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Storia del Veneto

    Principali vicende storiche

    Dalla preistoria alle invasioni barbariche attraverso la dominazione romana

    Per tracciare la storia del popolamento primitivo del Veneto occorre far riferimento alle modificazioni che si sono verificate durante gli ultimi periodi dell’era glaciale e all’alternarsi di climi freddi e umidi con climi caldi e aridi. E da ritenere che nelle fasi interglaciali il mare, in seguito allo scioglimento dei ghiacciai, andasse sommergendo vari territori, mentre nelle fasi glaciali si è avuto abbassamento di livello causato dalla formazione del mantello dei ghiacci. Par certo che nell’interglaciale Mindel-Riss il mare Adriatico abbia invaso gran parte della pianura veneta. Siamo in un periodo in cui ancora non si sono ritrovate tracce di vita umana. Durante la successiva glaciazione rissiana il mare si deve esser abbassato di circa 200 m., mettendo allo scoperto un vasto territorio, che successivamente, come del resto lo è tuttora, venne di nuovo sommerso dall’alto e medio Adriatico. Ma nell’interglaciale tra il Riss e il Wùrm buona parte della pianura veneta ritornò ad essere invasa dalle acque marine, mentre poi la scomparsa dei ghiacciai fu accompagnata da una intensa attività alluvionale: torrenti violenti e fiumane poderose dettero luogo alla formazione di grandi depositi alluvionali, a conoidi di deiezione, a strati ciottolosi di notevole potenza. Subentrò infine l’ultima glaciazione durante la quale la pianura veneta si estese fino all’altezza di Zara-Ancona, mentre potenti ghiacciai coprirono le regioni montuose del Veneto e del Trentino.

    È durante il periodo caratterizzato da queste alterne fasi di espansione e di ritiro dei ghiacciai e quindi di profonde modificazioni delle condizioni climatiche che compare l’uomo nel Veneto. Quali sono le tracce più antiche di esso? Dove sono state ritrovate? A quanti anni fa risalgono? Dobbiamo supporre (seguendo quanto scrivono in proposito il Radmilli e lo Zorzi) che fin dalla glaciazione rissiana dei cacciatori paleolitici fossero già presenti nella zona, costretti di continuo a spostarsi a seconda delle variazioni del clima, attirati nei periodi interglaciali dalle colline, dai pianori e dagli altipiani e nei periodi glaciali dalle pianure coperte da fitte boscaglie. Ben scarse sono le tracce lasciate da essi, dato che gran parte dei loro resti sono stati cancellati dall’azione delle trasgressioni marine, dall’erosione e dalle distruzioni operate dalle alluvioni.

    Distribuzione delle stazioni preistoriche. i, zona dei Monti Bérici; 2, Ponte di Veja; 3, Monte Loffa; 4, Breonio; 5, cava degli Orsi; 6, Valcalaona; 7, Valpan-tena; 8, palafitta Peschiera; 9, zona delle palafitte del Garda; 10, palafitte della Bassa Veronese.

    Allo stato attuale delle nostre ricerche, i più antichi resti di questi cacciatori paleolitici, e non soltanto del Veneto, ma anche di tutta l’Italia settentrionale, sono stati trovati in un deposito di argille posto alle falde del Monte Ongarina, nella località di Villa di Quinzano ai piedi delle colline che cingono a settentrione Verona e consistono in strumenti di selce, affiorati a più riprese assieme ad ossa fossili. Questi resti, che compaiono in sette strati sovrapposti, appartengono a quel periodo del Paleolitico inferiore che è chiamato Chelleano. Quanto alla loro datazione l’esame del deposito fa ritenere che i resti risalgano a circa 160.000 anni fa e corrispondano alla seconda fase della glaciazione rissiana caratterizzata dal clima steppico subtropicale, dato che compaiono resti di elefanti, bisonti, cervi. Su per giù di questo stesso periodo sono alcuni oggetti litici ritrovati nei Colli Euganei. Nel Paleolitico inferiore prevalgono stanziamenti all’aperto, mentre nei tempi successivi, s’usano di preferenza le parti in luce delle grotte e ripari sotto roccia. A Villa di Quinzano dalle argille di fondo fu tratta in luce un’ascia a mano (amigdale) ben conservata, che è uno degli strumenti più antichi che indichino la comparsa dell’uomo sulla Terra.

    Tomba del secondo periodo atestino.

    Nello stesso deposito, in uno strato un po’ più alto, vennero trovati dei manufatti litici un po’ più recenti, appartenenti alla cultura acheuleana, rappresentati da un’ascia con scheggiature più minute. Col Paleolitico medio i ritrovamenti d’industrie umane si fanno più frequenti. Strumenti lavorati con varia tecnica (ma non ancora resti scheletrici) sono venuti alla luce entro grotte dei Colli Bérici, nell’altopiano d’Asiago e nei Lessini (Monte Loffa). Altri resti riferibili al Paleolitico inferiore (e all’Eneolitico), sono affiorati nel complesso cavernicolo del Ponte di Veja, famoso arco naturale che s’innalza sui fianchi settentrionali del Monte del Tesoro nel Veronese. E da ritenere che l’attività prevalente degli abitanti fosse la caccia e che essi si spostassero da un luogo all’altro, seguendo il ritmo delle stagioni. Fatto sta che, mentre per il Paleolitico superiore le loro tracce sono state ritrovate sia nei Lessini che nei Bérici, dove dovevano trovarsi le loro sedi temporanee, gli accampamenti permanenti, che probabilmente erano posti in pianura, per ora non sono stati ritrovati. Mancano pure in essa resti d’insediamento di popolazioni neolitiche, per quanto appaia certo che gli abitanti già dovevano esercitare attività agricole, mentre poi vivaci dovevano essere gli scambi. Se mancano in pianura resti delle colture neolitiche, che è da supporre siano andati dispersi a causa delle violente alluvioni oppure sommersi in zone paludose e acquitrinose, ne esistono invece nelle zone collinose dei Lessini, dei Bérici e degli Euganei ed a San Donà presso Lamon. Non sempre è agevole distinguere questi resti da quelli assai copiosi dell’età successiva, quella del bronzo. Località famose per quantità e importanza del materiale rinvenuto sono il Castellon del Brósimo nei Bérici, alcune grotte e alture fortificate dei Lessini, vari villaggi di palafitticoli dei bacini lacustri Bérico-Euganei e della Bassa Veronese. Nè mancano resti di stazioni enee presso Treviso dove, in tombe a inumazione, sono state trovate asce, pugnali e soprattutto spade di buona fattura, dovute probabilmente ad avanguardie di quei popoli che affluirono poi dalla valle del Danubio. Nelle palafitte, che nel basso Veronese e nell’anfiteatro morenico del Garda come pure nelle valli di Fimón nel Vicentino costituirono nel periodo del Bronzo la forma di insediamento prevalente, sono stati ritrovati pugnali e coltelli delle forme più varie, fiocine, aghi, scalpelli, pettini, braccialetti che dànno un quadro della metallurgia palafitticola. Seguono le colture dell’età del Ferro che corrispondono a quel periodo che va ali’incirca dal X secolo a. G. ai contatti coi Romani e presentano molte affinità con le colture d’Oltralpe (specie con quella di Hallstatt). Esse presentano aspetti diversi tanto che si può distinguere il gruppo plavense, che compare nella regione che da Treviso va fino al Cadore, e il gruppo atestino, che ebbe per centri Este e Padova. Ma chi erano le genti, alle quali appartenevano i resti di cui abbiamo fatto cenno? I più antichi, di cui si possa indicare il nome con una certa sicurezza, sono gli Euganei, popolazione preindoeuropea di stirpe ligure (detti perciò anche Liguri Ingauni), che visse in età neolitica e che presenta negli utensili e nei riti qualche somiglianza con popolazioni italiche. Respinti da altri popoli in luoghi dove era agevole la difesa (come i Monti Lessini), essi poterono mantenersi a lungo e conservarono la loro personalità fino alla conquista romana tanto da influire poi sulle genti che si sono avvicendate successivamente nel Veneto. A queste popolazioni preindoeuropee appartenevano pure i Reti, ai quali, secondo la testimonianza di Plinio, si deve la fondazione di Feltre.

    Ponte di Veja.

    Carrettino fittile da Tomba Pelà, Vili secolo a. C. (Padova, Museo Naz. Atestino).

    Coppa del terzo periodo atestino (Padova, Museo Naz. Atestino).

     

    Tracce ben più profonde lasciarono i Veneti o Veneto-Illiri, popolazione indoeuropea venuta dai Balcani all’inizio del primo millennio a. C., che sottomise una parte degli indigeni. Essi portarono la civiltà del ferro e s’insediarono nei Colli Euganei, dove Este, posta allora in vicinanza della grande via fluviale costituita dall’Adige, divenne e rimase, dall’Vili fin verso il V secolo, il principale centro civile del Veneto. Essa non era una città nel senso moderno, ma una serie di villaggi e capanne quadrangolari, di mattoni crudi, fango, strame e con tetto di paglia e attorno ad esse erano i cimiteri degli abitanti, con tombe a cremazione, suddistinte dal Pro-sdocimi in quattro periodi, l’ultimo dei quali va dalle incursioni galliche alla dominazione romana. Soltanto col terzo periodo compare la scrittura, mentre il primo è caratterizzato dal rito neolitico dell’inumazione col cadavere rannicchiato. Il materiale è abbondante soprattutto nella regione atestina, ma necropoli venete sono state trovate anche a Montebelluna, Oderzo, Asolo e altrove. Caratteristici della loro arte sono dei tipici vasi a borchiette ed a lamine di bronzo. Questi Veneti, per quanto appartati in una regione collinosa, devono aver avuto dei rapporti sia con le popolazioni danubiane, sia con gli Etruschi; inoltre essi irradiarono nel Veneto, soprattutto tra Adige e Livenza, e nelle regioni vicine, come l’Alto Adige e l’Istria; esportavano sale, lana, ceramiche dipinte e importavano ambra, vasi e gioielli. Gli Euganei invece in parte vennero sottomessi e assorbiti, in parte respinti in zone di montagna. Una trentina di iscrizioni paleovenete, conservate nel Museo archeologico di Pieve di Cadore, secondo solo al Museo Atestino per ritrovamenti del genere, sono state scoperte in epoca recente (primavera ed estate 1949 e poi nel 1950) a Làgole, a circa 700 m. dalla stazione ferroviaria di Calalzo (alta valle del Piave) in alcune caverne e in vicinanza d’una fonte ristoratrice e benefica, divinizzata e sacra ad Ecate; esse sono incise su manufatti di bronzo e in prevalenza su manichi di cucchiai. Devono probabilmente risalire al II secolo a. C., quando il Veneto cominciava già ad essere sottoposto al dominio romano. Il Cadore offre l’esempio d’un popolamento abbastanza addensato già in periodo preromano e non mancano ritrovamenti lungo tutto il corso del Piave fino a Lozzo; ciò è da mettere in rapporto col fatto che la regione era percorsa già in epoca precedente all’occupazione romana da un’arteria stradale importante.

    Situla Benvenuti, fine del secondo periodo atestino (Padova, Museo Naz. Atestino).

    I Veneti dovevano essere un popolo pacifico che preferiva intrattenere rapporti commerciali coi paesi vicini; ma non di meno, quando popoli bellicosi si avvicinarono al loro dominio seppero far valere la loro organizzazione e mantenere libere le loro terre. Si difesero dapprima dagli Etruschi e poi dai Galli, che discesi a ondate successive dai valichi alpini erano riusciti a conquistare gran parte dell’Italia settentrionale. Piuttosto che cedere essi preferirono unirsi ai Romani nelle guerre contro i Galli Senoni e fu così che perdettero la loro indipendenza. Come dall’alleanza si passasse alla sudditanza non è ben noto, ma era fatale che quest’isola etnica, che pure si era conservata così a lungo, raggiungendo un certo grado di evoluzione artistica e politica, dovesse essere inglobata nella potenza romana. I Romani entrarono a contatto con i Veneti assai per tempo, verso la seconda metà del III secolo avanti Cristo. Ma è solo verso l’inizio del secolo successivo che i Veneti perdono la loro indipendenza, in forma pacifica, e ben presto Padova sorpassò Este per importanza. S’iniziò così a poco a poco, prima nelle regioni centrali, poi anche in quelle settentrionali la romanizzazione del Veneto, che venne accelerata quando, terminata la guerra sociale (89 a. C.), venne concessa alle città venete (Patavium, Vicetia, ecc.) quella Lex Pompeia, che le assimilava a colonie di diritto latino. La colonizzazione sistematica è documentata dalle vie, dai sentieri, dagli argini e dai confini degli appezzamenti che costituivano il reticolato regolare della centuriazione romana. Tracce della colonizzazione sono visibili in molti luoghi, per esempio, nella zona che ha per vertici Bassano, Cittadella, Istrana e Volpago, che risale forse alla colonia fondata nel 172 a. C. dal console Marco Emilio Lepido. E accanto ai centri preesistenti come Adria, Ateste, Feltre, Asolo, che progressivamente decaddero, vennero fondati dei centri del tutto nuovi, come Concordia (nota per le fabbriche di frecce); si svilupparono pure alcuni scali costieri, come Aitino, collegati al mare da un’attiva rete fluviale, come pure dei centri situati allo sbocco dei fiumi in pianura o dove vie terrestri s’incontravano con corsi d’acqua navigabili. Assai più estese erano allora le lagune e le zone palustri e la stessa pianura era nei posti più depressi un intrico di selve e di acquitrini, dove i luoghi messi a coltura, rappresentati dalle aree più asciutte, costituivano delle isole di non grande estensione. Il dominio romano esercitò un’azione benefica, qualche area venne bonificata, le colture furono estese, le città principali ebbero arene, basiliche, archi, di cui rimangono resti ben conservati a Verona, Padova, Vicenza e altrove, la densità di popolazione andò aumentando, ma vasto doveva essere ancora il dominio del bosco e delle terre mal drenate. Lungo le acque dell’estuario che si dilunga da Grado a Cavàrzere, tra le dune del litorale adriatico e la terraferma v’erano dei vici, popolati da pescatori, salinai, barcaioli, cacciatori che avevano ricovero nelle isole lagunari.

    Arco dei Gavi a Verona.

    Tracce della colonizzazione romana tra Mirano e Campodàrsego. (Da «Le vie d’Italia», novembre 1940 [T. C. I.]).

    Ma il pericolo gallico pesava pur sempre sul confine orientale d’Italia e poiché i Romani non potevano consentire che i Galli si stanziassero alle porte orientali d’Italia, nel 183 fu deliberato di fondare presso il mare e l’Isonzo la colonia latina di Aquileia, fortezza collocata alla periferia del territorio di Roma e dei suoi alleati.

    La penetrazione romana nell’Alto Veneto risulta un po’ più tarda che in pianura ma, già attuata nel corso del I secolo a. C., prepara quella definitiva conquista della regione alpina che verrà attuata da Druso con la sua vittoria sui Reti.

    Il Veneto, che a poco a poco finì col costituire una regione unitaria, andò così assumendo grande importanza per gli scambi coi paesi d’oltralpe. A questo contribuì la costruzione delle strade, che formavano un’organica rete di collegamenti. Le principali erano la via Anicia e la Popilia (da Ravenna ad Aitino e da Adria a Padova), la via Emilia (da Vicenza ad Aitino), la via Aurelia (da Padova alla regione alpina) e poi ancora l’Altinate, la Claudia Augusta che attraversava il territorio bellunese diretta al Nórico, la Postumia, importante arteria trasversale che collegava Verona a Tergeste e poi all’Illirico, ed altre minori.

    I primi tre secoli dell’era cristiana furono per il Veneto un periodo di prosperità e di benessere, ma col successivo cominciano a farsi sentire alcuni sintomi forieri di crisi: gli scambi diminuiscono di volume, le strade, meno ben curate, diventano poco sicure, le attività industriali (come quella della lana, dalla quale aveva tratto grandi profitti Padova) decadono. Anche l’agricoltura perdette d’importanza e il bosco riacquistò terreno a spese dei campi e le paludi a spese dei pascoli.

    Un fatto nuovo, che avrebbe avuto ben presto conseguenze profonde causando la decadenza degli antichi Municipi, fu la diffusione del Cristianesimo, che nel Veneto venne introdotto piuttosto tardivamente dall’Illirico, prima che da Ravenna o da Milano. Le prime sedi episcopali pare risalgano al massimo alla seconda metà del III secolo. Centro importante della nuova fede divenne ben presto Aquileia, dalla quale nel IV secolo dipendevano vasti territori. Così « mentre la vecchia società si trasformava e la preesistente economia si disfaceva, una nuova organizzazione si formava, prima intorno alla pieve, poi intorno alla parrocchia, infine intorno agli stabilimenti monastici, diventati organi di concentramento fondiario, acquisitori di stabilimenti sempre più vasti, promotori di nuovi rapporti di lavoro » (Cessi).

    Le invasioni barbariche e il sorgere di Venezia

    Il Veneto dunque, dopo un periodo di benessere, all’inizio del V secolo già aveva cominciato a presentare segni evidenti di disagio. Terre che erano state dissodate ritornarono alla vegetazione spontanea, il bosco guadagnò terreno, specie nella bassa pianura trevisana, alcune opere idrauliche vennero abbandonate, le vie di comunicazione perdettero parte della loro importanza, i porti ed i mercati cominciarono a esser disertati. E difficile poter dire a proposito di questo regresso quanto dipenda dagli uomini e quanto dalla natura, tenuto conto che il suolo va soggetto a un lento bradisismo e i fiumi spesso straripano. Quel che si può dire di certo è che la fascia costiera tra la foce dell’Isonzo e quella del Po presentava allora un aspetto assai diverso dell’attuale, se Marziale paragona il lido di Aitino alla spiaggia di Baia (aemula Bajanis Altini litora villis); sia lungo le vie principali che nelle isole che chiudevano i Septem Maria, ricordati da Plinio, dovevano esistere delle ridenti vigne e poi anche pascoli ed orti, mentre poi mancano accenni ad acque stagnanti.

    Vedi Anche:  Le regioni del veneto

    Schizzo dimostrativo delle invasioni barbariche in Italia.

    Il colpo di grazia, che accelerò questo processo di decadenza, è però da mettere in rapporto con le invasioni barbariche. Dapprima gli invasori non si soffermarono nel territorio veneto, ma lo attraversarono alla ricerca di sedi migliori e non recarono, come è il caso dei Goti, che lievi danni. Anche gli Unni di Attila, per quanto la tradizione accompagni la loro venuta, verso la metà del V secolo, con violenze crudeli e con danni irreparabili (tanto che il nome di Attila è ancor oggi pronunciato nelle campagne trevigiane come quello del jìagellum Dei), causarono una crisi di breve durata e le città poterono riprendere ben presto la vita d’un tempo, segno che le ferite arrecate non erano molto gravi. Anche Eruli, Sciti ed Ostrogoti che penetrarono nel Veneto alla fine di quel secolo non mirarono a modificare di sana pianta l’ordinamento precedente, come avremmo potuto aspettarci, ma anzi, forse riconoscendo quanto peso avesse la tradizione romana, procurarono di rispettare gli usi locali. Gli abitanti della laguna ricevettero le lodi di Cassiodoro, che fu uno dei maggiori artefici della politica di Teodorico, per le loro abilità marinare, Padova si ornò nella prima metà del secolo VI di cospicui edifici civili e religiosi e Treviso, oltre che esser munita di nuove opere di difesa, divenne pubblico fondaco « destinato a provvedere di grano, in tempo di carestia, gran parte del Veneto ». Nondimeno queste invasioni determinarono un esodo degli abitanti dai luoghi più esposti e così profughi di Aquileia (distrutta nel 452), Aitino, Concordia, seguendo il corso dei fiumi Natissa, Lemène e Sile si rifugiarono a Grado, Torcello, Càorle, mentre le località insulari di Murano, Mazzorbo, Malamocco accoglievano quelli di Mon-selice e di Padova. Questi invasori venivano principalmente dal confine orientale e, percorsa e traversata la valle dell’Isonzo, si erano incuneati lungo la principale via di comunicazione che ancora sussisteva, la via Postumia, senza causare troppi danni alle città, tra le quali Verona era quella meglio munita.

    Il campanile romanico di Càorle.

    Àsolo: la cosiddetta casa Longobarda

    L’antica circoscrizione rimase dapprima immutata nei primi regni barbarici formatisi in Italia, parte integrante di essi e dipendente in modo diretto. Le cose però cambiarono in peggio quando, morto Teodorico (526), i Bizantini di Giustiniano mossero guerra ai Goti; il Veneto divenne allora campo di battaglia tra i due contendenti e la regione verso il 550 venne a dipendere dall’esarca bizantino, in nome dell’imperatore residente a Costantinopoli e soprattutto quando (568) si affacciò un nuovo invasore, assai più violento e feroce, il popolo longobardo, guidato da Alboino, che travolse nella sua marcia implacabile, diretta verso Pavia e Ravenna, quello che era rimasto della civiltà romana. Soprattutto Padova (distrutta da Agilulfo nel 602), Asolo, Oderzo ebbero molto a soffrire, mentre Treviso, con a capo il suo vescovo, si assoggettò spontaneamente ai Longobardi, ne ottenne l’amicizia e divenne ben presto sede di un duca. Altri invece preferirono fuggire nelle lagune cercando in esse dei ricoveri che avrebbero dovuto esser temporanei, ma divennero invece definitivi, tanto più che nella terraferma, allargatesi le paludi, cominciò a imperversare la malaria tanto che di Eraclea non restano neppure le tracce e di lèsolo si conservano solo le mura d’un tempio.

    Il territorio marittimo restò sotto il dominio bizantino, mentre nel territorio di terraferma si consolidò il possesso dei nuovi arrivati, determinando così lo smembramento, che sarebbe perdurato vari secoli, di quella Decima Regio che aveva costituito per tanto tempo un’unità amministrativa e geografica. Distrutta da Grimaldo Oderzo (639) che era sede del ducato, il dux o magister militum, che dipendeva da Ravenna, si trasferì dapprima in un centro fondato appositamente, Cittanova, che per esser sorta sotto gli auspici dell’imperatore Eraclio ebbe il privilegio di esser denominata Civitas Eracliana e poi più semplicemente Eraclea, che diventò così, senza assumere grande importanza come centro urbano, sede del ducato. Essa si può localizzare in quella zona di bonifiche recenti che è posta tra Livenza e Piave, dove si era sviluppato il centro di Grisolera, che a partire dal 1951 ha preso il nome di Eraclea.

    Intanto le isole della laguna, che avevano il vantaggio di esser situate in una posizione più sicura, cominciarono ad accogliere in modo stabile nuovi abitanti e un trasferimento di maggior portata si ebbe al tempo dei Longobardi. Il dominio dei Bizantini lasciava alquanto a desiderare ed aveva più importanza militare che civile, per cui, soprattutto nel mondo insulare, si andò determinando una reazione, che spinse i profughi, i quali erano lasciati quasi in balìa di loro stessi, a nominare mediante assemblee popolari propri duchi in luogo di quelli bizantini. La tradizione storica (che però è assai tardiva) designa col nome di Paulucio Anafesto il primo duce (o doge) veneziano, che essendo morto nel 727 era forse ancora alle dipendenze di Costantinopoli. Occorre tener presente che il primo cronista della primitiva storia veneziana, il diacono Giovanni, idealizza i fatti e anticipa il tempo in cui la provincia veneziana è diventata indipendente.

    Il dominio bizantino sussisteva in terraferma e comprendeva anche Grado e l’Istria; si ha anzi notizia d’una delimitazione dei suoi confini compiuta verso il 725. E da ritenere che l’autorità di Ravenna continuasse a farsi sentire, sia pure in modo attenuato, anche in seguito, quando ai primi dogi successero dei magistri militum, maggiormente legati alla tradizione bizantina. Ben presto il reggimento dogale venne ristabilito e la sede trasferita da Cittanova (che qualche anno dopo, perdurando i contrasti e le tremende discordie tra Equilio e lesolo, verrà incendiata) a Malamocco. È di questo periodo la venuta dei Franchi di Pipino, che in lotta coi Longobardi e coi Bizantini recarono gravi danni alle città di terraferma e minacciarono l’esistenza stessa delle città lagunari, che tuttavia poterono resistere all’attacco. Nelle isole i contrasti politici determinavano spesso lotte violente e fu forse per cercare un luogo più tranquillo e meglio difendibile, estraneo alle contese di parte, che nell’8io, in un periodo in cui era cessata la guerra tra Bisanzio ed i Franchi di Carlomagno, il doge Agnello Particiaco o Participazio, che si può dire veramente il fondatore di Venezia, si trasferì da Malamocco a Rivoalto o Rialto. Pochi anni dopo, nell’828, venne trasferito a Rialto il corpo dell’evangelista San Marco, che fu collocato in prossimità del palatium dei dogi e il nome di San Marco diventa simbolo di forza e auspicio a rendersi autonomi dell’Oriente. Il nome Rivoalto pare debba mettersi in rapporto con la sua posizione in rialzo rispetto alle acque circostanti. Costantino VII Porfirogenito (911-56), quasi contemporaneo, dice: « Rhibantum quod significai locum valde excelsum ». Esistevano anche altri nuclei abitati, come Scópulo, conosciuto più tardi col nome di Dorsoduro, ed Olivolo, che venne fortificato con un castrum, da cui derivò poi il nome di Castello ad uno dei sestieri della città. La Civitas Rivoalti solo verso il XIII secolo trasmuterà il suo nome in quello di Venezia.

    La tendenza da parte degli abitanti in questo periodo è stata quella di accentrarsi nella parte centrale della laguna, in uno spazio relativamente ristretto, mentre nell’epoca romana esisteva gran numero di centri; e a questo abbandono non è forse estraneo il desiderio di risiedere in luoghi più salubri. Perdurava forse ancora l’alta tutela bizantina sulle terre del Dogado, che non costituiva ormai più una provincia bizantina e cominciava ad acquistare un certo benessere coi traffici, dato che esercitava la funzione di ponte tra l’Oriente e l’Occidente. Col IX secolo si può ormai parlare di territorio indipendente sul quale il Doge esercitava la potestà sovrana, pur mancando un titolo giuridico dal quale esso potesse far risalire l’origine dei poteri. Quali erano allora i limiti del Dogado? Da Grado, sede del vescovo rifugiatosi da Aquileia, esso si estendeva fino a Loreo e comprendeva Càorle, Torcello, Malamocco, Murano, Rialto e poi accanto alla parte insulare un territorio di terraferma da Cittanova a Cavàrzere. Di grande importanza è in quest’epoca (841) il patto con Lotario il quale affidava alla marina veneziana il compito della difesa marittima e della polizia del mare contro gli Slavi, riconoscendo alla marina veneziana la prerogativa del controllo dell’Adriatico e attribuendolo alla sua sfera d’influenza. Comincia da questo periodo il dominio di Venezia sul mare, lo sviluppo dei traffici e il suo compito di vigile sentinella di romanità contro l’espansione teutonica e slava. Verso il 900 essa ebbe a soffrire un attacco da parte degli Ungari, ma questo pericolo venne agevolmente fronteggiato ed ebbe anzi l’effetto di spingere gli abitanti delle isole a trasferirsi a Rialto, che andò da allora assumendo, diventato il nucleo cittadino più compatto e difeso da una muraglia dal lato che era più vulnerabile, l’aspetto di città, la Civitas Rivoalti, che si identifica ormai con la Civitas Venetiarum.

    In questo stesso periodo nella terraferma, dove le colture sono trascurate e invece in via di espansione la vegetazione spontanea, assistiamo ad un processo che avrà grande importanza per determinare la storia dei secoli successivi e cioè la concessione da parte dell’imperatore d’una serie di privilegi feudali, che finiranno col dar vita a numerose signorie locali, che riconoscevano la sovranità imperiale. A Padova, a Treviso, a Vicenza ed a Verona, per ricordare solo le località più importanti dal punto di vista militare ed economico, si andarono instaurando dei governi comitali che esercitavano la loro giurisdizione sul territorio controllato dai loro castelli, che sorsero numerosi in quest’epoca in tutto il Veneto, non senza dar luogo ad attriti, dato che ogni città mirava ad estendere la propria giurisdizione. Altrove furono invece i vescovi che procurarono di accrescere la loro autorità, mentre poi sotto gli Ottoni si andarono formando, continuando il processo di frazionamento politico, anche centri retti da liberi proprietari e da artigiani.

    Il Bucintoro col corteo nel Bacino di San Marco, dipinto di Francesco Guardi (Tolosa, Museo Civico).

    L’espansione di Venezia sul mare

    Così mentre sulla terraferma veneta si andavano creando delle formazioni politiche dotate via via d’una forza d’espansione sempre maggiore, Venezia — pur non disinteressandosi del tutto del retroterra, come dimostra il fatto che mediante una serie di convenzioni si assicurò importanti privilegi — potè liberamente espandersi sul mare, dove esercitava con profitto funzioni commerciali. In questo periodo tra il doge e il popolo non esistevano organi intermedi e la sovranità spettava, come nei tempi più antichi, all’assemblea popolare. Soltanto molto più tardi, verso la fine del secolo XIII, avrà inizio il processo legislativo che creerà quell’ordinamento costituzionale veneziano, che si andrà in seguito sempre più complicando per il sorgere di nuove magistrature. Del 1297 è infatti quella storica Serrata del Maggior Consiglio, in seguito alla quale il Doge diventa il rappresentante, ma in un certo senso anche il succube dei nobili iscritti nel libro d’oro, in numero di circa 1200; chiuso il periodo democratico, che pure aveva segnato per Venezia un periodo di grande splendore, s’instaura una forma di reggimento che se riesce ad impedire la dittatura, permette la licenza ad un gruppo che sovrasta sul popolo.

    L’espansione marittima dei Veneziani è avvolta in un alone di leggenda. Poiché gli Slavi e soprattutto i Narentani spadroneggiavano nell’alto Adriatico (e perfino alcune spose veneziane sarebbero state rapite dai pirati) e i Dalmati chiedevano aiuto, il doge Pietro Orseolo II salpò in loro soccorso il giorno dell’Ascensione del 998 e vinse i Narentani: da allora venne istituita la festa dello Sposalizio del mare, per testimoniare che con quella vittoria ebbe inizio, con la conquista dell’Istria e della Dalmazia, il dominio di Venezia sul Golfo. Né su quello soltanto si limita l’attività commerciale dei Veneti che nel secolo XI, d’accordo coi Bizantini, combatterono i Normanni in Puglia, i quali cercavano di imbottigliarla nell’Adriatico, dominandone lo sbocco. Ma più che al dominio politico Venezia mira ai traffici e i suoi mercanti si arricchiscono con gli scambi. Si disinteressa invece delle cruente lotte tra Comuni e Impero che insanguinano la terraferma e, desiderosa di pace per poter meglio trarre profitto dal commercio, sa destreggiarsi tra gli avversari, l’uno contro l’altro armati, in modo così abile da esser prescelta come mediatrice tra Impero, Papato e Comuni: sarà sulla soglia della basilica di San Marco che nel 1177 Federico Barbarossa si prostrerà ai piedi di Alessandro III, simboleggiando la riconciliazione tra i due poteri.

    Limite dell’espansione veneziana.

     

    Anche in Oriente, al tempo delle crociate, Venezia assunse dapprima una politica di attesa, badando di estendere la sua influenza commerciale. Quando però vide che i Musulmani compromettevano con le loro conquiste l’attività dei suoi mercanti e il papa Innocenzo III aveva indetto per respingerli la IV Crociata, intervenne col peso di tutte le sue forze allo scopo di ampliare la sua sfera commerciale e si vide il miracolo d’un piccolo Stato che potè allestire una flotta sufficiente a trasportare un esercito ed a conquistare un impero. E così Enrico Dandolo, che si era fatto aiutare dai Crociati per conquistare Zara, una volta occupata Costantinopoli potè ottenere per Venezia «la quarta parte e mezzo» dell’impero (1204) e a questo si accompagnarono immense ricchezze; tra l’altro furono allora recati a Venezia quei quattro famosi cavalli che adornano la facciata della chiesa di San Marco. I profitti permisero di migliorare le abitazioni e sorsero allora quei meravigliosi palazzi marmorei e quelle chiese che fin dal secolo XIII, che segna l’apogeo di Venezia, colmano di meraviglia i visitatori della città, sorta per incanto dalle paludi.

    I cavalli di rame dorato della Basilica di San Marco a Venezia e la Torre dell’Orologio.

    La Cà d’Oro sul Canal Grande a Venezia,

    Le isole Iònie, l’Eubea, Càndia, buona parte del Peloponneso, un quartiere di Costantinopoli vennero da allora a far parte dello Stato Veneto, mentre altri possessi, soprattutto insulari, spettarono a varie famiglie nobili veneziane. Non è possibile seguire qui le vicende di questi possessi esterni di Venezia, le sue lotte con Genova per il predominio del Mediterraneo orientale, finite dopo alterne vicende con la pace di Torino (1381), il contrasto coi Turchi durante il quale essa scrisse pagine gloriose, e nemmeno far cenno delle conoscenze acquisite su paesi lontani dai suoi viaggiatori, che seppero tracciare nuove vie al commercio della loro patria, primo tra tutti Marco Polo. Negli empori veneziani distribuiti lungo le coste dell’Asia Minore, della Siria e dell’Egitto affluivano dalle regioni interne dell’Asia e dell’Africa quei prodotti che trasportati poi a Venezia per via di mare, venivano distribuiti per tutta l’Europa.

    E così pure dovremo passar sotto silenzio le varie fasi che condussero ad un rafforzamento aristocratico dello Stato con l’istituzione di organi che dovevano sorvegliarne la sicurezza, primo tra tutti il Consiglio dei Dieci, avente il compito di provvedere alla suprema tutela della « quiete e della libertà dei sudditi », come pure non è possibile narrare le vicende interne della Repubblica, contrassegnate da diversi tentativi d’impadronirsi del potere (nel 1310 da parte di Baiamonte Tiepolo, nel 1355 del Doge Marin Faliero, nel 1618 da parte dei mercenari di Bedmar, ambasciatore spagnolo presso la Serenissima). Piuttosto va messo in luce che, malgrado le ristrettezze del territorio, essa intrattiene da pari a pari rapporti con le principali potenze d’Europa, presso le quali inviava ambasciatori dotati di notevole senno politico, i quali mandarono delle relazioni che costituiscono dei documenti preziosi per la storia europea. Il governo veneziano nell’esercizio delle sue funzioni statali procurava d’identificarsi con un supremo ideale di severa giustizia, per cui la Repubblica ebbe per antonomasia il nome di Serenissima.

    Le mura di Este.

    Il dominio di terraferma

    Nelle regioni interne del Veneto i successori della feudalità terriera, che avevano costruito dei castelli sia per accrescere il loro prestigio sia per ragioni difensive, erano andati intanto formando delle signorie, spesso in lotta cruenta tra loro: basterà ricordare gli Estensi, da Camino, da Romano, da Carrara, Salinguerra, i quali vennero pure spesso a contrasto con le comunità cittadine che si erano andate formando a Verona (1136), Padova (1164), Treviso (dove il più antico documento che ricordi il Comune è un diploma di Federico I del maggio 1164 con cui si concedono esenzioni e franchigie), Vicenza, le quali pure cercavano di espandersi. Dagli Statuti di Treviso, di cui si hanno varie redazioni a partire dal 1207, appare che l’organismo comunale era ben organizzato, con disposizioni relative all’edilizia, alla viabilità, al rifornimento dei mercati, all’igiene delle vie e delle case, alla sistemazione dei canali, alla conservazione di mura e bastioni. Questi comuni erano stretti tra loro dagli stessi ideali per cui li troviamo collegati contro il Barbarossa in lotta di emancipazione che culminò a loro vantaggio con la pace di Costanza (1183). Invano verso la metà del secolo successivo gli elementi feudali cercarono, soprattutto con Ezzelino da Romano, di sottomettere Padova, Verona e le altre città. Per un po’ queste si difesero, ma venuti a contesa nell’interno delle stesse città, i nobili che vi erano affluiti dalle campagne coi mercanti arricchiti, ora l’uno ora l’altro dei due elementi finì col prevalere e con l’impossessarsi del potere. E così a poco a poco il Comune, all’inizio del secolo XIV, dovette cedere il potere politico alle signorie: degli Scaligeri a Verona, dei Carraresi a Padova, dei Caminesi (pur essi d’origine tedesca) a Treviso, degli Estensi, originari di Este, a Ferrara, spesso in lotta tra loro per allargarsi a spese dei vicini.

    Vedi Anche:  Montagne e pianure

    Le mura di cinta di Montagnana.

    Castello di Zumelle (Belluno).

    Esisteva allora un grande frazionamento in una serie di staterelli autonomi, che cercavano di espandersi. Il primo esempio l’aveva dato Ezzelino. Tra i Tedeschi venuti in Italia con Corrado il Salico nella prima metà del secolo XI v’era un rozzo e forte cavaliere, Etzel o Ezelo, che per il suo valore venne premiato con la concessione di varie terre ai piedi del Grappa. I suoi successori valendosi ora della forza ora dell’astuzia allargarono i loro possessi, che pervennero nelle mani di Ezzelino III (i 194-1259), che passò alla storia come « immanissimo tiranno», il Diavolo Nero, il Tizzone d’Inferno, circondato dalla sinistra luce di paurose leggende, ma accorto nella politica, d’intelletto acuto, dalla volontà possente e ostinata, ardente e impetuoso in battaglia. Il padre aveva ottenuto di essere nominato a capo di Verona, dove aveva iniziato una minacciosa signoria. Ritiratosi poi in un convento del Bassanese, gli subentrò il figlio, che era invasato da mania di dominio. Sorretto da Federico II (che gli dette anche in sposa Selvaggia, sua figlia naturale), venne nominato Podestà di Verona, ma ben presto trasformò la carica in una signoria personale, cominciò a nominare podestà e rettori a lui devoti, a metter da parte le famiglie del partito avverso, a stender il suo dominio su Vicenza, su Treviso e su Padova e poi anche su Feltre e su Belluno. Morto Federico il partito guelfo gli si oppose e gli mosse guerra, ma egli seppe in un primo tempo far fronte agli avversari, finché nel tentativo di occupare Milano, cadde prigioniero a Cassano d’Adda e morì di ferite poco dopo.

    Castello scaligero a Torri del Benaco.

    Il castello scaligero di Malcésine.

    Tra i vari tentativi di unificazione va ricordato anche quello di Cangrande della Scala e dei suoi eredi che, tra il 1300 e il 1340, riuscirono ad occupare Vicenza, Padova, Treviso, Feltre e Belluno e a spingersi anche in territorio lombardo, ma la loro mira di estendere il dominio su tutta l’Italia settentrionale non potè avverarsi per l’ostilità di Venezia, Milano, Firenze. Fu la caduta di Ezzelino che favorì l’ascesa d’una famiglia che non sembrava dovesse acquistare tanta importanza, quella romana dei Della Scala. La signoria degli Scaligeri non ha infatti origine per usurpazione d’una famiglia, ma come difesa delle classi cittadine. Poiché continuavano in questo periodo le scorrerie e le rivalità, alla carica di capitano del popolo vennero nominati a Verona i membri della famiglia Della Scala (Mastino e poi Alberto), fino a costituire una vera signoria. Fu Alberto che riuscì a concentrare in una sola mano il potere. Nominato capitano generale gli vennero conferiti larghissimi poteri, che lo resero padrone della città, pur conservando in apparenza le forme della vita comunale. Quando egli muore (1301) non è più il capo del partito, ma signore legittimo di un vasto dominio, che s’allargherà ancor più con suo figlio Cane. Pretesto a combattere contro Padova fu la discesa di Enrico VII. Ebbe allora inizio quella lunga lotta di battaglie, assedi, devastazioni che insanguinò per alcuni anni il Padovano, il Vicentino e il Veronese e finì con la vittoria di Verona in virtù della capacità mostrata da Cangrande di sapersi valere della continuità d’azione che gli derivava dal governo signorile in confronto alle oscillazioni che rendevano meno efficace, anche se più potente, l’azione del Comune di Padova. Dopo lunghe lotte, alla fine Cane poteva conquistare questa città (1328) e così allargare considerevolmente il suo dominio. L’anno seguente conquistava anche Treviso, ma pochi giorni dopo la morte spegneva tanta maschia energia, tante speranze sue e dei suoi seguaci. « Ora egli riposa sopra la porta di Santa Maria Antica di fronte al suo palazzo, nell’urna che porta scolpiti i segni della sua pietà e i ricordi delle città vinte, mentre dall’alto dell’arca lo vediamo ancora a cavallo con la spada in pugno e l’elmo gettato sulle spalle, mostrare il viso splendente per la gioia della vittoria come ai commilitoni entusiasti nei giorni delle più rischiose battaglie » (Simeoni).

    Ponte scaligero sull’Adige a Verona

    Francesco da Carrara sia il Vecchio che il Giovane, turbolenti ed avidi di dominio, ebbero pure verso la metà di quello stesso secolo mire espansionistiche a spese dei vicini e pensarono alla formazione d’uno Stato che servisse d’equilibrio al dominio visconteo. Ma ai Carraresi si opposero i patriarchi di Venezia e di Aquileia; fu in questa occasione che Venezia ebbe Treviso, suo primo possesso di terraferma, mantenuto a protezione del retroterra. Infine all’inizio del secolo XV furono i Visconti, auspice Gian Galeazzo, che vagheggiarono la formazione d’un vasto principato, che avrebbe dovuto allargare il suo dominio su gran parte del Veneto, giungendo fino a ridosso della laguna.

    Finora Venezia, che aveva rivolto di preferenza la sua attività ai traffici, sia coi paesi del Mediterraneo orientale, dove ancora i Turchi non destavano preoccupazioni, sia coi paesi d’Oltralpe, non aveva creduto opportuno intervenire direttamente e occupare in modo stabile la terraferma, dove i suoi concittadini erano intanto andati conquistando vaste proprietà terriere. Tale sua politica non si era in apparenza smentita che ai tempi del Barbarossa e degli Ezzelini, ma, sia in un caso che nell’altro, s’era trattato di abbattere un blocco di forze che potevano chiuderle le vie delle Alpi e impedirle quella libertà di traffici che con tanta oculatezza aveva sempre salvaguardata. Già in quest’epoca c’è qualcuno che teme Venezia e non vede di buon occhio la sua espansione. Un’eco se ne ha in Fra Salimbene da Parma (1221-87) il quale scrive: « Veneti avari homines sunt et tenaces et superstitiosi, et totum mundum velierit; subiugare sibi, si possent; et rusticiter tractant mercatores qui vadunt ad eos… ».

    Tomba di Cangrande della Scala a Verona.

    Raffigurazione di Venezia fra la Giustizia e la Pace.

     

    Ora di fronte al pericolo di veder formarsi alle spalle uno Stato potente, che avrebbe potuto chiudere le vie di transito ai suoi mercanti, il che non poteva temere in passato per l’esistenza di piccoli staterelli, il governo veneziano decise di addivenire all’occupazione del resto del Veneto, impresa che svolgendo un’astuta politica di conquista non presentò eccessive difficoltà e si svolse rapidamente. Fu così unificato un territorio che dalle invasioni barbariche in poi aveva avuto vicende politiche diverse da quelle di Venezia. Sorse in tal modo in pochi anni e perdurò per tre secoli e mezzo uno dei maggiori Stati del tempo, comprendente una regione che già sotto Roma aveva avuto un reggimento unitario, estesa dall’Isonzo all’Adda e dalle Alpi al Po. Già Venezia aveva occupato da alcuni decenni (1338) la Marca Trevigiana. Alla morte di Gian Galeazzo Visconti (1402) potè annettersi Feltre, Bassano, Padova e Verona. Da Sigismondo d’Ungheria, che le aveva fatto guerra ma senza successo, ebbe il Friuli (1420). Vicenza ed altre città decisero di loro spontanea volontà di far parte dello Stato di Venezia.

    Un cenno a parte, date le vicende complesse cui dette luogo, merita l’occupazione del Polesine (detto più propriamente Polesine di Rovigo), il quale aveva allora una estensione minore di ora. Soltanto avvenimenti posteriori fecero infatti aggiungere al territorio primitivo dapprima i paesi al di là del Canalbianco, poi anche Adria e il suo distretto. Fin dalla prima metà del 900 il vescovo di Adria aveva fatto costruire il castello di Rovigo, in posizione opportuna, lontana dal mare, mentre poi altri castelli minori sorsero nella zona nei decenni successivi, i quali dettero luogo alla formazione di piccoli centri (Rovigo, Lendinara, Badia), che cercarono ben presto di svincolarsi dalla soggezione episcopale e di reggersi da sè, ma i vescovi di Adria ricorsero agli Estensi, già in possesso di terre polesane, i quali riuscirono a sottomettere il Polesine.

    Il possesso di questo territorio era importante per Venezia; la sua posizione tra Padova e Ferrara, Stati che Venezia cercò, fin che le fu possibile, di tener a sè fedeli per impedire il formarsi di potenti signorie ai suoi confini, lo rendeva un luogo assai importante, tanto più che le assicurava la libera navigazione sul Po e sull’Adige sui quali fin dal secolo XIII essa aveva acquistato una certa supremazia, percepiva dazi, trasportava sale ed altre merci. Ma anche Padova, dapprima retta a Comune, poi soggetta ai Carraresi tendeva al mare, alle saline, a svincolarsi dalla soggezione commerciale in cui la teneva Venezia e per questo cercava di ottenere un predominio sull’Adige, sottoponendo Lendinara, dominata da varie famiglie, e Badia, che dipendeva dall’abate della Vangadizza. Fu nel 1395 che i Ferraresi si rivolsero a Venezia e le dettero in pegno il Polesine per denaro e per qualche tempo il Polesine venne a trovarsi sotto una doppia giurisdizione; da una parte Venezia coi suoi ufficiali, dall’altra il marchese di Ferrara coi suoi amministratori. Finalmente con la pace del 1405 il Polesine venne ceduto definitivamente dagli Estensi a Venezia.

    Negli anni seguenti, auspice un Doge audace e scaltro che tenne per oltre un trentennio il potere, Francesco Foscari, lo Stato Veneto venne a comprendere anche territori lombardi ed emiliani. Infine la pace di Lodi (1454), l’anno dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi, riconosce a Venezia il confine dell’Adda. Si distinse da allora il territorio della Dominante (Venezia), nel quale rimase inalterata la compagine di reggimento interno, dalla Terraferma, il patriziato veneziano dai sudditi, il governo centrale dall’amministrazione locale. Nelle sue linee generali lo Stato Veneto era compreso tra Po, Adda, Alpi, Isonzo, con dei cunei rappresentati verso nord da una parte del Trentino e verso oriente dall’Istria e dal litorale della Dalmazia. Le province di Terraferma conservarono le proprie leggi, privilegi, costumi in quanto non contrastassero le esigenze dello Stato, contentandosi la Repubblica d’inviare nelle città principali un podestà, scelto tra i patrizi, che presiedeva il Consiglio ed amministrava la giustizia, e un capitano, pure patrizio, che soprain-tendeva alla difesa e alle rendite. Nelle città meno importanti le due cariche si riunivano nella stessa persona. La gestione finanziaria, la giustizia, la difesa facevano capo al governo centrale, al quale i sudditi di terraferma non avevano modo di partecipare. Malgrado questa esclusione, che non mancò di suscitare qualche risentimento in occasione di guerre e di occupazioni straniere, come al tempo della lega di Cambrai, si trattava d’una forma illuminata di reggimento che favoriva le popolazioni rurali, le quali videro migliorare il loro stato. Disse al riguardo Carlo Cattaneo che « fondamento del governo veneto non era il terrore, ma una nobile amicizia dei popoli ». Fu cura costante della Repubblica che gli edifici destinati a ospitare una funzione pubblica, molti dei quali tuttora in uso, assumessero un aspetto esteriore dignitoso che è comune pure alle chiese, ai monumenti e a molti edifici privati. Vennero anche condotte a termine molte opere pubbliche, regolando i corsi d’acqua, iniziando alcune bonifiche (specie nel Polesine e nel Veronese), migliorando la rete stradale. Anche nel campo dell’agricoltura, delle industrie e del commercio furono emanate norme che si dimostrarono utili, anche senza poter apportare un miglioramento sostanziale, trattandosi d’un disagio economico generale.

    Venezia: palazzo Foscari.

    Ma una volta occupati questi territori Venezia sarà fatalmente implicata in tutte le contese che travaglieranno nei secoli successivi l’Italia e l’Europa. Per sventura negli ultimi decenni del secolo XV e nei primi del successivo la politica europea ebbe per campo soprattutto l’Italia e Venezia si trovò ingolfata nella lotta per il predominio. Poi cominciarono a farsi più frequenti i brogli, le consorterie, le discordie, le ambizioni, le prepotenze, gli abusi dei nobili. Nel 1535 il Senato si lamentava che la gioventù nobile « non si dà più a negotiar in la città, nè alla navigation, nè ad altra laudevole industria ». E il Consiglio dei Dieci finì con l’estendere a tal punto il suo potere da acquistare un’autorità quasi sovrana, mentre il Doge diventa ormai un alto funzionario, « che sintetizzava spiritualmente e fisicamente la nazione, ma di questa sintesi era strumento passivo piuttosto che attivo artefice » (Cessi).

    Il Dogado (area punteggiata) e le province venete di terraferma.

    Venezia: Porta della Carta con raffigurato il Leone di San Marco onorato dal doge Francesco Foscari.

    Periodo cruciale per lo Stato Veneto furono i primi decenni del Cinquecento. Una prima fonte di preoccupazioni è da metter in rapporto con le navigazioni dei Portoghesi che con Vasco de Gama avevano raggiunto l’India e con la spedizione di Magellano le Molucche. « Magior damno havia dato — esclama il Priuli nei suoi Diari — queste charavelle de Portogallo a la citade veneta, per haver trovato questo viazo et divertito le spetie, che più non chapitavano a Venezia, che la ruina de l’esercito veneto ». Invano la Repubblica pensò che fosse possibile far riacquistare l’importanza d’un tempo ai suoi traffici mediante il taglio d’una cava attraverso l’istmo di Suez; in realtà le nuove scoperte erano da metter in rapporto con lo sviluppo marinaro e commerciale delle nazioni dell’Europa occidentale in confronto a quelle mediterranee. D’altronde le conseguenze del nuovo orientamento commerciale si rilevarono nei decenni successivi meno gravi di quanto si era dapprima temuto e il commercio con gli Stati europei potè continuare anche in seguito con buoni profitti. Fu piuttosto l’avanzata turca che arrecò maggiori danni e alla fine del secolo XVI del grande impero coloniale veneziano non restavano che poche isole e qualche piccolo territorio. Ma molto più grave fu il pericolo corso dalla Serenissima in seguito alla guerra che le mossero gli Stati confinanti, resi sospettosi dal suo rapido ingrandimento che prima o poi, se quella « insaziabile cupidigia » e quella « politica spregiudicata » di cui la incolpavano fosse perdurata, avrebbe potuto minacciarli. Mentre invece le ragioni per le quali Venezia aveva ritenuto opportuno estendere il suo dominio sulla terraferma erano giustificate dal fatto che si era avuta un’evoluzione politica ed economica dalla quale essa non poteva estraniarsi. La coalizione prese il nome di Lega di Cambrai e Venezia ebbe nel vecchio Doge Leonardo Loredan il capo abile ed animoso che seppe tener fronte all’intera Europa, in modo da giungere, più ancora per il sottile lavorìo diplomatico dei suoi legati che per vittorie militari, a quella pace di Noyon (1516) che lasciò a Venezia quasi tutti i possessi di terraferma. Una città che aveva vinto l’Europa poteva, afferma il Sigismondi, riputarsi immortale. Ma i sacrifici che essa aveva dovuto sostenere erano stati immensi e soltanto le ricchezze accumulate nei secoli passati permisero di far fronte ai bisogni che incombevano da ogni parte. Data da questo periodo la maggior importanza assunta nell’economia veneziana della proprietà fondiaria e i tentativi di migliorare le colture. Dalla metà del secolo XVI è infatti quella riforma agraria che è consistita nel controllo da parte dello Stato di tutte le acque di terraferma e nella costituzione dei primi consorzi di bonifica (1562).

    Vedi Anche:  Costumi, tradizioni e parlate venete

    Decadenza e fine della Serenissima

    Dopo aver corso tanti pericoli e aver speso somme ingenti per far fronte alle esigenze militari del momento, Venezia esce dalla lotta, che si concluse dopo alterne vicende con la pace di Noyon (agosto 1516) in apparenza vittoriosa, ma prostrata ed esausta. Il periodo che segue, caratterizzato all’esterno da un continuo indietreg-giamento di fronte al prevalere degli Ottomani, vede la Repubblica, riacquistata in modo duraturo la sovranità sul suo dominio di terraferma, seguire una politica difensiva che mira a conservare nel Veneto i possessi acquisiti, decurtati tuttavia del Trentino e di alcuni passi importanti, come quello di Cóvolo nel Vicentino e di Buttistagno (o Podestagno) nel Cadore, senza poter impedire tuttavia, durante le guerre di successione, che eserciti stranieri invadessero il suo territorio e portassero danni a città ed a campagne. Ma era ancora abbastanza forte per imporre rispetto alle grandi potenze di quell’epoca. Una prova si ebbe nella contesa con la Sede Papale che all’inizio del secolo XVII vide la Repubblica difendere strenuamente i suoi diritti contro le ingerenze pontificie che avrebbero voluto intromettersi nelle faccende del suo governo, mentre invece prevalse quel principio che venne solennemente proclamato da Paolo Sarpi « dover la Chiesa obbedire allo Stato nel temporale e questo a quella nello spirituale, ma conservando ciascuno i propri diritti ». Quali cause si possono attribuire a questa lenta decadenza, che avrebbe finito per essere fatale alla vita stessa dello Stato? In primo luogo il declino commerciale, che è da metter in rapporto sia con le nuove vie marittime battute dagli Spagnoli e dai Portoghesi, sia con l’avanzata sempre più minacciosa dei Turchi che aveva fatto chiudere i fondachi e declinare i commerci: con la caduta di Candia (1669) la sua influenza commerciale definitivamente tramonta. Al principio del secolo XVII Gian Francesco Priuli aveva formulato con sgomento « esser del tutto estinta la mercanzia e la navigazione del Ponente ». E la crisi commerciale ebbe funeste conseguenze nelle industrie e nelle finanze, anche se la Repubblica mantenne ancora per qualche decennio rapporti col Levante e soprattutto con la Siria. Poi la debolezza militare, mancando essa di armamento e di soldati, avvezzi a fronteggiare in battaglie terrestri gli agguerriti eserciti dell’epoca, per cui essa preferì proclamare la neutralità armata piuttosto che cimentarsi in altre contese, tanto più che le mancava pure il sussidio d’una squadra navale, capace di mantenere il dominio del mare. Poi nell’ultimo periodo non mancò di agire in senso sfavorevole il latente contrasto tra il governo, mantenutosi rigidamente aristocratico, e il popolo, influenzato dalle nuove idee, diffuse dalla Rivoluzione francese. Invano il governo cercò di attuare dei miglioramenti sociali e delle riforme amministrative, ma ci voleva ben altro per adeguarsi ai nuovi tempi e far fronte alla bufera incalzante. Un saggio provvedimento sarebbe stato quello di allargare il governo, che era rimasto nelle mani di pochi, ai commercianti più avveduti e ai nuovi ricchi e di far partecipare all’esercizio delle alte cariche la nobiltà di terraferma, in modo da conseguire una solidarietà di interessi che invece mancava. D’altra parte il popolo vedeva nel governo della Dominante il simbolo dello Stato, quasi un emblema di giustizia e di sovranità, dal quale era tenuto lontano e soprattutto i giovani mordevano il freno per l’incomprensione degli anziani, troppo legati alla tradizione. S’avvicina così il momento delle decisioni supreme e la sua caduta s’inquadra nel diffondersi delle idee democratiche suscitate dalla Rivoluzione francese e nella lotta tra Bonaparte e l’Impero Austriaco. Per quanto moltissimi uomini fossero stati richiamati sotto le armi e la flotta fosse in pieno assetto di guerra, la Repubblica preferì evitare di parteggiare per uno dei contendenti e scegliere la tattica della neutralità. Ma perchè questo potesse servire a difenderla occorreva fosse decisa ad opporsi alle eventuali prepotenze degli invasori. E invece «Venezia dopo 14 secoli circa — commenta G. B. Contarini che era allora podestà di Crema — con 1200 bocche da fuoco, con più di 100 bastimenti da guerra armati in porto e nell’estuario, con più migliaia di uomini di truppa, perì, oh fatto indegno, senza lo scarico di un fucile ». Nel 1789 era salito alla dignità dogale Ludovico Manin, uomo fiacco e inetto, un Friulano che era tra quei pochi che erano stati accolti di recente nel libro d’oro della nobiltà. Con la sua condotta pusillanime egli contribuì non tanto ad accelerare la fine della Repubblica, coinvolta in avvenimenti dai quali non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi, quanto a renderne indecorosa la caduta.

    « Consilii Majoris consessus ». Incisione da Thesaurus antiquitatis et historiarum Italiae (Lugduni Batavorum, 1722).

    Pianta della città di Venezia e d’una parte della laguna, incisione di G. Porro, 1576.

    Partendo per la campagna d’Italia Napoleone non aveva probabilmente un piano preciso sulla politica da seguire e non aveva di mira di abbattere la Repubblica Veneta, ma la debolezza degli uomini al potere gli prestò il destro a cedere il suo territorio all’Austria. Stando così le cose, e tenuto conto che se la maggioranza del popolo era ancora fedele al governo di San Marco, v’era pure una minoranza che sperava di poter instaurare una nuova Repubblica Veneta democratica all’ombra del tricolore francese, i belligeranti non ebbero scrupolo di violare la neutralità veneziana e di trasformare i domini della Repubblica in teatro di battaglia.

    A Napoleone (che nel frattempo aveva già segretamente ceduto il Veneto all’Austria negli accordi di Leoben, che precedono di qualche mese il trattato pubblico di Campofórmido dell’ottobre 1797), il pretesto di intervenire venne dato da una rivolta scoppiata a Verona che prese il nome (datogli da Bonaparte) di Pasque Veronesi, per accostarlo al massacro dei Vespri Siciliani. E opportuno, date le conseguenze che ha avute, soffermarci brevemente su questa rivolta, sulla scorta di quanto ne ha scritto il Simeoni.

    Thiene. Palazzo Porto Colleoni detto Castello di Santa Maria ricostruito nella seconda metà del XV secolo in stile gotico rinascimentale.

    All’aprirsi della primavera del 1797, l’indignazione della popolazione veronese, spesso vittima di violenze, era al colmo; e ad esasperare questo sentimento, si aggiungevano l’orrore per l’irreligione dei Francesi e la loro chiara aspirazione a far ribellare la città, come era avvenuto a Bergamo e a Brescia, servendosi dei cittadini simpatizzanti. L’inerzia del governo veneto e dei suoi rappresentanti spingeva necessariamente la popolazione a cercare di provvedere da sè alla propria difesa. Verso il marzo si delineò il pericolo di un’invasione nel Veronese. I rettori veneti, spinti dai capi della cittadinanza, decisero di resistere con la forza, e costituirono un esercito a custodia del territorio da Malcésine al confine ferrarese. Questa reazione popolare e questa condotta meno debole del governo, dovevano creare anche nei Francesi delle preoccupazioni, data l’impresa temeraria (anche se fortunata) in cui si era cacciato l’ambizioso Bonaparte, spingendosi fra le Alpi austriache. Nella popolazione si radicava sempre più la convinzione che un colpo di mano francese era imminente, e il sospetto e la tensione degli animi erano tali, che difficilmente uno scoppio si poteva evitare. Nel pomeriggio del lunedì di Pasqua si accesero delle risse fra le pattuglie, ma questi incidenti, che una intesa avrebbe potuto impedire o soffocare, spinsero invece il comandante francese ad eseguire la minaccia di bombardare la città dal Castel San Pietro dove si trovava. A quest’ultima prepotenza, il rancore compresso si mutò in furore disperato. Le campane suonando a stormo risposero al rombo del cannone e cittadini, villici e soldati si gettarono con rabbia addosso alle pattuglie e ai corpi francesi sparsi per la città, che solo con perdite poterono salvarsi nei castelli. Si iniziava così una lotta eroica, ma senza speranza. Malgrado i suoi sforzi, la popolazione male armata non poteva conquistare i castelli, nè impedire le sortite francesi e il 20 aprile, tre giorni dopo il lunedì di Pasqua, la città era circondata dalle truppe, e non rimaneva che capitolare alle autorità francesi. E alla municipalità veronese nominata al posto dell’altra, per quanto disposta ad accettare « la libertà », toccò il compito doloroso di eseguire le feroci condizioni imposte dal Bonaparte. Ma questo duro procedere aveva motivi politici. Egli non conosceva il moto veronese quando nelle trattative di Leoben (concluse il 18 aprile) cedeva segretamente la Venezia all’Austria, per cui l’episodio veronese gli offerse questa giustificazione e gli risparmiò la pena di creare un motivo per rompere con Venezia, già da lui tradita. Non era trascorso un mese dalla caduta di Verona che anche Padova e Vicenza accolsero le nuove idee e licenziarono i rettori veneti. Al governo centrale Napoleone aveva richiesto che l’antica costituzione venisse mutata e adeguata ai nuovi tempi. Il Maggior Consiglio, in una seduta tumultuosa (12 maggio 1797) nella quale mancava perfino il numero dei presenti per poter esser legale, accondiscese a grande maggioranza alla nomina d’un governo provvisorio popolare. Ma la Repubblica Democratica, ligia ai voleri del prepotente vincitore, ebbe solo pochi mesi di vita e il suo territorio venne spartito tra l’Austria, che ebbe il Veneto, e la Repubblica Cisalpina, che si aggregò i territori lombardi. E dopo la breve parentesi (1805-15) del Regno Italico, tutto il Lombardo-Veneto, in seguito al trattato di Vienna, venne a far parte dell’Austria. Scompariva così dalla scena politica del mondo la gloriosa Repubblica, « invidiata e ammirata durante lungo volger di secoli per le audaci imprese guerresche, per le virtù civiche, per la misurata sapienza del suo reggimento » (Bratti).

    Palazzo dei Capitani del Lago a Malcésine con le insegne dei magistrati della Serenissima che dal 1500 al 1700 amministrarono la regione gardesana. Oggi sede del Comune.

    I Francesi entrano a Venezia (16 maggio 1797).

    Dal dominio austriaco ai giorni nostri

    Venuto a far parte del Regno Lombardo-Veneto, il territorio dell’antica Repubblica, che aveva goduto d’una tal quale libertà, venne incorporato in un organismo politico avente una struttura amministrativa e militare alquanto rigida, che faceva capo al governo centrale, residente a Vienna. L’Austria mise subito da parte i fautori del nuovo ordine di cose, per quanto essi le avessero spianato la strada, e gradì invece l’omaggio di alcuni rappresentanti del vecchio regime aristocratico, i quali rinnovarono a favore dell’imperatore austriaco quell’atto di abdicazione che in precedenza il Maggior Consiglio aveva pronunciato a favore della democrazia. Dopo la decennale parentesi del Regno Italico, il dominio austriaco si esercitò attraverso un viceré, il quale potè giovarsi dell’appoggio degli elementi reazionari, i quali temevano potessero di nuovo prevalere le idee liberali della Rivoluzione francese, mentre d’altro canto vasti poteri vennero delegati alla polizia, che introdusse sistemi di controllo contrari all’indole degli abitanti. Anche i militari, soprattutto nelle città che avevano importanza strategica, come i centri del Quadrilatero, esercitarono una influenza notevole; così Verona non solo divenne un’importante piazzaforte, protetta da una moderna cinta di forti, ma anche un ben munito campo trincerato. E questa formidabile linea difensiva, anche se non vi furono occasioni perchè servisse, contribuì certo ad arrestare dopo Solferino gli eserciti franco-piemontesi, mentre poi nel 1866 facilitò l’ardita manovra che permise agli Austriaci, i quali avevano le spalle sicure, di vincere a Custoza.

    Se il popolo potè giovarsi, durante il governo austriaco, d’una buona amministrazione, per quanto eccessivamente fiscale, e Venezia potè trarre qualche vantaggio dall’istituzione del porto franco (1830), che attenuò la vivace concorrenza esercitata da Trieste, gli elementi più colti cominciarono a morder il freno, a riunirsi segretamente, a cospirare, a partecipare a quei movimenti patriottici che avevano ramificazioni in ogni parte d’Italia. E queste idee, che dapprima furono retaggio di pochi, mano a mano si diffusero, penetrarono anche negli elementi più evoluti del popolo, che spesso dovettero scontare col carcere, con la deportazione e talvolta perfino con la morte la loro aspirazione a costituire uno Stato che fosse retto da Italiani e non da stranieri. Queste stesse idee, che fomentavano proteste e ribellioni, erano del resto comuni ad altre popolazioni dello Stato austriaco, Ungheresi, Croati, Boemi, come si vide nel 1848, quando l’insurrezione scoppiò proprio a Vienna. I patrioti veneziani, capitanati da Daniele Manin ne approfittarono per costringere gli Austriaci ad abbandonare in fretta e furia la città (21 marzo 1848) e per proclamare la Repubblica. Le altre città (salvo le piazzeforti del Quadrilatero: Verona, Legnago, Peschiera) non tardarono di seguirne l’esempio e nel luglio di quello stesso anno, entrato il Piemonte in guerra con l’Austria, il Veneto si schierò al suo fianco e proclamò la sua annessione. Venezia scrisse allora alcune delle pagine più belle della storia del nostro Risorgimento perchè, venute meno le speranze di liberarsi dagli Austriaci dopo la dura sconfitta subita dai Piemontesi a Novara, essa dichiarò la resistenza ad ogni costo e, dopo cinque mesi di lotta, solo la fame e il colèra poterono fiaccare il suo eroismo. Poi per un decennio il popolo veneto dovette nascondere le sue aspirazioni e attendere tempi migliori, che sembrarono venuti quando gli eserciti di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III si erano mossi per combattere l’Austria e unificare l’Italia settentrionale: l’armistizio di Villafranca, che portò il confine al Mincio, ritardò di altri sette anni l’annessione del Veneto allo Stato italiano che potè avvenire soltanto con la terza guerra dall’Indipendenza (1866). Le amare sconfitte di Lissa e di Custoza non influirono sull’esito finale del conflitto, che vide l’Austria, battuta duramente dalla Prussia sui campi di Sadowa, costretta ad abbandonare il Veneto (Friuli compreso). Un plebiscito trionfale sanzionò l’annessione del Veneto all’Italia: 674.426 favorevoli e soltanto 69 contrari.

    Cessione di Venezia (1866): il generale Leboeuf, commissario francese, entra a Venezia, accompagnato dal generale italiano, il conte di Revel. Da un disegno di Martineau del Don (Roma, Museo centrale del Risorgimento).

    Guerra 1915-18. La passerella n.11 sul Piave.

    L’Ossario del Montello.

    Il Veneto non ebbe difficoltà a inserirsi rapidamente nello Stato italiano; l’agricoltura trasse vantaggio dalle bonifiche eseguite nel Veronese e nel Polesine, l’industria cominciò a ricavare profitti dall’intensificarsi dei traffici marittimi, il commerciò si giovò delle migliori comunicazioni, le città, e soprattutto Venezia, cominciarono ad attrarre folle sempre più numerose di forestieri. Il confine con la monarchia austro-ungarica non era però costituito da ostacoli naturali, ma — pur ricalcando la secolare frontiera tra la Repubblica Veneta e l’Austria segnata da cippi che in qualche caso ancora sussistono — s’appoggiava per lo più su dorsali prealpine poco rilevate e in molti casi abbandonava la linea di cresta, tagliando senza giustificazione la testata di alcune valli. Particolarmente sfavorevole era la situazione lungo l’Adige dove, attraverso il Trentino, l’Austria si affacciava poco a monte di Verona fin quasi alla pianura. Tra il 1915 e il 1918 il Veneto si trovò di nuovo impegnato nella lotta contro il secolare nemico e a partire dall’autunno 1917, in seguito all’arretramento del fronte che seguì alla rotta di Caporetto, parte del territorio fu occupato, parte diventò campo di battaglia e subì danni e distruzioni, mentre poi buona parte della popolazione delle campagne e delle città fu costretta ad andar profuga in altre regioni d’Italia. Il contegno della popolazione veneta fu in questa circostanza superiore ad ogni elogio e se il Grappa ed il Piave divennero in seguito famosi per aver arrestato la marcia degli eserciti nemici, parte del merito va pure allo spirito di resistenza e di sacrificio degli abitanti. Poi la vittoria sul Piave e l’occupazione di Vittorio Veneto costrinsero l’esercito austriaco a ripiegare e l’armistizio firmato a Villa Giusti presso Abano, entrato in vigore il 4 novembre 1918, sanzionò la liberazione definitiva del Veneto. Le vicende successive son note a tutti e basterà un cenno per ricordarle alla memoria. Nella seconda guerra mondiale (1940-45) il Veneto fu risparmiato dagli eserciti combattenti, ma subì invece una serie di pesanti bombardamenti aerei che causarono gravi danni soprattutto a Treviso, Verona, Vicenza e Padova, dove monumenti artistici di notevole importanza andarono perduti. Anche qui la lotta partigiana, che aspirava a porre fine all’oppressione tedesca, ebbe i suoi eroi che col loro sacrificio accelerarono il ricongiungimento definitivo del Veneto, quando nell’aprile 1945 scoppiò l’insurrezione generale, al resto dell’Italia.