un incremento di popolazione; per il resto il fenomeno può essere spiegato con la costante crescita della fiscalità da parte dei governanti durante la dominazione spagnola, crescita che sottrasse all’esenzione dai tributi molte famiglie che prima non figuravano nelle numerazioni dei fuochi.

    Verso la metà del secolo, a causa del forte malcontento che generò più di una sommossa, la pressione fiscale venne attenuata e il numero dei fuochi fu ridotto in tutto il Regno di 50.000; altrettanti ne furono tolti dopo la peste del 1656. Questa è la ragione del sensibile calo dei fuochi nei dati del 1648, anno in cui non ebbe luogo una vera numerazione ma fu modificata, spesso arbitrariamente, quella precedente del 1595: per i due Abruzzi e il Molise i fuochi risultarono 87.863, cioè 7305 in meno, mentre in effetti non si ritiene che il numero degli abitanti abbia subito una diminuzione. L’ultimo censimento del XVII secolo avvenne nel 1669. In esso le ripercussioni della tremenda peste e dei conseguenti sgravi fiscali sono ben evidenti: il numero dei fuochi ha avuto una forte flessione, toccando a malapena i 75.328 (—12.535), equivalenti a circa 400.000 individui. E se l’Abruzzo conserva ancora un buon numero di abitanti, superiore alle cifre della prima statistica presa in esame (1532), non altrettanto si può dire del Molise, nel quale il calo si manifestò in misura estrema. Maggiori vuoti lasciati dall’epidemia o maggiore povertà e quindi un più sensibile sgravio fiscale? Probabilmente sono valide ambedue le ipotesi.

    Dal 1669 non fu più fatto il computo per fuochi, e per circa un secolo non si ha alcun dato statistico. Sappiamo comunque che per tutti gli stati italiani è iniziato un lungo periodo di forte incremento demografico. Nel 1765 la popolazione abruzzese era salita infatti a 434.490 ab.; nel 1788 a 587.719, con un incremento del 35% in soli 23 anni. La provincia più popolosa era l’Abruzzo Ultra 20 (L’Aquila) con 227.083 ab., seguito dall’Abruzzo Citra (Chieti) con 209.270 e dall’Abruzzo Ultra i° (Teramo) con 151.366. Il Molise aveva raggiunto i 178,457 ab., cioè due volte e mezza quelli del secolo precedente. La densità di popolazione complessiva delle due regioni era così salita a 45 ab. per kmq.

    La rapida crescita non si attenuò nel mezzo secolo successivo, malgrado le guerre napoleoniche e l’instabilità politica che ne conseguì. Sul finire del periodo murattiano, nel 1814, la popolazione delle due regioni raggiunse quasi il milione: il Molise era salito a 304.434 ab., l’Abruzzo a 679.528. Nel 1830, in piena restaurazione borbonica, il Molise toccò i 387.690 ab., l’Abruzzo 904.937 così distribuiti: Abruzzo Ultra 2°, 336-593; Abruzzo Citra, 326.759; Abruzzo Ultra i°, 241.585. Stupiscono quindi i dati che seguono a circa un ventennio di distanza (1851-52, gli ultimi prima dell’unificazione), nei quali si riscontra invece un sensibile regresso demografico, pressappoco della stessa entità in ogni singola provincia: Abruzzo 873.277 abitanti, Molise 360.549.

    Dinamica della popolazione dall’unificazione alla prima guerra mondiale.

    Il grande esodo transoceanico.

    L’unificazione portò sin dal principio, con i Censimenti del Regno e la fondazione dell’Ufficio di Statistica generale (l’attuale Istituto Centrale di Statistica), nuove basi e ben maggiore regolarità per il computo della popolazione italiana. Così fino dal 1861 ci possiamo avvalere dei censimenti decennali (fatta eccezione per il 1891 e per il 1941), nei quali si può trovare l’entità non solo della popolazione residente o legale ma anche di quella presente all’atto del rilevamento. Per tratteggiare con una certa precisione la dinamica demografica delle due regioni, ritengo opportuno considerarne le variazioni della popolazione calcolata entro i loro confini attuali, prescindendo cioè dai mutamenti territoriali già precedentemente trattati.

    Nel censimento del 1861 la popolazione residente risulta di 1.213.623 ab., dei quali 858.455 da attribuire all’Abruzzo, 355.168 al Molise. Fra i territori corrispondenti alle attuali province il più popolato era quello di Chieti (298.390 ab.), seguito dall’Aquila (282.473). Non si ha notizia fino a questo periodo di spostamenti sensibili, anche interni, della popolazione. Il richiamo delle industrie nascenti, che ha avuto sin d’allora in altre regioni italiane un compito decisivo agli effetti del futuro popolamento, qui manca quasi del tutto. E ciò si riflette essenzialmente sulla scarsissima urbanizzazione delle due regioni: solo L’Aquila sorpassava allora, e di poco, i 10.000 ab., mentre gli altri scarsi centri con funzioni urbane se ne mantenevano al di sotto. Quasi unicamente agricole erano quindi le fonti di vita di queste popolazioni che crescevano di anno in anno sotto la spinta di un sensibile incremento

    naturale. Nel decennio fra il 1861 e il 1870 questo incremento raggiunse complessivamente gli 83.000 individui, con un indice medio annuo del 6,8%, mentre il censimento del 1871 ci dà per le due regioni un totale di 1.234.450 ab., con un aumento rispetto al precedente di soltanto 20.000 individui.

    Si può quindi arguire che proprio con l’unificazione abbia inizio quello spontaneo deflusso dalle sedi più disagiate verso le città al di fuori dell’ambito regionale (prevalentemente Roma per l’Abruzzo e Napoli per il Molise), che di lì a poco si tramuterà in vero e proprio esodo verso le lontane Americhe. D’altra parte i tempi erano maturi per tale fenomeno. Specialmente nell’Abruzzo montano e nel Molise le condizioni erano quanto mai precarie, mentre la fascia costiera e i fondivalle pianeggianti, bordati di acquitrini, non potevano essere integralmente utilizzati. Le terre possedute da pochi continuavano a essere coltivate da molti. Spesso il grano non bastava a pagare il fitto del terreno, poiché l’antica rotazione del frumento col granoturco aveva esaurito i suoli. Così era iniziato un sistematico diboscamento attuato sia per un maggiore benessere dei grandi proprietari, sia per bilanciare le spese della pubblica amministrazione, sia per poter coltivare terre di nuova fertilità. Dal 1870 al 1881 furono distrutti nel Molise in media 650 ha. di bosco ogni anno. Le classi dirigenti ben poco si preoccupavano di questa situazione. Così G. Josa descrive ai primi del secolo la situazione del Molise durante questo periodo : « Le classi sociali elevate o vivevano fuori della provincia in ostinato assenteismo dalla terra o da questa si allontanavano egualmente per formare quella borghesia professionale di avvocati e di medici, che ancora oggi è la pesante forza ritardatrice di ogni movimento agricolo e industriale ». A quanto pare, nello spazio di un secolo non molto purtroppo è cambiato.

    Numero annuo degli emigrati (in migliaia) nel periodo del grande esodo transoceanico (1880-1925).

     

    Intorno al 1876 principiò dunque l’emigrazione all’estero, ma non sotto l’impulso di una vera e propria necessità sociale. Infatti non furono gli affittuari indebitati, i pastori o i braccianti a determinare il timido inizio del fenomeno, ma gli artigiani che più degli altri risentirono il contraccolpo del trapasso a una fase più propriamente industriale. I primi emigranti lasciarono soprattutto il Molise e la provincia di Chieti, dove maggiore era l’incidenza dell’artigianato sulle altre forme di economia: fonditori di Agnone, coltellinai di Frosolone, fabbri di Guardiagrele, ecc. Dal 1876 al 1881 emigrarono 9434 persone, di cui 6693 dal Molise e 2054 dalla provincia di Chieti, vòlte per più dell’80% verso l’America Latina (Argentina, Uruguay e Brasile). Nel 1881 varcò l’Oceano il primo grosso contingente verso gli Stati Uniti, tendenza questa che raggiungerà cifre enormi a cavallo dei due secoli. L’unico stato europeo che in questo periodo esercitò una certa attrazione fu la Francia.

    Nel 1881 gli abitanti dell’Abruzzo sono 949.480, quelli del Molise 381.713, quindi risultano aumentati rispetto al censimento precedente poiché il decremento dovuto alle prime migrazioni è superato dall’incremento naturale che risulta di circa 62.000 individui. In questo motivo vengono ad essere delineate le vicende demografiche delle due regioni fino al 1951 : una contrapposizione fra incremento naturale e decremento migratorio che produce un costante anche se non forte aumento della popolazione totale. Il censimento del 1881 ci mostra con piena evidenza questo rapporto: la provincia dell’Aquila infatti, rimasta pressoché esente dal movimento migratorio, ha il maggiore aumento (da 273.602 a 324.524 ab.) e diviene la più popolosa dell’Abruzzo, al posto di Chieti.

    L’ultimo ventennio del secolo è caratterizzato dall’accentuazione delle tendenze demografiche già constatate. Oscilla sui valori precedenti l’indice di mortalità, mentre aumentano notevolmente le nascite, con un conseguente forte rialzo dell’indice di incremento naturale. Questo raggiunge la media annua del 10 per mille, determinando un aumento totale di circa 300.000 individui. Ma l’emigrazione all’estero, espandendosi progressivamente nelle due regioni, e con maggior vigore nel Molise specialmente nel decennio 1881-90, ristabilisce l’equilibrio demografico. Infatti il censimento del 1901 ci mostra un tenue aumento di popolazione in ambedue le regioni: l’Abruzzo ha raggiunto 1.070.298 ab., il Molise 394.956.

    Il massiccio esodo, trasformatosi verso il 1881 da iniziativa individuale in fenomeno collettivo, continuò a volgersi verso le tradizionali terre d’oltre-oceano, in primo luogo gli Stati Uniti seguiti dall’Argentina e, dopo il 1891, dal Brasile. La Francia restava la principale meta europea, se si eccettuano la Penisola Balcanica e l’Austria-Ungheria nell’ultimo decennio dell’Ottocento.

    Col principio del secolo il pur cospicuo movimento migratorio ha una brusca impennata e tocca vertici mai raggiunti precedentemente. Gli emigrati, che nel 1896 erano arrivati al numero massimo di 20.587, divennero a cinque anni di distanza (1901) quasi 60.000. Nel quindicennio fra il 1900 e il 1914 lasciarono l’Abruzzo e il

    Molise per l’estero, con una percentuale fra l’8o e il 90% per gli stati d’oltre-oceano, ben 671.806 lavoratori, con l’enorme media annua di 44.787 espatri. E se nell’ultimo scorcio del secolo precedente il Molise aveva offerto un più elevato tributo di emigranti (126.751 su un totale di 222.461 dal 1876), nel Novecento la maggioranza, spesso schiacciante, passò all’Abruzzo: nel quindicennio in questione gli espatri dall’Abruzzo furono 493.000 per una media annua di 32.867 contro gli 11.920 dal Molise. Fra i paesi di destinazione gli Stati Uniti attrassero quasi i due terzi degli emigranti, seguiti a lunga distanza da Argentina, Brasile e Canada; fra gli stati europei degna di nota è la Germania, che, unicamente in questo periodo, accolse circa 40.000 lavoratori, mentre rimase continuo, ma di entità trascurabile, il flusso verso la Francia e si esaurì quello verso l’Austria-Ungheria. Giova ricordare infine che l’elemento femminile non rappresentò nemmeno un quinto del totale, e ciò serve a spiegare il notevole e costante numero dei rimpatri annui, oltre ai vantaggi economici dovuti alle cospicue rimesse di cui fruivano i familiari rimasti in patria.

    Nel 1911 si nota, rispetto al censimento precedente, un aumento di popolazione ancora più attenuato, di circa 47.000 unità dovute unicamente all’Abruzzo, dato che il Molise è rimasto pressoché stazionario. E in quest’ultimo decennio l’incremento naturale fu di più di 15.000 persone all’anno, con un indice medio del 10 per mille. La guerra intervenne, turbando profondamente questo equilibrio e insinuando i germi di nuove concezioni politiche e sociali che condizioneranno in seguito per molti anni la vita nazionale.

    Il periodo fra le due guerre mondiali;

    l’inizio dello spopolamento montano e la fine delle grandi migrazioni oltre-oceano.

    Il primo censimento del dopoguerra, effettuato nel 1921, rivelò una stasi apparente nell’entità complessiva della popolazione. Ma tale stasi non fu che il risultato di varie componenti che, pur nell’anormalità del periodo, trovarono una compensazione.

    Anzitutto è nota la netta flessione dell’incremento naturale determinata, anche se pare strano se si pensa alla guerra e al gravissimo terremoto marsicano, non tanto dall’aumento delle morti quanto dal forte calo delle nascite. Al tempo stesso il flusso migratorio all’estero subì un’estrema limitazione — con il minimo di 378 persone nel 1918 — contemporaneamente a un cospicuo aumento dei rimpatri; i 25.000 emigrati durante i quattro anni della guerra furono quasi esclusivamente donne e bambini che avevano avuto il permesso di raggiungere il capo famiglia negli Stati Uniti.

    Esaminando più particolareggiatamente le variazioni nel numero degli abitanti verificatesi nel decennio, notiamo due fatti degni di menzione. Il primo è la diminuzione (circa 15.000 unità) della popolazione molisana, collateralmente all’aumento in pari misura di quella abruzzese. Il secondo è il lieve calo avvenuto nella provincia dell’Aquila, fatto di particolare interesse perchè costituisce l’inizio di una tendenza aggravatasi in seguito e dovuta ai particolari disagi di un ambiente che tende sempre più a sganciarsi dalle forme chiuse di vita del passato. Da allora assume cioè un evidente risalto lo spopolamento montano: non vi è stato più alcun censimento che non abbia fatto registrare una diminuzione di popolazione nell’Abruzzo aquilano.

    Nel primo decennio del dopoguerra riprese l’emigrazione all’estero ma all’infuori del 1920, anno nel quale lasciarono l’Abruzzo e il Molise 50.000 persone (quasi tutte per gli Stati Uniti), essa fu ben lungi dal toccare l’intensità del periodo prebellico. La vittoria non aveva certo cambiato il disagio delle popolazioni, ma probabilmente il sempre più acceso spirito nazionalistico che ne era derivato agì presso molti come indubbio freno psicologico. Le cifre annue degli emigranti superarono di poco le 10.000 unità, e dal 1922 l’Argentina passò ad essere la meta più frequente, seguita dagli Stati Uniti e dalla Francia. In seguito il governo fascista, vòlto al cosiddetto potenziamento demografico della Nazione con l’attiva propaganda a favore delle famiglie numerose, emanò anche leggi restrittive per l’emigrazione, determinando coattivamente la limitazione del fenomeno migratorio all’estero.

    Fra i censimenti del 1921 e del 1931 si notano i più alti indici annui di natalità (31 per mille) che, combinati con una notevole diminuzione della mortalità (18 per mille), danno il maggiore incremento demografico naturale nella storia delle due regioni (206.000 unità, per un indice annuo superiore al 13 per mille).

    Nel 1931 gli abitanti dell’Abruzzo e Molise risultano complessivamente 1.545.293. Considerato il grande incremento naturale, l’aumento dal censimento precedente di sole 32.600 unità è spiegato non solo dalle ultime ondate migratorie di una certa consistenza, ma anche da un’intensificazione della migrazione interna, iniziata ai primi del secolo e ora rinvigorita dalle sanzioni che limitavano gli espatri.

    Ancora l’Abruzzo rivela un aumento di popolazione (37.000 unità), mentre per il Molise prosegue la flessione già iniziata nel decennio precedente, pur se ridotta a meno di 6000 abitanti. La situazione più critica riguarda la provincia dell’Aquila, nella quale lo spopolamento montano si è intensificato, con punte massime nella Màrsica, sul versante meridionale del Gran Sasso, sull’altipiano di Navelli e nella valle dell’Aterno. Ben nove comuni, fra cui Calascio, Gioia dei Marsi e Prata d’Ansi-donia, avevano un numero d’abitanti minore che nel 1871, oltre a due (Fano Adriano e Pietracamela) sul versante teramano del Gran Sasso.

    Molteplici sono le cause che incidono profondamente sul fenomeno: l’estremo frazionamento delle proprietà, più marcato nelle zone montane dove, per giunta, il terreno è meno produttivo; il diboscamento, con la diretta conseguenza della degradazione di vasti territori; l’eccessivo carico tributario accompagnato alla sempre minore redditività dei terreni; la crisi della pastorizia transumante in plaghe dov’essa era la base dell’economia individuale e collettiva. Cause che a più di trentanni di distanza sono tuttora valide.

    Le note positive, dal punto di vista demografico, ci sono offerte specialmente dalla fascia litoranea — soprattutto a nord della Pescara — ormai totalmente bonificata, lungo la quale si stavano sviluppando le marine, geminate dai centri collinari; le città, anche se in buona parte esercitavano una mediocre attrazione, crescevano con un ritmo abbastanza vivace. Al di sopra di tutte dobbiamo citare Pescara, divenuta nel 1927 capoluogo di provincia, che proprio nel 1931 si rivelò la più popolosa città della regione (26.600 ab.), con un aumento del 60% in dieci anni.

    Il nuovo censimento, l’ultimo prima del conflitto, fu espletato cinque anni dopo, nel 1936. Eccettuata la provincia dell’Aquila, l’aumento, che complessivamente risultò di 43.500 unità, fu generale. L’Abruzzo sali a 1.201.536 ab., il Molise a 387.259. La provincia di Pescara ebbe il maggiore incremento, dovuto però totalmente al vertiginoso sviluppo del capoluogo, che aveva già superato i 40.000 abitanti. Gli spostamenti interni, anche in seno alla regione stessa, sono facilmente intuibili nel numero crescente di città al di sopra dei 10.000 ab., una diecina in tutto. Di queste solo una, Chieti, sfavorita dalla prossimità di Pescara, ebbe una pur lieve diminuzione di popolazione. Se le migrazioni interne erano assai vivaci (dal 1931 al 1940, saldo passivo di 27.000 unità), languiva ormai decisamente l’emigrazione all’estero: nel quadriennio 1934-37 gli espatri furono 11.400, per lo più verso gli Stati Uniti e l’Argentina (89% oltre-oceano), mentre i rimpatri furono quasi la metà (5352). Così, in quel clima di acceso nazionalismo che aveva portato all’autarchia economica e al blocco quasi totale degli espatri, gli anni volsero fatalmente verso il secondo conflitto mondiale.

    Variazioni di popolazione fra la fine del secondo conflitto mondiale e il censimento del 1961 ; emigrazione verso i paesi europei e forte declino demografico.

    L’immediato dopoguerra, con l’abrogazione delle leggi restrittive e con il crescere del disagio economico soprattutto nella categoria dei coltivatori diretti, vide una vigorosa ripresa dell’emigrazione all’estero. Movimento libero, statisticamente incontrollato, che riprese verso le mete tradizionali d’oltre-oceano: Argentina, Canada e Stati Uniti, alle quali si aggiunsero Venezuela e Australia.

    La distruzione del patrimonio zootecnico e l’eccessivo carico demografico su sempre minori porzioni di terreno coltivabile furono i fattori che più influirono sull’ampiezza e sulla localizzazione del fenomeno. Le aree più interne ed elevate, come l’alto Molise, l’alto Sangro e la valle dell’Aterno, vi contribuirono in maniera particolare.

    Contemporaneamente ripresero nuovo vigore le migrazioni interne, anche nell’ambito della regione e sovente delle stesse circoscrizioni provinciali. Ha luogo, con moto opposto a quello manifestatosi durante gli anni della guerra, il deflusso della popolazione dalle sedi isolate e disagiate verso i maggiori centri. Le distruzioni erano ingenti un po’ dovunque ma specialmente nelle città (basti pensare a Pescara e a Ortona), e la conseguente ricostruzione favori la richiesta di cospicua mano d’opera nel settore edilizio. Ci troviamo di fronte quindi al principio di quel processo di deruralizzazione dovuto al mutamento di parte della popolazione rurale in urbana, rappresentata da mano d’opera non qualificata e connessa precariamente con l’industria delle costruzioni. L’irreversibilità di tale processo fu causa sin dall’inizio di preoccupanti fenomeni di sotto-occupazione e di disoccupazione, solo in parte attenuati dall’assorbimento delle eccedenze nelle risorgenti industrie manifatturiere.

    Vedi Anche:  Le forme di insediamento

     

     

     

     

    Il censimento del 1951 mostrò in ambedue le regioni un sensibile aumento di popolazione rispetto all’anteguerra: l’Abruzzo era salito a 1.277.207 ab. (+ 75.671 dal 1936), il Molise a 406.823 (+ 19.564). Soltanto la provincia dell’Aquila non contribuì al generale incremento demografico, rimanendo sostanzialmente stazionaria e subendo notevoli cali nella parte più propriamente montana; anche il capoluogo ebbe una certa diminuzione di abitanti, mentre invece Avezzano si mostrò in netta ripresa dopo le distruzioni belliche. Il progresso dei centri urbani era netto ed evidente, con le maggiori percentuali di sviluppo demografico a Chieti, Teramo e Pescara; perfino Ortona a Mare, che era stata quasi completamente distrutta, aveva ormai quasi raggiunto il numero di abitanti del 1936.

    Il 1951 fu l’anno in cui per la prima volta si manifestò quel nuovo indirizzo di tendenze migratorie che in breve avrebbe portato a un radicale cambiamento sia nelle mete che nei caratteri dell’emigrazione all’estero. Infatti prima d’allora gli espatri erano stati essenzialmente transoceanici, e solo un decimo di questi era in media rivolto verso gli stati europei, per lo più la Francia. Le statistiche del 1950 ci mostrano un totale di 12.234 emigranti, fra i quali soltanto 882 (meno del 4%) per l’Europa (in pari misura, Francia e Svizzera); il 43% degli espatri avvenne verso l’Argentina, il 24% verso il Venezuela e percentuali minori verso gli Stati Uniti e l’Australia. Nel 1951 il numero degli emigrati raddoppiò, e su 24.314 espatri più di 8000, cioè un terzo, avvennero verso l’Europa. Dopo Argentina (6478) e Canada (4434) vediamo inserirsi Francia (3088), Belgio e Svizzera con un afflusso maggiore che verso altri tradizionali stati di immigrazione, quali il Venezuela (2043), l’Australia e gli Stati Uniti.

    Questo mutamento di tendenze migratorie, favorito dall’incessante richiesta di mano d’opera da parte dei maggiori stati europei e dalla migliore organizzazione degli espatri, divenne un vero e proprio capovolgimento verso la fine del decennio, dopo un periodo di notevoli oscillazioni. Nel 1953, ad esempio, su 20.000 espatriati solo un quinto si diresse verso i paesi europei, mentre nel 1959 gli emigrati oltreoceano raggiunsero soltanto il 40% su un totale di quasi 30.000, con prevalente destinazione in Canada, Venezuela e Australia; in Europa i principali paesi d’immigrazione furono di gran lunga Svizzera e Francia, seguiti dalla Repubblica Federale Tedesca. Nel i960 gli espatri toccarono la punta più alta, con 40.727 emigrati, un quarto dei quali transoceanici; hanno inizio contemporaneamente la grande emigrazione verso la Germania Federale e la netta, progressiva flessione di quella verso la Francia, per la quale offriva una tradizionale mano d’opera l’Abruzzo aquilano.

    Gli espatri più considerevoli furono quindi: Germania Federale 11.587, Svizzera 11.034, Francia 4613, Benelux 1056, in Europa; Canada 4089, Australia 2893, Venezuela 2006, Stati Uniti 1806, nei paesi oltre-oceano. Ma notevoli furono anche i rimpatri (15.090), specialmente dall’Europa (13.672): Svizzera 6905, Germania Federale 3295, Francia 2924, Benelux 443; Venezuela 525, Argentina 305, Australia 161, Africa 125, Brasile 117, Canada 107.

    Tali cifre mostrano chiaramente la netta differenza di caratteri fra l’emigrazione transoceanica e quella europea. La prima è per lo più permanente e riguarda l’esodo di intere famiglie; i rimpatri, che costituiscono una percentuale esigua rispetto agli espatri, avvengono di regola dopo un lungo periodo di permanenza nella terra di immigrazione (da parte dei cosiddetti emigranti vitalizi). L’esodo verso i paesi dell’Europa occidentale è invece in linea di massima temporaneo e riguarda soltanto alcuni elementi della famiglia, spesso i più giovani e intraprendenti. I contratti di lavoro sono quasi sempre a tempo determinato e anche i permessi di residenza all’estero sono limitati, in modo da impedire il crearsi di presupposti per l’acquisizione della cittadinanza nello stato di immigrazione.

    In tal modo l’emigrazione europea incide spesso non molto profondamente sulla diminuzione della popolazione residente, o almeno ha un effetto minore delle migrazioni interne. Può essere portato come esempio il i960, anno nel quale le cancellazioni anagrafiche per espatrio furono 4587: ben 36.000 unità di differenza fra gli espatri anagrafici e quelli reali! E un’idea sufficiente della situazione si può avere dal divario fra popolazione residente e presente all’atto dei censimenti. Per le due regioni tale differenza era nel 1951 di 64.000 unità, mentre nel 1961, dopo l’enorme espansione dell’emigrazione stagionale e temporanea e degli spostamenti interni, raggiunse i 107.000 abitanti.

    Le migrazioni interne, dato che spesso assumono un carattere di temporaneità

    0 di stagionalità, sfuggono a una precisa indagine di carattere quantitativo. Ma basta osservare tale movimento attraverso le cifre dei trasferimenti di residenza per renderci conto dell’imponenza del fenomeno. Nel quinquennio fra il 1955 e il 1959 si è avuto un esodo annuo dai comuni d’origine (con cambio di residenza), di oltre 44.000 ab., cifra compensata per quattro quinti dalle contemporanee immigrazioni. Il 57% di questi si spostò all’interno delle due regioni, mentre le principali direttrici migratorie extra-regionali furono le seguenti: Lazio 34,5%, Lombardia 9%, Campania 8%, Marche 7,7%, Toscana 7,7%. Da ciò appare ben evidente la grande forza d’attrazione di Roma sull’Abruzzo e quella, ben più limitata, di Napoli sul Molise: città, queste, dove affluiscono numerosi anche i rappresentanti dei ceti intellettuali, con una conseguente, grave limitazione delle possibilità di rinnovamento della classe dirigente. Per il resto, sono presenti ambedue le tendenze, sia quella verso

    1 centri industriali lombardi, sia quella verso i poderi abbandonati della Toscana e delle Marche.

    Riguardo al movimento naturale della popolazione, si nota una costante riduzione complessiva di ambedue gli indici demografici: quello di natalità, che nel 1936 era del 27,7 per mille, è calato al 20,3 per mille nel 1951 e al 16,6 per mille nel 1961 (18,4 per mille, Italia); quello di mortalità dal 16 per mille nel 1936 è passato al 10,2 per mille nel 1951 e al 9,1 per mille nel 1961 (inferiore, cioè, al 9,3 per mille nazionale). Tali variazioni incidono con una considerevole flessione sull’indice d’incremento, che nel 1961 risulta del 7,5 per mille.

     

    Il censimento del 1961 rese evidente il risultato dei fenomeni demografici negativi sin qui trattati. In un solo decennio grandi vuoti si erano creati in ambedue le regioni : l’Abruzzo era calato a 1.206.266 ab. con una perdita di oltre 70.000 (5,5%), mentre il Molise, con 358.052 ab., aveva perduto il 12% della popolazione. Per l’Abruzzo la flessione ebbe un’intensità molto varia fra una provincia e l’altra: dal 9,9% dell’Aquila, al 6,6% di Chieti, al 4,2% di Teramo, per passare all’aumento dell’1,3% per la provincia di Pescara, dovuto essenzialmente al grande sviluppo del capoluogo.

    Nel regresso generale ben pochi comuni contrastano con un deciso aumento di popolazione. In Abruzzo, benché le più alte percentuali positive (oltre il 40%) riguardino Alba Adriatica e Montesilvano sul litorale aprutino, il maggiore incremento in cifre assolute si è manifestato a Pescara (+21.970 ab.). Per il resto, ai grandi vuoti si possono contrapporre solo pochi altri territori: la fascia costiera dal Tronto a Francavilla al Mare, in notevole sviluppo turistico, e i vasti comuni di Chieti, Teramo, Lanciano, Avezzano e L’Aquila nei quali ha agito l’indubbia, anche se talora tenue, forza d’attrazione delle città. Nel Molise le eccezioni sono ancor meno numerose: risultano non interessati dallo spopolamento soltanto 12 comuni, metà dei quali rimasti stazionari o con bassi incrementi (Tèrmoli, Venafro, ecc.). Un caso particolare è costituito dalla zona costiera attorno a Campomarino, dove la popolazione è aumentata di più del 40% in virtù dell’appoderamento di una vasta area fino a pochi anni fa quasi deserta. Per la solita influenza urbana, normali appaiono invece gli aumenti del 18% a Campobasso e del 14% a Isernia.

    Considerate le poche eccezioni, è chiaro che lo spopolamento non è avvenuto soltanto nelle zone montane, sfavorite dall’ambiente ostile, dall’economia arretrata e dalle difficoltà delle comunicazioni, ma anche nelle vaste plaghe collinari, sotto la spinta della popolazione rurale verso un continuo miglioramento sociale ed economico. Il decremento degli abitanti è stato possibile perfino sulla fascia costiera frentana a sud di Ortona, dove pure si sviluppano alcune marine (San Vito, Fossa-cesia) e si trova l’importante centro di Vasto. Nel basso Molise, eccettuate Tèrmoli e Campomarino, la percentuale di diminuzione si avvicina complessivamente al 20% sul territorio che si estende da Larino al mare. Ciò non toglie che il maggiore spopolamento sia essenzialmente montano, proprio delle aree più elevate o più interne. Intorno al massiccio del Gran Sasso il fenomeno si è manifestato con particolare intensità: sul versante teramano Pietracamela e Fano Adriano hanno perduto in dieci anni quasi la metà degli abitanti (—45%), su quello meridionale una vasta area che si estende anche sugli altipiani aquilani, da Santo Stefano di Sessanio e Calaselo fino alla conca di Capestrano, ne ha perduti un terzo. Anche i versanti occidentale e meridionale della Maiella rivelano punte di spopolamento estremamente accentuate. Pacentro, Cansano e, al di là della valle, il territorio di Pettorano sul Gizio superano il 30% di diminuzione. Come pure, in provincia di Chieti, Lettopalena, Colledi-màcine e, più ad est, Montàzzoli. Un’altra zona di sensibile spopolamento è l’alta valle dell’Orta, malgrado la valorizzazione turistica di Caramànico Terme, e anche la conca di Sulmona, benché favorita dall’abbondanza delle acque, dalla fertilità del terreno e dall’importanza del capoluogo, ha accusato una sensibile flessione di popolazione. Più grave ancora si presenta la situazione nel Molise. Immediatamente alle spalle di Larino troviamo alcuni fra gli indici negativi più alti della regione (Molitorio nei Frentani 41%, Montelongo 32%, Casacalenda 31%). Pressappoco la stessa intensità, con diminuzioni fra il 30 e il 40%, si manifesta in altre plaghe

    Calaselo, sul versante meridionale del Gran Sasso, al centro di una plaga con forte spopolamento.

    In alto si notano le rovine del villaggio abbandonato di Rocca Calascio.

     

    più interne, come nell’alto Trigno a Duronia e sul versante nord del Matese fra San Massimo e Sant’Angelo in Grotte. Un cospicuo spopolamento si nota anche in aree che fanno capo a centri importanti come Agnone e Larino.

    A questo punto ritengo conveniente un esame delle variazioni di popolazione intercorse fra il primo e l’ultimo censimento. Variazioni dovute a un secolo di dinamica demografica, che appaiono negative su buona parte del Molise e dell’Abruzzo interno. Decenni di migrazioni, con il particolare acutizzarsi del fenomeno in quello a noi più vicino, hanno in parte cambiato il volto delle due regioni.

    In Abruzzo, la zona litoranea dal Tronto a Francavilla, un tempo quasi deserta a causa degli acquitrini e della malaria, rivela le più alte percentuali di incremento; Pescara, che un secolo fa era composta da due borghi di scarsa importanza, si è quasi decuplicata, e indici molto elevati si notano a Montesilvano (448%), Roseto degli Abruzzi (252%), Alba Adriatica (232%), Giulianova (218%) e negli altri comuni costieri. Alle spalle del litorale, notevole è stato l’aumento di Chieti (247%) e di Teramo (113%), mentre, nella Val Pescara, Scafa (597%) e Bussi sul Tirino (175%) hanno avuto una spinta determinante dall’impianto di importanti industrie. Il settore frentano, economicamente più arretrato, mostra aumenti meno rilevanti: soltanto San Salvo ha raddoppiato il numero degli abitanti (135%) e per il resto ci troviamo di fronte a indici alquanto più bassi (Ortona e Vasto, 70%). All’interno, lo spopolamento montano è estremamente accentuato su vaste porzioni di territorio. L’eccezione più evidente è costituita dalla conca del Fùcino che ha esercitato una cospicua attrazione sulle zone circostanti e manifesta quindi notevoli aumenti : Avezzano (393%), Trasacco (302%), Celano (120%), Pescina e San Benedetto dei Marsi (115%), distrutte quasi completamente dal terremoto del 1915, hanno in modo particolare dimostrato la loro vitalità. In contrapposto, ben nove comuni, dei quali cinque appartenenti alla provincia dell’Aquila, hanno subito in un secolo la riduzione di più di metà della popolazione, con le percentuali più elevate nella regione del Gran Sasso: Santo Stefano di Sessanio —70%, Calascio —68%, Pietracamela — 51%. Salle, nella valle dell’Orta, è diminuita del 60%, Gagliano Aterno e Barete, nella valle dell’Aterno, rispettivamente del 53 e del 50%, Cappadocia, alle sorgenti del Liri, del 51%; all’incirca sulle stesse percentuali è lo spopolamento di Guilmi e Monteferrante, in provincia di Chieti.

    Roseto degli Abruzzi, sul litorale aprutino, che ha avuto le più alte percentuali di incremento demografico.

     

    Nel Molise litoraneo Tèrmoli ha avuto l’aumento più sensibile (350%) e anche gli altri due comuni costieri — Montenero di Bisaccia e Campomarino — hanno più che raddoppiato la popolazione. All’interno tale incremento demografico si è avuto soltanto a Campobasso (167%), mentre indici minori rivelano i comuni dell’alto bacino del Volturno, fino a Colli e a Isernia, ed altri con capoluoghi di una certa importanza, come Boiano (48%) e Trivento. Nella fascia subappenninica si possono citare gli aumenti di San Martino in Pènsilis, Ururi e, alquanto minore, Larino. Per il resto lo spopolamento è dovunque sensibile, con massimi discontinui e localizzati un po’ in tutta la regione, eccettuata la fascia subappenninica, e dipendenti perciò da particolari condizioni locali di economia e di saturazione demografica. Ben nove comuni hanno subito il calo di più di metà della popolazione, e fra questi possono essere citati Ripabottoni (61%), Castelpizzuto e Pesche (58%), Castel-verrino (56%).

    Nei risultati dell’ultimo censimento, contemporaneamente al fenomeno dello spopolamento della montagna e della collina è messo quindi in chiara evidenza lo spostamento di cospicui gruppi umani su determinate direttrici ormai tradizionali. Le aree maggiormente repulsive sono situate senza dubbio in montagna, e sono in particolare quelle sfavorite da un eccessivo frazionamento fondiario, dalla crisi dell’allevamento, dalla difficoltà delle comunicazioni, dall’asprezza del clima. Il richiamo viene invece esercitato, pur con sensibili differenze locali, dalla fascia costiera, dalle città e dalle maggiori conche interne. Polo d’attrazione di gran lunga superiore agli altri è Pescara, favorita dalle industrie in pieno sviluppo, dall’attivo commercio e dal turismo, ma anche le altre città, sia i capoluoghi di provincia sia i grossi centri come Lanciano, Avezzano e Tèrmoli, stimolano indubbi moti centripeti. Il litorale nettamente più favorito è quello aprutino, non solo per lo sviluppo del turismo balneare ma anche per le numerose industrie. All’interno, fra le grandi conche inter-montane il bacino del Fùcino, con la zona industriale di Avezzano e l’evoluzione agricola della piana, ha la maggiore forza d’attrazione, mentre la conca peligna può attualmente essere considerata repulsiva, essendo la città di Sulmona in una stasi preoccupante e le campagne in via di spopolamento. Per quest’ultima credo che un fattore negativo sia proprio l’asse di industrializzazione della Val Pescara e la facilità di comunicazioni con esso che provoca dapprima un allontanamento dalle campagne e in breve l’abbandono vero e proprio dei centri peligni.

     

     

     

     

     

     

     

    Intanto la montagna e buona parte della collina si spopolano. E i grandi vuoti appaiono in tutta la loro toccante realtà allorché, fuori dalla stagione estiva, ci addentriamo in queste contrade. Le strette vie solitarie, le vecchie case dai muri cadenti, il silenzio interrotto talora dal battere degli zoccoli di un mulo che trasporta grossi fagotti informi, rare persone, per lo più vecchi e donne, che si affacciano incuriosite dalla presenza di un estraneo che ha invaso il loro piccolo mondo in disfacimento. In molti villaggi buona parte degli uomini lavora lontano, nelle città e nei centri più importanti, e torna a casa la sera o addirittura a fine settimana. Non è raro il caso di amministrazioni comunali nelle quali il sindaco e vari componenti del consiglio siano impiegati in città e possano stare con i loro amministrati soltanto saltuariamente. E se qualche edifìcio nuovo, costruito con le rimesse dall’estero, appare ai margini dell’abitato a dare una macchia di colore, spesso stonata, all’ambiente, ciò non bilancia certamente il numero sempre crescente di case abbandonate e in completa rovina.

    Spettacolo deprimente, senza dubbio, ma è il logico risultato di una spontanea ricerca di equilibrio fra la pressione demografica e i mezzi di sussistenza, quanto mai scarsi specialmente nella montagna interna. Interessanti osservazioni furono fatte a proposito dall’Almagià, che notò un andamento ciclico nelle fasi dello spopolamento montano abruzzese. Riprendendo questo motivo, il Pecora, nel considerare le variazioni di popolazione fra il 1931 e il 1951, ha osservato che le aree di più intenso spopolamento erano interessate dal fenomeno non nella loro totalità ma in alcuni particolari settori. « Subito a ridosso si stagliano comuni in fase di debole spopolamento, e pertanto con condizioni demografiche instabili, e comuni in sensibile ripresa, pur in ambiente montano ». Facendo un confronto con i dati precedenti, relativi al decennio 1921-31, è emersa la quasi perfetta complementarità del fenomeno nei due periodi consecutivi. « Si impone in tal modo il fenomeno delle alternanze sulle diminuzioni e negli aumenti del carico demografico: così come aveva già osservato l’Almagià, specificando che taluni fatti demografici, noti sotto il nome di spopolamento della montagna, si sono verificati negli Abruzzi con alterne vicende fin da tempi assai lontani ». E naturale però che tali oscillazioni siano molto meno evidenti nel decennio successivo, fra il 1951 e il 1961, data l’enorme intensità e vastità del fenomeno: lo spopolamento ha interessato tanto i comuni già in decremento quanto buona parte di quelli che avevano registrato un bilancio demografico positivo.

    Dinamica della popolazione dopo il censimento del 1961.

    Ripresa dell’incremento demografico e attenuazione dello spopolamento montano.

    In questi ultimi anni, che hanno fatto seguito al censimento del 1961, le cifre ufficiose dell’ISTAT mostrano una netta attenuazione dello spopolamento. Anzi l’Abruzzo, pur con notevoli differenziazioni interne, risulta in fase di accrescimento della popolazione, essendo questa aumentata fra il 1961 e il 1966 di oltre 13.000 abitanti (1,1 %). E confermato invece il continuo regresso demografico del Molise, diminuito nello stesso periodo di 8000 unità (— 2,2%), anche se siamo ben lontani dall’enorme decremento (12%) del decennio precedente. Fatto riscontrato pure per L’Aquila, l’unica provincia abruzzese con variazione negativa (— 2,7%), benché anche qui si noti una diminuzione molto meno marcata rispetto agli anni anteriori. Gli aumenti, alquanto limitati specialmente nella provincia di Chieti, sono sensibili in quella di Pescara (7,7%) per il richiamo incessante che il capoluogo esercita sul retroterra.

    Ed è proprio nei territori contigui di Pescara e di Montesilvano che si può individuare il massimo aumento, più di 22.000 ab. (23%), dimostrando così che nella provincia, tranne questa eccezione, manca l’incremento demografico risultante dalle cifre globali. Del resto gli aumenti, scarsi e frammentari all’interno, dove per lo più si manifestano con limitate percentuali nei comuni con capoluoghi di carattere urbano, interessano essenzialmente la fascia costiera, dal Tronto a Francavilla al Mare e da Vasto a Tèrmoli. Continua, cioè, con regolare progressione, il fenomeno già precedentemente riscontrato nelle marine teramane; più a sud l’impianto della grande industria vetraria della SIV ha determinato il più forte aumento percentuale della regione a San Salvo (33,7%), dove risiedono gran parte delle maestranze, e a Vasto (16%), eletta a residenza abituale dai dirigenti industriali e stimolata vivacemente dal nuovo apparato produttivo. Nel basso Molise, oltre al consueto aumento di Tèrmoli (14%), si notano indici leggermente positivi anche a Montenero di Bisaccia, Petacciato e Portocannone, mentre Campomarino, dopo l’improvviso alto incremento del decennio precedente, accusa una lieve flessione.

    All’interno, oltre ai già accennati incrementi urbani che raggiungono la maggiore intensità a Campobasso (11,5%), altri con percentuale minore sono registrati, favoriti dalle industrie (Scafa e Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara), da un’economia turistica già affermata o in fase di sviluppo (Roccaraso e Campo di Giove in provincia dell’Aquila, Pizzoferrato in provincia di Chieti) o dalla posizione favorevole (alcuni centri attorno a Campobasso, Venafro ed altri comuni dell’alto Volturno, Balsorano in Val Roveto).

    Per quanto riguarda lo spopolamento montano, in molti comuni particolarmente interessati dal fenomeno nel decennio precedente si notano sintomi di stabilizzazione demografica. Pur riscontrandosi ancora nella maggior parte di essi una certa diminuzione di abitanti, questa si rivela spesso molto meno sensibile, mentre le percentuali di decremento più accentuate si notano in altri comuni. Ritorna così in evidenza l’andamento ciclico dello spopolamento montano, precedentemente turbato dalla inconsueta ampiezza e intensità del fenomeno.

    Vedi Anche:  Il Parco Nazionale d'Abruzzo e il Giardino Botanico di Campo Imperatore.

     

     

     

    Movimento demografico naturale delle due regioni; natalità (in grisé) e mortalità (in nero), per quinquenni dal 1861 al 1966, in cifre assolute (migliaia).

     

    In Abruzzo un’eccezionale diminuzione di popolazione si è verificata a Rocca Pia: in cinque anni il villaggio, sfavorito dalla infelice posizione sul fondo di un vallone, ha avuto un calo del 35%, riducendosi a 447 ab., mentre nel 1861 ne aveva 1227. Diminuzioni al di sopra del 20% hanno avuto, in provincia dell’Aquila, anche Ovìndoli (24,6), al limite degli altipiani delle Rocche, malgrado la valorizzazione turistica sia estiva che invernale; Pacentro (22,6), al margine della conca peligna, che si è ridotto a 1877 ab. dai 4482 del 1911 ; Pereto (21,7), posto in posizione elevata sull’orlo della Piana del Cavaliere. Altrove le diminuzioni sono meno sensibili: nel Teramano il maggiore spopolamento ha interessato Cortino (18,5) e Crognaleto (17,7), sulle ultime pendici dei Monti della Laga; nella provincia di Pescara in pochi comuni si supera appena il 10% (Brìttoli, Pietrànico, ecc.) e in quella di Chieti i più alti indici negativi si notano a Bomba (19,9), a Montebello sul Sangro (15,9) e a Civitella Messer Raimondo (16,7) posta su un’altura al di sopra della valle dell’Aventino.

    Nel Molise, aree a intenso spopolamento si alternano ad altre in cui il fenomeno si manifesta con intensità molto minore. La più alta diminuzione si nota a Castel-pizzuto, nell’alta valle della Lorda che incide il versante settentrionale del Matese (26%), non molto superiore a quella di Santa Maria del Molise, nell’alto Biferno (24,8). Una notevole continuità di spopolamento rivela Montorio nei Frentani (22,6) che dai 2520 ab. del 1951 è passato ai 1149 abitanti. Superano infine il 20% di diminuzione altri due comuni: Sant’Elena Sannita, a sud di Frosolone, e Limosano, nel medio Biferno.

    Ad ogni modo, pur persistendo un notevole spopolamento montano, il fenomeno della diminuzione della popolazione, considerato da un punto di vista globale, sta attenuandosi, come abbiamo notato, rispetto al decennio fra gli ultimi due censimenti. Ciò è dovuto indubbiamente a una contrazione del movimento migratorio, sia all’interno che all’esterno, mentre l’indice di incremento naturale, già alquanto basso, si è ancor più ridotto. Nell’ultimo anno preso in considerazione, cioè nel 1966, questo è risultato del 7 per mille (Italia 9,2), conseguenza diretta della riduzione della natalità (15,7 per mille; Italia 18,5) e della mortalità (8,7 per mille; Italia 9,3). Siamo quindi sensibilmente al di sotto degli indici nazionali, ma se riguardo alla mortalità il fatto è senza dubbio positivo, questo non lo è altrettanto per la progressiva diminuzione delle nascite. Essa infatti non è determinata, nella maggior parte dei casi, da una cosciente limitazione, propria delle società più evolute, ma da un graduale insenilimento della popolazione, impoverita dal continuo esodo dei suoi elementi più giovani. Ciò è dimostrato dal più basso indice di natalità (14,7 per mille) della provincia dell’Aquila, caratterizzata dal forte spopolamento, in contrapposto a quello di Pescara, che è il più alto delle due regioni (17,3 per mille). Inoltre nella provincia dell’Aquila si può notare il maggiore indice di mortalità (9,6 per mille), che causa il più basso incremento naturale (5,1 per mille). E questo quando si considera il fenomeno in linea generale, poiché in numerosi villaggi montani ormai si può parlare solo di decremento naturale, che talora dà la misura dello stadio di vera e propria necrosi al quale questi villaggi sono giunti. Si possono portare come esempio i centri più elevati del versante meridionale del Gran Sasso : nel quinquennio fra il 1962 e il 1966 si sono avuti a Santo Stefano di Sessanio 6 nati e 36 morti, a Calascio 21 nati e 42 morti, ed anche a Castel del Monte, più importante ed economicamente più avanzato, il numero delle nascite (83) è stato notevolmente inferiore a quello delle morti (107). Ed è proprio in questa zona che il villaggio di Rocca Calascio il quale da tempo ospitava un esiguo numero di famiglie è stato, fin dalla primavera del 1958, totalmente abbandonato.

    Emigrazione verso l’estero: espatri nel settennio 1959-1965.

     

    Considerando i movimenti migratori nelle cifre particolareggiate di cui disponiamo per il periodo fra il 1959 e il 1965, è abbastanza evidente un certo rilassamento, negli ultimi anni, del deflusso verso l’estero. Il totale degli espatri in questi sette anni è ancora cospicuo, superando i 220.000, ma i numerosi rimpatri (116.000) attenuano notevolmente il saldo migratorio negativo che pertanto supera di poco le centomila unità. Ciò dipende soprattutto dalle nuove tendenze migratorie volte precipuamente verso gli stati europei, alle quali abbiamo già ampiamente accennato. Nel settennio preso in considerazione gli espatri verso l’America e l’Australia (si escludono volutamente Africa e Asia per le quali il movimento è pressoché insignificante e comunque rivela, anche se di poco, un saldo attivo) raggiungono soltanto il 23% del totale. Se però osserviamo il loro saldo migratorio, lo vediamo aggirarsi su poco più di 50.000 unità, cioè pari a quello europeo. E provato quindi che chi emigra nei paesi oltre-oceano di regola vi si stabilisce permanentemente, mentre gli espatri verso l’Europa sono controbilanciati da rimpatri per più di due terzi.

     

     

     

     

    Negli ultimi anni gli espatri si sono notevolmente ridotti, passando dai 40.000 annui del 1960-61 a una cifra che si mantiene ormai sui 25.000 mentre i rimpatri, dopo avere superato i 19.000 nel 1962, sono discesi a circa 15.000. Sembra quindi che la perdita annua delle due regioni si sia stabilizzata sui 10.000 individui; cifra ancora alta, senza dubbio, ma promettente se confrontata con le quasi 50.000 unità perdute nel biennio 1960-61, che tanto hanno influito sui risultati negativi dell’ultimo censimento.

    Riguardo ai paesi di destinazione, il maggiore numero di espatri risulta, nel settennio 1959-65, verso la Svizzera (71.711), seguita dalla Germania Federale (58.287), dal Canada (26.411), dalla Francia (20.741), dall’Australia (13.079) e dagli Stati Uniti (10.245). In base a quanto è stato detto precedentemente, la situazione però cambia se si considera il saldo migratorio risultante dalla differenza tra gli espatri e i rimpatri. Al primo posto troviamo il Canada (26.005), seguito dalla Germania Federale (23.294), dalla Svizzera (17.765), dall’Australia (12.258), dagli Stati Uniti (9908) e dalla Francia (6112).

    Guardando più in particolare il fenomeno nelle due regioni si possono individuare alcune correnti migratorie tradizionali. Un grande contributo all’immigrazione nel Canada è dato ad esempio dal Molise con una cifra pari a quella dell’intero Abruzzo, mentre dalla provincia di Chieti proviene la maggioranza degli espatri verso l’Australia. Del resto proprio le province di Campobasso e di Chieti sono quelle che offrono ai paesi stranieri il più alto contributo di mano d’opera, assai maggiore che quello dell’Aquila. Di regola, si nota la prevalente tendenza all’emigrazione verso l’Europa nelle province di Teramo e Pescara, economicamente più evolute, mentre il Molise e l’Abruzzo aquilano si spopolano a causa del grande numero di individui che varcano stabilmente l’Oceano. Direi che il primo è il cosciente movimento migratorio di mano d’opera spesso qualificata verso le grandi industrie dell’Europa occidentale e le località turistiche della Svizzera, il secondo è invece quasi una fuga dai disagi e dalla povertà di terre avare, che sovente si traduce in un distacco definitivo.

     

    In questi ultimi anni le migrazioni interne hanno subito una forte flessione. Basandoci sulle cancellazioni e iscrizioni anagrafiche, che riflettono solo in parte l’entità di tali spostamenti, si può notare che il saldo migratorio, dopo la punta massima di circa 24.000 unità nel 1961, è sceso nel 1965 e 1966 a meno di 6000. Da ciò si può ben comprendere la netta attenuazione del fenomeno dello spopolamento. L’aumento delle fonti di lavoro, specialmente nella Val Pescara e nel litorale aprutino, stimola vivaci movimenti interni nelle due regioni, che nondimeno seguitano a provocare l’esodo dalla montagna. Nel quinquennio 1962-66 quasi 140.000 individui si sono spostati all’interno delle due regioni, mentre la migrazione extraregionale (121.318 cancellati, 62.461 iscritti) ci dà un saldo negativo di poco meno di 60.000 unità. L’attrazione del Lazio si rivela sempre più forte. Infatti oltre la metà di coloro che risultano emigrati stabilmente hanno preso residenza in quella regione, e in particolare a Roma. Seguono la Lombardia (20%), il Piemonte-Valle d’Aosta (9%), l’Emilia-Romagna (6%), la Toscana (3,5%). Insignificanti sono le cifre del saldo migratorio con le Marche e la Campania, poiché il vivace movimento verso queste regioni è quasi del tutto compensato da immigrazioni pressoché equivalenti. Giova infine notare che l’Abruzzo e il Molise hanno rivelato nell’ultimo quinquennio un saldo lievemente positivo nei riguardi delle altre regioni meridionali e insulari.

    Densità e distribuzione della popolazione.

    Il Molise è una delle regioni italiane a più bassa densità di popolazione: con una media di 79 ab. per kmq., esso è seguito soltanto da Basilicata, Sardegna, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta. Maggiore è la densità dell’Abruzzo che, con 113 ab. per kmq., precede, oltre alle regioni citate, pure l’Umbria, rimanendo però anch’essa notevolmente al di sotto della media nazionale (177). Le ragioni di queste basse densità sono nettamente differenti per l’Abruzzo e per il Molise e dipendono in gran parte dalle diversità di ambiente naturale che contraddistinguono le due regioni e dai vari fatti che ne conseguono, quali l’utilizzazione del suolo, la difficoltà delle comunicazioni, la scarsa industrializzazione.

    L’Abruzzo, dalla vigorosa plastica dei massicci calcarei che su ampie superfici si spingono a considerevoli altezze trae la conseguenza di vaste aree disabitate, incidenti notevolmente sulla densità media della popolazione e sulla distribuzione delle sedi umane. Sulla facciata adriatica, in contrapposto, la fascia subappenninica presenta caratteri nettamente diversi, con l’integrale utilizzazione delle distese collinari e del litorale, popolati in tutta la loro superficie. La regione è contraddistinta quindi da una rilevante eterogeneità di popolamento, con grandi differenze di densità fra una parte e l’altra del territorio.

     

    Il Molise, invece, trova il maggiore ostacolo a un popolamento di media densità nella caotica disposizione delle masse terziarie franose, incise da fondivalle repulsivi e sfruttate da un’agricoltura arretrata, a carattere estensivo. Non influendo che in minima parte l’altitudine, dato che soltanto in tre aree alquanto limitate (Matese, montagna fra Capracotta e Pietrabbondante e altipiano di Frosolone) il territorio supera i iooo m., si può notare in tutta la regione una certa omogeneità di popolamento. Tranne poche eccezioni, essendo le campagne per vasti tratti quasi deserte, si può ben dire che il concetto di densità di popolazione è qui abbastanza opinabile, variando questa essenzialmente nel rapporto fra la superficie dei comuni e la popolazione dell’unico agglomerato che per lo più è il capoluogo; cosa che del resto è propria anche dell’Abruzzo montano. Accoppiando tali caratteristiche a una particolare repulsività della fascia costiera, fatta eccezione per Tèrmoli, è facile capire l’assenza di una normale attenuazione della densità procedendo dal mare verso le regioni interne più elevate.

    La provincia abruzzese con più alta densità di popolazione è Pescara con 214 ab. per kmq. (valutazione del 1966). Seguono le province di Chieti (145), Teramo (135) e L’Aquila (63). Le aree di maggiore addensamento sono essenzialmente costituite da due lunghe strisce di territorio. Una è la zona costiera che a sud della Pescara si allarga a comprendere una buona porzione delle colline del retroterra intensivamente coltivate a vite, per poi restringersi di nuovo, a sud del Sangro, nei territori di Vasto e di San Salvo. L’altra è la Val Pescara, grande asse industriale e di comunicazione della regione, con l’adiacente conca peligna. All’intersezione di queste due fasce ad alta densità la grande agglomerazione di Pescara, con 3166 ab. per kmq., si distacca di gran lunga da tutti gli altri comuni abruzzesi; è questo l’unico in ambedue le regioni che ha superato da poco i centomila abitanti.

    Molto inferiori sono quindi le altre maggiori densità che si hanno a Chieti (870) e, sul litorale, a Giulianova (652), ad Alba Adriatica (630), a Montesilvano (558) ed a Francavilla al Mare (508). Da non considerare è invece la densità di 654 ab. a Torre de’ Passeri, in Val Pescara, determinata unicamente dal rapporto fra la popolazione del grosso agglomerato e l’esiguo territorio comunale. Nel retroterra aprutino troviamo le maggiori densità, al di sopra dei 300 ab. per kmq., nei comuni agricoli di Nereto (547) e Sant’Egidio alla Vibrata, sul litorale adiacente in quelli di Martin-sicuro (469), Silvi e Roseto. Nel Chietino si distinguono Lanciano (442) e Tollo nel retroterra, Vasto, Ortona e San Vito sulla costa. Nell’Abruzzo aquilano le alte densità si riducono ai tre grandi bacini intermontani, senza raggiungere peraltro l’intensità notata altrove. Al di sopra dei 300 ab. si trovano soltanto Sulmona e Pràtola Peligna nella conca peligna e Avezzano nella conca fucense.

    Nel Molise, Campobasso raggiunge una considerevole densità (677) e soltanto altri tre comuni superano, anche se di poco, i 200 ab, per kmq.: Tèrmoli (233) e Portocannone, nella fascia adriatica, e Isernia, nell’alto bacino del Volturno.

    Restano da essere considerate le densità più basse, al di sotto dei 25 ab. per kmq. I grandi vuoti si registrano più che altro nell’Abruzzo aquilano, dove sul versante meridionale del Gran Sasso si raggiungono i minimi a Santo Stefano di Sessanio (10) e a Calascio (14). Rocca Pia, che è già stata citata come esempio di cospicuo spopolamento, è discesa anch’essa al minimo di 10 ab. per kmq. Nessuna parte della provincia è priva di aree a scarsissima densità, con in particolare evidenza l’alto Sangro (Barrea, Opi e Civitella Alfedena), l’alto Liri (Cappadocia), il Carseolano (Pereto e Rocca di Botte) e alcuni lembi marginali della Màrsica (Massa d’Albe, Villavalle-longa). Minore incidenza hanno tali aree negli altri territori provinciali. Nelle province di Chieti e di Pescara scendono a densità inferiori a 25 ab. soltanto Penna-piedimonte, Lettopalena e Sant’Eufemia ai bordi del massiccio della Maiella, in quella di Teramo, Pietracamela (14) e Fano Adriano sul versante settentrionale del Gran Sasso e il comune di Rocca Santa Maria sui Monti della Laga. Anche il Molise, caratterizzato da estesi territori a bassa densità (alto Trigno, versante settentrionale del Matese, ecc.) raramente raggiunge punte minime accentuate come nell’Abruzzo aquilano; fanno eccezione Castelpizzuto (16) sul Matese, Provvidenti nel medio Biferno e Pizzone alla base delle Mainarde. Resta infine da ricordare che appartiene al Molise l’unico comune litoraneo con densità inferiore ai 50 ab., cioè Campomarino, ai limiti con la Puglia.

    Degno di particolare attenzione è per le due regioni, così varie come disposizione altimetrica, l’esame della distribuzione della popolazione secondo l’altitudine. Benché i limiti superiori dell’habitat permanente siano pressoché uguali (1433 m. in Abruzzo, 1421 m. nel Molise), si può subito notare quanto più armonicamente sia distribuita la popolazione abruzzese di quella molisana. L’Abruzzo accoglie nella fascia litoranea e nella bassa collina (fino a 200 m. di altitudine) un terzo della popolazione totale, nella fascia collinare, fra 200 e 500 m. il 35%, nella montagna fino a 1000 m. il 27,5%, oltre i 1000 m. il 4,5%. Cifra, quest’ultima, che può sembrare bassa nel valore percentuale ma che ha un suo peso come numero assoluto, corrispondendo a più di 53.000 individui residenti in un ambiente naturale ovviamente difficile. I dati si riferiscono all’ultimo censimento (1961) ed hanno subito profonde modifiche da quelli precedenti, poiché la percentuale degli abitanti nella fascia altimetrica più bassa tende progressivamente ad aumentare a scapito soprattutto della popolazione montana, in costante decremento. Tale fenomeno si è invece manifestato in misura assai ridotta nel Molise, nel quale la popolazione del litorale e della bassa collina risulta essere soltanto il 6,5%, contro il 26% della media ed alta collina, il 65,5% della montagna fra 500 e 1000 m., il 2% oltre i 1000 metri.

    Per l’Abruzzo quindi (e in particolare da Francavilla verso nord) esiste una forte attrazione della fascia costiera, mentre nel Molise permane per essa una certa repulsi vità dovuta alla bonifica più tarda e a un minore sviluppo turistico (e, in genere, economico) in connessione con un retroterra depresso e legato alla costa da mediocri vie di comunicazione. Nel Molise, poi, l’alta percentuale degli abitanti della bassa e media montagna è favorita, oltre che dalla notevole estensione delle alte terre molisane, anche dalla posizione più elevata rispetto al territorio circostante di molti centri abitati, che occupano la sommità dei rilievi in mezzo a campagne pressoché deserte. Ben 234.000 ab. occupano questa zona posta fra 500 e 1000 m., e da ciò si può dedurre la ragione essenziale del costante spopolamento della regione. La particolare varietà dell’Abruzzo ha invece determinato una compensazione nelle cifre globali. Se nella provincia di Pescara il numero di coloro che vivono al di sopra dei 1000 m. si riduce al centinaio di abitanti di Roccacaramànico, in fase avanzata di abbandono, in quella dell’Aquila esso supera i 40.000 ab. (13%). Se la provincia dell’Aquila, interna e montuosa, non ha territori al di sotto dei 200 m. e raccoglie il 71% della popolazione fra 500 e 1000 m., in questa stessa zona altimetrica Pescara ne ha solo il 7% mentre in quella più bassa raggiunge il 63%. Schiacciante prevalenza del popolamento collinare, fino a 500 m., ha invece il Teramano (88%), mentre la provincia di Chieti, che partecipa con un certo equilibrio a tutte le zone altimetriche, dal litorale alle alte vette della Maiella, ha forse la distribuzione di popolazione più organica, anche se non è la migliore dal punto di vista economico. Infatti sarebbe molto vantaggiosa una più alta densità di abitanti nella fascia litoranea, ancora poco popolata se si esclude il notevole apporto delle due città di Ortona e di Vasto.

    Resta da esaminare infine il modo di distribuirsi della popolazione. Questa, come si sa, può vivere nei centri, nelle case isolate e in quelle sedi umane di transizione per le quali, sulla scorta degli ultimi due censimenti, viene usato il nome non molto appropriato di nuclei. Ed è proprio sotto questo aspetto che si può notare una nettissima differenziazione fra l’Abruzzo montano e quello marittimo: regno del popolamento rigidamente accentrato il primo, regno dell’insediamento misto, con una notevole dispersione della popolazione, il secondo. Il Molise partecipa, anche se meno nettamente, alle caratteristiche dell’Abruzzo montano.

    Nel 1961 la popolazione abruzzese era distribuita nei centri per il 69,4% (63,8 nel 1951), nei nuclei o casali per l’8,9% (8,4), nelle case sparse per il 21,7% (27,8). Quella molisana aveva la seguente distribuzione: 78,7% (79,5 nel 1951) nei centri, 7>3% (7»°) nei nuclei, 14% (13,5) nelle case sparse. Dalle cifre balza subito in evidenza un fatto essenziale. Mentre nel Molise la percentuale della popolazione sparsa tende ad aumentare, in connessione con il costante esodo che spopola soprattutto i numerosi agglomerati, nell’Abruzzo si manifesta il fenomeno opposto, comune sia alle zone montane che a quelle collinari adriatiche. Esaminando tale fenomeno in particolare, si può riscontrare per la provincia dell’Aquila una sensibile diminuzione, che ha portato il totale degli abitanti nelle case sparse a meno di 8000 (2,4% nel 1961, 4% nel 1951). Così è pure per le province di Teramo con il 36,7% (44,1 nel 1951), di Pescara con il 24,4% (38,2), di Chieti con il 26,5% (32,1).

    Si potrebbe pensare che la diminuzione percentuale della popolazione sparsa sia dovuta non a un suo effettivo regresso ma al ben maggiore aumento degli agglomerati, e specialmente delle città, in conseguenza dell’indubbia attrazione che essi esercitano. Ma non è così. Le cifre assolute ci mostrano dovunque un netto decremento fra i due ultimi censimenti: più di 32.000 ab. nella provincia di Pescara, 29.000 in quella di Chieti, più di 24.000 in quella di Teramo; ed anche il Molise ha avuto una pur lieve flessione.

     

    La densità della popolazione sparsa è quindi notevolmente calata, per l’Abruzzo dai 32,8 ab. per kmq. del 1951 ai 24,3 del 1961 e per il Molise dai 12,3 agli 11,2. Considerando i territori provinciali, si nota la minima densità di 1,6 dell’Aquila in contrapposto alla massima di 49 di Teramo; dividendo invece l’Abruzzo nelle due parti che nettamente si differenziano ci troviamo di fronte a un brusco salto di densità. La linea che segue alla base il versante volto al mare dei massicci appenninici, segnando l’inizio della fascia subappenninica, separa due ambienti antropici diversissimi anche da questo punto di vista.

    Vedi Anche:  Le altre attività primarie: allevamento e pesca

    Nell’Abruzzo montano fanno eccezione al tipico popolamento accentrato soltanto le grandi conche interne e la Val Roveto, peraltro con densità esigue (Civitella Roveto 14,4, Bugnara 8,3, Civita d’Antino 7,2). Nell’Abruzzo marittimo, a nord di una linea che unisce pressappoco Vasto ai limiti meridionali della Maiella, ci troviamo bruscamente di fronte a densità che superano, talora di gran lunga, i 50 abitanti per chilometro quadrato. Le più alte, al di sopra dei 100 ab. per kmq., sono state riscontrate in genere in due aree: il settore più settentrionale del Teramano (Nereto 173, Alba Adriatica 162, Giulianova 146, e altri sei comuni contigui) nel quale si nota l’influenza della regione marchigiana, con la tipica conduzione a mezzadria, e il Chietino settentrionale, fra Casalincontrada e Francavilla al Mare (Villa-magna 141, Chieti 132, Ripa Teatina 126), nel quale ha un ruolo di primo piano la coltura intensiva della vite. Altre aree isolate ad alta densità sono il comune industriale di Scafa (158) e quello di Lanciano (129).

    Nel Molise, tipica terra di insediamento accentrato, nessun territorio raggiunge notevoli densità di popolazione sparsa. La maggiore è stata riscontrata nel comune di Campobasso (95), che si trova al margine orientale di un più vasto territorio dove il fenomeno si manifesta con una relativa intensità, in particolare a Baranello (62). Due soli altri comuni superano, e di poco, i 50 ab. per kmq., cioè Trivento, nel medio Trigno, e Fossalto, sull’alta collina fra Trigno e Biferno. Per il resto le densità sono molto basse, e ricordano quelle dell’Abruzzo aquilano, con la sola differenza che qui è molto minore il numero dei comuni privi del tutto di popolazione sparsa.

    Condizioni socio-economiche e culturali della popolazione.

    In base a quanto già esposto, è facile dedurre che nella struttura socio-economica delle due regioni molti siano i lati negativi. Specialmente gli effetti del movimento migratorio, che è conseguenza diretta di uno stato di profondo disagio, si ritrovano chiaramente nel progressivo insenilimento della popolazione. Le differenze fra le classi d’età più giovani e quelle anziane tendono sempre più ad appiattirsi, anche

    come conseguenza della costante diminuzione dell’indice di natalità. Nel Molise il divario fra la classe fino a cinque anni (30.074) e quella fra 50 e 55 (22.392) è minimo; in Abruzzo il gruppo fra 10 e 15 anni è, anche se di poco, più numeroso di quello fino a cinque anni. Più marcate sono invece le differenze, con sensibili diminuzioni procedendo verso le età più avanzate, nella provincia di Pescara, nella quale l’industrializzazione ha richiamato cospicue masse di giovani, conferendo alla popolazione una nuova vitalità demografica.

    Costante è la riduzione della popolazione attiva rispetto a quella non attiva: in Abruzzo essa è discesa dal 50% del 1951 al 44% del 1961, mentre nel Molise è passata in un decennio dal 61,5 al 57,5%. Considerandone i principali rami di attività economica, si può notare che gli addetti all’agricoltura, pur essendo ancora predominanti, hanno subito un netto decremento in ambedue le regioni (Abruzzo 60,4% nel 1951, 41,5% nel 1961; Molise, rispettivamente 75,7 e 62,8%) mentre è aumentata la percentuale della popolazione occupata nelle industrie (33,8% in Abruzzo, 21,5% nel Molise). Ciò è dovuto al sensibile sviluppo industriale manifestatosi in limitate aree specialmente abruzzesi (Val Pescara, litorale aprutino, ecc.), che ha agito parallelamente all’incidenza della forte emigrazione basata quasi esclusivamente sulla popolazione agricola. La preponderanza degli agricoltori, un tempo molto pronunciata, sta divenendo quindi alquanto labile, e ciò è dimostrato dalla provincia di Pescara, che nel decennio fra i due censimenti ha completamente mutato il proprio volto passando dal 51,6% della popolazione agricola contro il 27% di quella industriale (1951) alle rispettive percentuali del 30 e del 38% nel 1961. Siamo di fronte quindi all’unica provincia con maggioranza relativa degli addetti alle industrie in due regioni dove sino ad oggi l’agricoltura ha svolto — e continua a svolgere — il ruolo principale. E questa per lo più non ha carattere capitalistico, basata com’è sui coltivatori diretti, piccoli proprietari indipendenti che lavorano la terra quasi esclusivamente per trarne il proprio sostentamento. Un’influenza negativa è esercitata dal grande numero delle piccolissime proprietà, dovute all’eccessiva frammentazione fondiaria. Difficilmente esse possono sostentare una famiglia e sono la ragione principale dell’impoverimento progressivo di tutta la classe contadina, anche se accanto alla miseria si rileva la mancanza di contrasti sociali. La diffusione della piccola proprietà rende sempre più spiccato l’individualismo, freno ad ogni forma di collaborazione cooperativistica che potrebbe invece risolvere molti problemi in ambedue le regioni.

     

    La scarsità dei dipendenti agricoli e l’industrializzazione limitata a poche aree fanno sì che il numero dei disoccupati sia alquanto esiguo, anche se con sensibili oscillazioni fra un anno e l’altro; nel 1966 essi sono stati 14.000, di cui 12.000 operai per lo più addetti alle industrie. Normale è il numero di abitanti in attesa di una prima occupazione, di poco inferiore al 3% della popolazione attiva, mentre è invece piuttosto grave il problema della sottoccupazione e delle basse retribuzioni nelle industrie. Molti sono i difetti nel rapporto fra gli imprenditori e i lavoratori, e troppo spesso vengono trascurate le leggi sindacali riguardanti, per esempio, gli orari di lavoro e il pagamento dei contributi. Siamo agli ultimi gradini delle retribuzioni medie giornaliere, e la provincia di Teramo ha, al riguardo, la non invidiabile prerogativa di risultare la penultima in Italia, seguita solo da Avellino. Prendendo la cifra 100 come indice base nazionale corrispondente a 3×52 lire giornaliere nel 1966, gli indici dell’Abruzzo e del Molise sono i seguenti: Chieti 86,2; Pescara 85,9; Campobasso 80,3; L’Aquila 78,7; Teramo 70,3 (2217 lire giornaliere). La provincia di Chieti, che, come si vede, ha le retribuzioni più elevate, risulta soltanto al 69° posto nella graduatoria provinciale italiana. Tutto ciò deriva da una permanente scarsezza dell’offerta di lavoro che pone gli imprenditori in condizioni tali di superiorità da avere ampia scelta di mano d’opera, pur con salari più limitati che altrove.

    Per avere un’idea delle condizioni economiche generali è opportuno considerare l’entità del reddito e la struttura dei consumi. Nel 1966 il reddito medio per abitante risultava dovunque molto inferiore all’indice nazionale (100), essendo per l’Abruzzo di 390.594 lire annue (indice 68,5) e per il Molise di 364.165 (64). La caratteristica di tale reddito è data da un contrasto fra le cifre assolute e gli indici: le prime sono in costante aumento di anno in anno, i secondi hanno oscillazioni tendenti in molti casi a un regresso. Il fatto è spiegabile con il maggiore incremento del reddito su base nazionale rispetto a quello delle due regioni. Fra le province abruzzesi, nettamente superiore è l’indice di Pescara (82,3, pari a 469.385 lire), soltanto al 56° posto nella graduatoria nazionale, mentre il più basso è quello della provincia di Chieti (62,1). Riguardo alla composizione percentuale del reddito lordo prodotto nel 1966, è interessante notare il predominio di quello industriale in tutte le province abruzzesi, dal 34% di Pescara al 24,6% dell’Aquila. Il Molise invece rivela ancora come fonte principale di reddito l’agricoltura (31,4%). Nella provincia di Pescara sono sensibili anche i redditi commerciali e delle altre attività terziarie, mentre l’agricoltura raggiunge la più bassa percentuale regionale (15%). Elevate sono ovunque, ma specialmente nella provincia dell’Aquila e nel Molise, le percentuali del reddito dovuto alla pubblica amministrazione, che stanno a dimostrare la notevole incidenza della burocrazia sull’economia delle due regioni.

    Per i consumi e le spese non alimentari, il Tagliacarne ha considerato, su base provinciale, sei gruppi: abbonamenti alle radiodiffusioni, spesa per tabacchi, spesa per spettacoli, consumo di energia elettrica per l’illuminazione, numero di lettori di una rivista a carattere divulgativo medio, numero di autovetture e motoveicoli. Analizzando gli indici (Italia = 100) di questi consumi più o meno voluttuari, che l’esperienza ha dimostrato essere fra i più adatti, indi combinandoli insieme, si può ricavare un’indicazione approssimativa del livello medio generale. Per le nostre due regioni l’unico indice superiore a quello nazionale, è quello, non invidiabile, riguardante la spesa per tabacchi in provincia di Pescara (101), e non molto inferiore è nella stessa provincia quello riguardante le radiodiffusioni (91). Per il resto le cifre sono sconfortanti: la graduatoria derivata dalla combinazione degli indici dei sei gruppi di consumi pone la provincia di Pescara (82) al 540 posto, seguita a notevole distanza dall’Aquila (67), da Chieti (59), da Teramo (56) e infine da Campobasso (46), che si trova a uno degli ultimi posti (86°), con meno della metà dell’indice di consumo medio nazionale.

    Il basso livello di vita delle due regioni è dimostrato anche dal mediocre stato in cui si trovano molte abitazioni. Malgrado i cospicui miglioramenti avvenuti fra i due ultimi censimenti, in troppi casi ancora le condizioni sono assolutamente precarie. Nel 1951 le abitazioni sfornite di energia elettrica erano in Abruzzo il 32,7%, nel Molise il 21,4%, mentre nel 1961 le percentuali sono calate rispettivamente al 10,8 e al 7%. Le abitazioni con acqua potabile interna erano in Abruzzo soltanto il 27,7%, nel Molise il 12,4%, oltre a una percentuale minore di dimore servite da pozzi; nel 1961 esse sono salite in Abruzzo al 56% e nel Molise al 48%. Ciò non toglie che nelle due regioni ancora più di un terzo delle dimore siano totalmente sfornite di acqua potabile. Le sorgenti non mancano, ma per molti centri abitati, e ancor più per le case isolate, manca l’acquedotto; non è raro il caso di grossi agglomerati serviti da una sola fontana pubblica posta al centro del paese, per l’approvvigionamento sia degli abitanti che degli animali. Tralasciamo poi di considerare lo stato dei servizi igienici, per lo più mancanti o in condizioni deplorevoli. Gli edifici sono in buona parte tenuti male, spesso addirittura cadenti; fanno eccezione le case degli emigrati, i quali con le rimesse dall’estero sono in condizione di provvedere a una buona manutenzione. Le abitazioni non occupate sono in notevole aumento, in connessione con la crescita del fenomeno migratorio, ed hanno superato nelle due regioni il numero di 50.000 (12% del totale).

     

    Un sensibile miglioramento può essere notato nella situazione scolastica. L’analfabetismo, che è stato per tanti anni una vera e propria piaga sociale, va rapidamente riducendosi. Dai 938.000 analfabeti del 1871 il calo è stato costante: 561.000 nel 1921, 288.000 nel 1951, 187.000 (13,2%) nel 1961. Come è proprio di tutti i paesi caratterizzati da una certa arretratezza, anche qui la percentuale dell’analfabetismo è molto maggiore per le donne che per gli uomini, ma bisogna pensare al grande progresso compiuto dal 1871, anno nel quale le cifre mostrano che solo sette donne su cento sapevano leggere e scrivere! Purtroppo però resta ancora molto da fare, dato che in ambedue le regioni la percentuale dell’analfabetismo supera di gran lunga quella nazionale (8,3%), fatta eccezione soltanto per la provincia dell’Aquila (7,8%).

    La maggioranza assoluta (poco più della metà) della popolazione con più di sei anni è dotata della licenza elementare. Purtroppo per i titoli di studio immediatamente superiori si riscontra un’estrema diminuzione delle percentuali, che mette in chiara evidenza larghi vuoti, aggravati dalla dispersione dei centri abitati e dalle difficoltà delle comunicazioni. Nell’Abruzzo coloro che avevano nel 1961 la licenza

    media inferiore erano soltanto il 6,5%, cioè la metà esatta degli analfabeti. I titoli, già rarefatti in maniera estrema, hanno ancora una notevole diminuzione per le scuole medie superiori (3,8%), per raggiungere infine la cifra irrisoria di poco meno di 10.000 laureati (0,9%). Percentuali minori si notano nel Molise, dove i licenziati della media inferiore risultano poco più di un terzo degli analfabeti, mentre fra tutte le province la situazione migliore è a Pescara, con un maggior numero di diplomati e di laureati. Il punto debole della struttura della popolazione scolastica è, oltre a ciò, la quasi esclusiva condensazione nei ginnasi-licei classici e negli istituti magistrali, mentre è evidente la carenza di istituti tecnici e di licei scientifici.

    Le due regioni sono le uniche (insieme a Basilicata e Calabria) a mancare di università statale. Infatti non sono finanziate dallo stato nè l’università dell’Aquila, che comprende le due facoltà di Magistero e di Scienze matematiche-fisiche e naturali, nè le tre facoltà che, unicamente in base a criteri campanilistici, sono decentrate a Teramo (Giurisprudenza), Chieti (Lettere e Filosofia) e Pescara (Economia e Commercio). La sede più importante, per quanto riguarda il numero degli studenti iscritti, è senz’altro Pescara (2197 nel 1966), seguita dallAquila, specialmente per la facoltà di Magistero (1269), mentre insignificante è l’afflusso degli studenti a Teramo e a Chieti.

    D’altra parte la vita culturale, malgrado vari premi letterari, stagione di concerti all’Aquila, mostre d’arte ed altre manifestazioni esteriori, è ancora di un tono alquanto dimesso. Le due regioni sono, insieme con la Basilicata, le uniche a non avere un loro quotidiano, e il Molise manca anche di settimanali. Nonostante queste gravi lacune, la stampa periodica tende a regredire: i settimanali, che nel i960 erano 5, tre anni dopo sono discesi a 3, e se i quindicinali sono aumentati da 6 a 7, nello stesso periodo i mensili sono discesi da 27 a 21. Come produzione libraria l’Abruzzo, celebre un tempo per case editrici famose, ha dato alla luce nel 1963 soltanto 16 pubblicazioni per un totale inferiore a cinquemila pagine.

    Le colonie slave e albanesi del Molise.

    Una particolare caratteristica della regione molisana, per quanto riguarda la popolazione, è costituita dalle minoranze etnico-linguistiche serbo-croate e albanesi. Le prime, che mostrano una certa vivacità e più radicate tradizioni, sono stanziate attualmente nei centri di Acquaviva Collecroce (.Zivavodci-Kruc), Montemitro (Mim-dimitar) e San Felice del Molise (Stifdic), nel medio bacino del Trigno. Più ad est, verso il Biferno, sono situate invece le colonie albanesi che oltre a Campomarino, presso la costa, sono insediate a Portocannone e, più all’interno, ad Ururi e a Monte-cilfone. Unica comunità albanese rimasta in Abruzzo è Villa Badessa (Rosciano), in provincia di Pescara.

    Diversi sono gli eventi storici che portarono allo stanziamento di queste comunità le quali, benché esigue, riscuotono un certo interesse, anche in considerazione della più vasta area da esse occupata nel secolo scorso.

    Già dal periodo che segue il rovinoso terremoto del 1456 si cominciano ad avere notizie di colonie albanesi formate in principio da parte dei componenti del corpo di spedizione che Giorgio Castriota Skanderbeg aveva inviato contro la fazione angioina, in aiuto di Ferdinando I d’Aragona. Dopo la morte dello Skanderbeg (1468), molti albanesi, spinti all’esodo dalla pressione dei Turchi, furono invitati dal barone Pappadoca di Larino a popolare e a coltivare le terre abbandonate. L’insediamento ebbe luogo quindi sotto gli Aragonesi, e non ha niente a che vedere con quello avvenuto otto secoli prima (667) da parte di nuclei di bulgari che, dopo avere dato aiuto a Grimoaldo, duca di Benevento, si stabilirono a Boiano, Sepino, Isernia, Ielsi, conservando per più di cent’anni lingua e costumi e scomparendo infine senza lasciare tracce nemmeno nei toponimi.

    Ma se consideriamo fin da principio di secondaria importanza l’area di influenza albanese, vera e propria frangia marginale di ben più numerose colonie sparse nella Puglia, nella Basilicata e soprattutto in Calabria, di assoluta originalità per il Molise è l’immigrazione e l’espansione di gruppi etnici croati. La loro venuta interessò anche

    molte località abruzzesi fra la Pescara e il Trigno, anzi si può dire che in questa zona si abbiano notizie dei primi insediamenti slavi, i quali formarono gruppi assai numerosi a Vasto, Cupello, Mozzagrogna, Schiavi d’Abruzzo e in vari altri centri; si sa, per esempio, che con decreto di Ferdinando II essi furono cacciati nel 1488 da Lanciano a causa della loro turbolenza.

    Ma ben più a lungo se ne sono conservate nel Molise, favorite dall’isolamento, lingua e tradizioni che ebbero la massima espansione nel Cinquecento. Sappiamo che i Carafa chiamarono gli « schiavoni » a San Biase e probabilmente a Montemitro nel 1508, che Ripalta (ora Mafalda) fu colonizzata verso il 1530 e Acquaviva Colle-croce nel 1562. Petacciato e San Giacomo degli Schiavoni furono invece fondati direttamente da comunità slave che già abitavano nella regione. Un documento di notevole importanza, ora scomparso, era l’iscrizione latina scolpita sull’architrave del portale della chiesa di S. Maria la Nova a Palata: Hoc primum Dalmatiae gentes incoluere castrum ac a fundamentis erexere templum anno 1531.

    Purtroppo mancano documenti probanti sulla regione d’origine di questi slavi e il problema, malgrado notevoli ricerche specialmente da parte dei linguisti (M. Resetar, T. Badurina, M. Hraste, I. Popovic), è tutt’altro che risolto. Taluni, analizzando il dialetto, lo hanno definito stokavo-morlacco, misto a parole e forme del cakavo, e ciò escluderebbe la presunta provenienza dei croati molisani dall’immediato retroterra di Zara, mentre sarebbe valorizzata la tesi che li vuole originari dell’Istria meridionale. Ritenendo però che le migrazioni slave si siano manifestate sotto la spinta dell’occupazione turca, non si comprende come esse siano venute da una terra, l’Istria, che non dovette subirla e che è stata, anzi, rifugio dei dàlmati per lungo tempo. Tanto più che gli ultimi studi linguistici tenderebbero a dare molto maggiore importanza agli elementi del dialetto cakavo frammisti a quelli dello Stokavo. La qual cosa avvicinerebbe la parlata croato-molisana a quella della plaga fra Makarska, Imotski e OmiS, la più vicina alla nostra regione sull’opposta sponda dàlmata.

     

    Attualmente, come è stato scritto all’inizio, i paesi molisani di lingua albanese sono quattro, quelli serbo-croati tre. Per i primi durante l’ultimo secolo si sono registrati mutamenti di non grande entità, essendo scomparsa la parlata albanese da una trentina d’anni solo dal grosso centro di Santa Croce di Magliano. Su un totale di 13.000 ab., diecimila, cioè poco più di tre quarti, parlano ancora la lingua madre; la tradizione è particolarmente conservata a Ururi, dove non è infrequente il caso di elementi provenuti da altri territori che si sono adattati alla parlata albanese. Un grosso ostacolo è però costituito dalla conoscenza esclusivamente orale della lingua e dalla mancanza di contatti culturali con la madrepatria; inoltre non vi è alcun residuo dell’antico rito greco, soppresso insieme ad altre consuetudini religiose dal vescovo Tria nella prima metà del Settecento. Non sono rimasti nemmeno toponimi significativi, mentre l’origine albanese è chiara in molti cognomi: Papadòpoli, Occhionero, Musacchio, Candigliota.

     

    Una notevolissima riduzione è avvenuta invece nei paesi di lingua serbo-croata. Poco più di un secolo fa gli alloglotti slavi pare che fossero circa 10.000 distribuiti, anche se spesso in forma residuale, a Palata, Ripalta, Tavenna, Montelongo, San Biase e San Giacomo degli Schiavoni, tanto per citare i centri principali. Nei tre rimasti, nove decimi degli abitanti, cioè circa 3.500, parlano la lingua madre, favoriti senza dubbio dal fattore negativo dell’isolamento: soltanto alla fine del secolo scorso venne ultimata la strada statale Frentana che passa a un chilometro dall’abitato di Acquavi va Collecroce, e ad essa vennero allacciati San Felice e Montemitro solo nel 1926.

    Di regola la lingua è soltanto parlata, e pochi sono quelli che sanno anche scriverla. Oltre al toponimo bilingue dei tre centri, varie località rivelano l’origine slava: Dolazza (Montemitro), Rovulavizza, Cucilavaccia e Buvolavizza (Palata). Numerosi, anche se italianizzati, sono i cognomi slavi (Radatta, Stanisela, Berchicci, Blascetta), i nomi (Vig = Luigi, Ming = Domenico, ecc.) e perfino i frequenti soprannomi (Macik = gatto, Setz = lepre, Vuk = lupo) e i frequenti diminutivi col suffisso -ic (ad esempio, Sepie da Sep = Giuseppe).

    Negli ultimi tempi si è manifestato un risveglio culturale che, oltre a contatti con personalità dell’altra sponda, ha portato alla comparsa di un interessante periodico bilingue, Nas jezik (La nostra lingua), a carattere informativo e letterario, che ha come scopo la conservazione di queste interessanti comunità. E a tal fine nel secondo Congresso dell’« Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture minacciate», tenuto a Issime (Valle d’Aosta) nell’estate del 1967, una delegazione dei comuni slavi del Molise ha fatto istanza per ottenere una scuola media statale con l’insegnamento obbligatorio della lingua serbo-croata, centri culturali con biblioteche e una valorizzazione del bilinguismo. La legittimità delle richieste è indubbia e offre spunti di grande interesse; penso tuttavia che questa azione dovrebbe essere accompagnata da iniziative economiche volte a frenare l’esodo di una parte degli abitanti, che ha portato alla dispersione e all’assorbimento in terre lontane di molti fra gli elementi più validi.