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Le regioni del veneto

    Le regioni del veneto

    Aspetti della zona lagunare

    Tra il delta del Po e la foce del Tagliamento la regione veneta viene in rapporto col mare non già direttamente, ma attraverso una fascia di lagune, che costituiscono un ambiente anfibio del tutto particolare. Per spiegare gli aspetti caratteristici della regione lagunare veneta occorre richiamare alla mente le condizioni dell’Alto Adriatico, che presenta maree piuttosto considerevoli (le quali possono raggiungere un metro d’ampiezza, ma normalmente sono minori), l’azione del moto ondoso sul fondo marino debolmente declive e l’apporto cospicuo di torbide da parte dei fiumi. In epoca romana le lagune dovevano avere maggior estensione e assai più si sarebbero ridotte se l’uomo non avesse ostacolato il loro interrimento. Esso non è infatti rimasto inerte alle azioni della natura, ma è intervenuto fin dalle epoche più antiche in vario modo: deviando i fiumi troppo carichi di torbide, dando forma regolare alle rive e consolidando i lidi sabbiosi.

    Il territorio lagunare spetta per la massima parte alla provincia di Venezia, di cui occupa la quarta parte. Si sogliono distinguere in esso le lagune vive (290 kmq., di cui 10 di isole, per lo più consolidate per opera dell’uomo), formate dagli specchi d’acqua più esterni, soggetti direttamente alla marea e alle correnti che essa provoca, dalle lagune morte (300 kmq., per metà occupati da valli da pesca), poste in posizione più interna, dove prevalgono le terre scoperte (105 kmq.) in confronto agli specchi d’acqua (42 kmq.), i quali risentono solo limitatamente l’azione delle maree, tanto che le acque salmastre si rinnovano molto lentamente.

    La Laguna veneta col Padovano e la Bassa Trevigiana. Incisione in legno di Cristoforo Sabbadino (circa 1552).

    La laguna principale, ora che le opere di bonifica hanno prosciugato o ristretto le altre, è la Laguna veneta, che si suol distinguere in Laguna di Chioggia, di Malamocco e di Venezia (cui qualcuno aggiunge le Lagune di Treporti e di Sant’Erasmo). In essa, che è lunga una cinquantina di chilometri e larga da 8 a 14, scorrono diversi canali, che hanno inizio presso le aperture della laguna verso il mare (« porti »), dove si osservano le maggiori profondità; da queste bocche, che ora sono tre mentre un tempo erano sette, i canali principali si diramano poi verso le zone lagunari interne con canali minori (rii), che perdendo di larghezza e di profondità possono metter capo alle foci lagunari dei fiumi di terraferma oppure hanno termine al margine della laguna morta (ghebbi). In complesso la laguna risulta solcata da circa 800 km. di canali, in parti eguali nella laguna viva e nella laguna morta, di cui 150 sono navigabili. I canali maggiori, i cui orli sono limitati da pali (bricole) e che spiccano per color scuro tra il verde delle zone meno profonde, hanno notevole importanza perchè essendo abbastanza profondi (4-5 m. e in casi eccezionali fino a 10) permettono la navigazione anche a navi di dimensioni notevoli. Invece tra canale e canale le acque sono poco profonde e solo barche leggere (sandoli o topi) possono traversarle quando la marea lo permette, dato che ad acque basse il fondo risulta emerso. Gli isolotti fangosi o melmosi tra canale e canale, temporaneamente scoperti dalle acque, prendono il nome di veline, mentre si dà quello di barene alle aree erbose che normalmente non vengono sommerse dall’alta marea; sacche si sogliono invece chiamare gli isolotti artificiali formati con materiale di scavo. Emergono poi numerose isole, che gli abitanti hanno adibito a funzioni diverse: dimore di pescatori, luoghi di romitaggio per monaci, dimora per malati e di riposo per morti, difesa contro gli invasori e contro le furie del mare. E per lo più una parte è riservata a colture. La soppressione di chiese e conventi all’epoca napoleonica ha fatto abbandonare varie isole, mentre altre sono state adattate a caserme o a depositi militari. Ma le più vicine alla città, come Murano e Burano, di cui sarà fatto cenno in seguito, seguirono le sorti di Venezia e conservano molti resti che ricordano il passato splendore. Le correnti di marea hanno una funzione molto importante, dato che mantengono in efficienza i canali interni e li tengono puliti, per il fatto che le correnti d’uscita, arricchite dalle acque fluviali, risultano più intense di quelle d’entrata. I canali hanno invece solo limitata importanza nella laguna morta (che si dovrebbe dire meno viva), dove le correnti sono poco efficienti e possono tutt’al più smuovere i detriti e le sabbie.

    Venezia. Rio e fondamenta nella parte settentrionale della città (S. Alvise). Anche nei quartieri periferici compaiono case ben costruite con poggioli marmorei.

    Venezia e la sua laguna.

    Veduta aerea della Laguna di Venezia con l’isola di San Giorgio ed il « Teatro verde ».

    I lidi sabbiosi che separano la laguna dal mare si presentano continui nel margine rivolto al mare aperto, irregolari e più o meno sfrangiati verso la laguna e ingrossati alle estremità; essi sono rafforzati coi materiali che si scaricano in mare attraverso le bocche lagunari (simili per questo riguardo alle foci dei fiumi) e se questi vengono a mancare prevale l’azione demolitrice del mare, e allora devono essere consolidati dall’uomo dapprima con palizzate, speroni e argini, poi con i murazzi. Si dà questo nome a quegli enormi muraglioni, ideati dal cosmografo Vincenzo Coronelli, lunghi 4 km., dello spessore alla base di 14 m., alla costruzione dei quali si attese per 38 anni. L’alterno movimento delle maree veniva utilizzato in passato per azionare dei mulini da grano, ma poiché essi rendevano meno attiva la benefica azione delle correnti, sono stati rimossi e lo stesso è stato fatto di tutti gli altri ostacoli che si frapponevano al libero scorrere delle acque, aiutando in qualche caso con l’opera delle draghe l’azione naturale. Si è pure provveduto a mantenere libere ed efficienti le bocche tra mare e laguna (conformemente al detto « gran porto fa gran laguna »), a deviare da essa i fiumi carichi di alluvioni (da ultimo il Brenta, espulso dalla laguna nel 1896), lasciando invece libero afflusso alle limpide acque dei corsi di risultiva, a risanare le sponde della laguna morta e a utilizzare vaste barene, creando nuove valli da pesca. Era questa di preservare la laguna un’opera di religiosa difesa della Patria. Lo riconoscevano perfino i Magistrati delle acque che sulla famosa iscrizione dettata nel Cinquecento dall’umanista Egnazio, incisa sul marmo e murata nel loro ufficio, come monito perpetuo, proclamavano « nemico della patria chi in qualunque modo recasse danno alle pubbliche acque, come colui che violava le sacre mura della patria, di questa divina città che sorta sulle acque, sulle acque trovava la sua eterna difesa ». Come abbiamo fatto cenno, in passato la laguna comunicava col mare attraverso un numero maggiore di aperture. I Veneziani si sforzavano di mantenere in vita il porto del Lido, poco curando che gli altri fossero sbarrati dagli eventi naturali. Fin dalla metà del Trecento venne ostruito il porto di Sant’Erasmo e alla fine dello stesso secolo a causa dei detriti portati da un ramo del Brenta venne chiuso anche l’antico porto di Albiolo, detto allora di Porto-secco. Due secoli dopo la stessa sorte toccò al porto di Treporti, che costituiva la bocca più settentrionale della laguna. In epoca recente notevole importanza ha avuto soprattutto la costruzione (1914), in corrispondenza al porto di bocca di laguna di Malamocco, di due grandi dighe (di 2122 e 956 m.), normali all’imbocco e distanti tra loro circa mezzo chilometro, con le quali è stata aumentata l’efficacia delle correnti lagunari contrastando la formazione della barra sabbiosa.

    Veduta aerea di Murano.

    Uno scorcio di Burano

    Dato il buon esito ottenuto a Malamocco, anche alla bocca del Lido è stata costruita una doppia diga di oltre 3 km. di lunghezza, alla distanza di 900 m., e la corrente di marea non solo ha rimosso lo scanno che ostruiva quasi del tutto l’imbocco, ma ha eroso in tal modo l’alveo da creare fondali adatti al transito anche dei maggiori piroscafi. E il Magistrato alle acque attende di continuo a proteggere e a difendere la vita delle acque lagunari.

    In questo ambiente anfibio l’insediamento è di antica data e in posti appartati, in parte ricoperti dalle alluvioni, appaiono silenziose e immobili le rovine d’antiche città, di alcune delle quali rimane appena il nome, come è il caso di Eraclea, fondata in onore dell’imperatore Eraclio tra Piave e Livenza, centro amministrativo del dominio bizantino, detta madre di Venezia perchè alla fine del secolo VII vi fu eletto il primo doge e fu sede dei dogi sino alla metà del secolo VIII. Le lagune, che in epoca romana avevano visto sorgere alcune ville, tanto che Marziale paragona il lido d’Aitino al Golfo di Napoli, sarebbero rimaste probabilmente in disparte dalla vita urbana e popolate solo da pescatori e da pastori, se, come abbiamo avuto occasione di vedere nel capitolo storico, non fossero venuti a cercarvi rifugio profughi dalla terraferma, i quali, distrutte le loro città dalle orde degli invasori, prima gli Unni di Attila e poi i Longobardi, trovarono nelle isolette lagunari una seconda patria. Seguendo il Lémene gli abitanti di Concordia si rifugiarono a Càorle, che fiorì fino al secolo XI, gli Altinati lungo il Sile e lo Zero raggiunsero Torcello, che fu prima eli Venezia il principale centro lagunare, prospero per traffici, altri ripararono a Jésolo, che fino all’alto Medio Evo è stata un’isola, incorporata poi nella terraferma tra Piave e Sile. Le vicende morfologiche, con l’interrimento delle lagune più settentrionali, e le controversie umane, specie il contrasto tra Jésolo ed Eraclea (che agevolò lo sviluppo di Malamocco, dove tra il 742 e l’8io trasferirono la loro residenza i dogi) e la distruzione di Chioggia da parte dei Franchi (810), favorirono il popolamento di Rialto, nucleo originario di Venezia. Di questa città, dei principali centri lagunari e di Chioggia saranno messi in rilievo i caratteri peculiari, strettamente connessi con l’ambiente anfibio, nel capitolo seguente.

    La laguna di Torcello.

    Veduta della Laguna di Venezia a Pellestrina

    Oltre che sulla pesca, di cui abbiamo fatto cenno altrove, l’economia della zona lagunare si basa sulle colture intensive ed i suoi orti sono un mirabile esempio di trasformazione operata dall’uomo in terreni ritenuti di scarso valore, ma ricchi di calce, fosforo, potassa, data la presenza di conchiglie e di residui marini. « Luoghi cui non offrì natura, ma fondò l’arte dell’uomo » aveva già detto Cassiodoro nel 538. « Le sabbie paiono sterili, ma l’abbondanza di talli d’alghe e di dermascheletri di molluschi e crostacei marini, unita alla varietà della composizione mineralogica, dipendente dalla litologia dei bacini idrografici da cui provengono, offrivano un certo numero di possibilità colturali. Le ortaglie, che richiedono grandi cure, e anche gli alberi da frutto, le viti e il mais che per le esigenze colturali loro assomigliano, potevano con profitto coltivarsi in un terreno così fatto, che l’uomo pazientemente andò spianando e concimando » (Lorenzi). La trasformazione è avvenuta in epoca recente e mentre nel 1870 solo 370 ha. nei dintorni di Chioggia erano coltivati a orto, ora superano i 2200 ha. e circa il doppio se ne trovano nell’intera provincia di Venezia lungo le sterili formazioni dunose, i tomboli, gli arenili che si estendono dal Piave all’Adige; basterà ricordare Murano, Torcello, Portosecco, Pellestrina, Poveglia, da dove la coltura si è estesa anche nella zona deltizia e verso la terraferma a Jésolo, al Cavallino ed a Cavàrzere, come pure nel Polesine verso Rosolina, Donada, Contarina. Per poter creare l’orto è necessario in primo luogo proteggere le colture dal vento e dalla sabbia costruendo dei ripari sotto forma di dune, le quali assorbono le acque piovane e mantengono l’umidità; dietro di esse si sviluppa la vegetazione orti va, difesa anche con cannicci provvisori (arelle o grisiole) ; ivi la proprietà risulta molto suddivisa e l’estensione degli orti modesta, per cui la coltura può esser molto accurata ed eseguita a mano, con la vanga. Alla mancanza di azoto si provvede con le spazzature di Venezia e con concimi, a far fronte alla siccità nei periodi più caldi con acqua portata per mezzo di barche dai canali dell’interno, ma non sempre questo è necessario, essendo la falda poco profonda (50-60 cm.). Si è andato così determinando un modo di vita del tutto particolare (delle colture ortensi), dato che i marinanti (cioè gli abitanti di Sottomarina), si recano al lavoro ogni mattina con piccoli battelli a vela (topi), carichi di attrezzi e di concimi, e con lo stesso mezzo la sera trasportano i prodotti, che si seguono nel corso dell’anno e che sono principalmente patate primaticce (raccolte a maggio, largamente esportate), cavolfiori, cipolle (agosto), zucche, verze (inverno).

    La regione di bonifiche recenti fino al Tagliamento

    Profonde modificazioni, dovute all’attività umana, hanno mutato la fisionomia anche a quelle terre che si estendono verso la foce del Tagliamento, dove sono state eseguite in epoca recente grandiose opere di bonifica, trasformando in campi di grano zone palustri o che tutt’al più erano utilizzate come « valli da pesca » ; queste ultime occupano tuttora nella provincia di Venezia circa 150 chilometri quadrati. Nel Medio Evo il litorale sabbioso era rivestito di pinete e la regione retrostante era occupata da querceti, di cui rimangono dei residui da Mestre a Latisana. Ad essi si associano anche canneti e praterie, per cui si presentavano condizioni favorevoli all’allevamento dei suini, dei cavalli, degli ovini transumanti. Vi erano anche chiese, abitazioni, colture. Ma poi sia per un lento abbassamento del suolo, sia per il sovralluviona-mento causato dai corsi d’acqua si ebbe un processo d’impaludamento e vaste zone risultavano fino a poco tempo fa incolte. Vi sono stati anche mutamenti idrografici che hanno fatto spostare il corso inferiore del Piave; la foce correva per buon tratto parallela alla costa, ma l’erosione marina pochi anni or sono ha tagliato il cordone costiero e aperta la bocca attuale. Per sistemare il terreno sono stati intrapresi dei grandi lavori e allo scopo, una volta arginati gli spazi da bonificare, vengono usate con buoni risultati le idrovore. Tra le maggiori bonifiche si ricordano quella tra il Lémene, la Livenza e la tenuta San Gaetano dei Franchetti (91,2 kmq.), quella del bacino in destra del Lémene (65,7 kmq.), quella tra Piave Nuova, Piave Vecchia e il mare (79,9), quella vastissima tra Piave Nuova e Livenza (387,1), quella della Fossa Monlesana e Foresto Grande (253). Carattere che contraddistingue le zone di bonifica recente è la scarsità di abitazioni, consistenti in grandi fattorie che alle spalle di Jésolo prendono i nomi di Ca’ Redenta, Ca’ Florida, Ca’ Risorta, Ca’ Rinascita, ecc., la quasi assoluta mancanza di filari di alberi e di siepi lungo le vie ed i canali, la disposizione delle opere umane in grandi sistemi ortogonali a maglie regolari, l’impiego su larga scala di macchine agricole, l’esercizio della caccia. Esaminando con attenzione le carte topografiche è abbastanza agevole riconoscere le tappe attraverso le quali si è effettuata la trasformazione; così nella zona retrostante a Càorle i terreni lungo la Livenza sono bonificati da più tempo, quelli percorsi da canali che mettono capo alle idrovore sono di bonifica recente e accanto ve ne sono ancora allo stato palustre. L’incremento demografico è stato molto considerevole specialmente tra Piave e Piave Vecchia nella zona di Cavazuccherina. Questa nell’agosto 1930 ha abbandonato il nome che ricordava Alvise Zuccarini, idraulico vissuto a cavallo del 1500, ed ha ripreso il nome antico di Jésolo, che era con tutta probabilità un presidio marittimo di Roma, ravvivato dai profughi di Oderzo, che la chiamarono Equilium. Era allora in un’isola che l’interrimento ricollegò alla terraferma e, assai danneggiata dalle ultime invasioni, decadde definitivamente con l’ampliarsi dell’orizzonte politico di Venezia e col progressivo interrimento causato dai fiumi, ma rimase sede vescovile fino alla metà del secolo XV; essa si trova sulla sinistra della Piave Vecchia, 4 km. dall’Adriatico, dove si è sviluppata una stazione balneare, molto frequentata soprattutto da stranieri. I comodi raccordi stradali in direzione dei valichi alpini e l’attuale sviluppo dei mezzi motorizzati di comunicazione hanno portato a queste spiagge, che sono tra le più vicine al centro dell’Europa, un’invasione di bagnanti. La bonifica vi ha determinato un cambiamento nell’attività economica e i pescatori sono diventati ortolani ed i marinai agricoltori. Gli abitanti, da 2905 nel 1871 sono passati a 14.065 nel 1947, per cinque sesti in case sparse. Càorle è paese tipicamente lagunare con una popolazione di pescatori, con case pittoresche attorno ad una darsena cui le vele dei bragozzi e il movimento delle barche in arrivo dànno un sapore estremamente vitale. Ora si è sollevata dalla decadenza ed ha visto aumentare celermente i suoi abitanti, per quanto non manchino nel suo territorio le lagune ed i terreni incolti. Come altre isole del ducato veneziano, era stata popolata (secoli V-VII) da profughi del continente e aveva avuto una discreta importanza (attestata anche dalla sua bella cattedrale in stile romanico primitivo) per la sua posizione sulla via d’acqua che dall’emporio di Rialto approdava ai luoghi dove mettevano capo le vie terrestri transalpine. Poi le condizioni fisiche si modificarono, l’isola si ricongiunse alla terraferma, le comunicazioni, a causa delle paludi furono rese sempre più difficili, fino a che l’opera di bonifica non venne in suo soccorso. Essa si trova presso la foce del Livenza, che sbocca nel mare aperto con un estuario. Perdura viva l’attività peschereccia, per quanto il porto si vada insabbiando, ma Càorle è soprattutto centro d’una regione redenta dalle acque; possiede inoltre pur essa una piccola stazione balneare sull’Adriatico. Notevole incremento ha avuto dal 1919 anche la bonifica dell’Ongaro inferiore, tra Livenza e Piave (116 kmq.), che comprende il comune di Grisolera (con parte dei comuni vicini di Càorle e di Torre di Mosto); sono sorte centinaia di grandi aziende, i seminativi (specie cereali e barbabietole) hanno avuto un forte incremento, i bovini sono passati da 1125 a oltre 10.000 e gli abitanti da 2390 nel 1901 a 11.132 nel dicembre 1958. Grisolera, scomparse ormai le canne che avevano dato nome al luogo, ha ripreso dal gennaio 1951 il glorioso nome di Eraclea e gli abitanti hanno continuato ad affluire numerosi.

    Il lido di Jésolo.

    Dalla bonifica costiera hanno tratto giovamento anche i centri posti più nell’interno e in modo particolare San Donà di Piave e Portogruaro, come mostra il loro celere ritmo d’aumento, che ha fatto passare dal 1881 gli abitanti del primo comune da 8500 a 26.000 e del secondo da 9400 a 21.950. Qui le campagne si presentano alberate ed ha una certa diffusione oltre alla vite, che dà buoni prodotti (vini del Piave, tokai di Lison e di Annone Veneto), anche il gelso e l’allevamento dei bachi. San Donà si è avvantaggiata in passato per la sua posizione sul Piave, che comincia a essere navigabile fin da Zenzon; inoltre le bonifiche hanno qui operato da più vecchia data e trasformato la livellata campagna in fertili campi di cereali, che migliorano il suolo e lo preparano per le leguminose e le piante industriali (specie barbabietole, lavorate allo zuccherificio di Ceggia, e tabacco); la vicinanza di Venezia rende poi agevole lo smercio dei suoi prodotti agricoli. Portogruaro è l’erede di Concordia, dove nell’antichità metteva capo un’importante via proveniente dal Norico e dove esisteva una fabbrica di frecce che le dava il nome di Sagittaria. Decaduta a causa della malaria (nel 1586, propter coeli intemperiem anche l’antica sede vescovile venne trasferita a Portogruaro), solo in questi ultimi tempi ha ripreso una certa importanza come mercato agricolo. L’origine di Portogruaro è invece da mettere in rapporto con la navigazione del Lémene e con la sua posizione di confine, punto di passaggio obbligato per le merci provenienti d’Oltralpe dirette a Venezia. Essa conserva nella pianta le tracce della sua origine; consta infatti di due contrade lunghe più d’un chilometro, parallèle al Lémene, ma un po’ discoste dal fiume, fiancheggiate da portici e riunite da ponti; due canali circondano il perimetro delle mura, al di là delle quali si espansero alcuni sobborghi. Scaduta poi la sua importanza commerciale (che potrà in parte riprendere essendo stata collegata ora mediante un canale alla litoranea veneta), nel contado ha avuto sviluppo l’agricoltura (seminativi), che si è molto avvantaggiata per il bonificamento delle terre vicine. Una situazione analoga a quella di San Donà e di Portogruaro al margine di bonifiche, ha pure Cavàrzere. Essa ebbe origine da un castello costruito all’estremo limite meridionale del territorio lagunare, in capo all’argine dell’Adige (Caput aggeris) e fu centro strategico, finché decadde per il mutamento della morfologia lagunare. Bonificata la regione col lavoro di lunghi decenni, Cavàrzere è risorta a nuova vita e si stende lungo il fiume su due riviere, riunite da un ponte. Nel suo territorio, ricco di acque, con terreni di tipo alluvionale a detriti costipati, le colture sono variate e s’alternano nel corso di 6 o 7 anni piante industriali (specie la barbabietola), cereali, foraggere, in grandi e medie aziende; in epoca recente si è aggiunta la coltura del lino, lavorato localmente (linificio, sorto nel 1936), e sono stati creati numerosi orti, simili a quelli di Sottomarina, per cui coesistono grandi aziende, che richiedono notevoli capitali e molti mezzi meccanici, con colture orticole praticate in piccoli poderi.

    Veduta di Cavàrzere sulle rive dell’Adige.

    Il Polesine e il delta padano

    Il Polesine costituisce una ben distinta unità geografica, sorta in epoca geologica recente per l’accumulo di detriti fluviali depositatisi tra i corsi inferiori dell’Adige e del Po. Esso è perciò il territorio veneto di più recente formazione e quello che più modernamente ha ricevuto un assetto idrografico da parte dell’uomo; si calcola che dal Medio Evo esso abbia avuto un incremento di circa 550 kmq. di nuove terre, al quale è corrisposto un sensibile aumento della popolazione. Anche il concetto geografico che esso formi un’unità distinta dalle altre non risale a tempi molto remoti, dato che il territorio che lo forma è dipeso a lungo da domini diversi. Il nome pare derivi da Pullicinus (dal latino pullus o pullum, nel significato di terreno molle, donde poi Policinium, pollicino e Polesino) nel senso di « tratto di terra dall’aspetto insulare, piatto coperto generalmente di vegetazione arbustiva eroso e staccato dalle rive per opera di alluvioni o di violente correnti fluviali » (Serra). Il suffisso che ha portato alla pronuncia sdrucciola (pullicinus) è probabilmente anario, mentre la voce in questo suo significato risale al Medio Evo e il nome si applica a varie zone: Polesine di Ariano, Polesine di Ferrara o di San Giorgio e Polesine di Rovigo. Quest’ultima espressione da principio si riferiva solo ai dintorni di Rovigo, tra Adige e Adigetto (Vecchio Polesine), ma poi fu estesa a indicare anche la zona più meridionale, inclusa tra Adige e Canalbianco (Nuovo Polesine) e in seguito (secolo XV) quella fino al Po. Al Polesine di Rovigo, che comprendeva gli antichi circondari di Rovigo, Lendi-nara, Badia, furono aggregati con la pace di Bagnolo (1484), col nome di Comuni aggiunti (ultra canalia), Castelguglielmo, Fiesso, Bosaro, Pontecchio, Polesella. Nei secoli XVI-XVII (fino alla caduta della repubblica veneta) Loreo e Cavàrzere appartenevano al Dogado, Adria e il suo distretto costituivano una dipendenza della repubblica, Ariano, Papozze, Crespino e la restante zona transpadana erano territorio ferrarese. L’ordinamento napoleonico non tenne alcun conto dell’unità geografica della regione, che venne a far parte di quattro dipartimenti diversi, il Polesine di Rovigo, con la Transpadania ferrarese del dipartimento del Basso Po, la zona di Badia dell’Adige, Melara e Bergantino del Mincio, Adria dell’Adriatico. Solo nel 1815 l’erezione della regione in provincia di Rovigo con l’aggregazione del territorio di Adria e poi nel 1851 dei territori di Loreo e di Ariano fece estendere il nome di Polesine fino al mare. La divisione amministrativa differisce da quella naturale solo perchè le manca il territorio di Cavàrzere, sulla destra dell’Adige, che fa parte della provincia di Venezia. Il Polesine è quindi molto bene limitato, a est dall’Adriatico, a nord dall’Adige, a sud dal Po; a occidente il confine con la provincia di Verona (Valli Grandi Veronesi) è meno preciso e s’appoggia sull’alveo abbandonato del Castagnaro, sul Tàrtaro e sul Cavo Fossetta.

    Il palazzo Vendramin a Fiesso Umbertiano.

    Anche dal punto di vista fisico il Polesine ha una fisionomia propria; è infatti una regione del tutto pianeggiante, che degrada leggermente da ovest a est e costituisce un bassopiano dalle pendenze dolcissime, formato da alluvioni minute (argille e sabbie), con acque abbondanti. Il territorio, che si trova in difficili condizioni di scolo, era già abitato in epoca etrusca e romana, ma si andò spopolando nei secoli barbarici. Nella parte orientale corre la via Romea, che univa Ravenna ad Adria e ad Aquileia, ricalcata nel Medio Evo dalla via dei mercanti, che da Venezia per Ravenna andavano a Roma. Molti toponimi risalgono all’antichità romana, come Arquà (Arcuata), Fiesso (Flexus), Fratta (Fracta), Pontecchio (Ponticulus), Massa (Mansio), Trecenta, ecc. Presso Loreo l’Adige e il Po erano più lontani tra loro e nello spazio intermedio scorreva la pliniana Filistina. L’uomo, trovatosi davanti una fitta distesa di boschi e di paludi, le quali davano scarsi prodotti spontanei (canne), iniziò un lungo lavoro di difesa (argini) e di regolazione, per combattere il disordine delle acque e ridurre i terreni a coltura. Modificazioni notevoli furono arrecate da fenomeni catastrofici in coincidenza con le maggiori piene (rotte) e dal lento assestamento dei materiali (sommersione della parte prossima al mare). Per la necessità di abitare e di coltivare l’uomo ha cercato di impedire i mutamenti, in modo da mantenere stabile una topografia per se stessa labile.

    Un centro del Polesine: Pincara.

    Il delta del Po è una zona nella quale vengono a contrasto le forze demolitrici con le forze costruttrici della natura. Uno degli aspetti più evidenti degli apparati deltizi è rappresentato dai tomboli, che sopravvivono ai delta stessi e permettono la ricostruzione dei delta scomparsi. Anche la storia del delta padano, da noi esposta in altro capitolo, si può in gran parte riconoscere attraverso lo studio dei suoi antichi lidi e dei cordoni sabbiosi. I più vecchi di questi sono ormai lontani dal mare, come è il caso dei « monti » o « montoni » che in linea quasi retta si protendono da San Basilio, sulla sponda sinistra del Po di Goro, per Donada e Rosolina fino all’Adige, che si trovano in zone bonificate e coltivate, dove costituiscono un elemento topografico saliente nella monotonia della pianura. Questi dossi, elevati fino a una decina di metri, rappresentanti antiche linee di spiaggia, hanno importanza anche dal lato economico perchè in essi si sono in prevalenza estese quelle zone orticole che fanno la ricchezza dei lidi lagunari. Il limite settentrionale del Polesine è segnato fin quasi al mare dall’Adige, che sbocca nell’Adriatico a Porto Fossone. Dal Basso Veronese in giù l’alveo subisce un sopraelevamento sempre crescente, a causa del quale i materiali deposti finiscono per ostruire la bocca degli affluenti, facendoli deviare secondo direzioni parallele al corso principale. La posizione del fiume pensile risulta precaria e senza un’azione vigile ed efficace esso prenderebbe un’altra via.

    Vedi Anche:  Case e centri abitati del veneto

    Canale di bonifica nella Valle Mociniga (Delta Padano).

    Casoni e lavorieri d’una valle da pesca a Valle Veniera (Rovigo).

    Come via navigabile l’Adige ha scarso valore, ma l’energia meccanica del fiume si impiega, e ancor più si impiegava nel passato, per muovere dei mulini, natanti su grossi pontoni (sandoni), raramente isolati, più spesso accoppiati o a serie da tre a sei, accostati alla riva lambita dal filone della corrente, la quale fa muovere la tozza ruota del mulino, munita di pale larghe e piane. Posizione mediana tra l’Adige e il Po ha il Tàrtaro-Canalbianco-Po di Levante che è alimentato da « fontanili », da acque che sono servite ad irrigazione,’ da acque piovane e da infiltrazioni. Il Canal-bianco, ricevuti il Castagnaro e il Malopera, e toccate Trecenta, Canda e Castel-guglielmo, s’incontra col canale Scortico che l’unisce all’Adigetto, poi diventa parallelo all’Adige, presso Polesella scarica parte delle acque in Po o le riceve nei periodi delle piene (Fossa Polesella), e prosegue lungo il sostegno di Bosaro, dopo il quale bagna Adria e si getta in mare col nome di Po di Levante. Il canale di Loreo lo mette in comunicazione con l’Adige. Dovendo funzionare da diversivo ora del Po e ora dell’Adige, il fondo del Canalbianco è sopraelevato ed i terreni laterali si trovano in difficili condizioni di scolo, specie nel tratto mediano, tanto che il Polesine sta sotto la minaccia delle sue piene. Un progetto in corso di esecuzione prevede di sistemare i profili longitudinali e di correggere opportunamente le pendenze in modo di regolare le acque al triplice uso di via navigabile (per natanti di 300 tonn.), collettore di bonifica, alimentatore di irrigazione. Il suolo del Polesine è poi solcato da una rete di corsi d’acqua e canali minori, alcuni a scopo di navigazione, altri di scolo, in parte naturali, in parte artificiali. L’Adigetto, che ha avuto origine intorno al Mille da una rotta dell’Adige, traversa tutto il Polesine settentrionale; si stacca dall’Adige a Badia, attraversa Lendinara, bagna Rovigo e si getta in Canalbianco a Punta Stramazzo, dopo essersi molto avvicinato all’Adige alle Botti Barbarighe. Di canali minori di smaltimento (scoli) 4 si trovano tra l’Adige e l’Adigetto e mettono nel Canalbianco (Ceresolo, Dossi Valieri, Tàrtaro Osellin, Brésega), 13 si trovano tra Adige e Canalbianco e a destra dell’Adigetto, 8 sboccano a destra del Canalbianco, 10 sboccano in Po. Inoltre il Polesine meridionale è percorso in tutta la sua lunghezza dal collettore padano e polesano sulla destra del Canalbianco.

    L’idrografìa determina spesso anche l’andamento della viabilità terrestre e per più chilometri l’Adige e il Po sono costeggiati da vie di comunicazione, che servono in pari tempo da vie alzaie. Spesso le strade seguono pure rami morti del Po. Gli argini in zona di bonifica costituiscono spesso la prima via di comunicazione e attirano gli abitanti. Il Po, data la sua larghezza, è attraversato nel basso corso solo da pochi ponti, di cui il principale è quello duplice, ferroviario e stradale, che congiunge Pontelagoscuro (Ferrara) a Santa Maria Maddalena (Polesine). Ficarolo e Castelmassa sono invece uniti a Stellata ed a Sérmide mediante ponti di chiatte.

    Veduta aerea della zona alluvionata nel 1960, nell’isola di Ariano Polesine.

    Il Polesine presenta da parte a parte aspetti molto diversi, ma ovunque prevale l’attività agricola, che ha visto succedersi epoche di floridezza e di progresso con periodi di decadenza e di miseria per le frequenti inondazioni. Poiché a occidente (Alto Polesine) le campagne sono state bonificate in epoca più antica attraverso un lavoro secolare, che ha fatto lievemente innalzare il piano originario per la lenta deposizione del letame, per il trasporto artificiale di terre, per il limo depositato durante le rotte, l’aspetto del paese risulta più ridente, i campi sono sempre limitati da filari di viti e di alberi (salici, pioppi, olmi) e interrotti da argini e da fosse di scolo ad andamento sinuoso, spesso accompagnati da salici e pioppi; non rare anche le siepi. Vi prevalgono terreni sabbiosi, di medio impasto, argillosi. Ivi domina la piccola proprietà e la piccola affittanza e l’agricoltura è rivolta, oltre che alla produzione del frumento, alle più redditizie colture industriali (canapa, barbabietola), che comportano un elevato consumo di concimi. Le case spesso guardano i canali o sono attirate dall’unghia esterna degli argini. Esse sono fornite di aie per l’essiccazione dei cereali ed hanno locali per praticare la bachicoltura. I centri principali sono Badia e Lendinara, di cui sarà fatto cenno nel capitolo seguente.

    Paludi di Chioggia.

    Il Medio Polesine ha condizioni intermedie tra la zona alta e la zona deltizia. Le campagne sono state anche qui conquistate al dominio delle acque con un faticoso lavoro di difesa (mediante argini) e di regolazione. Pur dove la regione era stata colonizzata nell’antichità, nei secoli barbarici il disordine delle acque l’aveva spopolata e, dato il diffìcile scolo delle acque, è stato necessario un lungo lavoro per redimerla. Ora nei numerosi fossi che servono allo smaltimento delle acque (scoli) si pratica la pesca. Tracce di proprietà collettiva (un indice della quale si può anche trovare nello spigolo « raccolta di spighe lasciate nei campi » e nel vagantivo « raccolta di canne ») si trovano a Villamarzana, Arquà e Grignano. In quest’ultima località si conserva la «Comune», proprietà collettiva di 125 ha., suddivisa in centinaia di piccoli rettangoli, coltivati in vario modo, i quali appartengono ai discendenti degli originari di Grignano. La piccola proprietà è meno diffusa che nell’Alto Polesine, come risulta anche dal maggior numero di salariati fissi e avventizi. In ogni podere (o versuro) si distingue una parte coltivata da una parte prativa destinata al bestiame. Come colture hanno il primo posto il grano e la barbabietola (5 zuccherifici sugli n del Polesine si trovano in questa zona); l’arboricoltura (vite, frutteti) ha invece minore importanza. Capoluogo del Medio Polesine è Rovigo, che si è avvantaggiato per la sua posizione mediana.

    Nel Basso Polesine, che come zona di bonifica recente è tra le parti più giovani d’Italia, non tutto il suolo può venir coltivato; infatti un settimo circa del territorio è occupato da valli da pesca e due settimi da incolto produttivo; ivi prevale la grande proprietà e la grande affittanza e l’agricoltura viene esercitata su grande scala, con applicazione di sistemi meccanici. Prevalgono grandi fattorie distanti una dall’altra, simili a grandi corti, nelle quali accanto alle dimore dei contadini, vi sono granai, essiccatoi, stalle e altri edifici accessori. Le colture principali sono il frumento, la barbabietola, il mais e il tabacco, nè manca, dove un tempo si estendevano i canneti (Porto Tolle), la risaia stabile, destinata a trasformarsi in risaia permanente, potendosi ottenere nello stesso anno frumento precoce e riso mediante trapianto. Nei terreni sabbiosi trova condizioni favorevoli la coltura del cocomero. Le rare abitazioni vanno facendosi più numerose specialmente ai crocicchi delle strade. Il territorio è intersecato da un reticolato regolare di vie e di canali rettilinei, che contrastano col tortuoso andamento dei corsi d’acqua naturali. Il reticolato presenta maglie piuttosto larghe, in confronto a quelle più fitte dei terreni bonificati da più tempo (per es., nei dintorni di Rovigo). Lo stato mediocre delle strade nei mesi invernali fa spesso preferire per gli spostamenti le vie d’acqua e attraverso il Po, congiunto all’Adige dal Canalbianco e dall’Adigetto, passando per la conca di Bron-dolo e Chioggia, si può raggiungere Venezia. Il suolo è sistemato spesso a baule, con affossature per accogliere le acque di pioggia. I campi sono aperti, rare sono le siepi e scarsa l’arboratura; pioppi e salici accompagnano le scarpate dei fiumi nel basso corso, mentre le acacie coprono le terre sabbiose delle dune. Vaste zone di terreno, specie se il grado di salsedine è elevato, sono riservate alle erbe da foraggio. Prevalgono alluvioni minute, con acqua in condizioni di difficile scolo, nelle quali trova condizioni favorevoli l’aratura meccanica. Qualche tratto è poco fertile, composto com’è da terreno sabbioso o torboso. Verso oriente vaste zone (12.000 ha.) sono occupate da « valli di pesca » e viene pure esercitata la pesca marittima. Scar-dovari è così diventata un promettente centro peschereccio, che raccoglie e smercia il prodotto della pesca dalle foci dell’Adige alla foce del Po di Goro. Nelle zone paludose il pesce è così abbondante che si può raccogliere perfino con le mani (« a palpeto »). Un grande faro, anche per aerei, è stato eretto presso Punta Maestra, su un isolotto tra la Busa di Tramontana e la Busa Dritta.

    Fin dai primi anni del dominio veneziano nelle terre che impaludavano vennero iniziati lavori di bonifica. Col secolo XVI si formarono i primi consorzi, ma grande importanza ha avuto soprattutto per l’economia del Polesine l’introduzione delle macchine idrovore (sistema dei polders), sperimentate la prima volta ad Adria nel 1853, che hanno permesso di estendere ancor più la bonifica mediante il sollevamento meccanico delle acque, per cui molte centinaia di chilometri quadrati nel dominio delle paludi, le quali davano scarsi prodotti spontanei furono ridotti in terreni fertilissimi (« Olanda d’Italia»). Così nell’isola di Ariano sono stati prosciugati 12.000 ha., trasformando in fertili pianure i fondi delle valli e delle lagune, che prima erano un dedalo di canali, di stagni, di canneti malsani. Gli impianti idrovori sono andati estendendosi e nel Polesine ne esistono ora 45. La popolazione vive di preferenza sparsa e le località principali restano Adria e Loreo. Ma le popolazioni del Delta — specialmente nel comune di Porto Tolle sulla destra del Po e in quelli di Con-tarina, Donada e Rosolina sulla sinistra fino all’Adige — si trovano in condizioni di disagio. I terreni coltivati risultano in questa zona separati dal mare da alcune valli da pesca che occupano vaste estensioni, senza dar luogo a lavoro proficuo che per un esiguo numero di persone; questo rende difficoltosa la difesa dei terreni retrostanti, dato che l’alimentazione delle valli impedisce di chiudere del tutto gli accessi del mare. E quindi necessario sorvegliare e tenere in efficienza una lunga arginatura, mentre sarebbe agevole chiudere con una diga le sacche, per esempio, quella di Scardovari, dove i fondali sono bassi, nel caso del comune di Porto Tolle, e la bocca del porto di Caleri nel comune di Rosolina; per proteggere il retroterra sarebbe sufficiente costruire una diga che congiunga i cordoni dunosi con un vantaggio considerevole per tutti gli abitanti.

    Il Canalbianco presso Pincara.

    Le condizioni economiche del Polesine sono andate peggiorando in questi ultimi anni in seguito al bradisisma che dal 1951 ha causato sedici alluvioni e costretto quasi un quinto degli abitanti a cercare lavoro altrove. Anche l’industria, oltre che l’agricoltura, ne ha sofferto e non è agevole dar lavoro a una manodopera che è per buona parte occupata in lavori che hanno un ciclo stagionale. Qualche cosa si è fatto per cercare di sollevare il morale della popolazione instaurando a partire dal giugno 1955 un certo numero di centri sociali con sedi decorose, dove il popolo ha la possibilità di riunirsi con intenti di assistenza e di fervore cristiano.

    Recente è lo sfruttamento dell’unica risorsa del sottosuolo, il metano, che si è iniziato nel 1937 al pozzo di Ca’ Cappello. Vi sono ora oltre mille pozzi e il più importante, è quello di Ca’ Pasta. Ma in seguito all’abbassamento del suolo una parte di essi è stata chiusa.

    Veduta di Adria.

    Il Padovano

    La parte mediana del Veneto, limitata dal Polesine, dalla fascia di bonifiche e di lagune del litorale e dalle Prealpi, con confini per lo più malamente definiti, coperta un tempo da boschi, costituisce una regione ben coltivata e popolata, con caratteri antropogeografici propri. Essa ha scarso sviluppo a occidente, dove tra Adige e Mincio, nel Veronese, le condizioni sono simili a quelle del Polesine, mentre si allarga sempre più verso oriente, nel Padovano e nel Trevisano. Si possono tuttavia distinguere aspetti diversi tra parte e parte soprattutto in rapporto con la quantità d’acqua disponibile e con la sistemazione dei corsi d’acqua per opera dell’uomo. Fondamentale è soprattutto la distinzione tra l’alta pianura e la bassa pianura, separate dalla linea delle risultive. Altre diversità dipendono da usi, attitudini intellettuali, carattere morale, tipo fisico, parlata.

    Padova: uno dei canali visto dall’Osservatorio Astronomico.

    La pianura risulta ben coltivata specialmente nel Padovano, dove prevale nei seminativi, estesi sul 90% della superfìcie agraria, la coltura promiscua, mentre esigua è l’estensione dei prati naturali e poco diffuse le piante industriali, salvo tabacco e barbabietola tra Adige e Gorzone, dove, come nel Polesine, è coltivata pure la patata dolce. Scaduta è invece la coltivazione della canapa, che Venezia aveva incrementato, specie ai limiti col Veronese, per i bisogni della flotta, e quella del lino, fiorente un tempo nel contado di Piove di Sacco. Appena la quarantesima parte del suolo (con percentuali più alte negli Euganei) è a bosco. Frumento (che risulta il cereale più diffuso) e mais occupano vaste estensioni, avvicendati con piante da foraggio (specie erba medica) e colture sarchiate, ma accanto a queste piante annue che mutano nel corso della rotazione, il paesaggio agrario assume un aspetto costante per le essenze arboree, che si accompagnano ovunque ai cereali e alle foraggere. I campi sono infatti intersecati da filari, nei quali compare la vite, tenuta a festoni, sostenuta da pioppi, olmi, salici e da piante da frutto. Compare pure il gelso, che è tuttavia più frequente nel Trevisano. Anche lungo i canali e ai lati delle strade campestri sono coltivati pioppi e salici ed è frequente l’acacia. Sempre maggior estensione sono andati assumendo i pescheti. Caratteristica dei dintorni di Saonara è l’esistenza di ampi vivai. Minore importanza hanno i fagioli, la saggina da scope, il ricino (un tempo molto più diffuso). Nella uniforme pianura padovana, lievemente inclinata verso la laguna che lambe nelle valli della Morosina e di Millecampi presso Codevigo (dove sono stati compiuti lavori di bonifica), abbassandosi dai 70 m. di Cittadella al livello del mare, è possibile distinguere paesaggi diversi, che il Milone ha ampiamente illustrati nella sua accurata monografia sulle condizioni geografico-economiche della provincia di Padova. In genere i terreni dell’Alto Padovano, sia le terre ghiaiose d’origine alluvionale dell’ampia conoide del Brenta, sia le alluvioni sabbiose dello stesso fiume, presentano scarsa fertilità naturale, mentre le alluvioni della bassa pianura, dovute al Bacchigliene, al Fràssine e all’Adige, hanno dato luogo a terreni fertili, profondi, generalmente freschi e compatti. In questa parte bassa la rete idrografica è più fitta ed assumono importanza alcuni canali, come il Pióvego, il Roncaiette ed il canale di Battaglia, che dopo essersi unito col canale Este-Monselice, continua nel canale di Pontelongo, con la derivazione del canale di Sottobattaglia. Giungendo in piano i corsi d’acqua sovraccarichi di torbide e in tempo di piena gonfi e limacciosi, frequenti e gravi furono nel passato le conseguenze delle inondazioni. Oggi però tolte di mezzo con adatte sistemazioni le maggiori cause dei periodici straripamenti, i guai sono meno gravi. Il Brenta e il Bacchigliene pur trovando origine e alimento in bacini montani diversi, giunti in pianura costituiscono un sistema idrografico interdipendente e complicatissimo, nel quale le acque si confondono, per suddividersi poi in un groviglio di canali artificiali, che possono alla loro volta venir incrementati da apporti idrici del Fràssine, che si congiunge al Gorzone, alimentato dal Fratte, convogliatore di acque di pianura e collettore naturale di scoli di bonifica. Il Bacchiglione infatti poco a valle della confluenza con l’Àstico cede parte delle sue portate di magra ordinaria al canale Bisatto il quale, dopo aver toccato Monselice, si congiunge al canale di Battaglia. A una quindicina di chilometri da Longare si arricchisce delle acque del Brenta, derivate a Limena a mezzo del canale Brentella, che le convoglia nei pressi di Volta Brusegana. Col nome di tronco comune il Bacchiglione arriva alle porte di Padova, in località Bassa-nello.

    Veduta di Battaglia Terme (Padova).

    Veduta di Pontemanco (Padova).

    Qui si divide in tre rami: il Pióvego, che alimenta il Naviglio o canale di Brenta, il quale congiunge Padova con Fusina lungo la riviera di Brenta, ricca di ville, il canale di Roncaiette, che si ricollega col canale di Pontelongo e comunica con Chioggia, e il canale di Battaglia. Considerando la distribuzione dei prodotti e insieme la natura dei terreni il Padovano può essere diviso in tre zone agrarie, di cui la prima irrigua (300 kmq. in tutta la provincia), resa tale per l’esistenza di molte rogge, derivate dal Brenta, alta ed asciutta a nordovest, tra Cittadella e Piazzola; la seconda costituita dagli Euganei e dalla fascia asciutta attorno a Padova e tra Camposampiero e Campodàrsego ; la terza, migliorata con intense bonifiche e con i caratteri specifici di tali terreni, tra Este e Montagnana e verso Piove di Sacco.

    Il « Cataio » presso Battaglia Terme (Padova).

    Ma l’agricoltura padovana avrebbe bisogno di più intensi investimenti, che permettessero di estendere la meccanizzazione, di aumentare l’uso di fertilizzanti, di modificare gli indirizzi colturali sostituendo la coltura del frumento con quella dei foraggi. Un’isola collinosa che emerge dalla monotona pianura padovana dando luogo a un paesaggio variato dove la viabilità, il popolamento, le colture assumono aspetti particolari, costituiscono i Colli Euganei (Monte Venda, m. 603), che si possono considerare, come i vicini Monti Bérici, da cui sono separati da un corridoio alto appena 20 m., una propaggine del sistema alpino, demolita dall’erosione, isolata e quasi sepolta nella pianura per azione del sovralluvionamento. Il paesaggio degli Euganei è variato e reso ridente dalla frequenza di ville e di case nelle località più amene. I seminativi sono quasi sempre arborati e i cereali sono coltivati in mezzo ai lunghi filari di viti e a piante da frutto. E mentre nei pendii più ripidi del versante settentrionale il bosco è ancora abbastanza frequente, vigneti e frutteti si addensano nei luoghi più riparati. La bachicoltura, favorita dall’alta percentuale di popolazione sparsa, si pratica specialmente nei Colli Euganei e nelle campagne di Cittadella e di Camposam-piero.

    Veduta dei Colli Euganei.

    Un’altra caratteristica della pianura veneta in generale e di quella padovana in particolare, accanto alla preponderanza di seminativi arborati e alla elevata densità media (oltre 300 ab. per kmq.), è l’insediamento dei contadini in dimore sparse a contatto dei poderi coltivati. Le statistiche attribuiscono infatti al Padovano le più alte percentuali di popolazione sparsa di tutto il Veneto. La proprietà risulta molto suddivisa e in genere non supera 3 ha., ma accanto alle cesure (formate da una casetta con una decina di campi) vi sono pure grandi affittanze con numerose costruzioni per abitazioni e deposito, nelle quali le case padronali si trovano accanto a quelle dei contadini.

    L’alta pianura veneta e il Trevisano

    Mentre il Padovano, se si prescinde dall’isola collinosa rappresentata dagli Euganei, occupa un territorio in prevalenza basso e pianeggiante, Trevisano, Vicentino e Veronese comprendono accanto alla bassa pianura anche lembi dell’alta pianura e zone prealpine più o meno ampie. Ma mentre la bassa pianura forma una regione territorialmente continua con alte percentuali di popolazione sparsa, l’alta pianura è meno uniforme, sia perchè in più luoghi (come alle falde dei Lessini e ai piedi del Cansiglio) la linea delle risultive viene a contatto con le colline prealpine, sia perchè assai vario risulta il rivestimento superficiale, ora formato da ghiaie molto permeabili, ora da alluvioni quaternarie. Si tratta di terreni in genere più poveri e meno fertili di quelli della bassa pianura, ricoperti allo stato naturale da una vegetazione stentata con zone steppiche adatte al pascolo degli ovini transumanti; ora però il mantello originario è • stato quasi ovunque sostituito con coltivazioni, diventate sempre più intensive là dove è stato possibile, con l’ausilio delle acque dell’Adige, del Brenta e del Piave, praticare l’irrigazione. Nei luoghi favorevoli le acque di questi fiumi e degli altri corsi d’acqua prealpini hanno pure promosso l’industria, che in alcuni casi (per es., per la lavorazione della lana) è diventata l’attività economica preminente. Riesce spesso difficile indicare il limite dell’alta pianura verso la regione collinosa, sia perchè molti lembi pianeggianti si insinuano tra gli ultimi rilievi prealpini, sia perchè l’economia delle due zone non risulta sostanzialmente diversa. Gli aspetti e le condizioni economiche variano molto da zona a zona in rapporto con la pendenza, l’esposizione e soprattutto la struttura dei terreni. Considerevole è specialmente il contrasto tra i rilievi terziari, che si prestano bene alle colture sia risultino da formazioni vulcaniche, sia da arenarie di sedimentazione marina, sia da rocce calcaree, e le colline moreniche, generalmente non molto fertili. Anche qui la vegetazione originaria, rappresentata da querceti (che compaiono tuttora nelle colline moreniche del Garda, dove favoriscono l’allevamento suino), è stato ormai quasi ovunque sostituita con piante coltivate, in modo particolare castagneti (che risultano tuttavia in regresso) e frutteti, che dànno prodotti pregiati (mele, pere, ciliege, pesche), specialmente nei pendii a solatio. In questi, dove il terreno si presta, la vite trova condizioni favorevoli e così pure il gelso; più localizzati sono l’olivo, il mandorlo, gli agrumi, che allignano dove il clima è più dolce, perchè la posizione è più riparata.

    Maser. A sinistra il muro di cinta della villa Barbaro, al fondo la chiesa a pianta circolare del Palladio, Il Trevisano ha posizione interna rispetto al mare e mediana, in complesso quindi favorevole, se non che, pur trovandosi avvantaggiato rispetto all’andamento delle vie alpine, non ha avuto che in epoca recente uno sviluppo economico che non fosse quello agricolo. La posizione centrale ha favorito in passato, e specialmente nel tardo Medio Evo, la sua fortuna politica, tanto che la Marca Trevigiana ha compreso per secoli una regione assai più vasta, finché con l’avvento di Venezia è andata restringendosi e s’identifica ora con la provincia di Treviso. Circa due terzi del Trevisano fanno parte della pianura traversata dal Sile, dal Piave e dalla Livenza, mentre un terzo spetta alla regione prealpina, che s’innalza fin quasi a 1800 m. col Monte Grappa e con le Prealpi Bellunesi (Col Visentin), ai piedi dei quali si stende un’amena regione collinosa. Comprende quindi, a differenza del Padovano, pure zone montane di limitato valore economico. Anche qui l’agricoltura è l’occupazione prevalente, come risulta dalla grande estensione dei seminativi (oltre il 70% del territorio) rispetto ai prati ed ai pascoli, che occupano un quinto del suolo, e dei boschi, che non arrivano al 6% e assumono una certa importanza economica solo nella parte del Cansiglio che spetta al Trevisano. Nei seminativi la pianta prevalente sia in pianura che in collina è il mais, che qui supera alquanto come superficie l’estensione riservata al frumento, tanto che per il mais Treviso è un mercato importante. I campi sono intersecati da filari di viti e la popolazione vive di preferenza sparsa. La proprietà risulta molto suddivisa e prevalgono le aziende agricole di piccole dimensioni. La mezzadria è qui preferita alla fittanza. In un ambiente agricolo siffatto ha trovato da tempo condizioni oltremodo favorevoli la bachicoltura, la quale fornisce materia prima a numerose filande. Esistono ben 12 milioni di gelsi e per la produzione di bozzoli il Trevisano è al primo posto tra le province italiane. La coltura della vite dà ora maggiori profitti e nel Trevisano esistono delle plaghe ben note per la bontà del prodotto, come ad esempio le colline tra Susegana e Conegliano, che producono un vino giallo oro di profumo delicato, e i colli di Valdobbiadene. Vini pregiati si producono anche lungo il torrente Raboso. La frutticoltura si è sviluppata in pianura più ancora che in collina ed ha assunto grande importanza per l’esportazione nella zona di Mogliano, la cittadina posta sul Terraglio che unisce Treviso a Mestre, un tempo centro di villeggiatura dei ricchi veneziani, nei dintorni della quale, fino a Scorzè ed a Zero Branco ai confini della provincia trevisana, sono stati creati vasti pescheti. Aree orticole non mancano nei dintorni dei centri maggiori; tipica di Treviso e di Castelfranco è la coltivazione del radicchio rosso e variegato. Per combattere l’aridità dei terreni dell’alta pianura si è provveduto ad estendere le aree irrigue, che abbracciano ora circa 600 chilometri quadrati. Il Trevisano ha in questo campo una tradizione secolare. Il canale Brentella, che si stacca dal Piave a Pederobba, si divide in due rami poco a sud di Crocetta e irriga tutta la sezione nordovest, risale al 1436; esso serviva a un doppio uso perchè oltre a irrigare una vasta regione, forniva energia a molte officine. Tale canale, rinnovato e sistemato dopo la prima guerra mondiale, irriga 300 kmq. di terreni. Recente è invece il canale della Vittoria, che trae alimento da una diga sul Piave; esso convoglia le acque (31 me. al secondo) nelle campagne poste a NO di Treviso e, attraversato il centro di Nervesa, oltre a irrigare 29.000 ha di terreno, serve per ricavare energia idroelettrica. Minore importanza hanno i canali Piavesella, Rosà e altri. La zona arida a monte delle risulti ve era scarsa pure di acqua potabile per cui si è provveduto ad alimentare una ventina di comuni (tra i quali Valdobbiadene, Pieve di Soligo, Asolo, Riese) con l’acquedotto di Schievenin (1936), che ricava l’acqua (portata media 300 1/sec.) da una sorgente carsica presso uno sprone orientale del Grappa in comune di Quero. La estensione dei prati irrigui ha favorito l’allevamento bovino sia quello degli animali di razza grigio-alpina, a triplice attitudine, sia di mucche lattifere di razza bruno-alpina, numerose a Soligo, Vidòr e nei colli asolani, dove sono sorti dei caseifici. Ai mulini, alle cartiere, alle gualchiere di panni delle epoche passate, si sono aggiunti in epoca moderna filande per la seta e stabilimenti per la torcitura. L’attività industriale è in promettente progresso (calzaturifici di Cornuda e Montebel-luna, fabbriche di mattonelle di Treviso, cementificio di Vittorio, pastifici, fabbriche di frigoriferi, di cucine e di altri apparecchi elettrodomestici di Conegliano, ecc.). Il Trevisano si estende pure per un tratto nella zona prealpina e comprende a destra del Piave il versante meridionale del massiccio del Grappa con i Colli Asolani e il Montello e a sinistra del Grappa il versante meridionale alle Prealpi Bellunesi con un lembo del Cansiglio. Tra il Montello e le formazioni cenozoiche prealpine si estende il Quartier di Piave, che ha per capoluogo Pieve di Soligo, mentre già fuori della piana del Quartier del Piave si trova Valdobbiadene, mercato d’un contado agricolo ben coltivato. In collina si attenua il contrasto, assai vivo in pianura, tra popolazione rurale e cittadina, le pratiche agricole e le condizioni della proprietà si differenziano maggiormente, alla prevalenza dei seminativi con piante legnose si sostituisce una maggiore estensione dei prati e dei pascoli, l’insediamento sparso perde d’importanza rispetto a forme accentrate.

    Vedi Anche:  Corsi d'acqua e laghi

    Maser. A sinitra il muro di cinta della villa Barbaro, al fondo la chiesa a pianta circolare del Palladio.

    Veduta di Valdobbiadene verso Monte Cesen. In primo piano il Piave.

    Il Vicentino

    Nel Vicentino il rilievo risulta ancora più mosso e la parte montuosa, che si estende su una vasta zona prealpina, ha un’economia sua propria, indipendente da quella della pianura, con centri d’una certa importanza. Le influenze storiche che, come abbiamo visto, hanno agito come fattore determinante nel Padovano e nel Trevisano, hanno qui avuto minore importanza ed anche le comunicazioni artificiali, strade e canali, non appaiono aver spinto alla scelta degli insediamenti. Anche l’economia è maggiormente vincolata alle condizioni naturali.

    Arsiero e il Monte Cimone nella vallata dell’Àstico.

    La parte pianeggiante del Vicentino, situata tra il Brenta e le colline sedimentarie e vulcaniche, non ha limiti ben definiti col Trevisano, col Padovano e col Veronese ed anche i caratteri fisici ed antropici non sono molto diversi. Il terreno, formato da alluvioni grossolane, coperto da un modesto strato di humus e piuttosto arido, ha bisogno d’irrigazione, ma l’idrografia, costituita dal Léogra, dal Timonchio, dall’Astico, è torrentizia e poiché questi corsi d’acqua sono pensili, risultano contenuti da argini. Ad ogni modo dall’Àstico sono stati derivati alcuni canali (rogge) che servono per irrigare i prati (coltivati a medica e trifoglio), resi necessari dalla diffusione dell’allevamento bovino. La vite risulta ora in regresso a causa della fillossera. Colture intensive, oltre al tabacco di cui sarà fatto cenno più oltre, sono pure quelle dei piselli lungo la riviera dei Colli Bérici, degli asparagi del Bassanese, delle ciliege nella zona tra Marostica e Bassano. Un’isola collinosa, simile agli Euganei, è costituita dai Colli Bérici, separati dalla regione prealpina vera e propria dal corridoio Vicenza-Lonigo, per il quale passano le comunicazioni tra Venezia e Milano. Passando dalla pianura alla regione collinosa l’economia assume aspetti diversi, come risulta dalla prevalenza dei prati e dei pascoli, che occupano nel Vicentino quasi il quarto della superficie e fanno assumere all’allevamento bovino una grande importanza. In pianura, là dove viene praticata l’irrigazione ed esistono pingui prati, non è raro trovare grandi stalle con oltre 100 capi, e una densità superiore a un capo per ettaro di superficie agraria (che è pari al 95% della superficie totale), ma ha maggior peso sul totale l’allevamento familiare di 2 o 3 capi di bestiame della regione collinosa. Nelle zone di pianura, nei Colli Bérici e nelle zone che confinano col Veronese è più frequente la razza grigia, allevata preferibilmente per lavoro.

    Bassano. Ponte sul Brenta.

    Nelle Prealpi prevale invece la razza bruna-alpina, che ha buone attitudini lattifere, tanto che esistono circa 600 caseifici, i quali producono un formaggio semigrasso assai pregiato (Asiago). I bovini praticano su vasta scala l’alpeggio. Il Vicentino ha inoltre da molti decenni un primato nel Veneto per le industrie tessili e specialmente per la lavorazione della lana. Già nel 1818 su 228 fabbriche tra grandi e piccole del Veneto ben 193 appartenevano al Vicentino e nel 1913 su 28 lanifici del Veneto 23 erano in provincia di Vicenza, con quasi 100.000 fusi. Opifici numerosi hanno la Val d’Agno e la Val d’Astico. Anche le cartiere sono molto attive e buona tradizione hanno le ceramiche di Nove. Recente è invece l’impianto, da parte della Montecatini, di fabbriche per la produzione del solfato di rame, acido cloridrico, solfato di soda, acido solforico, concimi. Nessun centro importante si estende in pianura, perchè Vicenza si appoggia ai Colli Bérici, Maro-stica e Bassano alle Prealpi. Di essi sarà detto nel capitolo seguente.

    Il Canale di Brenta, al cui sbocco si trova Bassano, incassato tra l’altopiano di Asiago ed i contrafforti del Monte Grappa, inciso nei calcari del Secondario, diretto da nord a sud per 32 km., si può dividere in due parti. La prima corre da Primo-lano a Carpenè ed è più stretta, con pochi tratti coltivati, salvo piccole spianate attorno a Primolano (dove ha inizio la strada, detta Scala, che conduce a Fastro presso Arsiè) ed a Cismón (dove il fiume Cismón si getta nel Brenta, al quale confluisce pure dal Grappa la Val Cesilla). La seconda va da Carpenè-Valstagna a Solagna (il più antico dei paesi del Canale di Brenta, fortemente munito a sbarrare la valle) ed è più larga e più abitata, con pendii meno ripidi e qualche tratto piano, che permette l’esistenza di due strade a lato del fiume. Da secoli intensa vi si pratica la coltura del tabacco, sia nella non ampia zona alluvionale, sia nelle tipiche terrazze cintate da muri a secco, chiamate banchette. Pare che siano stati i monaci benedettini a introdurre il tabacco nel monastero di Campese da dove si è diffuso nel Canale di Brenta e in epoca recente anche in alcune zone dei Bérici. Anche l’olivo trova nei luoghi riparati condizioni favorevoli. Allo sbocco del Brenta in pianura si sono formati dei terrazzi, che non dipendono da oscillazioni del livello marino di base, ma da fattori climatici.

    Alla montagna vicentina spettano le Dolomiti di Schio e l’altopiano di Asiago. Le Dolomiti di Schio (o Prealpi Schiote) comprendono i bacini del Léogra e dell’Agno con i monti circostanti, tra i quali domina il Pasubio. Alla confluenza di vari torrenti che formano l’Agno, tra dossi arrotondati e declivi verdeggianti di prati e di boschi, in una conca chiusa da monti di aspetto dolomitico è sorta in epoca relativamente moderna (secolo XVII) Recoaro, che allunga le sue case e i suoi alberghi ai lati della strada principale. Ivi dalle filladi quarzifere, in corrispondenza ai filoni di rocce eruttive di tipo basico che le attraversano, sgorgano in piccole sorgenti (che superano di rado 3 1/min.) poste lungo una vallecola affluente di destra dell’Agno, delle acque minerali, che sono a un tempo acidule e ferruginose e che fanno di Recoaro uno dei centri balneari più importanti del Veneto. Recoaro, che dal 1934 ha preso l’attributo di Recoaro Terme, è situata a 450 metri. Essa è collegata ora mediante seggiovia con Recoaro Mille, dove si praticano i diporti invernali. Invece le sue acque, che hanno anche dato luogo ad un’industria per l’imbottigliamento di bevande, attraggono visitatori e persone bisognose di cure soprattutto tra giugno e settembre.

    Veduta di Recoaro Terme nella «conca di smeraldo»,

    Il Territorio Veronese di Bernardino Brognolo pubblicato da Paolo Furlani a Venezia (1574).

    L’altopiano di Asiago o dei Sette Comuni è il più vasto degli altopiani prealpini. Si estende tra le Prealpi di Schio e il massiccio del Grappa e quindi tra l’Àstico e il Canale di Brenta, ed è limitato a nord dalla Valsugana, a sud dalla pianura veneta tra Arsiero, Marostica e Bassano, dove si estendono ai suoi piedi ridenti colline, ricche di vigne e frutteti. Esso occupa un territorio di circa iooo kmq., con un’altitudine media di iooo m., che viene superata dalle cime che si allineano sull’orlo settentrionale dell’altopiano, tra le quali la Cima Dodici (m. 2341) con l’Ortigara, che è la più alta, mentre meno elevate sono quelle che ne costituiscono l’orlo meridionale (1350-1500 m.). A ponente verso il corso dell’Àstico e a levante verso quello del Brenta, le scarpate scendono ripide, spesso solcate da frane e prive di vegetazione. Fra orlo e orlo si stende una vasta conca, costituita da terreni calcarei, variamente ondulata, con tracce di depositi glaciali, in prevalenza prativa al centro, limitata a sud da faggete e a nord da conifere. Date le abbondanti piogge (oltre 1500 mm.), l’altopiano era ricco di boschi, costituiti in prevalenza da faggi e abeti, ma essi sono stati in gran parte abbattuti o diradati durante la prima guerra mondiale e solo in parte ricostituiti. Dal sottobosco si ricavano lamponi, fragole, lichene islandico, funghi, radice fresca di felce maschio, foglie di belladonna; inoltre il legname dà luogo all’industria degli oggetti casalinghi. Le zone adatte all’agricoltura sono scarse e constano di piccole aree, dove si coltivano patate, ortaggi e cereali, sostenute da muricciuoli

    a secco, spesso limitate da « laste » calcaree, che fanno le veci di muri e siepi. Più estesi sono i pascoli, sia quelli prossimi agli abitati, sia quelli di montagna, usufruiti mediante numerose malghe, verso le quali d’estate muovono i bovini anche dalle province vicine (per es., dal Padovano); per contrastare alla scarsezza d’acqua si provvede mediante apposite lame, che sono raccolte d’acqua artificiali in terreno calcareo. Si ottengono buoni latticini, mentre invece in regresso è la produzione di lana, data la decadenza dell’allevamento ovino, che non può più svernare nella pianura veneta per la mancanza di terreni adatti. Qualche importanza hanno le cave di pietra e di marmi (rosso broccato di Asiago, lumachella a fondo giallo di Treschè-Conca, ecc.).

    La popolazione è molto dispersa e si raccoglie in una quarantina di borgate poste tra iooo e noo m., spesso allungate a lato delle vie principali (per es., Foza), tra le quali la principale è Asiago, al centro d’una conca leggermente ondulata (in parte coltivata a piccoli appezzamenti, separati da muretti a secco); essa ha avuto nel passato un certo incremento, oltre che come mercato d’una vasta zona, pel commercio del legname e per piccole industrie connesse, mentre negli ultimi tempi si è avvantaggiata come centro climatico estivo e invernale. In passato erano frequenti i tetti di scandole e di paglia, quasi del tutto scomparsi dopo la prima guerra mondiale, che ha causato qui gravi danni. Anche le case, che in genere hanno tetti assai inclinati, sono state rimodernate. I Sette Comuni avevano sotto la repubblica veneta (ed anche in seguito fino al 1807) un’amministrazione autonoma, a capo della quale era una reggenza, che tutelava i comuni interessi. La regione era rimasta spopolata fino al secolo XII, quando si è avuto una colonizzazione da parte di immigrati tedeschi; tali coloni parlavano un dialetto corrotto dall’isolamento, che fu d’uso generale fin verso il 1600; nel 1908 su 27.000 ab. solo 5000 parlavano tedesco (specie a Roana, Rotzo, Foza), mentre ora il tedesco ha finito col cedere sempre più al veneto e si conserva solo nei luoghi più remoti. L’isolamento è stato rotto in seguito alla costruzione di molte strade militari, di cui esiste una rete abbastanza fitta. La via di penetrazione più importante dalla pianura è costituita dalla ferrovia Vicenza-Thiene-Rocchette-Asiago. Le altre strade non seguono le valli, troppo strette e profonde, ma superano con andamento tortuoso i fianchi dell’altopiano.

    Il Veronese

    Il Veronese è tra le regioni del Veneto quella che presenta la maggiore varietà di aspetti. Mentre infatti nel Basso Veronese le condizioni fisiche del Polesine si spingono, tra Adige e Mincio, molto profondamente entro terra e viene quasi a mancare o ha scarso sviluppo la pianura mediana, la regione subalpina e quella prealpina hanno invece ampia estensione.

    Le irrigazioni del Veronese. Opera di presa principale dal fiume Adige, alla Chiusa di Ceraino.

    La chiusa di Rivoli.

    La valle dell’Adige separa nettamente il rilievo dei Lessini dal Baldo e questo a sua volta, mentre s’affaccia a occidente sul Garda, che per buon tratto è lago veronese, è recinto verso sud dall’anfiteatro morenico del Garda. L’uomo ha cercato di trar profitto dal suolo e di migliorarne le condizioni in vario modo. Nel Basso Veronese si è provveduto alla bonifica idraulica, nel Medio Veronese che in qualche tratto presentava terreni troppo aridi, sono state eseguite opere irrigue che riguardano complessivamente 600 kmq. (di cui 350 irrigati dall’Adige), nell’Alto Veronese è frequente il terrazzamento delle pendici collinose. La varietà di condizioni fisiche si rispecchia nella molteplicità delle colture, tra le quali prevalgono i cereali, ai quali è riservato la maggior parte dei seminativi, i quali occupano i due terzi del suolo. Il riso, che trova condizioni favorevoli nelle terre leggere della Bassa, è pure coltivato. Ma i profitti maggiori si ricavano dal tabacco, la cui coltura investe quasi 3000 ha., a non lontana distanza dalle province di Lecce e Perugia. Molto sviluppate sono pure le colture foraggere che in parte servono ad alimentare l’allevamento bovino (nel quale prevale il ceppo bruno-alpino nella zona prealpina, quello pugliese nella bassa pianura, dove le colture industriali e i terreni di bonifica esigono animali da lavoro), in parte danno luogo a un’esportazione di fieno di medica, che raggiunge anche la Svizzera. E mancato al Veronese uno sviluppo industriale simile a quello del Vicentino, ma in compenso vi si nota una maggiore varietà di imprese: oleifici e lavorazione di oggetti in legno sulla riviera del Garda, filande, concerie, cartiere, mobilifici, fabbriche di bottoni, stabilimenti per la produzione del bario e del solfuro di sodio, e nella zona dei Lessini fonderie di campane, laboratori per marmi colorati, essiccazione delle radici di ireos nelle valli d’Illasi e di Tregnago e confezione di ceste di vimini a Zévio.

    L’alto agro veronese, con terreni leggeri, povero d’acqua, ricco di pascoli magri e di gelsi, comprende una vasta zona sita sia a sinistra dell’Adige, tra Rivoli e Verona, sia a destra tra i dintorni di Pastrengo e Zevio. A destra dell’Adige la zona che aveva maggior necessità di irrigazione, data la presenza di terreni permeabili soggetti a siccità, era delimitata verso est dal corso dell’Adige da Bussolengo a San Giovanni Lupatoto, a nord e a ovest dal sistema morenico delle colline veronesi e a sud dalla linea delle risultive, affioranti tra Mozzecane e San Giovanni. Questa zona è formata essenzialmente da una conoide diluviale alquanto inclinata nella quale la permeabilità del suolo e le condizioni climatiche determinano un’idrografia molto povera, per cui l’aspetto era quella d’una landa poco fertile, con terreni rossastri (terre volpine). Ivi sono stati costituiti molti consorzi (per oltre iooo kmq.), tra i quali il principale è quello dell’alto Agro veronese, che deriva l’acqua dall’Adige. Anche a sinistra del fiume, tra Volargne e Parona, esistono vaste zone irrigue, che hanno valorizzato (1919-24) dei terreni rimasti fino a poco tempo fa quasi improduttivi, perchè morenici o dovuti a vecchie ghiaie dell’Adige, poveri di sostanze organiche. In passato esistevano lungo le rive dell’Adige delle grandi ruote, simili a norie, che portavano l’acqua a livello delle campagne. Ora a Pontón, presso Sant’Ambrogio di Valpolicella, esiste un grandioso impianto di sollevamento, integrato da impianti minori, collegato a una rete di canaletti pensili. Sono stati creati moderni pescheti (specie presso Pescantina), vigneti, prati di erbe da foraggio, dando nuova vita a contrade povere e poco abitate con un’agricoltura evoluta che fa largo uso di concimi e di mezzi meccanici. Specie i pescheti specializzati occupano nel Veronese molto spazio, mentre la coltura del melo, per la quale ha rinomanza Belfiore, è in prevalenza promiscua. In complesso le colture arboree, dotate di radici profonde, trovano condizioni più favorevoli delle colture erbacee. Questa zona fa già parte della Valpolicella, la quale comprende oltre questa parte bassa una zona intermedia, densamente popolata fin oltre 900 m., dove pianure e colline si alternano in una serie di poggi e di vallette coltivati a vigneti, favoriti da particolari condizioni di esposizione, e una parte più alta, ricca di pascoli e di boschi, che si collega ai Lessini. Gran parte dei 10.000 ha. di vigneti del Veronese sono in questa zona e nelle colline che si estendono dalle rive del Garda attraverso la zona morenica benacense e la Val d’Adige fino ai confini della provincia di Verona. Nomi famosi nel campo enologico sono quelli di Bardolino (dal color rosso vivo), Valpolicella (pure rosso, prodotto in 8 comuni), Soave (di color bianco). La fillossera anche nel Veronese ha causato gravi danni e vi è la tendenza a sostituire in pianura la vite col frumento, mentre in collina essa guadagna posto a spese delle colture erbacee. Mentre la Valpolicella gravita verso Verona, più isolata è la valle dell’Alpone che fa da transizione con la sfera d’influenza di Vicenza.

    Aspetti particolari assume il paesaggio nell’anfiteatro morenico del Garda, che si ricollega verso nord, tra Adige e Garda, al massiccio del Baldo. Alla varietà di condizioni pedologiche corrisponde una diversa utilizzazione del suolo e la vite e il gelso occupano i terreni migliori. Nei luoghi riparati, specie in prossimità del Garda, trova condizioni favorevoli pure l’olivo, mentre un certo numero di alberi alligna a coltura promiscua. Per quanto si trovi già in pianura, capoluogo di questa regione morenica veronese si può considerare Villafranca, che va pur essa compresa, come risulta dal suo nome, dalla pianta regolare e dagli scontri ivi avvenuti durante le guerre per l’indipendenza, in quella serie di località fondate nel tardo Medio Evo a guardia dei confini veronesi ; essa faceva parte della « linea scaligera », robusto mura-glione munito di torri e fosse e lungo circa 15 km., innalzato da Mastino II (1346-47) tra i dintorni di Valeggio (sul Mincio) e quelli di Nogarole (presso le sorgenti del Tàrtaro), onde proteggere l’alta pianura veronese, che era priva di punti d’appoggio per una difesa efficace. A cavaliere del Mincio, ove questo esce dal Garda, un altro luogo forte (venuto a far parte del Veronese solo nel 1859) è Peschiera, nota già dal Medio Evo come « bello e forte » arnese militare.

    Le Valli Grandi Veronesi si estendono per 200 kmq. su un tratto di pianura, compreso tra l’Adige, il Tàrtaro e il Po. Un tempo erano dette Valli Veronesi a

    sinistra del Tàrtaro, che nasce poco a sud di Verona, presso San Giovanni Lupatoto, e Valli Ostigliesi a destra del Tàrtaro. Le falde acquifere filtrano nella conoide fluvioglaciale e affiorano tra Mincio e Adige dando origine a polle di risultiva e a numerosi rivi paralleli che confluiscono nel Tàrtaro. I terreni, ghiaiosi e argillosi, si susseguono dall’alto in basso sempre più fini, mentre talvolta le sabbie sono state rimaneggiate dal vento e disposte in dossi, che l’uomo ha poi spianato e messi a coltura. L’aspetto originario era rappresentato da fiumi non ancora arginati, lungo i quali si estendeva una sorta di foresta fluviale a pioppi « piramidali », ontani, salici glauchi, tigli e olmi, e poi prati paludosi, paesaggio povero e uniforme che è stato progressivamente trasformato con le opere di bonifica, per cui ora l’ambiente idrofilo delle antiche paludi è limitato (1500 ha.) a piccole zone a carici, dove domina l’erba carezza, accompagnata da equiseti. L’estensione delle valli non fu sempre la medesima, poiché nell’epoca romana erano meno ampie che in quella medievale (quando le inondazioni del Tàrtaro e dei fiumi vicini le impaludarono) e i primi tentativi fatti per bonificarle, uniti ad alcune rotte famose (tra cui quella di Castagnaro dei primi anni del 1400), al prolungarsi del delta padano e allo spostamento positivo del livello marino, con la conseguente elevazione dei profili fluviali, non fecero che restringerle a valle ed allargarle a monte. Altra causa che influì sulla variazione della loro area e sui loro confini fu la costruzione di argini sempre più potenti da parte delle popolazioni rivierasche sull’Adige e sul Po diventati sempre più alti e inetti a ricevere affluenti naturali e canali di scarico, provenienti da terreni più bassi.

    La punta di S. Vigilio sul lago di Garda.

    Veduta di Garda.

    Inoltre la rotta del Castagnaio immise nel Tàrtaro, che fino al 1400 era servito da ottimo scaricatore di quelle paludi, le acque bianche dell’Adige (donde il suo nome di Canal Bianco a valle della rotta) ed esso perdette sempre più la sua funzione defluente. La gravità umana ed economica del problema ha spinto (1838-57) a chiudere il loro diversivo rimasto aperto per quattro secoli e scavare la Fossa Maestra (47 km.), con la speranza, solo in parte realizzatasi, di dividere le acque alte dalle basse. D’altra parte il forte costipamento del sottosuolo torboso ha abbassato questi terreni e anche il Tàrtaro dovette venir arginato. Le zone ancora acquitrinose palustri e improduttive (che occupavano 12.000 ha.), e quelle soggette ad allagamenti annuali (12.000 ha.), sono salvate da ulteriori peggioramenti mediante il lavoro (iniziato nel 1886) di 60 idrovore, che sollevano le acque di scolo e le immettono parte nella Fossa Maestra, parte nel Tàrtaro. Ma poiché questa tormentata regione non era ancora bonificata del tutto, era prevista la costruzione d’un grande canale di navigazione per natanti della portata di 600 tonn. dalla foce del Po di Levante al Mincio, ad alimentare il quale avrebbero dovuto concorrere insieme le acque del Mincio e quelle del Tàrtaro, sostituendo al corso attuale di questo fiume e del Canalbianco inferiore e superiore, un grande canale. I lavori furono iniziati nel 1938, ma poi interrotti. Il terreno è di buona qualità e fertilissimo, ma le case sono ancora poche e poche le strade, per lo più rettilinee come i canali di bonifica, e una parte della popolazione vive distante dai campi. Prevale infatti la grande e media proprietà o affittanza di tipo postbonificatorio a colture cerealicole, alternate da bietole da zucchero, tabacco, risone (sostituito ora da grano), leguminose. Compare pure la vite, tenuta a festoni sostenuti da pali o da alberi in filari. I sei comuni della provincia di Verona compresi nelle valli tra il 1871 e il 1951 hanno visto aumentare gli abitanti (che sono 65.500) di 29.000 unità. Il terreno coltivato è passato da 7500 ha. (1858) a 27.000 ha. e mentre la coltura del mais ha su per giù la stessa importanza che nel passato, in forte aumento risulta quella del frumento. Centro principale del Basso Veronese è Legnago.

    Un aspetto dei Monti Lessini.

    Veduta di Ferrara di Monte Baldo.

    Al Veronese spettano anche il Monte Baldo ed i Lessini. Verso settentrione le colline moreniche e terziarie si ricollegano insensibilmente alla catena del Monte Baldo (Cima del Telegrafo o Monte Maggiore, m. 2200), che si allunga per una quarantina di chilometri da nord-nordest a sud-sudovest tra la Val Lagarina e il Garda, coprendo una superficie di circa 500 chilometri. Esso scende con un pendio regolare verso il lago, è in alto brullo e roccioso, in basso coperto da oliveti e vigneti, mentre verso levante ripiani (occupati da pascoli) e declivi s’alternano con pareti verticali in rapporto con la diversa inclinazione degli strati, tanto da dar luogo a una catena secondaria. La montagna è ricca di marmi, tra i quali è noto specialmente il broccato, tratto da un calcare ammonitico rosso, e di piante rare (onde fin dal Cinquecento il Baldo era detto « orto d’Italia »), mentre è povero d’acqua, assorbita dai calcari. Nella valle più notevole rivolta verso sud (risalendo la quale una mulattiera percorsa fin dal Medio Evo, detta la Campiona, mette in rapporto il Veronese col Trentino passando per Ferrara di Monte Baldo) è sorto Caprino, raggiunto da una ferrovia, dalla quale si stacca un tronco che tocca il lago a Bardolino e continua fino a Garda. L’importanza di questa ultima località e del suo castello, nelle epoche passate, è resa palese dal fatto che il suo nome ha sostituito quello di Benaco per designare il lago. Ora vi prevale l’attività peschereccia, rivolta soprattutto alla cattura del carpione, salmonide che ama le profondità e si sposta verso sudest, dove il lago è meno profondo, all’epoca della riproduzione. Verso nord le località costiere, tra le quali è Malcesine, sono state avvantaggiate dalla costruzione della strada gardesana orientale, che collega il Veronese al Trentino lungo le sponde del Garda. Nei Lessini è possibile distinguere una regione collinosa (della vite) fino a 500 m., montana (della quercia) tra 500 e 1000 m., subalpina (delle conifere) tra 1000 e 1500 m. e prealpina (del pino mugo) tra 1500 e 2200 metri. La parte mediana corrisponde all’altopiano dei Tredici Comuni, fra il Vaio dei Falconi, che lo delimita a occidente, e la vai del Chiampo, che lo chiude a oriente. Durante il Medio Evo e fin che durò la repubblica veneta tale territorio costituì un’unità amministrativa autonoma (Vicariato della Montagna, dipendente dal monastero di San Zeno), comprendente 13 comuni, di cui 7 tuttora esistenti. Meta fin dal 1287 di immigrati bavaresi provenienti dal Vicentino e venuti ad occupare, con l’autorizzazione del vescovo Bartolomeo della Scala, territori disabitati, ora il dialetto tedesco non si parla che da pochissimi abitanti. Per le abbondanti precipitazioni (intorno a 1300 mm.) prevalgono i boschi ed i pascoli (lessino è infatti parola locale, che significa « terreno pascolativo »), ma essendo la proprietà molto suddivisa, si addivenne ad un importante diboscamento, al punto tale che nei tratti a maggior pendio il mantello erboso è scomparso e, salvo nelle valli più profondamente incise, data la natura calcarea e fessurata delle rocce sottostanti, l’acqua superficiale è andata diminuendo (prevale infatti un’idrografia carsica), cosicché la zona è povera di acque e abbisogna, per il suo rifornimento idrico, di vari acquedotti. La popolazione è piuttosto sparsa e vive più che altro di risorse silvo-pastorali, dell’industria del legno e di quella turistica e solo in piccola parte di prodotti agricoli (castagne, patate, ciliege, pochi cereali). Tra le località abitate una posizione d’altopiano per molti riguardi simile ad Asiago ha Bosco Chiesanuova (m. 1104), rinnovata in epoca recente sotto la spinta del turismo estivo; Tregnago (m. 313) è invece un centro di valle, sito nel progno d’Illasi. Ma i centri principali sono stati attratti dalla strada pedemontana che unisce Verona a Vicenza, dove le valli principali scendenti dai Lessini raggiungono la pianura. Tale è la posizione di Soave sul Tremegna, che abbiamo già ricordato per i suoi vini e che ora è un notevole mercato agricolo, mentre ha avuto in passato importanza militare, come mostrano le sue mura merlate (con 24 torri), erette dagli Scaligeri. San Bonifacio è pur essa centro agricolo, che ha visto intensificare attorno a sè le colture, ed è sede d’uno zuccherificio. In questa zona bassa si sono verificati dei fenomeni di sovralluvionamento, come appare dal fatto che emergono dalla pianura soltanto le sommità del rilievo oppure le valli inferiori sono riempite da alluvioni estranee al bacino.

    Il chiostro di San Zeno a Verona.

    La media e l’alta valle del Piave

    La regione più montuosa del Veneto, che da Cima Vanscuro al Peralba confina con la repubblica austriaca, ed è limitata a sud, tra il Grappa e il Col Visentin, dalle Prealpi, corrisponde alla provincia di Belluno. Essa si estende infatti su quasi tutte le Alpi dolomitiche orientali, che il Passo di Monte Croce separa dalle Alpi Carniche, e corrisponde a grandi linee al medio ed alto bacino del Piave a monte di Valdobbiadene. Le spetta pure, a occidente della Sella di Artén (m. 322), il corso inferiore del Cismón, affluente del Brenta. Le Dolomiti costituiscono una poderosa barriera attraverso la quale le acque del Piave e dei suoi affluenti, che si congiungono spesso ad angolo retto formando le maglie d’un reticolato, hanno scavato delle strette valli. Le pieghe racchiudono ampie placche di terreni marnoso-arenacei e nei pochi punti, dove minore era la durezza delle rocce, le valli s’allargano in conche. Queste hanno attirato gli abitanti, sia sul fondo che sui terrazzi alluvionali o glaciali e sui pendii laterali, in modo da costituire delle isole di popolamento, separate da vaste aree deserte costituite dai terreni calcarei, isole che hanno particolari denominazioni. L’importanza e il numero dei centri sono strettamente in rapporto con l’ampiezza delle conche, dato che in esse si trova la maggior parte del terreno coltivabile.

    Vedi Anche:  Regioni storiche e amministrative del Veneto

    La Val Belluna col Monte Tomatico. In primo piano il corso del Caorame affluente del Piave.

    I caratteri di elevata regione montuosa, con terreni poveri e scarsamente produttivi, si rispecchiano sia nella modesta densità di popolazione (un po’ più elevata solo nella Val Belluna e nell’Alpago, in relazione alla modesta altitudine e all’esistenza di terreni più fertili), sia nella considerevole emigrazione, diretta al presente soprattutto verso la Francia e la Svizzera. La densità sfuma regolarmente verso l’alto e tra zone abitate e disabitate vi è una fascia popolata solo temporaneamente all’epoca dell’alpeggio e della fienagione. Intorno ai villaggi più elevati, i seminativi hanno di frequente il carattere di orti piuttosto che campi. Anche il modo di lavorare il terreno, con la zappa, richiama l’orticoltura. Solo di rado i pendii sono intagliati da ripiani per la coltivazione. I terreni si lasciano alternativamente in riposo e un empirismo tradizionale è seguito dalla maggioranza dei coltivatori, per i quali non occorre dar troppe cure ai prodotti della terra, perchè è troppo scarsa e le coltivazioni corrono l’alea delle soverchie piogge estive e delle brinate già verificantisi in settembre nel qual mese, può dirsi, si chiude l’anno agricolo per la maggior parte dei villaggi. L’altitudine raggiunta dalle abitazioni permanenti rimane al di sotto delle altezze ove vi è la possibilità di coltivare; colture si fanno anche intorno agli stavoli, abitazioni pastorali superiori alla zona dei villaggi, frequentate in primavera e in autunno. La borgata più elevata è Arabba (m. 1612) presso le sorgenti del Cordévole. Importanza assai maggiore delle coltivazioni hanno la praticoltura e la selvicoltura. Fonte assai cospicua di guadagno per la popolazione è la bellezza del paesaggio, che attrae gran numero di villeggianti. L’emigrazione temporanea, che ha cominciato ad assumere importanza quando l’attività industriale è cominciata a decadere, deriva da cause economiche, data la necessità d’integrare le risorse locali. In alcuni anni ha assunto proporzioni rilevanti (per es., nel 1901 sono emigrate temporaneamente dalla Val Belluna 124 persone su 1000, con un massimo di 313 persone, quasi un terzo dell’intera popolazione, dal comune di Trichiana) ed ha causato un minor attaccamento ai lavori campestri, attenuando la persistenza di costumanze patriarcali. E stata la prima guerra mondiale che ha determinato un diverso orientamento delle loro attività e un profondo cambiamento nelle abitudini degli abitanti. Trascurati i lavori più faticosi e meno redditizi, intraviste altre possibilità nel settore dell’industria o nelle più facili occupazioni in città, non ricostituito il patrimonio zootecnico, si modificarono i programmi e si presero altri indirizzi. Ora sono soprattutto le donne che trovano nei centri della pianura lombarda e nella Svizzera salari rimunerativi. L’emigrazione permanente è rivolta verso la Lombardia, il Piemonte, la Francia. La struttura a conche ha determinato in questa parte delle Alpi orientali lo sviluppo di alcune regioni ben differenziate, delle quali faremo brevemente cenno: la Val Belluna, l’Alpago, l’Agordino, il Livinallongo, lo Zoldano, il Cadore, l’Am-pezzano, il Comélico.

    Veduta di Lamón nella valle del Cismón.

    Il Nevegal col rifugio Bristot.

    Col nome di Val Belluna si designa localmente la media valle del Piave, compresa tra le Alpi e le Prealpi Bellunesi, lunga 45 km., larga da 8 a 10, per la quale nel Medio Evo s’impiegava il nome di Valle Serpentina, andato poi in disuso nel Seicento. In corrispondenza di essa il Piave muta di direzione e la sua valle presenta maggiore ampiezza. Attraversata con un letto ampio e irregolare tutta la sinclinale, cioè la valle longitudinale d’origine tettonica, compresa tra le due anticlinali costituite dalle Alpi e dalle Prealpi Bellunesi (pur senza che vi sia perfetta corrispondenza tra asse idrografico e asse tettonico), il fiume si apre nuovamente la strada nei calcari con una valle trasversale (stretta di Quero). Della superfìcie agraria i due terzi sono riservati ai prati ed ai pascoli, poco più di un decimo al bosco e altrettanto ai seminativi, i quali si raccolgono nel fondovalle, ma più che una zona continua formano piccole isole nelle vicinanze dei villaggi e delle case isolate, che verso gli 800 m. cedono il posto al bosco e al pascolo; raro è infatti trovare campi coltivati al di sopra di tale altezza. La proprietà risulta frazionarissima e prevale come coltura il granturco, in campetti di forma rettangolare, dove è misto ai fagioli. Minore estensione del seminativo nudo ha il seminativo arborato (vitato), per la necessità di non far troppa ombra ai terreni. Ma la vite è anche troppo diffusa, tenuto conto della mediocre qualità dei vini che produce, piantata a ceppo alto, maritata ai pioppi, salici, frassini, in filari posti sulle colline, di preferenza in senso trasversale al pendio. E l’allevamento bovino che costituisce il nerbo dell’economia agricola, determinato dall’estensione dei prati e dei pascoli. Sui monti che limitano la Val Belluna vi sono 150 malghe, nelle quali pascola d’estate circa un terzo di tutti i bovini (33.000). La densità umana risulta abbastanza alta se si tien conto dell’estensione dei terreni sterili e poco produttivi, 120 ab. per chilometro quadrato. Un quarto circa della popolazione vive in case sparse, il resto è distribuito in 230 centri, i quali si mantengono al di sotto di 800 metri. La vita si raccoglie nel fondo dell’ampio bacino ai margini del quale si sono sviluppate le due località più importanti, Belluno e Feltre, e modesta risulta pure l’altezza degli abitati rispetto al fondovalle; ciò si spiega sia con l’orografia della regione, che costituita com’è, a somiglianza d’una barca, a fianchi ripidi, offre condizioni favorevoli solo nel fondo, fertile ed ampio, sia con l’abbassamento dei limiti altimetrici nelle parti esterne della catena alpina; i paesi sono stati attirati specialmente dalle terrazze che s’innalzano di circa 200 m. sul fondo della valle (450-550 m.). Frequente è la ricerca d’una esposizione soleggiata. Recente è lo sviluppo come zona turistica del Nevegal, ripiano calcareo pianeggiante posto intorno a 800-1000 metri presso il versante settentrionale delle Prealpi Bellunesi, che è stato collegato a Belluno con una buona strada, rifornito di acqua (sollevata con elettropompe da una vicina sorgente carsica) e di energia elettrica, in modo da permettere la costruzione di alberghi e di villini. Esso si presta assai bene anche ai diporti invernali. Alla Val Belluna si ricollega, attraverso la depressa sella di Artén, la valle del Cismón bellunese. L’economia di questa parte più occidentale della provincia di Belluno, malgrado l’altitudine modesta, è alquanto povera e l’emigrazione temporanea è considerevole; tuttavia Lamón è noto per l’allevamento ovino, specie quello seminomade che porta tuttora i suoi pastori (e li portava ancor più nel passato) a grandi spostamenti tra le montagne calcaree (Marmarole, Pelmo, Vette Feltrine, ecc.), dove pascolano nei mesi estivi nei piani più alti, e la pianura padana (bassure circumlagunari e del delta padano), dove vanno a svernare. L’utilizzazione del suolo è spinta al massimo e le ripide pendici solatie dei dintorni di Fonzaso, un tempo ghiaiose, sono ora coperte da vigneti, che dànno redditi ben superiori dei campetti di mais. Fertile e ben coltivata è anche la conca di Arsiè.

    Panorama di Rocca d’Arsie nella Conca d’Oro (valle del Cismón).

    Un’unità geografica ben definita (ampia 185 kmq.) costituisce pure l’Alpago, che comprende la parte delle Prealpi Carniche situata tra il Monte Dolada e il Cansiglio, che manda le acque al lago di Santa Croce attraverso il torrente Tesa. Verso il Friuli i rapporti sono scarsi e i passi poco frequentati, verso la Val Belluna l’Alpago invece si ricollega facilmente alla valle del Piave. Geologicamente esso è la continuazione della sinclinale bellunese contorta verso sud, in parte costituita da formazioni recenti (Scaglia ed Eocene), le quali con la loro impermeabilità hanno reso possibile la raccolta delle acque nel lago di Santa Croce. L’Alpago ci si presenta come una regione collinosa, dai morbidi pendii, coperto da frutteti, prati e boschi, solcato da valli e vallette. La linea di mille metri, al di sopra della quale non ci sono nè villaggi, nè case isolate, segna il limite tra due regioni distinte; in alto prevalgono rocce permeabili aride e nude, mentre al di sotto vi sono terreni diversi, coperti da campi e prati. Gli abitanti sono circa 12.000, suddivisi in numerosi villaggi, riuniti in 5 comuni (Chies, Farra, Pieve, Puos, Tambre). L’Alpago viene ricordato nel 923 col nome di Vallis Lapacineiisis, che diventa in seguito Lapago e Alpago.

    L’Agordino comprende gran parte della vallata del Cordévole, nota per le antiche miniere di calcopirite, per le frane e per grandiosi impianti idroelettrici. Gli abitanti traggono le loro risorse dal commercio del legname e dai prodotti del caseificio (con una produzione di 80.000-100.000 kg. di burro all’anno). Nella parte mediana, detta Sottochiusa, ove confluiscono alcune vallette laterali, siede Agordo (611 m.), in una conca cinta da alte montagne (Agnèr, Pale di San Lucano, Moiazza, ecc.). In basso, fin verso i 1600 m., compare la serie arenaceo-marnosa ; più in alto predominano rocce dolomitiche. Esiste qui un’importante dislocazione, probabilmente terziaria, alla quale sono collegati i giacimenti di cinabro (Vallalta) e di pirite cuprifera (Valle Imperina). Nel passato il minerale veniva torrefatto sul posto e bruciava spontaneamente, grazie allo zolfo; per via umida si ricavava poi rame, zolfo e solfato di ferro; la vegetazione dei dintorni era molto degradata a causa dell’acido solforico, derivante dall’anidride solforosa, che fino al 1890 andava perduta; ora invece viene utilizzata dato che, ridotto il materiale a piccoli pezzi, viene spedito alle fabbriche di concimi di Marghera e di Vicenza. Spettano all’Agordino le propaggini orientali e settentrionali del gruppo dolomitico delle Pale di San Martino; lungo la valle del Biois e fino al lago di Alleghe compaiono conglomerati, tufi e lave melafiriche. Verso sudovest si ricollega all’Agordino, attraverso un passo non molto elevato (Forcelle Franche), l’alta valle del Mis, che ha per centro principale Don di Gosaldo; il paese è povero e dà un forte incremento all’emigrazione temporanea, soprattutto di seggiolai, che s’intendono tra loro in un gergo speciale.

    Panorama di Cencenighe (Agordino).

    Veduta di Gosaldo fra le Dolomiti Agordine.

    La parte dell’Agordino situata a monte del luogo dove, presso Listolade, vi era un’opera fortificata che sbarrava la valle, si chiama Soprachiusa; ivi è compreso anche Alleghe. Qui il raddrizzamento degli strati ci attesta l’esistenza d’importanti disturbi tettonici. La pendenza eccessiva dei piani di stratificazione, favorendo la circolazione delle acque tra banco e banco, ha agevolato lo scivolamento dei banchi superiori su quelli inferiori, come è avvenuto per la frana di Alleghe; si riconosce tuttora la zona di distacco, i grandi liscioni, rigati dal materiale slittato, e nella valle la massa precipitata che ha sbarrato il corso del Cordévole. La massa d’acqua invasata era in origine di 17 milioni di me., ma è diminuita ora a 6 milioni, avendo il Cordévole trasportato nel lago 11 milioni di me. di detriti, in prevalenza conglomerati, tufi, brecce del territorio eruttivo della Marmolada, che più facilmente sono preda alle frane. Anche la Val Fiorentina e la sua continuazione verso ovest, la Val Pettorina, hanno subito forti dislocazioni. L’erosione delle acque ha creato pareti verticali, simili a cahons, di cui un esempio sono i serrai di Sottoguda, attraverso i quali la Pettorina va al Cordévole, stretto corridoio scavato nel calcare conchiglifero, lungo 2 chilometri.

    Distinto dall’Agordino, soprattutto per ragioni storiche, è il Livinallongo, cioè la valle dell’alto Cordévole, tra la sua testata e la valle confluente di Andraz, abitato da popolazione ladina e anch’esso noto per le frane e gli scorrimenti di terreni, dovuti all’esistenza di rocce argillose. La valle è piuttosto stretta e le sedi umane (come Pieve di Livinallongo), come pure le colture (un po’ di cereali e patate) hanno trovato posto sui ripiani più alti. La strada che lo traversa conduce a importanti passi (Pordoi, Campolongo, Falzarego), che lo mettono in rapporto con le valli del-l’Avisio, del Gader e del Boite. Non pare che il Livinallongo sia stato abitato in permanenza in epoca romana, ma veniva solo percorso da pastori. La colonizzazione della valle, che apparteneva al dominio vescovile di Bressanone, venne attuata nel secolo XI con elementi neolatini.

    Veduta di Pieve di Livinallongo con il Monte Boè.

    Dont nella Val Zoldana e il Monte Pelmo.

    Lo Zoldano è costituito dal bacino del Maè, torrente che finisce nel Piave presso Longarone. Esso si estende fra il gruppo delle Alpi Zoldane, che culminano nel Pelmo (m. 3168) e quello delle Agordine, che hanno il loro vertice nel Civetta (m. 3218). E appunto dai pendii orientali di questo massiccio che nasce il Maè, il quale, per un tratto scorre fra prati e malghe, ma, dopo Fusine, scende e s’incassa, finché, varcato Forno di Zoldo, prosegue fino al Piave, in una valle di aspetto nudo e selvaggio, intagliata nelle pareti dolomitiche del Trias superiore. Il suo corso misura 30 km., mentre i suoi affluenti di destra Duran, Prampèr e Grisol ne hanno otto per ciascuno e rispettivamente nove e sei quelli di sinistra, Mareson e Cervegna. Nello Zoldano si osserva evidente la morfologia glaciale a circhi e morene e presso Forno appaiono intense dislocazioni degli strati del Trias medio, dovute a una importante linea di disturbo. La vallata è ricca di boschi e di prati, con colture, in basso, di patate ed ortaggi, e in alto di cereali freddi. I suoi maggiori centri sono Forno di Zoldo, Fusine e Zoppè. Le case sono caratterizzate da vaste logge (soler), aperte nel sottotetto. La strada maggiore d’accesso alla vallata è la Longarone-Fusine, costruita tra il 1862 e il 1882 e prolungata nel 1910 fino alla Forcella Straulanza, ma vi si può pervenire anche da Val Cordévole pel Passo Duràn e dalla Val del Boite per Vodo. Forno di Zoldo, formato da parecchie borgate (840 m.), ricorda col suo nome le officine che lavoravano il ferro estratto dai giacimenti della valle e producevano, tra altro, cannoni per Venezia; anche il nome di Fusine, dato alla principale borgata del comune di Zoldo Alto, allude all’industria mineraria e metallurgica un tempo fiorente nella valle (e specialmente nei secoli XV e XVI). Ora le principali risorse sono offerte dall’agricoltura e dal bestiame, integrate in epoca recente dai profitti ricavati dal turismo e dalla villeggiatura. L’emigrazione stagionale sopperì, in parte, ai bisogni quando le industrie decaddero: uomini e ragazzi scesero d’inverno nelle città della pianura a fare i venditori ambulanti di frutta cotta, e, fino a qualche decennio fa, dei caratteristici pasticcini di mais (zaleti), poi anche nei mesi estivi a vender gelati. Da qualche anno è stata fondata l’associazione dei gela-tieri e caffettieri zoldani, che riunisce oltre 600 proprietari di negozi di gelati all’estero. In epoca recente nella tortuosa e pittoresca vallata è stato creato nella parte mediana, a 800 m. di quota, un lago artificiale lungo circa 3 km., ottenuto sbarrando il Maè presso Pontesei. Le acque del fiume, immesse in una galleria di 8 km., vengono prima utilizzate nella centrale di Gardona, situata poco sopra Lon-garone, e quindi affluiscono nella galleria dell’impianto del Piave.

    La conca di Sappada e il Monte Siera.

    Il Cadore è la regione storica formata dall’alto bacino del Piave a monte della borgata di Termine. Di esso fanno parte pure alcune piccole valli tributarie del Cordévole (Val Fiorentina con Selva di Cadore: Oltremonti), della Rienza (Rio Popena e Ru Bianco) e del Tagliamento (alti bacini dei torrenti Ongara e Lumiei). Nel Cadore si possono a sua volta distinguere varie unità minori. Si chiama Oltrechiusa quel tronco della valle del Boite che si estende a monte della stretta, un tempo fortificata, di Venàs, sino al confine con l’Ampezzo, là dove la cima Marcora e il Beccolungo formano il restringimento che divide l’Oltrechiusa dalla conca di Cortina. Comélico è la valle del torrente Pàdola, cui gli scisti paleozoici che formano il suolo vestito di verdissime praterie, conferiscono una fisionomia tutta propria; Oltrepiave è il territorio di Vigo, Lorenzago, Laggio e Pelós sulla sinistra del fiume, sulla strada della Carnia, distinto dal resto del Cadore per il fatto che in nessun altro punto lungo la parete sinistra della valle plavense, del resto breve e alquanto sterile, si trovano abitati permanenti di pari importanza, ampie distese prative e boschi. E finalmente valle d’Auronzo è il nome col quale si comprendono alcune borgate che sorgono allineate sui terrazzi di sinistra dellAnsiei a monte della stretta di Santa Caterina. Il Cadore conta circa 45.000 ab. e si stende (senza lAmpezzano) su 1170 chilometri quadrati. L’alto bacino del Piave risulta asimmetrico, dato che gli affluenti di destra hanno un’importanza molto maggiore di quelli di sinistra. Anche il Cadore risulta quindi assai più esteso sulla destra e mentre comprende vari gruppi delle Dolomiti orientali, abbraccia soltanto una piccola porzione delle Alpi Carniche: dei 70 paesi che lo formano solo 7 sono sulla sinistra. La parte orientale del Cadore è più povera di rocce dolomitiche e vi predominano invece formazioni più antiche di natura argil-loso-arenacea, nelle quali i pascoli si alzano fino alle cime più elevate, mentre nelle rocce calcaree si arrestano molto più in basso. Ma il paesaggio cadorino, pur infinitamente variato per forme e colori, è quello degli sfondi tizianeschi, con le cime che s’innalzano ardite verso il cielo da una cintura nereggiante di boschi. Il Cadore ha un clima di montagna con inverno freddo e secco, estate fresca e piogge abbondanti. Il nome del Cadore e dei Cadorini (Catubrini) risale all’antichità classica, ma solo verso il Mille compare il Comitatus Cadubrias, comunità composta da una decina di centenari (Comuni), ognuno dei quali comprendeva alcune regole (associazioni di famiglie), alle quali spettava, in base a propri statuti e consuetudini, il diritto di pascolo sul suolo comunale in modo indiviso. Vaste proprietà collettive spettano tuttora sia alla comunità cadorina, chiamata «magnifica» per la sua salda fedeltà a Venezia, sia a quella ampezzana; esse permettono di far pagare agli abitanti tasse limitate. Esistono pure boschi demaniali. Nel 1300 i comuni del Cadore, per garantire il fabbisogno di legname, decisero di vizare (cioè bandire dall’uso comune) alcuni boschi, tra cui quello di Somaclida (Auronzo), che la comunità donava nel 1463 a Venezia in segno di fedeltà. Le colture si riducono mano a mano che ci si sposta verso l’alto e aumentano invece le aree prative, destinate all’allevamento del bestiame. Grande importanza hanno pure i boschi, specie quelli di conifere, per quanto il legname non venga lavorato sul posto, ma solo sgrossato e segato. Gli abitanti vivono di preferenza in piccoli centri situati nelle valli, sui terrazzi, sui ripiani morenici. Non sempre i pendii rivolti a sud (per es., nella valle del Boite) presentano le condizioni migliori.

    Panorama di Santo Stefano, principale centro del Comélico,

    Veduta del Pomagagnon e d’una parte della conca di Cortina.

    Veduta di Auronzo di Cadore, a sinistra il lago artificiale, sullo sfondo le tre Cime di Lavaredo.

    Veduta di Lozzo di Cadore.

    Particolare importanza antropica assume quella serie di terrazzi di diversa altezza allineati lungo il Piave da Valle a Lozzo, il basamento dei quali è costituito da terrazzi permiani con grande sviluppo di gessi, spesso coperti da terreni morenici. Anche la strada a monte di Perarolo corre alta rispetto al corso del Piave, profittando dell’esistenza di antichi fondovalle terrazzati di origine fluviale o glaciale. Centro economico e politico del Cadore è Pieve, situata alla base d’un dosso arrotondato sovrastante al Piave, da dove è agevole comunicare con l’Am-pezzano e la Pusteria. In corrispondenza del paese passa una linea di disturbo tettonico, che continua verso Perarolo, complicando ancor più la struttura. Il paese si trova a oltre 300 m. dal fondo della valle del Piave, dove è la sua stazione ferroviaria (Calalzo). Alcuni comuni sono costituiti da più villaggi distinti, ognuno con un nome particolare (per es., Villa Grande, Villa Piccola, ecc.) per cui il nome del comune (come è il caso di Auronzo, Lorenzago, ecc.) abbraccia numerosi centri. Questi villaggi plurimi si allungano spesso per più chilometri, come è il caso di Auronzo le cui frazioni principali, divise alla loro volta in nuclei minori, costeggiano per 5 km. la riva sinistra dell’Ansiei, sostituita ora da un lago artificiale. A percorrere la valle, che conta in tutto 3950 ab., ci si aspetterebbe dal numero delle abitazioni che essa dovesse esser assai più popolata, ma ciò deriva dalla presenza di gran numero di stalle e di edifici che servono a riparare il fieno, alla posizione soleggiata, che le mette più in vista e alla loro ampiezza, che è spesso in rapporto con famiglie temporaneamente assenti. Una profonda trasformazione è stata operata in epoca recente sbarrando l’Ansiei a monte d’una angusta gola mediante una diga alta 30 m., che ha creato a 830 m. (il fondovalle era di 20 m. più basso) un lago stretto e allungato. Le caratteristiche case di legname d’un tempo, separate tra loro per evitare il pericolo di incendi, vengono sempre più sostituite con case in muratura, pur esse col tetto sporgente, ma con minor numero di ballatoi. Le case più antiche, per lo più a base quadrata, sono a più piani e servono per più famiglie. Fino a qualche decennio fa le comunicazioni erano lente e difficili, ma ora che il treno è giunto fino a Calalzo e che i servizi automobilistici risalgono anche le valli laterali, il turismo vi ha trovato condizioni molto favorevoli per diffondersi. I Cadorini sono una popolazione attiva, scaltra e vivace d’intelligenza, inclini all’emigrazione temporanea, per cui, quando viene eseguito il censimento della popolazione, migliaia di essi risultano temporaneamente assenti.

    Anche Ampezzo, come il Livinallongo, venne abitato stabilmente soltanto in epoca tardiva: prima della metà del secolo XI mancano tracce di sedi permanenti e solo nel 1318 è documentata l’esistenza del comune. «Verso questa data comincia a costituirsi un complesso di consorzi armentari (« regole ») che, sfruttando terre, pascoli, boschi in modo razionale, cominciano a dare una nuova impronta alla valle superiore del Boite, la quale, come c’insegna la denominazione di Ampezzo (= boscaglia pascolativa) era fino a quell’epoca esclusivamente brughiera e selva inospite e selvaggia » (Battisti). I coloni sono venuti dal Cadore e importarono nel nuovo ambiente, ricco di boschi e di pascoli, poco adatto alla coltura dei cereali (appena 600 ha. di arativo), i princìpi di solidarietà e di lavoro comuni al Cadore. Agricoltura e allevamento sono ora in regresso rispetto all’attività turistica, che ha a Cortina, favorita dalla posizione solatia della sua conca rispetto alla rete stradale, il suo massimo centro.

    Alla parte orientale del Cadore, pur avendo una posizione storica distinta, appartiene la conca di Sappada, che costituisce la testata del bacino plavense, paese povero, chiuso tra i suoi pascoli e le sue foreste, occupato fin dall’alto Medio Evo da una colonia tedesca, venuta all’inizio del IX secolo daWillgraten presso Sillian (alta valle della Drava) per sfruttare giacimenti di ferro, ora esauriti. Nel marzo 1852 il vasto comune è passato dalla provincia di Udine a quella di Belluno. Il ramo sorgentifero del Piave è quello che ha inizio sul ripiano di Sesis e passa per Sappada. Il paese si stende per quasi 4 km. e comprende 15 borgate, poste quasi tutte allo stesso livello (Granvilla, m. 1217; Cimasappada, ni. 1307), nella vasta conca leggermente inclinata. L’allevamento bovino costituisce la risorsa principale. Altri profitti vengono dai boschi, dal turismo e dall’emigrazione temporanea (muratori, falegnami, decoratori).

    Panorama di Venàs nel Cadore.

    S’innesta nella valle principale di Sappada quella affluente e secondaria di Visdende, che ha la figura d’una foglia di platano. Al picciolo corrisponde la gola percorsa dal torrente Cordévole, superata la quale si apre una splendida conca, cinta da ogni lato da montagne e mentre la parte centrale è occupata da una prateria, attorno si estendono delle foreste di conifere, limitate verso l’alto da pascoli e poi dalle cime del Palombino e del Peralba. Nella valle non esistono abitazioni permanenti, ma soltanto temporanee, chiamate casoni, che si riuniscono in gruppi.

    Per quanto abbia avuto vicende comuni, dal Cadore si differenzia il Comélico (il nome deriva forse da comunicans), regione ben individuata, che comprende una parte delle Alpi di Sesto e un tratto della catena carnica. Il Comélico è cinto da una fascia di monti spopolati, interrotto da profonde fosse e da ampie insellature, che lo mettono in rapporto col bacino del Piave (strada Auronzo-Pàdola) e con la valle di Sesto (passo di Monte Croce). Vivace è il contrasto tra i terreni antichi, scistosi ed arenacei, facilmente erodibili della parte bassa, lievemente ondulata, che più in alto dànno luogo a giogaie uniformi, a lunghi dossoni arrotondati, coperti di boschi e di prati fino alle vette, come Cima Vanscuro (per cui a ragione Carducci lo disse « il verde Comélico ») e le potenti masse gessose (con fenomeni analoghi a quelli carsici), calcaree e dolomitiche che formano la cintura di confine, come i denti del Cavallino e la dorsale del Palombino. L’asse idrografico è costituito dal torrente Pàdola, che confluisce nel Piave a Santo Stefano (o Comélico Inferiore), a 908 metri. La popolazione (circa 10.500 ab. su 279 kmq.) si raccoglie in una trentina di centri tra grandi e piccoli, di cui il principale è divenuto Santo Stefano, specie dopo che nel 1839 è stata scavata nella viva roccia la strada col Cadore, che percorre una profonda gola. I villaggi hanno preferito disporsi lungo le chine a solatio (villaggi di costa) con le case disposte in modo che la facciata sia disposta a sud. I limiti alti-metrici, studiati da O. Marinelli, sono tali che mentre la coltura del mais s’arresta a 952 m., il bosco si spinge un migliaio di metri più in alto (m. 1939); il limite delle coltivazioni principali (patate e orzo) è sui 1410 m., cioè a un’altezza intermedia e più prossima a quella degli stavoli che dei villaggi; in rapporto allo sfruttamento dei vari piani altimetrici troviamo i villaggi a un’altezza media di 1319 m., gli stavoli (o tabià) a 1419, i fienili a 1686, le casere a 1755. Ma l’attività agricola in questi ultimi anni ha perduto d’importanza e le colture sono ora in declino, dato che gli abitanti, ora che è venuto meno l’isolamento d’un tempo, disdegnano le pesanti fatiche di chi lavora la terra e preferiscono dedicarsi ad attività più rimunerative.