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Murgia e trulli

    Questa è la Puglia

    La Puglia Piana

    Si giunga in Puglia dal Molise o dall’Irpinia, si avverte col primo contatto che il Tavoliere dischiude un’altra unità regionale. Abbiamo lasciato alle spalle montagne non elevate ma aspre, valli non grandi ma infossate, un paesaggio un po’ ovunque cosparso di verde, più o meno intenso, dai prati ai pascoli, alla vegetazione e alle colture agrarie, alle foreste. Innanzi a noi è come un vuoto, freddo d’inverno e torrido d’estate: i confini della pianura tagliano orizzontalmente alla base la volta celeste.

    Si ritiene che il Tavoliere, anche durante l’età classica, sia stata la terra dei pascoli e la meta della transumanza abruzzese. E Varrone che, nella sua opera De Re Rustica (II, 36) ricorda che le greggi ovine erano condotte dalla Puglia nel Sannio per l’estivazione e che ciò arrecava buon profitto agli appaltatori ed al fisco. Il termine Tavoliere, come ho già detto, sarebbe derivato dal fatto che queste terre erano « catastate » nel tabularium, l’archivio demaniale della Romanità.

    Varrone denunzia per il suo tempo un fenomeno economico che non si può affatto contestare; ma egli non offre alcuna indicazione sulla entità del medesimo. Suggestionati da quanto avverrà molto tardi, nel secolo XV, si è generalizzato ed ingrandito l’aspetto di un Tavoliere incolto, abbandonato al pascolo ovino. In realtà questa visione contrasta con gli elementi offerti dalla stessa tradizione letteraria, che ricorda al centro del Tavoliere la città di Arpi: città che coniava nelle sue monete la spiga di grano e il grappolo d’uva, che riflettono i prodotti delle attività agrarie tipiche della regione pugliese. I Campi Diomedei, appellativo del settore nordorientale del

    Tavoliere, erano terre notoriamente feraci, dalle quali trassero vantaggio gli eserciti di Roma e di Annibale, e la stessa colonizzazione romana. Il grano di Arpi fu determinante nella lotta fra Romani e Sanniti per il dominio della Puglia, come si ricava dal racconto liviano (IX, 13).

    L’interpretazione della fotografia aerea, che rivela le tracce di paesaggi sepolti, ha indotto John Bradford, un eminente archeologo che ha studiato a lungo la nostra regione, a concludere le sue ricerche con queste osservazioni di massima: « Il Tavoliere è stato ritenuto come un classico esempio di area destinata durante la romanità alla pastorizia ed alla transumanza stagionale del gregge tra il piano e la montagna. Questo può ancora esser vero per le terre che non presentano tracce di coltivazione centuriata tra Foggia e il lago Salso; ma il quadro è ora molto diverso per le altre zone della pianura e per quelle in pendio che la circondano. Qui noi osserviamo (attraverso la fotografia aerea) campi centuriati e numerose superfici con solchi e fosse per le coltivazioni ». Non soltanto Arpi era centro agricolo, ma fiorì per tale motivo Her-donia in età romana. Orazio trova nel Tavoliere poca e pessima acqua da bere, ma ottimo pane!

    Più tardi Foggia con le sue fosse per il grano — fosse utilizzate sino al 1938 — rappresenta il simbolo del Tavoliere cerealicolo, da cui si esportava grano in diverse parti di Europa nel Medio Evo e nell’Età moderna. Il disalberato Tavoliere dell’età moderna, non era tale quando a sud di Foggia si estendeva il bosco dell’Incoronata, ricco di querce; quando Federico II, nella zona in cui sorgerà a distanza di secoli Orta Nova, fece costruire nel folto del bosco un castello di caccia. Pascoli, boschi, campi e cereali hanno costituito la fisionomia complessiva del Tavoliere.

    Arpi, già detta Argos Hyppium e poi Argyripa e finalmente Arpi, era il più importante capoluogo interno del Tavoliere: la Foggia dell’antichità. Si diceva che fosse stata fondata da Diomede, e ciò depone almeno per la sua importanza, confermata da notizie occasionali, come il fatto che possedesse un’ottima razza di cavalli (Varrone II, 6). Oggi di questa città rimangono ruderi insignificanti nell’area della Masseria Arpi a nordest di Foggia; sembra che la zona Montarozzi ne costituisse l’acropoli. Si arguisce che la cinta muraria fosse lunga circa 9 km. Nel museo di Foggia si conserva una buona documentazione di ceramica arpana, che presenta elementi autoctoni con spiccati influssi ellenici, e maggiore varietà rispetto a quella di Ordona.

    Le monete bizantine rinvenute ad Arpi testimoniano la vitalità cittadina anche dopo le invasioni barbariche, e rendono verosimile la tradizione che Arpi abbia determinato la nascita di Foggia.

    Altra importante città della Puglia Piana era Herdonia (ora Ordona), già all’incontro della via Aurelia Aeclanensis con la via Traiana. Fu nodo stradale aspramente conteso fra Romani e Cartaginesi; Annibale vi riportò due vittorie. La località ebbe successivamente vita grama, avendo perduto ogni importanza come nodo di traffico. Si segnalano i ruderi di un ponte e di un anfiteatro; dalla metropoli ancora oggi si ricavano abbondanti ceramiche, le quali però presentano un arcaicismo ingannevole perchè derivato dalla persistenza di antichi schemi.

    Il quadro antropico va completato con il ricordo di una città apula periferica, ma che era strettamente collegata all’economia del Tavoliere: Teanum Apulum. Dominava questa città il ponte sul Fortore, ed era il passaggio obbligato delle greggi provenienti dall’Abruzzo. Municipio romano situato sulla sponda destra del Fortore in posizione dominante la valle, è ora ricordato da scarsi ruderi.

    La sua funzione è stata successivamente espletata da Serracapriola, ove, secondo una ordinanza del viceré Don Pietro eli Toledo del 19 ottobre 1549, doveva recarsi « il Magnifico Doganiero, perchè consegnasse le locazioni del Tavoliere al bestiame abruzzese ». Tradizione questa ulteriormente mantenuta e ricordata da una epigrafe scolpita in una colonna romana.

    Lungo la costa era Elpis o Salpi o Salapia, che la tradizione asseriva fondata dai Rodii. Nel 29 a. C. la località fu abbandonata, forse per insabbiamento del porto o per assottigliamento del litorale, e la seconda Salpi fu edificata nell’interno, nel settore di nordovest del lago di Salpi. I ruderi della Salapia marittima si osservano tra Zap-poneta e Torre Pietre; quelli della Salapia interna sono in località denominata Monte di Salpi (acropoli; mura di cinta, ecc.). Annibale — secondo quanto scrive Plinio — indugiò per meretricio amore evidentemente nella Salapia marittima e non in quella lagunare.

    La cattedrale di Foggia dopo i recenti restauri (1960).

    La poleografia classica si completava con i centri di Luceria, Aecae, Ceraunilia e Sipontum dei quali abbiamo già parlato accennando ai maggiori centri pugliesi. La romanità colonizzò i Campi Diomedei — questa la denominazione della pianura o di parte di essa — i quali già erano famosi per la produzione del grano.

    Gli sconvolgimenti politici seguiti al crollo dell’Impero romano, rendono il Tavoliere una terra contesa, attraversata da tutte le invasioni. Le città della pianura come Ordona ed Arpi, la città sentinella sul Fortore: Teanum, sono travolte e costrette a vivere una grama esistenza sino alla loro totale estinzione.

    La mancanza di notizie impedisce di farci un’idea precisa della vita del Tavoliere in questo periodo: certo che Barbari da nord e Bizantini da sud scorazzarono imperversando su queste povere terre. L’unica città che si salvò da tante vicende per la sua posizione geografica periferica e marittima, e che, attraverso il suo Arcivescovo, esercitò una preminente funzione politico-religiosa, fu Siponto. Non bisogna infatti dimenticare che da Siponto germogliò, nel declino del secolo V d. C., la città di Monte Sant’Angelo. Forse pure in questi anni ebbe vita la città di San Severo, che avrebbe derivato il nome da un governatore locale, convertito dall’arcivescovo di Siponto.

    Intanto assistiamo al declino di Arpi e di Herdonia, alla distruzione di Teanum, a quella di Lucerà del 663 : i Lucerini si rifugiano a Lesina.

    Attraverso tanto travaglio di secoli avvengono la gestazione storica di Foggia e di San Severo e la rinascita di Lucerà e di Troia. Dopo il 1000 quindi il quadro antropico del Tavoliere è di poco immutato: permangono i centri abitati negli spalti immediati, con ubicazione insostituibile; nella pianura Arpi muore, ma negli stessi campi Diomedei, forse nella parte più depressa e naturalmente più repulsiva ma di certo più sicura, sorge Foggia.

    I secoli XI e XII sono caratterizzati dalla colonizzazione da parte di ordini religiosi. Sappiamo che già nel 1127 la badia di San Leonardo, sulla strada Foggia-Manfredonia, era in piena attività economico-religiosa con la guida dei canonici regolari di Sant’Agostino.

    Dal 1106 il Casale della Puglia era stato affidato alla cura della Badia di Trinità della Cava per cui la località assunse il nome di Casale Trinità, oggi Trinitapoli. Successivamente il popolamento del Tavoliere fu incrementato dall’abile politica sveva. Con Federico II iniziò forse vita cittadina Apricena, prima oscuro casale; Lucerà ospitò una colonia di Saraceni. Manfredi trasferì a Manfredonia la popolazione di Siponto.

    E in questo secolo che Foggia afferma il suo primato tra le più antiche e più recenti città del Tavoliere, abbellendosi con edifici pubblici e privati, e diventando il centro ufficiale e fiscale di quel grano, che abbondante si esportava da Siponto soprattutto ad opera dei Veneziani. Altri documenti parlano di vigne, specialmente intorno a Foggia, e di boschi magnifici.

    Più che una radicale trasformazione del Tavoliere, Alfonso I operò nella seconda metà del secolo XV un nuovo indirizzo economico, potenziando e organizzando anche giuridicamente i rapporti tra pianura e montagna, tra Tavoliere ed Abruzzo, resi complementari e interdipendenti dalla transumanza. L’opera del re aveva uno scopo fiscale e colpiva i privati ad esclusivo vantaggio delle rendite dell’erario reale, comprensivamente denominate: Dogana.

    Infatti alla base di tutta quest’opera di riforma erano taluni principi di autorità.

    Alfonso I recuperò i terreni demaniali, altri ne acquistò, ristabilì e fissò il tramite cioè le vie percorse dalle greggi transumanti. Tali vie armentizie erano e sono dette tratturi, tratturelli e bracci, a seconda della loro ampiezza ed importanza. Dodici erano i tratturi, per uno sviluppo complessivo di circa 1360 km.; su questi si innestavano sessanta tratturelli, per una lunghezza di circa 1500 km.; da questi diramavano undici bracci per una lunghezza di 161 km. Si trattava quindi di un completo sistema di circolazione con le sue arterie assiali, e con le sue ramificazioni sempre più capillari. Anche in Puglia, lungo i tratturi, vi era il «riposo»: ampia zona destinata appunto ad un temporaneo stazionamento delle greggi, ove ne occorresse la necessità. Il riposo del Tavoliere si estendeva su un’area di circa 23 ettari nell’alta valle del Triolo. Qui si procedeva al controllo fiscale del numero dei capi transumanti.

    L’abbazia di San Leonardo ai margini del Tavoliere.

    Foggia, dal 1468, diventa il principale centro di convergenza dei tratturi, sostituendosi a Lucerà, che forse da età romana, e sicuramente dal secolo XIII, era il centro pugliese topografico e fiscale della transumanza.

    Il 25 novembre, con cerimonia ufficiale, le greggi venivano introdotte nel Tavoliere. Esse erano già state ammassate nei più vicini riposi, ed i proprietari, detti per tale circostanza Locati, avevano già denunziato al Doganiere il numero dei propri capi. Il Doganiere assegnava l’area di pascolo della locazione, che doveva essere occupata entro il 28 novembre. «Ogni locato aveva diritto, per ogni 100 pecore, a24ettari di terre salde… cioè non rotte ancora dallo aratro e con erbe abbondanti; queste terre… prendevano il nome di poste quando comprendevano i ricoveri in muratura… La superficie pascoli va, sempre per 100 pecore, saliva a 36 ettari nelle terre semina-toriali ma incolte da più anni; si riduceva a 32 nelle terre nocchialiche, terre a riposo per due anni. E raggiungeva i 49 ettari nelle ristoppie: territori rimasti incolti dopo il raccolto dei cereali ».

    Perchè queste concessioni non subissero restrizioni, veniva proibita la coltivazione nelle terre salde; come pure era vietata la cessione in locazione degli erbaggi privati senza il consenso del doganiere, destinando alle semine, che si andavano dimostrando sempre più necessarie, le terre a ciò meglio adatte, dette di partata, cioè appartate dalle salde, gravate della servitù del pascolo da dopo il raccolto alle nuove semine.

    Vietata era anche la piantagione di alberi ed arbusti di qualsiasi specie per non ridurre le superfici pascolive, e si imponeva perfino la forma dell’aratro (piccolo e rotondo) perchè non si estirpassero le radici delle erbe. Quasi tutto ciò non bastasse a proteggere l’industria dell’allevamento transumante venivano stabiliti anche gli avvicendamenti colturali nelle terre a semina, assegnando una speciale zona a pascolo per gli animali da lavoro (buoi e cavalli), detta mezzana, nelle vicinanze delle masserie, che per nessun motivo poteva essere dissodata e utilizzata diversamente.

    Il Tavoliere veniva in tal modo vincolato su un indirizzo economico prevalente su qualsiasi altro, non per convenienza delle popolazioni locali, ma per il vantaggio esclusivo del sovrano. A questo introito o Aragonesi o Catalani o Austriaci o Borbonici non potevano nè volevano rinunziare, per cui il Tavoliere era condannato per legge ad una situazione di permanente immobilità economica, negli indirizzi colturali e nella proprietà terriera. Vivissima pertanto, anche se occulta e ai margini della legge, la lotta tra pastori e contadini, tra allevatori e agricoltori, e, sostanzialmente tra abruzzesi e pugliesi.

    Con legge in data 21 maggio 1806, il re Giuseppe Bonaparte aboliva di colpo ogni dazio, ogni diritto, ogni privilegio sulle terre del Tavoliere, ad eccezione della statonica o pascolo estivo; le masserie fiscali o sia le terre salde di corte a coltura, restavano censite in perpetuo ai coloni o possessori in atto, con il canone annuo di 54 ducati a carro, affrancarle in tutto o in parte. Venivano dichiarati di pubblica proprietà i tratturi, e quindi venivano reintegrati o garantiti dalla pubblica amministrazione. La statonica venne abolita nel 1808. Il Tavoliere diventava quindi in gran parte proprietà abruzzese. Il finale colpo di spugna ad ogni residuo del passato avveniva con la legge del 26 febbraio 1865.

    In pratica sino a questo anno le due contrastanti economie del Tavoliere impedivano che si affrontasse il grave problema che affliggeva questa vastissima pianura: il drenaggio delle acque. Le paludi divenivano sempre più ampie e frequenti, e il ristagno delle acque provocava danni progressivamente maggiori. Al ristagno delle acque si attribuivano inoltre le pessime condizioni igieniche della pianura, nella quale non sono esistiti per secoli, entro l’isoipsa di 100 m., villaggi o città di una certa consistenza demografica ad eccezione di Foggia.

    La colonizzazione del Tavoliere inizia nella seconda metà del secolo XVIII, dopo che studiosi di varia specializzazione l’avevano auspicata e dimostrata necessaria per il rifiorimento della vita in queste plaghe abbandonate a se stesse. Ma le vantate innovazioni di Ferdinando IV non toccano quelle del Tavoliere della Dogana, che aveva bisogno del primo colpo di piccone, bensì quei vasti possessi che venivano incamerati dal regio patrimonio, in seguito alla soppressione dei Gesuiti del 27 luglio 1773.

    Qualche anno prima, e precisamente nel 1761, sulle ondulazioni settentrionali del Tavoliere, sorgeva Poggio Imperiale ad iniziativa di Placido Imperiale Principe di Sant’Angelo, che aveva pure favorito l’immissione di diciassette famiglie albanesi. Colonizzazione anche questa periferica e atta a dimostrare che la popolazione pugliese del Tavoliere era molto scarsa.

    L’ultimo centro abitato fondato nel Tavoliere prima dell’unità d’Italia è San Ferdinando di Puglia, ove Ferdinando II raccolse gli abitanti di Saline (ora Margherita di Savoia), decimati dalla malaria. Si ripeteva a distanza di secoli, in identiche condizioni d’ambiente, l’abbandono della costa e l’arretramento della popolazione in zone più interne, come era avvenuto per Salpi.

    Anche questa colonizzazione conferma che risultava ancora esatto e valido quanto Domenico Maria Cimaglia aveva scritto nel secolo precedente : « E la Capitanata non ha popolo che sia sufficiente a guidare il proprio armento o a coltivare grossolanamente i propri campi. Tutto ciò è l’effetto della mancanza della proprietà dei fondi ». Scarsa quindi la popolazione dei centri, nulla la popolazione nelle campagne.

    L’accentramento della popolazione del Tavoliere è determinato dalla convergenza della scarsa entità della popolazione e della mancanza di proprietà privata. Il Galanti notava nella Descrizione delle Due Sicilie : « Generalmente nella Daunia i possessori sono in primo luogo il fisco coi baroni, in secondo luogo le chiese; e questi due rami assorbiscono quasi tutte le terre ed i loro prodotti. Le comunità ne hanno una piccola parte ed i particolari niente. A San Severo due soli cittadini hanno un poco di terra in pieno dominio e questa terra non eccede 130 versure; tutto il resto — circa 11.500 versure — è in mano del barone e delle chiese».

    La vita, oggi

    San Severo con i suoi 47.875 ab. (nel comune 48.679), in mezzo ad un suolo intensamente coltivato a vigneto, ma non privo di oliveto e di seminativo, costituisce una città tra le più attive ed industriali della Capitanata.

    Sorse nel Medio Evo, come è stato detto in precedenza, ed era città già commercialmente affermata durante i Normanni. Distrutta da Federico II, risorse come feudo benedettino, e fu successivamente infeudata ai Templari. Il terribile terremoto del 1627 apportò gravi danni; un’altra calamità fu la distruzione operata dai Francesi nel 1799, che vi avrebbero ucciso circa tremila cittadini. Nella seconda metà del secolo scorso, l’impianto del vigneto determinò la fortuna di San Severo che produce due vini tipici da pasto alcoolici e corroboranti: il rosato e il bianco di San Severo, molto ben affermati dalle Cantine Sociali. Si produce inoltre vino da taglio. Nel 1861 San Severo contava 17.226 ab. ma discendeva a 16.545 nel 1871. Da allora la popolazione ha avuto un notevole incremento, perchè nel 1901 contava 28.871 ab. classificandosi al 52° posto tra le città italiane.

    II Castrum di Lucera dalla villa comunale.

    La fillossera prima, l’emigrazione e la guerra poi, hanno rallentato il ritmo intenso di accrescimento, ma sempre i valori sono stati positivi e San Severo ha oggi 47.875 abitanti.

    Esclusa Foggia, San Severo è in testa alla provincia per numero di addetti alle industrie manifatturiere (2265); è al secondo posto, dopo Manfredonia, per gli addetti ai trasporti (574) e al primo posto per gli addetti al commercio (2086). L’utilizzazione della forza motrice è di 2955 HP, di poco inferiore a quella di Manfredonia. Lo sviluppo urbano maggiore si è avuto dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale, quando la città si è definitivamente portata con un bel viale sino alla stazione ferroviaria e quando si è ampliata nello spazio compreso tra le statali per Foggia e per Lucera. La città ha una graziosa Piazza del Municipio con sobrio Palazzo del Comune, già convento dei Celestini ed una bella villa. Si conservano ancora, ma non si utilizzano più, le fosse per il grano. San Severo è al centro di una raggiera di strade statali, provinciali e comunali molto densa, che le conferiscono un traffico notevole per numero di mezzi e volume di merce.

    A circa 20 km. verso sud è Lucera, situata in un colle a m. 251 sul mare. Questo colle sorge isolato ai margini del Tavoliere e costituisce un caposaldo eccezionale per chi voglia trarre tutti i vantaggi dalla pianura senza subirne gli svantaggi. La posizione fu pertanto occupata ab antiquo, e fu ambita successivamente da Sanniti e Romani per la sua importanza strategica.

    I Romani vi dedussero una colonia, assegnando lotti di terreno con una divisione centuriata di cui si osservano ancora tracce evidenti. La colonia fu particolarmente florida, coniò moneta propria, ebbe un magnifico anfiteatro, ecc. Nel museo di Lucera sono conservate monete, ceramiche ed interessanti ex voto. Pregevole vi si conserva una Venere di ispirazione policletea: documenti tutti sottratti alla edacità del tempo e al vandalismo degli uomini, che parlano di una vita economicamente attiva e produttiva. Nelle lotte tra Longobardi e Bizantini, Lucera finì per essere distrutta nel 663. Risorta, subì alterne vicende nel quadro delle dominazioni generali. Lucera Sa-racenorum divenne con Federico II, che nel castello — forse già castrum romano — ospitò oltre ventimila saraceni di Sicilia, praticamente distrutti nel secolo successivo da Carlo II d’Angiò. La colonizzazione tentata con Provenzali non riuscì e Lucera iniziò la sua decadenza. Ma nel secolo decimosesto Lucera si affermava come la città più popolata del Tavoliere con 7480 ab. (1496 fuochi); nel 1648 gli abitanti erano 6120 (1224 fuochi).

    Nel 1861 la città si classificava per numero di abitanti all’89o posto in Italia (14.187 ab.), ma declinava nel ventennio successivo. Nel 1901, con 15.563 ab. Lucera era arretrata al 137o posto. Tuttavia da allora, pur senza un notevole ritmo, riprendeva positivamente il suo incremento sino ai 22.271 ab. registrati nel censimento dell’anno 1951. Il comune conta in complesso 25.829 ab., dei quali 2389 in case sparse e 1169 in 27 nuclei. Questi nuclei son quasi tutte «masserie», ove la popolazione si raggruppa in numero di 16 ab. come nella Masseria Ferrigno, o di ben 212 come nella Masseria Reggente. Solo due nuclei ricordano con il loro nome la pastorizia (Posta di Colle; Posta Verri), ed uno il più recente indirizzo colturale (Vigna San Marcello). Il vigneto era però già diffuso in età romana.

    La maggior parte della popolazione attiva è dedita all’agricoltura; consistente è il numero degli addetti (1662) alle industrie estrattive e manifatturiere; molto elevato (834) il numero degli addetti alla pubblica amministrazione, perchè Lucerà è sede di numerosi uffici e di scuole. Nel 1923 il Tribunale fu trasferito a Foggia con grande rammarico dei Lucermi.

    La città presenta ancora residui importanti delle fortificazioni degli Angioini, i quali eressero il Duomo, terminato nel 1311. Ampio e con volumi adeguati, risente di una aspirazione gotica, qui molto semplificata e schematizzata. E uno stile che è rimasto forestiero, perchè non rispondente, come il romanico, alla immaginazione ed alla genialità della gente di Puglia. Più raccolta ed intima la chiesa di San Francesco, restituita in parte alle semplici ma armoniose linee d’origine. V’è da segnalare che Lucerà, oltre al museo, ha una ricca e ben ordinata biblioteca civica, alla quale G. B. Gifuni — un dotto illustratore della storia di Lucerà — dedica intelligente cura.

    Troia. Il magnifico rosone della cattedrale romanica.

    Il castello è in realtà una vasta area sulla sommità di un poggio, in parte isolato artificialmente, recinta da poderose muraglie. Queste sono state erette da Carlo I d’Angiò ed hanno inglobato il castello svevo, ormai diventato un grandioso rudere.

    Troia è circa a 20 km. a sud di Lucera, ubicata su un dosso allungato in declivio, per cui la città risulta impostata planimetricamente su un’unica via principale. La posizione è dominante rispetto al Tavoliere e sufficientemente isolata rispetto ai Monti di Capitanata. Già sede di Aecae, che, distrutta, fu di nuovo fondata — città dalle molte vite! — nel 1017 dal Catapano Basilico Bugiano, e quasi di nuovo distrutta nel 1229 da Federico II!

    La città conta 9197 ab. ed il comune 10.951. L’incremento demografico e l’ampliamento urbano che si riscontra solo nella parte alta, sono di scarsa entità. In questa città ha avuto i natali Antonio Salandra, statista e giurista di grande fama.

    Il duomo di Troia è una delle più espressive opere romaniche di Puglia. Iniziato nel 1093 fu condotto a termine nel secolo XIII. Esso risente delle diverse fasi di costruzione in taluni differenti influssi stilistici, ma conserva la sua mirabile fantasiosa unità nella croce latina delineata dalle fondamenta e nel magnifico rosone della facciata. Siamo innanzi ad una delle opere più accurate e più geniali di Puglia, ove ogni particolare ed ogni motivo sono coordinati, equilibrati e fusi nella grandiosità e nella bellezza delle forme. La porta di bronzo del 1119 è pure di squisita fattura.

    Al centro di una raggiera di strade che ne innervano la vasta e bella campagna, Cerignola, a m. 122 s. m. è anch’essa città periferica del Tavoliere. E incerta l’origine e le diverse ipotesi che la collegano con la distrutta Carbina o con Furfane Mu-tatio undecima fra Brindisi e Benevento, sembrano destituite di fondamento.

    Le prime sicure notizie risalgono soltanto al secolo XIII, e le successive riguardano una vita feudale trascorsa tra padroni diversi, dai Caracciolo ai Pignatelli. Essa diede nome alla battaglia svoltasi il 28 aprile 1503 tra Francesi e Spagnoli. Nel 1532 la città era tassata per 277 fuochi (1385 ab.), che già alla fine del secolo erano più che raddoppiati (699 fuochi pari a 3495 ab.). Essi decrebbero nel secolo successivo per epidemie e terremoti, tra cui terribile quello del 1631. Nel 1861 la città era al 6o° posto in Italia per numero di abitanti (17.242), cresciuti con buon ritmo sino al 1901, quando erano poco meno che raddoppiati (29.983), e Cerignola si classificava al 45 o posto. L’aumento successivo ha avuto un ritmo meno accentuato, ma sempre positivo, ed oggi la popolazione di Cerignola è di 46.977 abitanti. Il comune conta 51.320 ab., dei quali 3916 in case sparse.

    La fisionomia economica è prevalentemente rurale, e Cerignola supera persino Foggia per numero di addetti all’agricoltura (10.259). I prodotti agricoli vengono industrializzati utilizzando circa 1938 HP. Il vino e l’olio sono a fondamento dell’attività economica, con forte esportazione in Italia e all’estero.

    L’ampliamento urbano cittadino è notevole, e con il rinnovamento edilizio Cerignola ha assunto l’aspetto di città funzionale ed elegante. La graziosa piazza Mazzini rimane sempre il più caratteristico angolo di Cerignola, con la facciata del teatro che ricorda la presenza del Mascagni, che a Cerignola compose la Cavalleria Rusticana.

    V’è ancora molto da fare in questa città di cospicuo bracciantato, di notevole sensibilità e di robusta intelligenza.

    Manfredonia è la continuità storica di Siponto. L’antica città greca iniziò la sua decadenza a causa dell’insabbiamento del porto, dell’impaludamento circostante, della malaria e dei terremoti. Un grosso complesso di cause per sterminare una città, che aveva pure subito l’ira tremenda degli uomini.

    Nel 1256, Manfredonia inizia la sua vita all’ombra del castello svevo, che restaurato e completato dagli Angioini, mantiene ancora intatto il poderoso aspetto originario. Su Manfredonia si abbattè la devastazione turca nel 1620. Dopo questa enorme calamità, Manfredonia, che nel 1595 era stata tassata per 652 fuochi (3260 ab.) si ridusse — sebbene a distanza di anni, nel 1648 — a 350 fuochi pari a 1750 abitanti. Nel 1680 gli abitanti erano 2.568 e alla fine del secolo successivo raggiungevano il numero di 5000.

    Ma il progresso fu sempre lento. Dopo la prima guerra mondiale Manfredonia contava 13.275 ab., e superò i 15.000 nel 1931. La malaria era la peggior nemica per l’incremento cittadino. Tuttavia le opere di bonifica e quelle di ampliamento e sistemazione del porto, che richiamarono da Monte Sant’Angelo un notevole bracciantato, aumentarono a tal punto la popolazione che, in venti anni è quasi raddoppiata, contando al censimento del 1951, 27.634 abitanti. Alla stessa data, pur con una forte prevalenza di agricoltori (4575), Manfredonia presenta il maggior numero di pescatori della provincia, il maggior numero di addetti alle costruzioni, dopo Foggia, il maggior numero degli addetti ai trasporti, un discreto gruppo di commercianti. Il quadro delle attività che rendono la cittadina industriosa e vivace al pari di quelle della costa delle Murge sino a Bari, trova conferma nella utilizzazione di 3107 HP, il maggior numero nella provincia, dopo Foggia. Per precisione bisogna però dire che San Severo e Cerignola impiegano maggiore energia motrice per le industrie alimentari, mentre Manfredonia raggiunge così alta incidenza per il macchinario impiegato nelle opere di bonifica.

    Manfredonia si affaccia sul mare.

    L’impianto cittadino a scacchiera, che risale agli Svevi, pur con orientamento diverso è stato mantenuto nei maggiori ampliamenti che sono recenti (Monticchio) e recentissimi (area verso la stazione e verso Siponto). Il corso Manfredi è l’asse fondamentale cittadino, ed il centro è nella piazza del Popolo sulla quale si affaccia il palazzo Municipale, ex convento Domenicano. La grande piazza Duomo, definita da un lato della cattedrale, si abbellisce di un bel gruppo di bronzo rappresentante con tre figure l’agricoltura, la pastorizia e la pesca, che sono il fondamento tradizionale dell’economia sipontina. I trasporti, che oggi incidono economicamente con un certo peso, sono determinati dai collegamenti con la miniera di bauxite di San Giovanni Rotondo.

    Ora meridiana sipontina (Manfredonia).

    Manfredonia al di là del castello, da Monticchio (rione formato da Montanari qui immigrati) al mare, sviluppa un incolato decoroso con l’edificio scolastico e con un nuovissimo albergo, molto accogliente. Un bel lungomare delimita questa parte della città.

    Nel lato diametralmente opposto va effettuandosi il collegamento edilizio di Manfredonia con il lido di Siponto. Un gioiello è la chiesa di Santa Maria di Siponto, consacrata nel ii 17: unico edificio della morta città medioevale conservato dalla fede del popolo. Si affiancano ruderi di un tempio romano in significativa espressione di stratificazione materiale e storica delle generazioni che si sono avvicendate in questo lembo di terra pugliese. La pensosa meditazione è interrotta all’inizio dal rumore improvviso di una automotrice che sfreccia nella vicina strada ferrata.

    Nell’Appennino di Capitanata

    L’alpestre cerchia montuosa che s’inarca ad occidente del Tavoliere, non attinge quelle altezze vertiginose determinate dalla sensazione ingannatrice del contrasto tra monte e piano. Le strade nel Tavoliere, già così rettilinee e monotone, sembrano eccitarsi bizzarramente in tornanti sempre più stretti e numerosi, mentre l’aria si affina e si rinfresca, ed un pulviscolo dorato sempre più denso sembra posarsi sulla pianura che svanisce in lontananza.

    Il primo saluto è offerto dall’albero vigoroso, spontaneo, svettante. Qui ci si accorge che nel Tavoliere l’albero è stato il grande assente.

    I piccoli centri dell’Appennino Dauno hanno tutti la loro parte di bosco di querce e di faggio. E questa loro sudditanza e dipendenza dal bosco, la manifestano con le sagre devote e festose, quando ivi sono portati i simulacri delle proprie Madonne: a Deliceto ogni anno si ripete la processione della Madonna dell’Olmitello; a Volturino, nel mese di maggio, si riporta nel « suo » bosco la Madonna della Serritella ; a Motta Montecorvino il paese si trasferisce nel Monte Sambuco per festeggiare il protettore San Giovanni.

    Purtroppo il bosco è stato diradato o distrutto, come il bosco di Mengaga del Santuario di Valleverde a Bovino, e la meta di questi pellegrinaggi può apparire spoglia del suo primitivo decoro; ma il legame secolare tra la stirpe e il suo ambiente rimane saldo attraverso la fede e si ravviva egualmente nell’appuntamento festivo che si rinnova ogni anno.

    La toponomastica ricorda nelle denominazioni degli stessi centri gli antichi boschi : Alberona, Faeto, Deliceto…

    L’insediamento è ancora costituito da piccoli gruppi, come ricorda Tito Livio (IX, 13): « Nam Samnites, ea tempestate in montibus vicatim habitantes, campestria et maritima loca, contempto cultorum molliore atque, ut evenit fere, locis simili genere ipsi montani atque agrestes depopulabantur ». In italiano forse lo storico patavino si sarebbe espresso come segue: Infatti i Sanniti, che in quel tempo abitavano nei Monti della Daunia in piccoli borghi, ponevano a sacco le campagne del Tavoliere sino alla marina, avendo essi, montanari e rozzi, disprezzato il più fiacco lavoro degli agricoltori.

    Deliceto tra i suoi monti.

    Siamo nel IV secolo avanti Cristo e lo storico alludeva senza dubbio ai ben noti contrasti esistenti tra i Sanniti della montagna e gli abitanti del Tavoliere. Anche oggi si abita vicatim in queste montagne, con la differenza che oggi i borghi sono di gran lunga più popolati e probabilmente in numero minore. Ma non possiamo abbandonarci a congetture, tanto più che della maggior parte di questi centri abitati non è storicamente documentata l’esistenza per periodi anteriori al secolo XIV.

    E sintomatico rinvenire nella toponomastica attuale anche voci, che ci richiamano al ricordo di un agglomeramento medioevale sviluppato intorno al castello o al casale: Castelnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia, Castelluccio Valmaggiore, Ca-stelnuovo della Daunia…

    Questa regione fu devastata durante le aspre lotte che si svolsero tra i Normanni, il papa, l’antipapa, l’Impero nel secolo XII, precisamente tra il re Ruggero II, i papi Onorio II e Innocenzo II, l’antipapa Anacleto II, l’imperatore Lotario II. Molto probabilmente era la città di Lucerà che legava alla sua sorte le popolazioni del settore settentrionale dell’Appennino di Capitanata. Pagò amaramente la sua sconfìtta la città di Montecorvino, saccheggiata e distrutta nel 1137 ; i fuggiaschi fondarono Motta Montecorvino e Pietra Montecorvino.

    Una occasionale ed impensata colonizzazione nel secolo XIV portò nell’Appennino di Capitanata una nuova lingua: la provenzale. Carlo II d’Angiò, scacciati da Lucerà i Saraceni volle ripopolarla con famiglie provenzali, dando alla città il nuovo nome di Santa Maria. Esse, inadatte a sopportare il clima del Tavoliere, ottennero di trasferirsi in montagna, in luogo salubre e boscoso, che poteva ricordare la patria d’origine. Sorse così Faeto, derivando il suo nome dalla faggeta circostante, a m. 866 s. m., costituendo in tal modo il più alto centro abitato della Puglia; sorse contemporaneamente Celle di San Vito, cosiddetto dalle vicine dimore di eremiti del Convento di San Nicola di Castelluccio.

    Non mancò nel settore settentrionale l’immigrazione albanese (ad es., a Castel-vecchio di Puglia), sviluppatasi nei secoli successivi, man mano che l’invasione e il giogo turco s’appesantiva nella opposta sponda.

    L’Appennino di Capitanata, per le sue ottime condizioni di salubrità, per la sua economia forestale e armentizia integratrice di quella del Tavoliere, ha sempre mantenuto un vivace popolamento, vivendo una storia fatta soprattutto di lavoro tenace, di sobrietà e talvolta di sapiente austerità.

    Monteleone di Puglia è uno dei più alti centri pugliesi.

    Oggi i centri più popolosi sono nel settore meridionale, con Bovino in testa che ha 8819 ab., seguito da Candela (6983 ab.), Sant’Agata (6786 ab.), Deliceto (6640 ab.). In questa graduatoria si inserisce un centro del settore settentrionale, Casalnuovo Monterotaro con 5544 abitanti.

    Si osserva che l’insediamento nel settore settentrionale è costituito da centri più numerosi ma più piccoli: sono in tutto sedici con popolazione media per centro pari a 3327 ab. e con il rapporto di un centro per ogni 46 kmq. Nel settore meridionale, la popolazione media per centro è di 5888 ab. con il rapporto di un centro per ogni 64 kmq.. Queste differenze riflettono tradizioni passate e situazioni attuali caratteristiche di uomini e di ambienti; ma un fenomeno antropico, esautorante e benefico insieme, è egualmente vivo e grave in tutta la cornice orografica della Daunia: l’emigrazione. Molto denaro è venuto e viene, ma molti uomini non tornano più. Lo spettacolo di case abbandonate è diffuso da Monteleone a Celenza, ove più aspra è la montagna e gramo è il suolo. Conosco taluni di questi emigranti, che soprattutto negli Stati Uniti, hanno acquisito una discreta agiatezza dedicandosi a mestieri artigianali: barbieri, sarti, falegnami. Tra i sentimenti che li legano più intimamente al paese di origine è sempre vivo quello della devozione al Santo Patrono, per la festa del quale non dimenticano di mandare ogni anno la loro cospicua offerta. L’emigrazione interna per recarsi a lavorare in pianura, è quasi terminata da quando è stato generalizzato l’uso delle macchine e da quando la lottizzazione del Tavoliere ha fissato nel fondo gli agricoltori in conduzione diretta. Ormai è difficile udire la voce del banditore che talvolta col campanello, si ferma ad ogni angolo del paese per gridare : « Alla masseria, tale, col tale padrone, chi vuole andare tanto di giornata col pane, il sale e l’olio; soprastante la tale dei tali o il tale dei tali ».

    Un balcone monumentale a Monteleone di Puglia.

    Chi vuole andare non deve fare altro che recarsi dal « soprastante ». Poi, ammonticchiati nei carri, gli uomini ingaggiati si avviavano verso l’assolato Tavoliere per attendere ai lavori della mietitura.

    La produzione di questa regione della Puglia interessa più per la varietà che per la quantità del prodotto. Quei comuni che possiedono estensioni pedemontane sono, ovviamente, i più favoriti, perchè producono grano, granturco, fave, vino, olio, mandorle e ortaggi da foglia e da frutto; man mano che ci si interna, i ferrei limiti altimetrici, riducono il numero dei prodotti, migliorano le qualità di altri e aggiungono voci nuove, come le castagne.

    L’allevamento è in grande prevalenza ovino e suino, con produzione di ottimo formaggio e di prosciutto.

    Uno sguardo panoramico alle città dell’Appennino di Capitanata gioverà a comprender meglio taluni aspetti regionali, che la visione generale ha dovuto necessariamente tralasciare.

    Cominciamo dalla città più popolosa: Bovino. La più antica ubicazione di Bovino non è sulla sommità del colle ove oggi si affollano le sue dimore, ma presso il santuario della Madonna di Valle Verde. Qui si estese Vibinum, porta del Tavoliere, fondata e abitata da Oschi.

    La città deve alla sua posizione, a guardia del Vallo omonimo, l’importanza che l’ha resa celebre come centro di traffici e come ambito caposaldo strategico. Nel secolo X fu distrutta dall’imperatore Ottone; nel secolo XI ospitava una colonia di commercianti pisani…

    La cattedrale a linee romaniche, non è priva di reminiscenze bizantine, le quali si ricollegano ad una fabbrica precedente. Nell’abitato è il castello ducale dei Gue-vara-Suardo, che custodisce all’interno importanti cimeli. Nella cappella si conserva il reliquario della Sacra Spina, a forma di croce latina su base argentea, finemente cesellato. Tra le altre numerose reliquie vi sarebbero un frammentino della porpora di Gesù e del velo della Madonna, e un po’ di terra bagnata dal sangue del Redentore. Bisogna ricordare in proposito che la casata dei Guevara ha avuto come affini Gregorio XIII e Innocenzo Vili.

    Orsara di Puglia conserva un interessante ricordo medioevale: la chiesa dell’Angelo o dell’Annunziata, con un palazzo annesso, che ospitò i Cavalieri di Calatrava, qui condotti dal papa Gregorio IX per combattere contro gli Svevi. La chiesa è costruita su una grotta dedicata a San Michele.

    Candela si affolla intorno ad un colle, che si eleva tra il solco settentrionale del Carapelle e quello meridionale dell’Ofanto, in spiccata posizione. Verso il Tavoliere le colture legnose specializzate, tra cui ha preminenza assoluta l’olivo, rivestono tutti i pendii; più in basso è il vigneto a cornice del seminativo nudo.

    Quasi a settentrione di Candela, verso il Tavoliere, è Ascoli Satriano, delimitata a monte da pascolo incolto produttivo, e, a valle, da oliveti e vigneti seguiti dal seminativo. Il paesaggio pur ripetendosi non è monotono, in quanto i fattori si diversificano pur uniformandosi a condizioni naturali come la morfologia ed a fattori climatici come l’orientamento. La città è vivace ed industriosa, ma della sua antica storia conserva scarsi frammenti monumentali. Più che agli uomini, questa volta la distruzione va attribuita ai frequenti terremoti, taluni dei quali tristemente famosi.

    Sant’Agata di Puglia ripete l’ubicazione di cocuzzolo o meglio di « colle » frequente in queste montagne, e svolge anch’essa il suo ruolo di grosso centro, dal quale all’alba divergono verso la campagna i solerti contadini, che rientrano al crepuscolo dopo una giornata di sudato lavoro.

    Sant’Agata di Puglia

    Il Gargano

    L’unica montagna interamente pugliese è il Gargano, il pittoresco « sperone d’Italia ». Quando la montagna non era stata ancora violata con strade audaci pendule sui baratri e con la strada ferrata che ne lambisce la parte settentrionale, essa rientrava nella leggenda e nell’arcano. Era qui che Calcante, dopo il sacrificio rituale, dava nella notte fonda il suo responso proveniente dagli inferi.

    Ma il Gargano dovette essere più frequentato e conosciuto di quel che oggi non si ritenga, proprio durante la preistoria. Ormai da molti anni il Gargano riserva ai suoi studiosi ed appassionati tutta una serie di sorprese. L’insediamento è documentato dalla più antica industria umana, quella del Paleolitico, e cioè dagli stadi iniziali della vita dell’umanità, ed ha particolare robustezza e vigore durante il Neolitico, mediante una tipica industria campignana, che il compianto Raffaello Battaglia propose di denominare garganiana.

    E interessante osservare che il Gargano riforniva di materia prima, cioè di selce per strumenti di caccia, di guerra, di difesa, ecc. le stazioni preistoriche del Tavoliere, ove si sviluppava nel Neolitico un fervore di vita che attualmente è oggetto di precisa documentazione. Non mancavano rapporti e contrasti tra pianura e montagna, e la leggenda ne fa lontana eco, quando ricorda Diomede, il mitico fondatore di Arpi, come vincitore delle indomite stirpi garganiche.

    Gli studiosi non hanno ancora confermato se è da attribuirsi all’Homo Neander-thalensis un cranio raccolto nel Monte Devio da S. Squinabol, conservato nel Museo Antropologico di Torino, e studiato da G. Marro dell’Università di Padova. U. Rei-lini, negli scavi eseguiti nella grotta di Manaccore, ha trovato uno scheletro disteso sul fianco sinistro con gli arti lievemente flessi. Egli constatava: questa razza è dolicomorfa, d’alta statura, con robustissime ossa; sono questi i più antichi resti umani per ora rivelatici dal Gargano.

    Gli stessi Messapi hanno lasciato tracce a Vieste.; la romanità ad Uria e a Ma-tinum… Poco per comprendere quale importanza il Gargano avesse nella civiltà e nella economia del tempo; forse molto poco, se ogni volta che si ha occasione di ricordare la montagna è solo per rilevarne l’asprezza e la boscosità.

    Il miele di Mattinata è l’unica nota… dolce oraziana. L’antichità ricorda un Drium Mons come vetta principale. Se il termine risale al greco e significa « Monte Boscoso », possiamo aver netta la misura di quanto possa lo scempio del bosco, osservando le nude e sassose pendici di Monte Calvo, dallo stesso nome più che significativo. Tutte le località ricordate in età classica o sono costiere come Merinum, Apenestae, Mati-num e Sipontum (ma quest’ultima vive in funzione del Tavoliere), o di pianura costiera come Uria o Hurium, peraltro di incerta collocazione. Non sappiamo l’ubicazione di Collatia, l’unica città interna garganica.

    Al termine del V secolo d. C., il Gargano assume una posizione di grande notorietà nel seno del cristianesimo, perchè ivi l’Arcangelo Michele aveva eletto la sede del suo culto. Ecco come si svolsero i fatti.

    Mancava dall’armento di un ricco proprietario di Siponto il toro più bello. Il padrone lo cerca ovunque per diversi giorni, finché lo trova immobile sul ciglio di una spelonca inaccessibile. Preso dalla rabbia gli lancia una freccia, che però torna indietro e ferisce il proprietario.

    L’arcivescovo Lorenzo Maiorano, riconoscendo il carattere soprannaturale dell’avvenimento, indisse tre giorni di penitenza con pubbliche orazioni. Egli era in preghiera all’alba del giovedì 8 maggio, quando gli apparve l’Arcangelo che gli disse che in quel luogo desiderava essere venerato. In processione il popolo si recò presso la grotta, che da allora divenne centro del culto di San Michele nei paesi mediterranei dell’occidente. Una seconda apparizione avvenne il 29 settembre del 492,

    L’arcangelo nella iconografia del secolo XII (Abbazia di San Leonardo).

    quando Siponto era assediata dai Goti. In tale circostanza l’Arcangelo liberò Si-ponto conferendo ai cittadini una strepitosa vittoria. La terza apparizione si ebbe esattamente un anno dopo, quando il vescovo Lorenzo Maiorano apprese dall’Arcangelo che non vi era bisogno di consacrare la grotta, già consacrata da Colui che l’aveva creata. Il vescovo di Siponto, insieme con i vescovi di Venosa, Canosa, Andria, Trani, Ruvo, Canne e Salpi, si recò processionalmente nella grotta.

    Vedi Anche:  Territori e rilievi

    Nel 494 giunse per venerare l’Arcangelo, il papa Gelasio I. Da allora la spelonca diventò meta di pellegrinaggi, per i quali eran concessi privilegi ed indulgenze. Intorno alla spelonca si formò l’abitato di Monte Sant’Angelo.

    Nell’antistante Monte Sacro era — secondo la tradizione — un tempio innalzato a Giove Dodoneo. I vescovi che il 29 settembre del 493 si erano recati nello speco dell’Arcangelo, alcuni giorni dopo andarono ad abbattere la statua di Giove, dedicando il tempio alla Santissima Trinità ed affidandolo ai Benedettini.

    Questo fervore di fede si accrebbe ulteriormente con l’afflusso di ordini monastici, che man mano fondarono centri di religione e di colonizzazione in tutto il Gargano. Ricordiamo il convento di San Matteo, presso San Marco in Lamis, retto dai Benedettini dal 589; il Priorato di Sant’Egidio del Pantano, di cui si osservano i ruderi nelle pendici di Monte Calvo, donato alla Badia di Cava dei Tirreni nel 1086; il Monastero di Santa Maria di Càlena, presso Pèschici, fondato nell’872 da Ludovico II; la badia di Santa Maria di Pulsano, fondata nel n 29 o 1130 da San Giovanni da Matera, forse sui ruderi di una più antica badia fondata da San Gregorio Magno e distrutta dai Saraceni; l’abbazia di San Leonardo di Lama Volara o di Siponto, edificata nel secolo XI.

    Il popolamento del Gargano va intensificandosi durante il Medio Evo, accompagnato dalla utilizzazione del bosco e forse dalla sua riduzione in favore del seminativo. Non sappiamo con certezza quando siano sorti gli altri centri garganici di San Giovanni Rotondo, Sannicandro, Cagnano Varano, Carpino, Ischitella, Rodi, Pèschici, Vico. Molto probabilmente si tratta di coagulazioni spontanee di popolo, dato che ad esse si accompagnano documentazioni di insediamenti preistorici.

    Il Gargano settentrionale

    Apricena vive una doppia vita: è città garganica per posizione, perchè è ad oriente del Candelaro, ma è città del Tavoliere nell’economia e nell’aspetto. Il Gargano si staglia all’orizzonte con un muraglione naturale a picco, alto almeno m. 500! Una visione gigantesca e schiacciante. Dei ruderi si osservano verso Monte Castello (m. 685 s. m.): sono i ruderi di Castel Pagano, una cittadina abbandonata nel secolo XVII, si dice per una invasione di serpenti.

    Apricena riporta nel suo stemma un cinghiale (aper) ferito, sormontato da una scritta: et aperuit coenam. La cronaca narra che Federico II nel 1225 avesse ivi ucciso un cinghiale di grandezza meravigliosa. A ricordo del cinghiale e del lauto banchetto relativo, avrebbe ivi fatto edificare un « palagio », nucleo di cristallizzazione del futuro abitato. La scritta Coena dat et aper nomen tibi Apricena incisa nella parte superiore dell’antica lapide dell’ex campanile di San Martino — secondo quanto ne dice Nicola Pitta — potrebbe essere uno di quei numerosi versi che Federico II soleva attribuire a città amiche e nemiche. Non è improbabile che l’ornato racconto abbia fondamento di verità, almeno sul periodo di tempo in cui Apricena avrebbe iniziato la propria affermazione civica.

    Apricena, nello sviluppo della sua più antica pianta, presenta i caratteri planimetrici che si osservano pure per Foggia: una strada principale, nella quale si innestavano vie traverse ad angolo retto.

    Questo nucleo è inglobato nella parte moderna di case per lo più ad un piano superiore disposte con planimetria a scacchiera. In una piazza si conservano ancora le fosse per il grano. Nel 1538 la città è stata tassata per 192 fuochi (960 ab.) e nel 1595 per 510 (2250). Distrutta dal terremoto del 1627 e decimata poi dalla peste essa era tassata nel 1669 soltanto per 176 fuochi (880 ab.). Nel 1843, Apricena contava 4949 ab., ed era industre cittadina anche per la coltivazione del cotone che vi si effettuava con un certo successo.

    Oggi il centro abitato conta 10.764 ab., e il comune 11.422.

    Nelle rilevazioni dei fuochi, compare un Casal de la Procina, che era fuori delle mura della città, interamente abitato da Albanesi e Schiavoni. Il Casale compare tassato per la prima volta nel 1561 con 48 fuochi (240 ab.), nel 1595 con 72 fuochi (360 ab.) e nel 1648 con 46 fuochi (230 ab.). Da allora è statisticamente fuso con Apricena.

    Da Apricena possiamo risalire il Gargano andando verso la valle di Stignano lungo una strada che l’Ente Riforma ha fiancheggiato con case rurali. Ma la strada più diretta, e che affronta la montagna con una salita molto forte: la salita di In-garano, è quella che conduce a Sannicandro Gargànico. Prima di dirigersi verso Sannicandro è opportuno indugiare su questo modesto ponte di elevazioni, ove comincia il rilievo dell’Appennino e termina quello del Gargano e viceversa, senza potervi stabilire un limite preciso, se non del tutto convenzionale.

    Una strada, snodandosi verso settentrione, conduce a Poggio Imperiale.

    Da Poggio si discende verso Lésina, cittadina che va riprendendosi da una lunga storia di importanti avvenimenti. Centro di laguna con il più antico nucleo proteso tra le acque che lo circondano quasi interamente, era già noto durante il secolo quinto. Nel 663 vi trovarono asilo gli abitanti di Lucerà, incalzati dai Bizantini.

    Lésina fu contea e sede vescovile sino al secolo XVI. Malaria, terremoti e scorrerie dei Turchi ridussero ben presto il centro in misere condizioni, finché se ne tentò il trasferimento in luogo più salubre, come abbiamo già detto a proposito della fondazione di Poggio Imperiale.

    L’esiguo numero dei fuochi documenta lo scarso popolamento cittadino sin dal secolo XVI. Nel 1538 i fuochi erano 31 (155 ab.) e 31 erano pure nel 1669. Nel 1861 la popolazione ammontava ad un migliaio di abitanti; nel 1901 era più che raddoppiata; nel 1931 si contavano 4323 unità. Alla data del censimento 1951 la popolazione del centro era di 4623 ab. e quella del comune di 5142 abitanti.

    Come ho detto, Lésina si affolla su una lingua di terraferma che si spinge nella laguna. La parte nuova dell’abitato segue la carrozzabile per Poggio Imperiale, abbandonando le rive della laguna, che non sono più fomite di malaria. La parte nuova consta di case ad un piano, di solito con terrazzo superiore, disposte a scacchiera e con strade larghe e ben tenute. Tale regolarità è favorita dal terreno pianeggiante, mentre la vecchia Lesina è adagiata su una piccola groppa al centro della quale è una piazza con una chiesa dalle linee imponenti.

    La malaria è scomparsa e la campagna intorno a Lésina va riempiendosi di case sparse, di vigneti, di seminativi arborati. La nuova strada consorziale che si sviluppa a mezzogiorno del Lago di Lésina, e che passa per la Cappella di San Nazario, le Case Feudo, ecc. fino ad innestarsi nella strada Sannicandro-Torre Miletto, consente una visione panoramica di questa trasformazione, che allieta il cuore di tutti coloro che comprendono il valore della vita attraverso la redenzione della terra.

    Sannicandro Garganico, tra castello svevo e chiesa madre.

    E questa la strada da preferirsi per andare a Sannicandro, specie quando nell’estate incipiente si voglia assaggiare sul posto un melone d’acqua veramente gustoso. Ma chi non sa rinunziare ai panorami, deve inerpicarsi per la salita di Inga-rano, dopo la quale lo sguardo spazia verso il Lago di Lésina e l’Adriatico, ove compaiono lontane le sagome delle Isole Trèmiti.

    Sannicandro Gargànico lega a Federico II i suoi più antichi ricordi. Infatti quella parte dell’abitato che è detta « Terravecchia », racchiude un castello che risale a Federico II. Ormai da mezzo secolo la Terravecchia si estende verso nordest; la stazione della ferrovia garganica ha paralizzato un’altra direttrice di espansione rivolta a mezzogiorno. La caratteristica Terravecchia dalle vie strette e tortuose, frequentemente a gradinate non presenta più nel suo tratto occidentale uno spiazzo trascurato interrotto da parapetti di cisterne. Ma non sono queste le più antiche cisterne di Sannicandro, perchè sembra che quelle primitive, ora interrate, fossero nel cosidetto Largo Pozzo di Bove.

    Dai 48 fuochi (220 ab.) del 1538 ai 582 del 1669 (circa 2910 ab.), Sannicandro ha dimostrato il maggiore incremento demografico tra le città garganiche. Nel 1669 essa risultava più popolata di Monte Sant’Angelo e di Manfredonia. Nel 1843 città ospita 7823 ab., e nel 1861 essa presenta all’incirca la stessa entità demografica (7898 ab.). Nel 1901 sono superati i 10.000 ab. (10.669), ed oggi, a distanza di mezzo secolo, il centro conta 16.705 ab. e il comune 16.773. La popolazione è molto attiva, e vive principalmente di agricoltura e di allevamento. Nella sua area comunale, caratteristica è la gravina di Pozzatina o meglio la Pozzatina: pulo di origine carsica, che mi sembra essere il più grande del Gargano. Tra i fenomeni antropici, l’attenzione è richiamata dalla forma di alcune masserie, che assumono l’aspetto di fortilizi per essere protette e difese da torri rotonde applicate ai quattro angoli del corpo di fabbrica.

    Da Sannicandro a Cagnano Varano il paesaggio infonde tanta melanconia, perchè è brullo, sassoso, fortemente carsificato. Il Monte d’Elio si innalza con una gibbosità aspra e selvaggia, da fortezza semidiruta e smantellata dalla chioma del bosco (Bosco Forquet), che in altri tempi lo rivestiva interamente. Il nome Monte d’Elio si è diffuso per un errore di toponomastica generalizzato dall’Istituto Geografico Militare; il nome locale è Monte Devio. In prossimità di Cagnano Varano cominciano gli oliveti che si infittiscono intorno all’abitato.

    La città si adagia su un poggio dominante il lago omonimo, dal quale trae immediato beneficio economico, rifuggendone però il maleficio dell’umidità e della malaria. È una posizione singolare, determinata dall’azione repulsiva della laguna a causa di risorgive che si manifestano proprio lungo la più vicina linea di costa e che producono ristagni miasmatici, e dall’azione attrattiva della stessa laguna per la sua ricchezza ittica. La morfologia determina il punto di equilibrio di queste due forze contrastanti e simultanee.

    Cagnano ha la parte più antica affollata intorno al palazzo baronale : quella nuova segue il declivio del poggio verso il lago, impostando la sua planimetria su una piazza rettangolare alberata, proseguita da una strada pure larga e comoda rispetto alla modesta superficie occupata dal centro. Le case sono in genere con un piano superiore. Quando mancava l’acquedotto, l’approvvigionamento idrico si effettuava nella vicina zona detta Piscina Nova.

    Intorno a Cagnano, ma in basso, v’è stata sempre abbondanza di acqua. Ricordo che nell’estate del 1935, durante una tremenda siccità, greggi innumeri scendevano dalle regioni Murgia Bianca, Chiancate di Selva Piana e Piscinelle per l’abbeverata del gran numero di ovini e caprini addensati nella zona.

    L’entità demografica non è notevole nel secolo XVI, quando Cagnano figura con soli 65 fuochi (anno 1538; circa 325 ab.), che vanno però man mano aumentando alla fine del secolo, quando appunto nel 1595 si registrano 294 fuochi, pari a circa 1470 ab. Nel 1843 gli abitanti sono 5193, cifra che sarà di nuovo raggiunta e superata col censimento del 1931. Infatti dall’unità d’Italia in poi, Cagnano ha avuto un incremento scarsissimo soprattutto per l’emigrazione e per la malaria. All’ultimo censimento il centro contava 7399 ab. e il comune 7507. Cagnano è mercato di anguille molto pregiate.

    Veduta di Carpino.

    Rodi svetta inerpicandosi su un promontorio.

    Nel suo territorio ricordiamo San Nicola Varano, che ebbe una certa importanza militare come base per idrovolanti. A quattro chilometri da Cagliano è una grotta-santuario dedicata a San Michele, meta di pellegrinaggio che si svolge ogni anno l’otto maggio.

    Con ripidi tornanti la strada discende in direzione del lago, qui arretrato da una conoide deiettizia del torrente Mescione. La strada si svolge poi in piano, in zona di recente bonifica. Abbandonata la statale 89, mediante strada non ancora asfaltata, prima attraverso vigneti e poi tra folti oliveti, si giunge a Carpino, a m. 150 s. m. in posizione rilevata ma ridossata, perchè ben protetta da prossime elevazioni maggiori.

    Un castello svevo ricorda che qui esisteva già un insediamento nel secolo XIII, che è probabilmente «Caprile», ricordato nel 1158 in una bolla di Adriano IV. Nel 1538 il paese fu tassato per 46 fuochi (230 ab.); negli anni successivi, come a Cagliano, anche qui la popolazione si accrebbe con buon ritmo, tanto che nel 1595

    Carpino risulta tassata per 224 fuochi (1220 ab.)- A distanza di secoli, nel 1861 Carpino aveva 6381 ab.; da allora sino al 1881, forse per la situazione di turbolenza esistente nella zona, la popolazione diminuì; diminuì ancora nel periodo dal 1901 al 1921, anno in cui il censimento registrò 5772 abitanti. Nel 1951 la popolazione ammontava a 7022 ab. (nel comune 7044).

    La cittadina si innesta planimetricamente su una piazza ove si svolge la vita del centro: vita che in altri tempi è stata, diremo così, movimentata da rivalità locali. Qualche casa presenta ancora garitte pensili con feritoia, costruite evidentemente con intenzioni di bellicosa difesa.

    Da Carpino si può raggiungere direttamente Ischitella, passando il ponte Sca-ricafarina sul torrente Romandato; si può andare a Monte Sant’Angelo attraversando il Gargano, in una delle sue parti meno note e selvagge.

    Dirigiamoci verso Ischitella facendo una sosta nell’alveo del Romandato. D’estate non c’è un filo d’acqua e tutto il letto è ripieno di ciottolame prevalentemente siliceo, spesso con ciottoli della forma e della grossezza di uova di gallina, di bocce da giuoco, ecc. Alla singolarità delle forme si unisce poi un interesse del tutto particolare, perchè qui insieme col prof. Raffaello Battaglia ebbi la ventura di raccogliere manufatti preistorici paleolitici.

    Ischitella si affaccia su un balcone naturale, innanzi al panorama indimenticabile del lago, dei monti e del mare, circondata da una campagna ricca di sorgenti, intensamente coltivata, e con case sparse tra oli veti, vigneti ed agrumeti. E un centro polimorfo perchè alla parte antica detta La Terra, si giustappone un rione moderno detto Ponte, equilibrato nei volumi e nella superficie. Il rione antico, affollato, con le case a diversi piani che soffocano le strade tortuose talvolta gradinate, ha il pregio di ornare le sue facciate con scale ardite, lanciate un po’ in bilico tra gli stretti spazi, rampanti in una vivacità di chiaroscuri, da un piano all’altro. L’effetto architettonico si manifesta voluto e ricercato per l’unione di motivi estetici sviluppati con le mensole e le balaustre. Il poggio a cupola su cui è edificata questa parte di Ischitella, completa, con i suoi diversi acclivi, l’effetto scenico del movimento di masse di per sè pesantemente statiche. Le mura sono in parte scomparse perchè utilizzate dalle abitazioni; ma esistono ancora talune vecchie porte ed una antica torre presso il Purgatorio.

    Ad Ischitella è nato Pietro Giannone (1676-1748), l’autore della Istoria civile del Regno di Napoli. Una bolla di papa Stefano IX del 1058 ricorda Ischitella: nome che taluni collegano con ischio, che indicherebbe la quercia. Nel 1538 Ischitella fu tassata per 78 fuochi (390 ab.); nel 1669 per 258 pari a circa 1490 abitanti. La popolazione censita nel 1861 era di 4573 ab.; da allora, con deboli oscillazioni positive e negative, la cittadina ha avuto uno scarso ritmo demografico, perchè nel 1931 contava 4947 abitanti. Oggi il centro ha 5762 ab. e il comune 5840.

    Rodi unisce in sè le bellezze della terra e del mare. La zagara quasi stordisce con il suo acuto profumo, che si diffonde in tutta la riviera sino alla pineta Marzini, ove la fragranza della resina conclude un paesaggio anche così sensibilmente olfattivo.

    Rodi non presenta un legame documentato con l’ellenismo e la romanità; lontananze storiche impalpabili che i locali tuttavia affermano con radicata convinzione : « La città dunque che aveva il famoso Portus Garnae era Uria, oggi Rodi ».

    Abbarbicata al suo promontorio, come in continua difesa, Rodi, è uscita dal dedalo delle sue viuzze in una bella piazza aperta sulla strada statale, verso Cagnano. Molto vecchio e non troppo nuovo sono i termini in contrasto nell’incolato di Rodi, che preferisce frantumarsi in villette lungo la riviera, anziché proseguire compatta lungo la statale. Oggi il centro ha 5107 ab. (5504 nel comune). Nel 1538 aveva soltanto tre fuochi in più di Lesina, e cioè 35 (125 ab.), aumentati però successivamente sino a 212 (1060 ab.) nel 1669.

    Da Rodi sino alla pineta Marzini e a Pèschici, si ha modo di ammirare la riviera garganica, che va sempre più migliorando la sua recettività con alberghi, pensioni e tendopoli. Oltre la pineta è il Monte Pucci, in cui sono taluni sepolcreti forse paleocristiani. Al di là è un’altra vallata ricca di orti, che circondano un grosso fabbricato rurale che conserva resti monumentali della Badia di Càlena.

    Nella pineta Marzini si innesta alla Rodi-Pèschici, una strada che raggiunge l’abitato di Vico. Essa si inerpica talvolta con curve strette sino alla zona sommitale garganica, di cui Vico occupa uno spalto.

    Siamo soltanto a m. 465 s. m., ma nessun ostacolo impedisce un ampio arco di cielo con una base di orizzonte meravigliosamente modellato dalla natura. Vico sorge su un’area preistorica, e testimonia la presenza dell’uomo in questa località almeno sin dal Neolitico. Un castello di origine sveva domina anche qui il modesto abitato, dalle vie tortuose a scalinata, meno il corso ove si svolge la vita cittadina. Si notano ancora ruderi di mura di una popolazione fiera della propria libertà nell’ambito di vivaci vicende feudali.

    A Vico è nato nel 1764 Michelangelo Manicone, autore della Fisica Appula, ancora interessante per le molte notizie e le numerose stranezze. Pure di Vico è stato l’ultimo vescovo di Vieste, mons. Domenico Arcaroli, che praticamente diresse questa città durante gli anni turbinosi delle lotte napoleoniche. Vichese era il prof. Giuseppe del Viscio, al quale si devono studi e ricerche interessanti soprattutto argomenti di scienze naturali del patrio Gargano.

    Vico è stata cittadina con buon incremento demografico, e nel 1648 era la città più popolosa del Gargano perchè tassata per 670 fuochi, pari a 3350 abitanti. Attualmente la città conta 8777 ab. e, nel comune (San Menaio è nel comune di Vico) 9426. Presso Vico è il convento dei Cappuccini con un elee antico e grandioso, al quale non manca una propria leggenda.

    Pèschici domina da una rupe a picco sul mare, riempiendo di sè, in bilico fra aria e terra, un panorama che sembra irreale. Il centro è in parte troglodita, in parte ammucchiato sul cacume dello sprone gigantesco lambito alla base dalle onde del mare, in parte dischiuso con pianta regolare adattata al prolungarsi del dosso longilineo verso l’interno. Il contrasto fra questi tre gruppi di abitazioni, che qualificano tre tempi di esistenza, è fortemente espressivo. La diversità è inoltre esaltata dal fatto che tutto il quartiere fuori le mura ha le case con tetti a cupola, e quelle più moderne hanno copertura a terrazza. La cupola dà una pennellata d’oriente.

    La storia archivistica non dice molto del centro che dovette vivere la vita della vicina badia. Pèschici figura tassata per la prima volta con 13 fuochi (65 ab.) nel 1561. Ebbe un certo incremento, perchè circa un secolo e mezzo dopo — nel 1680 — le sue anime erano 493 (censimento per «anime»). Nel 1861 venivano censiti 2171 ab., che, nonostante una flessione dal 1901 al 1921, erano 3645 nel 1931. Oggi il centro ha 4303 ab., e il comune 4476. Pèschici vive principalmente dei prodotti del suolo — orticoltura — e in parte della pesca, e vi fiorisce l’artigianato gentile del merletto.

    Ad oriente di Pèschici la costa di prossima valorizzazione turistica (Manacore), presenta una successione di piccoli promontori intervallati da pianure costiere, spesso acquitrinose (Pantano di Spinale). Il paesaggio, in genere caratterizzato da un carsismo molto evoluto, è aspro sui dossi incolti dominio del ceduo, accogliente invece nelle aree di pianura bonificate e coltivate, e spesso arborate con oliveti magnifici (Santa Maria di Merino). Come ho già accennato, lungo la strada è la segheria il Mandrione, ove confluisce la produzione grezza del Bosco d’Umbra.

    Pèschici e la valle di Galena

    Vieste si preannunzia con un vero, regolare e magnifico bosco di olivi. Le piante sono potate in maniera che ogni esemplare assuma un aspetto di cupola slanciata con una base compatta che s’innalza dal suolo al massimo intorno al metro e mezzo. Questo sistema può essere adottato perchè generalmente il pascolo è escluso dagli oliveti.

    Vieste si scopre improvvisa al di là degli oliveti, come un miraggio di un abbacinante candore sul mare azzurrissimo. La città vecchia, impostata su un promontorio dominato da un castello che ha vita di secoli (si dice fondato da Federico II), ora semaforo della Marina, si estende su un basso promontorio — penisola di San Francesco — di grossi blocchi calcarei stratificati, che il mare va demolendo con opera lenta e tenace nel lato meridionale. L’abitato indietreggia di fronte a questa ineluttabile avanzata, e cerca altre zone di espansione. Già circa trenta anni or sono, ho scritto che Vieste si amplia con ritmo sorprendente lungo il mare e verso la cappella Madonna della Pietà. La Vieste nuova presenta strade ampie, alberate, edifici pubblici a carattere ornamentale ben riusciti ed intonati all’ambiente e case private molto decorose.

    La costa ad oriente di Pèschici.

    La città si è intanto attrezzata per offrire ai turisti una confacente recettività, ha sistemato la sua spiaggia, ha aumentato e migliorato le vie di comunicazione col suo territorio, dando la possibilità di percorrerlo agevolmente in automobile. E un centro vivo nonostante il suo isolamento ed è in piena trasformazione dinamica.

    Nella città sono state trovate iscrizioni messapiche, le quali denunziano antichi commerci. Durante il Medio Evo fu porto frequentato e ritenuto buon porto, anche perchè protetto dall’isoletta antistante, detta Del Faro. Il più antico portolano medioevale (circa 1250) ricorda Vieste così: «Del Monte Sancto Angelo a Bestij, che è en lo capo de lo dicto monte de ver greco, V millara. Bestij è bom porto ».

    Nel 1295, Celestino V imbarcatosi a Rodi, a causa del mare in tempesta ebbe ventura di trovarsi fuggiasco presso Vieste — forse a Santa Maria di Merino — e di essere riconsegnato a Bonifacio Vili. La città era sede vescovile, e fu unita poi nel 1818 alla diocesi di Manfredonia. Vieste subì fieri saccheggi da parte dei Turchi, che nel 1554 trucidarono gran parte degli abitanti riducendo a schiavitù i sopravvissuti. Nel 1674 e nel ^78 la furia mussulmana si abbattè di nuovo su questo dolorante nucleo di umanità, con inaudita ferocia. I terremoti hanno varie volte inflitto alla città, come nel 1646, gravi lutti.

    Nel 1545 Vieste fu tassata per 483 fuochi (2415 ab.); alcuni anni dopo il primo saccheggio, quando le ferite erano già rimarginate, la popolazione ammontava a 695 abitanti! Nel 1861 la città contava 5584 ab.; oggi gli abitanti del centro sono 12.328 e del comune 12.743.

    Nel suo territorio è la chiesa di Santa Maria di Merino, presso la quale recenti scavi han posto in luce i ruderi di edifici e di magazzini medioevali forniti di grosse giare allineate. La località era fin da allora molto fertile. Nelle vicinanze, sul pietroso e selvaggio dossone occidentale, sarebbe stata l’antica Merinum, ma ogni identificazione è incerta per mancanza di ricerche sistematiche di controllo. L’apice del dossone abrupto verso il mare, da cui è separato da un arenile a vigneto, presenta residui di caverne in parte crollate, con sepolcreti e loculi scavati nelle pareti. Nella viva roccia, che è un’arenaria eocenica con nummuliti di facile asporto, a diversi piani, sono state persino scavate celle funerarie. Altri sepolcreti in grotte artificiali sono nella parte del dosso rivolto a Santa Maria di Merino. Il pregio della località è determinato dalla presenza di falde freatiche potabili nel piano e di scaturigini sorgentizie all’apice del dossone, ove si formano persino brevissimi fiumi.

    Ricchezza di acque ha Vieste pure nel settore costiero meridionale, ove l’orticoltura è intensa e dà luogo a rifornimenti di altri mercati del Gargano. Caratteristica una guglia detta « Pizzu ‘e munnu » orizzontalmente stratificata.

    Per mare e per terra si può giungere a Mattinata con eguale godimento di bellezze naturali. La costa sempre a picco, offre spettacoli di profonda suggestione, specie quando le cavità ampie dell’apertura delle grotte (che attendono un’adeguata esplorazione), sembrano pertugi di un mondo che si sottrae al nostro vivo desiderio di conoscenza. La Grotta Campana accoglie il trasognato visitatore con la meraviglia dei suoi tremuli riflessi e con il problema della genesi della sua forma così regolare e fortemente caratteristica.

    Per terra la strada è pittoresca per i dislivelli che deve superare con tornanti arditi, per le valli profonde e per il bosco grandioso che attende sulla sommità e per i panorami che di tratto in tratto si dischiudono, sistematicamente pennellati d’azzurro marino. Il Monte Sacro s’impone con la sua mole, che la strada fiancheggia serpeggiando sino a Mattinata.

    Questo abitato è modesto, in pendio, allineato secondo uno schema di strade a scacchiera nella parte vecchia. Comune autonomo da pochi anni, figura nel censimento del 1951 come frazione di Monte Sant’Angelo. Il centro aveva allora 4945 abitanti. Matinum, la città romana era sul promontorio settentrionale, ove si osservano ancora notevoli ruderi.

    Monte Saraceno domina la vallata di Mattinata con il suo bel rivestimento di pini di Aleppo e di olivi.

    Uno scorcio panoramico della vecchia Vieste.

    Il Gargano meridionale

    Mentre variamente rivestito di pinete e di oliveti e contrastato nella sua ondulata morfologia è il Gargano settentrionale, quello meridionale è sagomato a tratti a squadra, da balconate a strapiombo sul Tavoliere di Puglia. Brullo nei fianchi precipiti, si riveste di oli veto in alcuni settori più riparati e più nascosti. La caratteristica forma terrazzata ospita nel terrazzo sui 500-600 m. i centri di Rignano Gargànico, San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo. Sul crinale di un costone si profila Monte Sant’Angelo a m. 843 sul mare.

    Rignano Garganico si affolla su una gibbosità posta su una muraglia a strapiombo elevata circa m. 500. Per questa sua posizione Rignano è visibile da tutto il Tavoliere; il Tavoliere è visibile da Rignano come da un aereo librato e immobile nel cielo di Puglia. Cittadina modesta va ampliandosi lungo la strada per San Marco in Lamis. Compare tassata per la prima volta nel 1561 con 137 fuochi (675 ab.), senza variazioni notevoli nei secoli successivi. Nel 1861 Rignano contava 2052 ab.; a quasi un secolo di distanza gli abitanti sono 2996 nel centro e 3053 nel comune. La carrozzabile, che da qualche anno collega direttamente Rignano al Tavoliere evitando di passare per San Marco in Lamis, è di grande vantaggio per le comunicazioni.

    L’unica grande porta tra il Tavoliere e il Gargano è offerta dalla valle di Stignano alla quale si accede da San Severo. Risalendo la valle, dopo il convento di Santa Maria di Stignano, si trova il grosso centro di San Marco in Lamis.

    La città articola la sua planimetria su una strada principale, nella quale immettono ad angolo retto le vie secondarie. L’abitato va occupando le pendici laterali della conca con belle costruzioni, fra cui l’edifìcio scolastico.

    Sembra che l’origine dell’abitato risalga al secolo VII oppure VIII in funzione della « via sacra » percorsa dai pellegrini provenienti dal Nord per giungere al santuario di San Michele. Solo dal 1648 la città compare nell’elenco dei fuochi, tassata per 120 fuochi, cioè per circa 600 abitanti. L’incremento è stato poi abbastanza vivace, perchè San Marco contava nel 1861 ben 15.350 ab.; nel 1951 il centro aveva una popolazione di 21.180 ab. e il comune di 21.792.

    San Marco ha popolazione energica ed attiva, con un vasto ed integrato territorio, che però viene intensamente utilizzato. La grava di Zazzano, di Pozzatina, la grotta di Monte Nero, ecc. qualificano il diffuso carsismo da cui è interessato tutto il territorio.

    A dominio della conca è il convento di San Matteo, con antica statua lignea del Santo. Il Villaggio San Matteo — tale il nome ufficiale — detto anche Borgo Celano, ha da poco tempo compiuto i suoi 50 anni. E ancora adolescente!

    San Giovanni Rotondo è simpaticamente adagiato su un declivio, nel quale si immerge la parete del più alto gradino garganico. L’epiteto gli deriverebbe da una costruzione circolare, un battistero, che si vuole nel luogo e del modello di un tempio a Giano. L’antichità di San Giovanni è però accertata dal fatto che nel suo sottosuolo sono state trovate tombe con materiale almeno del IV secolo a. C., che ho avuto la possibilità di vedere. Durante il Medio Evo era cintata da mura, e si ricorda ancora la Purtedda (piccola porta), la Porta Ranne, demolita alla fine del secolo scorso, detta pure Porta de lu laie (Porta del Lago). La cittadina si è ampliata soprattutto a sud della strada principale, ov’è la piazza col palazzo municipale.

    Una caratteristica e urbanisticamente caotica appendice si è stabilita verso il convento Cappuccini, presso il quale è il grandioso edificio della Casa del sollievo della sofferenza. Bella la nuova ampia chiesa della Madonna delle Grazie. Questo ampliamento dell’incoiato, sviluppatosi soprattutto con alberghi e con forestieri, è indipendente dal normale ampliamento del centro di San Giovanni. Esso è in relazione alla presenza di Padre Pio da Pietrelcina, il padre cappuccino stigmatizzato, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Scriveva nel 1926 Giuseppe Rasi: « Qualche anno fa, difatti, un convento di San Giovanni Rotondo — la ridente cittadina posta alle falde di una suggestiva petraia — schiudeva il passaggio ad un umile fraticello dai larghi occhi pensosi, Padre Pio da Pietrelcina, che dalla natia Irpinia era venuto quassù a portare il suo dolorante corpo fiorito di stimmate e odorante di violette come un eletto dell’antica cristianità. I nativi attratti dalla sua mitezza e dalla spiritualità del suo dolce verbo, s’abbandonarono a lui chiedendogli il conforto di un’ora di oblio e la speranza di una cristiana parola fatta di pace, di redenzione e di amore. E molti gridarono al miracolo allorché miracoli sembrarono alcune prodigiose guarigioni operate dal santo uomo sul corpo di affranti derelitti. Diffusasi la novella, altre creature vollero venire a vedere questo monaco, che raccolto nel suo ieratico languore sembrava soffuso di un dolente palpito anagogico. E le moltitudini si riversarono a fiotti, reduci da paesi lontani e vicini, reduci anche da altri continenti per avviarsi su queste silenziose montagne a compiervi una pia promessa, un ardente voto, e una offerta di riconoscente umiltà ».

    Così gli antichi fervidi pellegrinaggi traboccanti di ardore e di umile dedizione si rinnovarono portentosi, come un tempo per il fulgido Arcangelo.

    Cosimo Bertacchi ha sostenuto, direi con passione, la costituzione del Gargano a provincia autonoma e la erezione a capoluogo di provincia della città di Monte Sant’Angelo. In tal modo l’esimio geografo riconosceva, fra l’altro, la preminenza di questa città fra quante si trovano sull’aspro promontorio.

    Ho accennato alle apparizioni di San Michele, che hanno costituito l’incentivo alla formazione del centro abitato, sorto nel V secolo d. C. E molto discutibile la presenza di un insediamento precedente. La grande importanza assunta dal Santuario per i pellegrinaggi qui convergenti soprattutto dalla Francia e dalla Germania, hanno dato notevole incremento all’abitato. Monte Sant’Angelo, attraverso il suo santuario, espletava una funzione politica di eccezionale importanza in seno alla cristianità.

    Naturalmente tale funzione e le ricchezze ivi accumulate, richiamavano l’interesse e la cupidigia dei popoli nei momenti di lotta. Monte Sant’Angelo figura pertanto assai presto nelle competizioni politiche, nella quale a viva forza veniva inserito. Il santuario da bizantino diventò santuario nazionale dei Longobardi di Benevento, convertiti ad opera della regina Ansa, vedova di Desiderio, e subì quindi le ritorsioni e le spoliazioni dei bizantini.

    Subentrarono poi i Saraceni, che posero a sacco la città nell’869 e nel 920. Si formò successivamente il titolo politico-amministrativo di Signoria dell’onore di Monte Sant’Angelo, che nel secolo XV divenne Signoria del Ducato di Monte Sant’Angelo. Il i° dicembre 1401 Monte Sant’Angelo ebbe titolo di città da Bonifacio IX. La città fu poi presa dagli Aragonesi e saccheggiata; nel 1464 fu data in feudo a Giorgio Castriota detto Scanderbeg. Successivamente fu data a Consalvo di Cordova per le benemerenze acquisite dal Gran Capitano nella conquista del Vicereame. La città fu venduta dagli eredi nel 1542 e di mano in mano passò a Geronimo Grimaldi di Genova. Le vicende generali del Regno borbonico assorbirono ulteriormente quelle particolari di Monte Sant’Angelo.

    Monte Sant’Angelo dalla valle di Carbonara.

    La città è costituita nel suo nucleo tradizionale dai rioni Grotte, Iunno, La Coppa, Il Fosso. A questi si sono aggiunti altri rioni di età posteriore, come quello a sud della Madonna del Carmine — rione che taluni chiamano Macchia — e di recente il rione dell’Ina-Casa, che, a scacchiera, va occupando l’area del vecchio cimitero. Nonostante una grave crisi economica che angoscia la città causando una forte emigrazione, l’incoiato va estendendosi, e molto c’è da fare per il risanamento del rione Grotte, che non è soltanto un nome ma ancora una triste realtà.

    La città si sviluppa allungandosi in un crinale e occupando le vallette che si aprono a mezzogiorno del medesimo. Il maggiore aumento edilizio si è sviluppato lungo la strada per Manfredonia. La terrazza pugliese è sostituita dai tetti, ai quali spetta il compito di smaltire buone nevicate. Dal belvedere cittadino si gode un panorama incantevole, delimitato dai Monti della Daunia, dal Vùlture, dal mare.

    Monte SantAngelo nel 1538 aveva minor numero di abitanti di Manfredonia, di San Giovanni Rotondo, di Vico, di Vieste; la città era tassata per 146 fuochi (830 ab.). Molto pochi invero per una città così famosa nel mondo. L’incremento successivo non fu mai tale da conferirle un primato; infatti quasi un secolo dopo, Vico la superava di gran lunga. Ma nel 1861, nell’anno dell’Italia unita, Monte Sant’Angelo contava 17.936 ab., superando tutte le altre città garganiche, comprese Manfredonia e Apricena. Nel 1951 il centro contava 21.279 ab., e il comune (compreso Mattinata), 27.551 abitanti.

    La città è spesso colpita da terremoti e da periodi sismici, talvolta di lunga durata.

    Monte Sant’Angelo è l’unico centro garganico dotato di monumenti di un certo rilievo. Il castello domina ancora poderoso, sebbene in parte diruto, nel punto più elevato di Monte. È costruzione normanna, ampliata ed adattata a reggia da Federico II. A cominciare dagli Angioini fu utilizzata come prigione, e vi morì nel 1273 Filippa di Antiochia e vi fu assassinata la regina Giovanna nel 1382. Il castello appartenne ai vari insigniti dell’Onore della Signoria, e dopo vicende ignobili ed illustri è divenuto proprietà del comune. Il tempo, l’incuria e l’ingiuria degli uomini vanno rendendo il castello un ammasso di macerie. La chiesa di Santa Maria Maggiore, di stile romanico, presenta particolari architettonici degni di interesse e affreschi di ispirazione bizantina.

    La cosiddetta Tomba di Rotari è un discusso monumento di architettura roma-nico-pugliese del XII secolo, che Ciro Angelillis ha identificato con un battistero. La sua forma a torre vuole forse guadagnare in altezza quanto, a motivo dello spazio disponibile, non era possibile ottenere in superficie.

    Il santuario di San Michele ha una storia di lavori, adattamenti e manomissioni che vive coi secoli. La grotta aperta sulla valle di Carbonara, subì mutamenti radicali nel secolo XIII, quando Carlo d’Angiò dovette ostruire l’ingresso per edificare la navata, che, con il coro e la cappella delle reliquie, costituisce il corpo di fabbrica antistante alla valle di Carbonara. Carlo I d’Angiò fece costruire un altro accesso, quello attuale, scavando nella viva roccia un gradinata, rifatta nel 1888.

    Senza tener conto di queste radicali trasformazioni, non si può avere un’idea del santuario nelle sue forme originarie, che vengono portate alla luce da scavi effettuati da mons. Nicola Quitadamo. E da auspicare che i lavori in corso non alterino l’aspetto originario della grotta.

    Nella parte più alta della grotta una bella statua di San Michele, di un angelo bambino, coi capelli inanellati, in veste di guerriero dallo sguardo mite, riproduce il momento culminante del racconto biblico. E una statua che risale ai primi anni del secolo XVI, di ignoto autore, forse donata da Consalvo di Cordova.

    Papi, re e santi e folle innumeri hanno piegato le loro ginocchia in questo luogo consacrato dalla presenza dell’Arcangelo. Ancora oggi molti pellegrini per devozione giungono a piedi, in comitiva, dai monti abruzzesi, a deporre qui dolori, ansie e crucci; a chiedere forza per la lunga via del ritorno, e conforto per la breve via della vita che conduce all’eternità: se io non potessi più tornare, vieni tu nel momento supremo!

    Ingresso alla grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo.

    La speranza della fede brilla negli occhi insieme con il tremulo luccichio delle lacrime, mentre le scure sacre pareti, sudando acque lustrali, benedicono le generazioni che si avvicendano. Dalla torre angioina del santuario il robusto squillo delle campane si diffonde con un profondo accento di preghiera, rimbalzando possente, di eco in eco, dal sacro monte verso l’azzurro mare.

    Attraverso le Murge

    E difficile pensare ali’Ofanto, una volta che lo si vede pigramente ed esiguamente ruscellante nel suo ampio letto sassoso, come al fiume del destino, che ha richiamato presso di sè lo scontro di eserciti agguerriti e bellicosi. Canne, che ha dato nome a più d’una celebre battaglia, rivela la sua passata esistenza con ruderi scarsamente significativi.

    La collina di Canosa è l’avanguardia di un rilievo che s’innalza e si fonde in forme sempre più collegate e compatte. Il movimento di linee e di figure, che è così variato e vivace presso l’Òfanto, va irrigidendosi nella uniformità delle alture, che si stagliano con una netta linea declinante al mare. Sappiamo già che questo massiccio e schiacciato rilievo d’insieme è solo una parvenza esteriore, e che le Murge non soltanto sono minutamente articolate ed incise, con una inaspettata ricchezza di forme concave e convesse, ma persino internamente cariate e sviluppate in meravigliosi mondi ipogei.

    Statua di San Michele a Monte Sant’Angelo.

    Questa stridente differenza tra aspetto generale e realtà particolare, è dovuta alla costituzione genetica, alla prevalente stratificazione tabulare orizzontale e suborizzontale delle pile di roccia calcarea che formano l’ossatura dell’ampia regione. L’ossatura è il primo elemento unitario delle tre regioni delle Murge, alle quali abbiamo già avuto modo di fare riferimento. Unità fisica che s’impone all’uomo, dal colle alla marina, con gli stessi ostacoli. L’uomo, a sua volta, si oppone alle condizioni di natura con la sua intelligenza e col suo lavoro, trasformando la nuda roccia in un suolo agrario e ricavando dal medesimo le basi della propria autonomia economica.

    In tutte le Murge la formazione del campicello soprattutto per l’impianto del vigneto, si attua con un procedimento che ricordiamo per sommi capi. « Si scrosta dapprima la scarsa terra giacente sulla roccia e la si accumula in un angolo dell’appezzamento da trasformare; si rompe, poi la sottostante roccia per una profondità di 50-100 cm., a seconda delle difficoltà che si incontrano, e ricorrendo anche ad esplosivi, quindi, si fa delle pietre di risulta una triplice scelta: di maggior pregio — larghe ed appiattite — che si accantonano per essere impiegate nella costruzione o nell’accrescimento dei trulli o per la muratura delle cisterne di raccolta dell’acqua piovana; di quelle più grossolane e informi che si destinano alle costruzioni di muri a secco, o per servire alla colmata delle conche di cui si dirà, e del pietrisco proveniente dal martellamento della roccia, che si sistema sul posto, avendosi però l’accortezza di separarne prima le parti più grosse, da quelle più minute, dopo avere spazzolate, queste, della terra via via depositatasi sul fondo dello scasso e proveniente dagli esili strati dissepolti, nello scavo fra banco e banco di roccia. Anche questa terra si accantona e ad essa si aggiunge, trasportata a spalla, quella dei depositi alluvionali di terra rossa che qua e là si incontrano e che si svuotano, completamente, colmandoli di pietre informi. Si procede quindi alla sistemazione del terreno: si dispone sulla roccia dapprima il pietrisco grossolano e quindi quello più minuto in modo da creare una duplice lettiera continua drenante sulla roccia, dello spessore di 20-30 centimetri. Su questa lettiera si trasporta la terra dei depositi alluvionali risultanti dagli scassi e se ne fa uno spesso strato di 40-50 cm., a seconda delle disponibilità. Su questa terra rossa, poi si sparge quel terreno agrario fertilissimo che si è avuto cura di accantonare all’inizio della trasformazione ed il cui spessore non riesce a superare, in genere, i 10-20 centimetri. Quindi si procede all’impianto della vite ».

    Qui ogni progresso tecnico si arresta e la formula risolutiva del problema economico è affidata alle braccia ed al sudore del contadino pugliese. Con eguale fatica si procede per l’impianto di ogni altra coltura legnosa ed erbacea. In tal modo si crea il terreno agrario delle Murge!

    L’insediamento preistorico offre manufatti neolitici ed eneolitici, come abbiamo già detto accennando alla preistoria pugliese. V’è da osservare che erano abitate le grotte dei puli, come il pulo di Moffetta e quello di Altamura, e che vanno ora scoprendosi numerose tombe del tipo siculo. Nè mancano i documenti della civiltà dei dolmen e dei menhir, a completare un grado di vita e di vitalità pienamente acquisite prima dell’età storica.

    L’insediamento in età classica presenta un gran vuoto lungo tutta la zona assiale mediana delle Murge, pochissimi e discussi i centri nel settore più elevato; tutto l’insediamento si addensa nella costa con pochi, e anche in questo caso discussi centri a ridosso. Questi centri interni aumentarono la loro importanza durante gli ultimi secoli della romanità, quando furono collegati mediante la via Traiana che attraversava Canusium, Rubi (Ruvo), Butuntum (Bitonto), Caelia (Ceglie del Campo), Azetium (presso Rutigliano?) Norba (Conversano?) Gnathia (Egnazia, città distrutta). Da Butuntum e da Caelia due strade di raccordo convergevano su Bari.

    La strada costiera, sempre da nord a sud, collegava Aufidena (città scomparsa presso la foce dell’Òfanto) con Barduli (Barletta), Turenum (Trani), Natiolum (Gio-vinazzo?), Barium (Bari), Turris Juliana (Torre a Mare?), Turris Caesaris sive Aureliano. (Mola di Bari?), Neapolis (Polignano?), Diria (Monopoli?), Gnathia.

    Le Murge sassose e selvose per la maggior parte, costituiscono forse il più fedele quadro di paesaggio in età classica, quando la vita — almeno nelle più civili regioni d’Italia, come la Puglia — si svolgeva nei centri popolosi ricchi di traffico d’oltremare, donde giungevano prodotti di ogni genere. Quel nobile ma faticoso lavoro, e per giunta di scarso rendimento, di redenzione della terra, non aveva motivo di essere. I centri interni non avevano poi nè importanza demografica nè agricola. Ca-nosa e Ruvo sono due centri industriali e commerciali, che vivono — specie il primo — di traffico, dell’industria ceramica e delle relative vendite in gran parte della regione pugliese.

    Vedi Anche:  Origini del nome e vicende territoriali

    Il Medio Evo, con le sue vicende storiche, convoglia numerosi individui verso l’interno, che soprattutto fuggono innanzi al terrore delle crudeli piraterie saracene. Ma tra il 980 e il 998 d. C., i Saraceni osavano spingersi anch’essi verso l’interno depredando e distruggendo. Questa permanente situazione di pericolo indusse i centri rurali a erigere il proprio castello ed a cingersi di mura. Il casale di Conversano — tale figura nell’880 — ebbe il suo castello nel 901 e fu dichiarato città nel 915.

    Opera di intensa colonizzazione agricola venne svolta dai monaci basiliani nelle Murge, favoriti anche politicamente nella loro diffusione religiosa. Andria trae le sue origini da laure basiliane; i Normanni fondarono la città, che ulteriormente si ingrandì e si affermò specialmente con gli Svevi. Questa coagulazione demografica avvenuta nelle Murge almeno dal V secolo in poi, dà i suoi risultati tangibili quando cominciano a comparire nella storia politica ed economica locale con un peso, talvolta determinante: Corato, Palo del Colle, Castellaneta. Acquaviva delle Fonti risale forse al secolo VII; di Massafra si ha notizia dal 971; di Triggiano dal 983, e, di Gapurso e di Bitetto all’incirca negli stessi periodi… E tutto un insediamento di prevalente marca bizantina che precede il fatidico anno 1000.

    Posteriormente la conquista delle Murge prosegue con ritmo intenso: Canneto è fondata nel 1067, mentre Gioia del Colle è ricordata nei documenti a cominciare dal 1085. La stessa antica Bitonto, che nel 975 era stata saccheggiata dal Catapano Zaccaria, riprende vita in questo secolo.

    Nella costa si rinsalda la vita di quei centri, che per virtù civica e per forte posizione topografica, riescono a trarre buon profitto dalle vicende fauste ed a superare le vicende infauste della loro esistenza. Ai centri già sicuramente noti di età romana si aggiungono Bisceglie, Molfetta, Mola, Polignano, Monopoli… V’è da osservare che i centri costieri pugliesi, anche se possono costituire una continuità topografica con qualche precedente porto romano, assumono durante il Medio Evo una ben diversa importanza. Prima si trattava di porti pescherecci — e non saranno mai abbastanza ricordate le parole di Orazio per Bari, definita porto da pesca — ora si tratta di porti anche commerciali, talvolta con propria autonomia comunale o almeno con propria iniziativa mercantile. In questo nuovo quadro di attività economica, si inserisce, civilmente, il più antico codice marittimo del Medio Evo: gli Ordinamento. Maris, che ebbe Trani come centro di formulazione e di diffusione.

    La « Porta Marina » di Barletta.

    Nonostante il fiorire di prestigiosi centri interni, la costa ha avuto sempre una grande preminenza, manifesta, ad esempio, pure con la consistenza demografica dei propri abitanti. Nel 1595 la graduatoria delle principali città pugliesi delle Murge in relazione al numero dei fuochi (1 fuoco = 5 ab.), era la seguente: Andria (città dell’interno; la città più popolata di tutta la Puglia) 3164 fuochi; Barletta, 3047; Bari, 2926. Monopoli contava allora 2492 fuochi.

    L’incremento demografico nelle Murge, che in secoli più vicini ha un esempio significativo con Alberobello, città fondata nel 1635 in Sylva Arboris Belli, porta alla distruzione del mantello forestale, al quale fa seguito un cespugliato di scarsissimo valore economico. Distrutto l’albero è rimasta la roccia viva, nuda: la murgia.

    La necessità di terra agraria e precisamente di terra da grano, costringe a quella durissima fatica alla quale ho dianzi accennato. Qui non è problema di proprietà grande o piccola, di servi e di padroni, qui il problema investe tutti più o meno direttamente, perchè bisogna trovarla questa terra che dia pane a tutti, al povero e al ricco, ma soprattutto al povero, almeno per non morire!

    La Murgia Costiera, la Murgia Bassa e la Murgia Alta trovano nelle differenze economiche il motivo base della propria unità, perchè la base geografica comune determina l’incastro e non il contrasto, l’integrazione e non la dispersione delle proprie risorse. La Murgia e Le Murge non sono una oscillante ed incerta diversità di dizione, ma esprimono una precisa pluralità di aspetti nella unitaria impostazione del paesaggio naturale.

    La Murgia Costiera

    La Murgia Costiera o della simbiosi mare-terra, è caratterizzata da un insediamento umano di grossi centri a piccola distanza. Ricordiamoli cominciando dal-l’Òfanto. A Barletta con 63.398 ab., segue a 13 km. Trani con 33.204 ab.; a 7 km. è Bisceglie con 38.151 ab.; a 9 km. è Molfetta con 55.150 ab.; a 6 km. è Giovi-nazzo con 14.429 ab. ; a 6 km. è Santo Spirito in comune di Bari. La frazione Pa-lese-Macchie-Santo Spirito conta n.710 ab. accentrati. A circa 10 km. è Bari con 250.189 abitanti.

    A sud di Bari i centri sono più distanziati e più piccoli: Torre a Mare, in comune di Bari, a 13 km. ha 1656 ab.; segue, dopo 7 km., Mola di Bari con 22.402 ab.; a 13 km. è Polignano a Mare con n.371 ab.; a 8 km. è Monopoli, con 22.269 ab. che chiude la serie dei grossi centri costieri delle Murge.

    A Monopoli la serie si chiude perchè il retroterra si fa pianeggiante e più ampio. Questa pianura separava spesso la costa dal gradino murgiano con un’area facile all’impaludamento ed alla malaria: costituiva una zona di separazione, ed anche di repulsione. I centri o si dispongono nella striscia costiera che va sbloccandosi e cedendo all’impeto del mare o nelle ultime ondulazioni ai piè del gradino delle Murge, in posizione rilevata e talvolta dominante.

    I centri antichi della costa, uno almeno e grande, ha finito per cedere e crollare di fronte alle avverse condizioni naturali, che probabilmente si sono aggravate al declino della classicità. Egnazia dimostra coi suoi ruderi il cedimento inesorabile di fronte all’assalto subito da mare e da terra. Anche Monopoli si presenta esposta ad un fenomeno del genere.

    Altri punti di approdo costiero, come Santo Stefano, già dei Cavalieri del Santo Sepolcro, sono completamente decaduti dalla loro antica importanza. Sino a Brindisi la costa è praticamente spopolata, e solo di recente la eliminazione della malaria, l’appoderamento, la facilità di rapide comunicazioni tra costa e centri interni, vanno riportando e sviluppando sul mare un insediamento stabile come a Savelletri, a Torre Canne, a Monticelli, a Villanuova.

    I centri interni si allineano parallelamente alla costa, mostrando connessa la propria ubicazione con evidenti preoccupazioni dei centri di sommità: Fasano a m. in s. m., Ostuni a m. 229 s. m., Carovigno a m. 171 s. m., San Vito dei Normanni a m. no s. m. In linea d’aria la distanza dalla costa va da 6 km. (Fasano) a 9 km. (San Vito dei Normanni).

    Villanuova, nuovo centro peschereccio e balneare presso Ostimi.

    Particolare del castello di Barletta.

    Un carattere urbanistico comune a tutti i centri costieri delle Murge, consiste nella giustapposizione della città vecchia murata con la città nuova, senza una transazione o un qualsiasi collegamento. Ho già notato il fenomeno; ma il contrasto è più reale di quanto possa ricavarsi dalla semplice osservazione di planimetrie giustapposte basate su criteri diversi, perchè il vecchio rimane irreparabilmente vecchio anche nel presente. Nella stessa Bari, una osservazione di questo genere può consi-

    derarsi valida ed espressiva. Caratteristica dell’ampliamento è la coesistenza di un « duomo vecchio » e di un « duomo nuovo » come avviene, ad esempio, a Barletta e a Molfetta.

    Barletta è città nota sin dall’antichità classica; la sua posizione, al termine di una via di naturale deflusso al mare, non poteva conferirle che limitata importanza commerciale, data la povera economia del retroterra. Possiamo considerarlo alla stregua di Bari, un porto a carattere peschereccio. Con i Bizantini e soprattutto coi Normanni inizia l’attività di Barletta, confermatasi durante le crociate.

    La romanità soffocava col peso della sua grandezza e con l’accentramento governativo; rallentati i vincoli col potere centrale, costretta a provvedere da sè alla propria difesa, Barletta assume piena responsabilità dei suoi diritti e dei suoi doveri e cerca di custodirli gelosamente di fronte alla ristabilita pressione imperiale dei successori di Federico II. Ma dovette seguire le sorti del regno di Napoli, soprattutto perchè la sua posizione strategica era molto ambita dai contendenti.

    Con gli Angioini battè moneta, coniando regali e tari aurei, confermando con la sua zecca l’importanza politica ed economica a cui era pervenuta. Nelle lotte che seguirono fu centro della resistenza spagnola, e qui furono stabilite le condizioni della celebre disfida di Barletta del 13 febbraio 1503, combattuta poi fra Corato ed Andria presso il Canale Sant’Elia.

    La parte più antica della città si definisce intorno al Duomo, presso il quale è il castello con un nucleo originario normanno, con apporti svevi e restauri cinquecenteschi (Carlo V). E documentato un ampliamento cittadino nel 1162 con sviluppo verso settentrione. Dell’antica cinta non rimane più nulla essendo stata abbattuta; solo la Porta Marina e la Porta di San Leonardo indicano ancora la convergenza delle arterie del traffico.

    L’ulteriore ampliamento di Barletta è stato polarizzato dalla stazione ferroviaria; ma lo stesso limite generalmente imposto dalla strada ferrata è stato ormai superato.

    Questo ampliamento, effettuato con palazzi a più piani, di nuovo stile, ha accresciuto il decoro cittadino ed il complesso della sua funzionalità, che ha determinato baricentri minori di disimpegno. L’ampliamento urbano è stato causato dall’incremento demografico. Nel 1861 Barletta era al 26° posto tra le città d’Italia per numero di abitanti, contandone 26.474, quasi raddoppiati nel 1911 con 41.397 ab., quando era al 28° posto. Anche oggi è tra le città più popolate d’Italia.

    Barletta è città di commercio, di industria (7022 HP effettivamente utilizzati), e di cultura. Essa possiede una delle più belle pinacoteche di Puglia, con opere di notevole valore, tra le quali, di particolare importanza si rivela la Galleria De Nittis. Presso la chiesa del Santo Sepolcro è il colosso o Arrè (da Eraclio o Ercole): statua in bronzo alta più di 5 m., attribuita al IV o V secolo. Si vuole che rappresenti un imperatore romano o bizantino; coi restauri eseguiti nel 1491 fu posta nelle sue mani una croce.

    Trani va affermandosi anch’essa durante il declino dell’impero, e viene potenziata e valorizzata per il suo porto dai Bizantini, come le altre città costiere pugliesi, che costituivano altrettante teste di ponte della affermazione politica e commerciale dell’Impero di Oriente in occidente. Fra le città costiere, Trani ha avuto una particolare preminenza, perchè i suoi cittadini hanno sempre unito all’attività mercantilistica la passione per le formulazioni giuridiche e il rispetto della legge. Queste specifiche qualità sono state concretizzate in una equilibrata vita comunale, nella redazione degli Ordinamento. Maris (1063), nella rivalità con Bari, alla quale Trani ha conteso il primato di città-guida della Puglia sino al secolo scorso.

    Arrè: il colosso di Barletta

    La « cantina » della disfida di Barletta.

    Gli studi giuridici particolarmente sviluppati dopo la istituzione della Regia Udienza Provinciale, determinarono la legale fondazione di una facoltà universitaria nel secolo XVII, mentre svolgevano la propria attività i maggiori organi giudiziari della regione, come la Corte d’Appello. Il trasferimento di questa a Bari, avvenuto immediatamente dopo l’unità d’Italia, è stato a suo tempo causa di vivo malcontento, ed ha tolto alla città il suo maggiore ornamento di tradizione culturale.

    Nella storia generale della Puglia, Trani ha avuto dal secolo XIV in poi, scarsi momenti di iniziativa. Ebbe nelle sue mura come alleati i Veneziani dal 1496 al 1509; ma le discordie intestine minarono sempre ogni tentativo di opposizione agli stranieri Francesi e Spagnoli. Trani decadde pure come centro marinaro, ed oggi il suo porto ha un movimento ridotto, alimentato essenzialmente dalla esportazione della pietra di Trani, nelle sue diverse, pregiate e richieste varietà.

    Scorcio del porto di Trani.

    L’insenatura caratteristica del porto, costituisce il motivo centrale di cristallizzazione dell’abitato, che si affolla intorno all’ampio emiciclo marino. La città nuova si innesta su via Cavour, che dalla stazione raggiunge la piazza Plebiscito e la bella Villa comunale pensile sul mare. Un ulteriore ampliamento si è ottenuto lungo l’asse del corso Vittorio Emanuele, all’incirca parallelo all’andamento della costa. Anche qui si nota il contrasto della città vecchia con la nuova: contrasto planimetrico e volumetrico.

    Nell’aggetto peninsulare di occidente è la Trani con i suoi più antichi monumenti: la cattedrale di San Nicola pellegrino (da non confondere con San Nicola di Bari), costruita dal secolo XII; il castello svevo, massiccio ed imponente.

    Trani ha una spiaggia molto frequentata a Santa Maria di Colonna, che dà titolo ad una abbazia benedettina.

    La popolazione di Trani che era pari a 22.382 ab. nel 1861 (la città era al 340 posto tra le città d’Italia per numero di abitanti) ebbe incremento positivo sino al 1901 (31.216 ab.); l’emigrazione fece segnare un decremento nel 1911 (30.254). Da allora ad oggi, le oscillazioni in più e in meno, sono risolte con un lieve incremento rimasto al disotto dei censiti del 1921 (1921: 33.223 ab.; 1951: 33.204 ab.).

    Bisceglie presenta l’identico dinamismo degli altri centri costieri, l’affollamento di case intorno al piccolo porto, un tessuto planimetrico regolare di contorno polarizzato dalla stazione ferroviaria. La storia della città è inserita, con pochi avvenimenti di eccezione, in quella generale di tutta la Puglia. Ai Normanni la città deve il suo castello e talune chiese romaniche, tra cui la cattedrale, che si impone per ricchezza di decorazioni particolari. Col primo censimento del regno d’Italia, nel 1861, Bisceglie contava 16.427 ab. ed era al 67° posto per popolazione tra le città d’Italia. Col censimento del 1911 la popolazione appare quasi duplicata (37.269 ab.); il ritmo di accrescimento è andato affievolendosi successivamente, ma già nel 1911 Bisceglie superava per popolazione la vicina Trani. Bisceglie ha oggi 38.151 ab., e va affermandosi in tal modo tra i centri maggiori della Puglia.

    Il porto di Bisceglie.

    Il quadro economico di Bisceglie pone in particolare evidenza l’attività commerciale cittadina, che qualifica il suo aspetto sociale e impronta l’abitato ad una complessa e vivace plurifunzionalità, in cui convergono i prodotti, abbondanti e pregiati, del mare e della campagna. Buon indice dell’attrezzatura industriale di Bisceglie è la quantità di forza motrice utilizzata dall’industria locale, pari a 2009 HP.

    Strade strette e tortuose fiancheggiate da case con bugnato caratteristico, costituiscono il borgo medioevale di Moffetta, che si affaccia sul porto con il romanico austero del suo duomo vecchio. È questo un edificio in cui la simmetria— così esplicita nel duomo di Trani — cede alla originalità di una pur solida costruzione, meno irrigidita dai canoni stilistici e più articolata dall’adattamento e dall’inventiva. Questa spontaneità è resa volutamente più spiccata e in un certo senso più rozza, dalla nudità delle pareti, dalla mancanza decorativa, dall’uso delle «chianche» per coprire le absidi. L’effetto è affidato alla pietra sagomata ed ai volumi delle cupole ellissoidali, non allineate. V’è un po’ della volubilità del mare, quasi che il moto ondoso abbia ispirato la concezione del duomo di Molfetta, ma v’è pure un po’ di reazione alla geometricità degli impianti classici e bizantini — questi spesso modesti e monotoni — che forse trapelano anche da particolari delle cattedrali di Ruvo, di San Nicola di Bari, ecc.

    Veduta aerea di Molfetta

    Dal 1861 al 1951, Molfetta ha più che raddoppiato la sua popolazione perchè da 24.648 ab. è passata a 55.150 abitanti. Il maggiore incremento si è verificato nel periodo dal 1881 al 1901, quando la città ha iniziato le sue attività commerciali ed industriali. Per queste ultime la forza motrice utilizzata è di 4032 HP. Molfetta va giustamente orgogliosa della sua flotta peschereccia e dell’attività del suo porto in relazione alla medesima.

    Pure il borgo medioevale di Giovinazzo termina a mare con la sua cattedrale che di romanico ha ormai molto poco. Intorno al borgo la città nuova si amplia, inglobandolo. V’è da rilevare che una parte di Giovinazzo assume aspetto di città-giardino.

    La città è benemerita sede di un Ospizio provinciale ed è in attivo incremento economico per iniziative industriali, tra cui si segnalano la società Acciaierie e ferriere pugliesi, che dà lavoro a 635 addetti, e utilizza una forza motrice di 3797 HP, superiore, in riferimento al numero delle ditte, a quello di ogni altra singola attività industriale nella provincia di Bari alla data del censimento 1951.

    A sud di Bari è in gran parte recente il centro di Torre a Mare; Mola, invece, ripresenta il tipo solito del borgo medioevale circondato dalla città nuova. E centro rurale e peschereccio, e mercato all’ingrosso. In questi ultimi anni la città si è abbellita con un panoramico lungomare. Nel 1861 Mola contava 12.351 ab. ed era al 1150 posto per la popolazione tra i centri d’Italia. Oggi la popolazione è quasi raddoppiata (22.402 ab.) con ritmo abbastanza sostenuto.

    Polignano a Mare (n.371 ab.) ha il suo borgo pittorescamente pendulo sul mare, circondato ancora da mura. La parte nuova, a pianta regolare, è volumetricamente modesta. La grotta Palazzese, adattata per visite turistiche e a ristorante estivo, è singolarmente policroma per la presenza di muschi alle pareti. Nelle grotte minori, a livello del mare, si osservano caratteristici spruzzi determinati dall’aria, compressa dal volume delle acque. Dal ponte di Polignano bella vista sull’omonima lama in cui il mare s’incunea formando una caratteristica insenatura a canale.

    Monopoli ha in parte sventrato il suo borgo medioevale, ricco di tradizione, con i suoi vicoli ciechi e le piccole corti, racchiuso in un aggetto peninsulare tra Cala Porto e Cala Porta Vecchia. La città nuova, a scacchiera, impostata sulla grande piazza Vittorio Emanuele (detta « Il Borgo »), ripete il fenomeno di giustapposizione notato per le altre città costiere.

    Il Duomo vecchio di Molfetta.

    Le più sicure origini della città — che alcuni collegano con Minosse — risalgono forse al VI secolo d. C., quando, distrutta Egnazia nel 545, i suoi abitanti si rifugiarono in altre località costiere vicine. E stato libero comune durante le lotte di predominio tra Longobardi e Bizantini, sino alla occupazione normanna. Aveva una colonia di Amalfitani ed ospitò i Cavalieri del Santo Sepolcro, ai quali fu data la vicina Abbazia di Santo Stefano, fondata nel 1088 dal conte di Conversano.

    I Veneziani occuparono Monopoli nel secolo XV e vi rimasero sino al 1528; acl essi, dopo un effimero periodo di autonomia subentrarono gli Spagnoli, e Monopoli seguì la sorte delle vicende generali di Puglia. E sintomatico che l’unica carta nautica a rombi di vento rinvenuta in Puglia sia stata trovata a Monopoli. Essa sarebbe di bottega veneziana e da attribuirsi forse al secolo XV.

    Monopoli ha oggi 22.269 ab.; nel 1861 ne aveva 12.377, classificandosi al 116° posto tra le città d’Italia. L’incremento demografico a prescindere da una diminuzione riscontrata nel 1881, è stato contenuto in un ritmo abbastanza regolare, sulla base dell’eccedenza dei nati sui morti e di una debole corrente emigratoria, che non ha avuto notevole incidenza. Monopoli è la città più meridionale della Murgia costiera. Gli altri centri costieri che seguono verso Brindisi — come è stato detto — hanno prevalente carattere di insediamento temporaneo, proprio dei centri balneari.

    La più antica intaccatura che ha dato origine al porto di Giovinazzo.

    Polignano a Mare e la sua pittoresca costa.

    La Murgia Bassa

    La Murgia Bassa, nella identità delle vicende storiche con quella costiera, riflette un paesaggio urbano fondamentalmente identico. L’attività economica esclusivamente rurale tende a delineare differenze, che si manifestano soprattutto nei modi di vita.

    Sulla valle terminale dell’Ofanto domina Canosa a guardia di un guado dell’Ofanto, valicato ora da un magnifico ponte; essa spicca dai meandri del fiume,

    abbarbicata su uno sperone ardito: una murgetta. La leggenda che la dice fondata da Diomede, collega questa città con la Daunia e con quella prima corrente di ellenismo che si affermò nella Puglia settentrionale.

    Città profondamente romanizzata, accolse nelle sue mura i pochi superstiti della strage di Canne, e si distinse particolarmente in questa opera di assistenza della quale i romani seppero essere grati. La via Traiana confermò alla città l’importanza di nodo stradale e di centro commerciale per le comunicazioni da Roma a Brindisi attraverso la Daunia. E qui che si formò la prima diocesi di Puglia nel secolo IV; la sede giurisdizionale passò poi a Bari, avendo subito la città — così esposta alle invasioni — durissime distruzioni da parte dei Longobardi e dei Saraceni ed essendo troppo periferica rispetto al centro politico-militare della potenza bizantina in Puglia. Seguì le vicende generali delle lotte svoltesi nella regione, decadendo da quella posizione di primo piano conferitale pure dai suoi figlili, che avevano saputo elevare ad espressione di arte l’industria ceramica locale, autrice dei maggiori e migliori crateri apuli che si ammirano ora nei musei di Napoli e di Monaco.

    La grotta Palazzese a Polignano a Mare,

    Nel 1555 Canosa ha 333 fuochi (circa 1665 ab.); essa è tra le minori città della Puglia. Col censimento del 1861 la città contava 12.769 ab. ed era, per popolazione, al 107° posto in Italia. Nel 1901 essa è al 68° posto con 23.861 abitanti. Dopo cinquant’anni la popolazione residente nel centro è di 34.044 ab. (nel comune 34.342 ab.). Più del 75% della popolazione attiva è dedita all’agricoltura, e, per il rimanente, è da segnalare il numero di addetti all’industrie estrattive, che è di oltre 1000 persone: si tratta dei cavatori di pietra viva, un buon tufo calcareo richiesto specialmente dagli impresari edili del Tavoliere.

    L’architettura romanico-pugliese manifesta con la parte antica della cattedrale di Canosa i motivi fondamentali che caratterizzano le prime costruzioni. Rifulge l’arte dell’Acceptus in un pergamo che fonde elementi bizantini con ispirazioni d’origine mussulmana: è qui che l’inconscio storico dà il primo saluto di una Puglia, in cui correnti culturali diverse han trovato un’area di convergenza e di assimilazione, in un superamento espressivo delle singole concezioni, attraverso il sentimento della fede e l’idealità dell’arte.

    A poco più di 21 km. di distanza è un’altra importante città: Andria, che nel 1861, con i suoi 30.067 ab. nel centro, era per importanza demografica la 20a città d’Italia; nel 1901 era al 190 posto con 48.588 ab.; a cinquant’anni di distanza (1951) Andria ha 63.626 ab. residenti nel centro e, complessivamente, 66.254 nel comune. Dopo Bari, Taranto e Foggia, Andria è la città pugliese con il maggior numero di abitanti, superiore a quello dei capoluoghi di provincia, Lecce e Brindisi. Nel 1595 era, dopo Lecce e Taranto, la città più popolata di Puglia.

    Sebbene città densa di storia, non ha remote origini, perchè è il prodotto di un coagulamento, voluto da Ruggero il Normanno nel secolo IX, di piccole sparse comunità rurali, raggruppate intorno a laure basiliane (Santa Maria dei Miracoli; Santa Croce; San Salvatore, ecc.). L’iniziativa normanna va inquadrata in quel vasto piano di annientamento di ogni espressione residua ancora collegata con l’Oriente. Andria, favorita dai Normanni fu pure cara agli Svevi, che ne premiarono la fedeltà dimostrata in più di ogni occasione. Ancora nella porta di Sant’Andrea, rifatta nel 1593, si legge: « Imperator Federicus ad Andrianos / Andria fidelis nostris affixa medullis». Nel 1228 vi nacque Corrado; vi hanno la loro tomba due mogli di Federico: Iolanda di Lusignano e Isabella d’Inghilterra. Seguì poi le vicende generali della storia di Puglia; ricordiamo che, col titolo di ducato, Ferdinando il Cattolico donò Andria al Gran Capitano, Consalvo di Cordova, nel 1507; nel 1552 il ducato fu assegnato alla famiglia Carafa, che lo ebbe sino alla rivoluzione partenopea.

    La città conserva con le chiese i suoi migliori monumenti, che risalgono al secolo XIII. Il duomo dedicato a San Riccardo, ha un bel campanile del n 18, mentre l’originaria architettura romanica della chiesa ha ceduto a radicali rifacimenti avvenuti nel secolo XV. Un elegante campanile barocco affianca la chiesa di San Francesco, edificata nel secolo XIII. Il Rinascimento ha lasciato una pregevole testimonianza artistica nel portale armonioso della chiesa di San Domenico.

    Scorcio panoramico di Canosa.

    La notevole massa di popolazione, affollata più che accentrata, costituisce un problema economico particolarmente preoccupante dato che l’unica risorsa è rappresentata dall’agricoltura, che assorbe la maggior parte della popolazione attiva. Gli addetti all’agricoltura sono 13.684; di questi 11.196 — cioè l’82% — sono coadiutori di indipendenti e dipendenti, che, in parole povere, vuol dire braccianti. Questo grosso gruppo di individui forma la piaga sociale che bisogna sanare, e dalla quale possono essere ottenuti ottimi risultati di operosità e di lavoro.

    Olio, vino, mandorle costituiscono le voci fondamentali dell’economia di Andria. Recentemente è stato immesso nel consumo internazionale olio vergine di oliva di Andria con ottimo risultato. Caratteristica è la coltivazione del prezzemolo per seme; il seme viene esportato in Germania e nei paesi scandinavi.

    Un altro grosso centro agricolo, a circa 12 km. di distanza, è Corato, dominante su un dosso a cupola; la parte interna è la più antica, avvolta, come da una ragnatela, dalla città moderna. Corato sorge su una sedimentazione terziaria, adagiata sulla pietra viva delle Murge, che è di età secondaria. Tra le due formazioni si forma una falda freatica, alla quale tuttora si attinge.

    Veduta di Andria.

    L’acqua, nell’arida assetata Murgia, ha qui richiamato l’insediamento attestato sin dall’età bizantina. Città discretamente abitata già nel secolo XVI (Quarata, con 1590 fuochi), Corato è al 30° posto tra le città d’Italia nel 1861 con 24.576 ab. e al 25° nel 1911 con 44.745 abitanti. Raggiunto il massimo nel 1921 (47.930 ab.) ha successivamente subito una flessione notevole (43.502 ab. nel 1931); questa flessione fu causata eia un rigonfiamento del suolo verificatosi negli anni 1922-23 che danneggiò gran parte dell’abitato e favorì l’emigrazione di buon numero di individui. Il fenomeno è stato spiegato con l’innalzamento della falda freatica, aumentata in maniera anormale in seguito alla immissione delle acque dell’acquedotto pugliese ed alla minore utilizzazione della riserva idrica sottostante all’abitato.

    Oggi Corato ha 44.601 ab. dediti quasi esclusivamente all’agricoltura, che è alla base dell’economia locale con quei pregi e quei difetti comuni alle città sorelle delle quali abbiamo or ora parlato.

    Ruvo di Puglia ha la gloria di una continuità di vita che affonda le sue radici nella preistoria della Peucezia. Municipio romano, fu « mansio » della via Traiana.

    Non ha in seguito avuto importanza notevole nelle vicende storiche pugliesi, ma ha saputo sempre mantenere una vita cittadina attiva e dignitosa, incentrata nella sede vescovile. Nel 1595 i suoi abitanti eran circa 7865. Ruvo nell’anno 1861 era, per popolazione, al 118° posto tra le città d’Italia (12.164 ab.), ed avanzò al 710 posto nel 1901 con 23.373 abitanti. Come ho notato per Corato, Ruvo figura nel 1921 con un numero di abitanti (26.628) superiore a quello del 1931 (24.678). Oggi Ruvo ha 25.662 abitanti.

    Veduta di Ruvo di Puglia.

    Questa città condivide con le consorelle un identico quadro economico e relativi problemi. Una bella cattedrale di stile romanico del principio del secolo XIII, austera nelle sue forme anelanti, è uno di quei monumenti pugliesi che onorano la genialità della stirpe. Ruvo ha sfruttato da secoli le lenti argillose che si estendono a sud dell’abitato, creando manufatti ceramici di gran pregio come è possibile osservare nel museo Jatta, che conserva buoni esemplari del V-III secolo a. C., raccolti dopo tanta distruzione e dispersione, nella necropoli di Ruvo.

    Terlizzi è a soli 5 km. da Ruvo, in ambiente del tutto analogo. Poco più di 5000 erano i suoi abitanti nel 1595; ma nel 1861, con 18.063 abitanti, Terlizzi era, per popolazione, la 53a città d’Italia. Ma l’incremento ulteriore è stato piuttosto fiacco, sicché nel 1901 essa arretrava al 76° posto, con 22.590 abitanti. Col censimento 1911 la città segna il massimo di popolazione (24.181 ab.); in seguito si riscontra una progressiva diminuzione sino al 1931 (20.627 ab)- Ora siamo in fase di accrescimento, perchè la popolazione cittadina residente ammonta a 22.454 abitanti.

    La cattedrale di Bitonto, esempio vistoso di stile romanico-pugliese.

    Come ultimo dei grossi centri della Murgia centro-settentrionale ricordiamo Bitonto, città anch’essa di lontane origini, forse messapica in piena Peucezia, con successiva sovrapposizione ellenica e romana. Sottoposta a prove durissime dimostrò di averle sapute superare nel secolo XII, adornandosi con una sfarzosa cattedrale romanica.

    Tra periodi di libertà e di sudditanza sviluppò le sue produzioni e i suoi commerci avvantaggiandosi del vicino porto e mercato di Bari. La città è situata su un dosso, dirupato in corrispondenza dell’alveo ampio di una lama, e presenta ancora intatto il dedalo di viuzze tortuose polarizzate verso la piazza della Cattedrale, al centro della città vecchia. La nuova si è estesa soprattutto verso est, oltre Porta Ba-resana; più recente è l’ampliamento orientato a nordovest, verso Terlizzi. Il centro cittadino si è spostato dalla piazza Cattedrale alla Porta Baresana.

    A Bitonto, con la vittoria delle truppe di Carlo III di Borbone su quelle austriache, il 25 maggio 1734 iniziava il Regno di Napoli di dinastia borbonica.

    Bitonto è stata sempre una delle più popolate città pugliesi (nel 1595 aveva 2514 fuochi), tanto che nel 1861, con i suoi 22.126 ab. figurava al 350 posto tra le città d’Italia. Nel 1901 però, pur con 26.825 ab. era passata al 590 posto. Nel primo cinquantennio di questo secolo il massimo di popolazione è stato registrato nel 1911 con 28.209 abitanti. Sino al 1913 il decremento è stato progressivo e determinato soprattutto da quel grosso fiotto di migrazione interna rivolta verso Roma e verso le maggiori città dell’Italia settentrionale. Per nulla trascurabile è poi il numero dei Bitontini trasferiti a Bari. Una ripresa demografica è già attestata nel 1936 (27.341 ab.) e confermata nel 1951 con 31.608 ab. residenti nel centro e 35.354 nel comune.

    Su una popolazione attiva di 12.175 individui, 6615 sono addetti all’agricoltura: il 54.3%- Inalterati rimangono la prevalente fisionomia economica e il problema grave del bracciantato che rappresenta l’8o% della popolazione agricola.

    Bitonto è famosa per il suo olio, ma non minore pregio ha la sua industria enologica. Si segnala inoltre l’esportazione di mandorle e di ortaggi.

    La Murgia Barese

    Una Murgia Barese, gravitante in tutti i sensi: fisico, antropico ed economico sulla città di Bari si distingue nettamente dal complesso della Murgia Bassa. Centri satelliti, acquisiti e assorbiti o agganciati in età diverse, progressivamente, man mano che l’orbita d’influenza della città di Bari si estendeva per la maggiore importanza economica, amministrativa e culturale. Il fenomeno, naturalmente è stato avvertito dai geografi che prima di me hanno illustrato la regione, denominando quest’area « conca di Bari ».

    In realtà si tratta di un emiciclo declinante verso la costa, con la sua base impostata verso il secondo gradino delle Murge, ed avente il suo centro di convergenza in Bari. Quest’area è caratterizzata da numerosi paesi e città, piccoli in relazione al valore demografico medio dei centri della provincia di Bari e molto addensati, tenendo presente il rapporto già indicato. Infatti su un’area amministrativa di 809 kmq. (escluso il comune di Bari), si estendono 17 comuni con superficie media di 47,5 kmq. Tutta questa zona espressivamente legata dai tentacoli stradali potrebbe definirsi la Grande Bari, e comprende Acquaviva delle Fonti, Adelfia, Binetto, Bitetto, Bi-tritto, Capurso, Casamàssima, Cassano, Cellamare, Grumo, Modugno, Palo, Sam-michele, Sannicandro, Toritto, Triggiano, Valenzano.

    A questo addensamento di popolazione, fa riscontro un intenso movimento di mezzi e di scambi, un dinamismo accentuato di ogni fenomeno antropico ed economico. Ad esempio ricordiamo che qui sono avvenuti, a poca distanza, due fenomeni di conurbazione tra Montrone e Canneto — ora Adelfia — e tra Ceglie di Campo e Carbonara di Bari.

    La conca di Bari (anno 1951).

    Sup. amministrativa Kmq.

    Popolazione dei centri n° dei centri

    Acquaviva

    13.101

    13.379 1

    Adelfia

    2.973

    10.059 1

    Binetto

    1.762

    1.196 1

    Bitetto

    3.361

    6.575 1

    Bitritto

    1.767

    5.349 1

    Capurso

    I.488

    5.920 1

    Casamàssima

    7-.745

    10.085 1

    Cassano

    8.936

    6.642 1

    Cellamare

    586

    1.415 1

    Grumo

    8.060

    11.730 1

    Modugno

    3.190

    13.082 1

    Palo

    7.909

    13.805 1

    Sammichele

    3-387

    7.307 1

    Sannicandro

    5.600

    9.045 1

    Toritto

    7.457

    8.354 1

    Triggiano

    2.000

    15.618 1

    Valenzano

    1.576

    6.818 1

    Totale

    80.898

    146.379

    1

    Un centro per ogni 47 kmq.; centro medio pari a 8619 abitanti.

    Il paesaggio agrario esprime un addensamento di colture tra le più variate, dal giardino all’orto, al seminativo, al frutteto, dominate però dall’uliveto, dal vigneto, dal mandorleto, che vanno rarefacendosi verso la periferia della grande Bari.

    V’è da osservare però che la specializzazione cede alla promiscuità e che abbiamo ampie superfìci esclusive a mandorleto, a oliveto, a vigneto. Una indagine particolare può rendere evidenti le cause che hanno determinato le vaste aree a mandorleto nel comune di Bitritto, a oliveto nel comune di Modugno, a vigneto nel comune di Adelfia. Indubbiamente la pedologia e la morfologia sono le componenti causali di maggior peso; ad esse tuttavia si aggiungono fattori storico-amministrativi, che sono oggetto di recenti indagini. Tutti i centri hanno case con piano superiore, con scala prevalentemente interna, con tetto a terrazza.

    I luoghi preferiti di ubicazione sono le sommità di piccole elevazioni (Sanni-candro), talvolta molto accentuate (Palo del Colle). Il pendio ha pure i suoi incolati (Cassano). L’acqua ovunque scarsa, compare ad Acquaviva delle Fonti.

    La salubrità della regione, ridente per un formicolio umano che ha saputo rivestirla di colture di alto rendimento e di cospicuo reddito, è manifestata dalle frequenti ville, scaglionate nella periferia di Bari, o sul « paretone » di Cassano.

    Anche i centri vanno aggiornandosi ed abbellendosi di case nuove, di chiese e di monumenti, che stimolano al rinnovamento edilizio del vecchio.

    L’antichità ha lasciato in questi suoli impronte indelebili di cultura, come a Ceglie di Campo, florido centro peuceta e successivamente romano; ad Acqua-viva con la magnifica Cattedrale, una delle quattro basiliche palatine di Puglia. Il popolamento ha quindi profonde radici nel tempo e nella civiltà, e, ciò che più conta, persistenza di gentilezza sino ai giorni nostri.

    Ove mancano i monumenti subentrano i documenti d’archivio e già nei secoli IX e X abbiamo notizia, ad esempio, di Triggiano, di Capurso, di Bitetto.

    Ma queste notizie scritte sono già precedute da una storia vissuta da secoli, come per Triggiano, dove si ha certezza della esistenza di laure basiliane. Il nome del centro deriverebbe da Trivium, in allusione alle antiche tre vie che qui si incontravano, una per Bari, una per Capurso ed una verso altra direzione della costa.

    Sammichele di Bari è colonia slava fondata nel 1609. Siamo ormai ai confini con un altro paesaggio delle Murge, caratterizzato da una maggiore quantità di insediamento sparso, che adotta il trullo come dimora permanente.

    Nella Murgia dei Trulli

    La città di Bari, con il suo enorme incremento (la popolazione di oggi è ben otto volte quella del 1861) ha operato una recente rottura antropica in quell’allineamento assiale dell’insediamento delle Murge Basse, parallelo alla linea di costa, che era stato giustamente ritenuto come caratteristico da altri studiosi. Il paesaggio geografico tende sempre a mutare per l’intervento dell’uomo; ma sin dalla seconda metà del secolo scorso l’uomo ha operato, negli indirizzi di base delle Murge inizialmente fissati dai fenomeni fisici, un’altra grande e tipica rottura con la creazione della Murgia dei Trulli.

    Turi, Noci, Ceglie, Carovigno, Ostuni, Fasano, Conversano, collegate convenzionalmente fra loro, costituiscono i limiti della Murgia dei Trulli; è meglio considerare i perimetri comunali come aree di transizione verso il cuore di questo fenomeno, che trova in Alberobello la più completa espressione stilistica. Ma non bisogna dimenticare che se il trullo è la forma che riassume questo paesaggio, il suo contenuto è dato dalla popolazione sparsa, che è l’elemento di caratterizzazione geografica del paesaggio stesso, con il seguito di fenomeni sociali in mediata o immediata correlazione.

    Fasano ai margini del gradino delle Murge a m. 118 s. m. e Ostuni, sulla cimosa più depressa del gradino, a m. 224 s. m., sono i più cospicui centri abitati.

    Ostuni, in provincia di Brindisi, conta 24.020 ab.; ne aveva 15.392 nel 1861. L’incremento non è stato così forte come nella Murgia costiera, ma ha presentato una progressione positiva — meno che nel 1871 — abbastanza omogenea.

    E città messapica, attestata da una necropoli ove è stato rinvenuto materiale archeologico interessante, della quale nulla è noto sino al secolo X dopo Cristo. La rinascita si collega con la sistemazione politico-amministrativa effettuata dai Bizantini, che eressero Ostuni in diocesi. Non ebbe specifiche vicende politiche, nonostante la sua forte posizione a dominio della strada Bari-Brindisi, essendo stata abbandonata quella di pianura.

    Si ammirano panorami magnifici da alcuni belvederi situati nella strada principale. La vita culturale cittadina è improntata nella presenza di un liceo classico molto frequentato e di una buona biblioteca. L’archivio capitolare possiede circa 200 pergamene del secolo XII. La cattedrale, del secolo XV, manifesta persistenze gotiche tardive. Nei dintorni è il santuario di Sant’Oronzo, presso una caverna ove Egli si sarebbe nascosto sottraendosi ai suoi persecutori.

    Fasano pure in provincia di Brindisi, è una bella candida oasi di bianco fra il verde perenne di una lussureggiante campagna. La parte recente, con strade regolari, con l’immancabile piazza con i lecci, dà sensazione di centro ben organizzato. La popolazione è di 15.434 ab.; nel 1861, Fasano era al 1410 posto tra le città d’Italia con 11.022 abitanti. Il suo incremento è stato pertanto esiguo ed ha avuto oscillazioni negative nel 1871, nel 1901, nel 1921, nel 1936.

    Pure al secolo X è riportata l’origine di Fasano, poi feudo dei Cavalieri Gerosolimitani. Ancora vi è il palazzo rinascimentale dell’Ordine di Malta.

    Conversano, in provincia di Bari, anch’essa nella duplice fisionomia di città vecchia e di città nuova, conserva un magnifico castello fondato dai Normanni, e successivamente ampliato e restaurato dai conti di Conversano, che vi hanno raccolto collezioni archeologiche ed artistiche molto pregevoli. La cattedrale, di età romanica, ha scarsi ricordi stilistici del suo passato a causa delle restaurazioni e manomissioni posteriori. La città sorge ove in età classica era Norba, colonia romana.

    Nella Murgia dei Trulli.

    Evidentemente anche allora l’agricoltura costituiva la base dell’economia del territorio. La popolazione assomma, oggi a 14.792 ab. nel centro e 17.705 nel comune. La popolazione sparsa è di 2458 ab.: è un bel numero e dice che siamo già nella Murgia dei Trulli. Forse ha contribuito al fenomeno la colonizzazione operata dal convento di San Benedetto, dal 1266 sede di energiche badesse in mitra e pastorale.

    Turi, in provincia di Bari, con 8907 ab. nel centro e 1211 nelle case sparse (nel comune 10.118) è cittadina tipicamente rurale, di età bizantina. Come presso Ostuni, è anche qui una grotta nella quale si sarebbe rifugiato Sant’Oronzo.

    Noci (provincia di Bari) ha nel suo centro 12.454 ab- e nelle case sparse del suo territorio 4086 abitanti. Questi eccezionalmente vivono nei trulli essendo più diffuse le case in muratura; il trullo è ancora conservato per i rustici. Nei dintorni è l’abbazia benedettina della Madonna della Scala oggi completamente ricostruita e in piena efficienza.

    Ceglie Messàpico (provincia di Brindisi) figura nel censimento con 16.194 ab. nel centro e 6824 nelle case sparse. Il suo qualificativo trae origine dal fatto che è ubicata nell’acropoli della città messapica Caelium o Caelia. È centro di poggio, sulla cimosa del margine meridionale delle Murge in posizione analoga a quella di Ostuni.

    Ostuni, su uno spalto delle Murge.

    Carovigno (provincia di Brindisi) chiude l’anello delle città esterne della Murgia dei Trulli con 8556 ab. nel centro e 1700 nelle case sparse (popolazione totale del comune pari a 10.256 ab.). Il luogo fu sede della messapica Carbina, distrutta nel 473 a. C. da Taranto. Il castello di Carovigno, del secolo XV e poi restaurato, conserva i caratteri originari e la sua mole imponente.

    Abbiamo idealmente percorso nel suo perimetro l’oasi di popolazione sparsa, che costituì uno dei più felici studi di Carlo Maranelli.

    Man mano che ci addentriamo in questo territorio, la campagna infittisce le sue dimore abitate in permanenza a forma di trullo, o meglio con più trulli fusi in un parallelepipedo di base, in cui si distribuiscono le diverse stanze. La visione più completa e più bella si può godere da Martina Franca (provincia di Taranto), osservando da m. 431 s. m. la sottostante valle d’Idria o d’Itria.

    La popolazione totale del comune è di 36.018 ab., dei quali 24.609 accentrati a Martina Franca e 11.409, cioè il 44%, sparsi nelle feraci campagne circostanti. La città si chiamava San Martino sino all’inizio del secolo XIV, quando Filippo d’Angiò

    concesse « franchigia » per il suo ripopolamento. Da allora, come è quasi sempre avvenuto per concessioni del genere, la città fu qualificata Franca, e l’epiteto ha alterato la denominazione precedente. Nella numerazione dei fuochi del 1595, Martina figurava con 2195 — corrispondenti a quasi 11.000 ab. — classificandosi in Terra d’Otranto al quarto posto dopo Lecce, Taranto e Matera (allora in Terra d’Otranto).

    Veduta di Fasano.

    La campagna è intensamente coltivata a vigneto specializzato tenuto ad alberello. In altra parte di questo lavoro ho detto che l’asino di Martina Franca costituisce un esemplare tra i migliori del mondo.

    Una balconata naturale, rotonda, su cui è Locorotondo (provincia di Bari) chiude la valle a settentrione. Il poggio singolare, ospita 4079 ab. accentrati, mentre ne vivono sparsi nella campagna 5770 (il comune ha 10.370 ab). Siamo nel cuore della Murgia dei Trulli, e Cisternino (provincia di Brindisi), a meno di 8 km., lo conferma, attestandosi in quest’area i confini di tre province. Nel centro sono 4276 ab. mentre nelle case sparse vivono 5465 abitanti. L’intera popolazione comunale è di 11.074 articolata pure in altri 4 centri e in 7 nuclei, che dimostrano un principio di coagulazione del tipo di insediamento.

    Alberobello (in provincia di Bari, ma solo a qualche centinaio di metri dal confine della provincia di Taranto), non si è volontariamente fermata sulla via del progresso edilizio, ma è stata fermata dalla dichiarazione di monumento nazionale, guadagnandone un turismo ed una originalità che aumenta di giorno in giorno. E questa una città formata quasi interamente di trulli; c’è anche il «trullo soprano o sovrano» a due piani.

    Vedi Anche:  Distribuzione popolazione

    La prima sensazione è di essere caduti col tempo nello spazio di un centro preistorico, ma l’incanto svanisce quando si apprende che questo tipo di abitato si costruiva in matura età rinascimentale! Pur dimensionata in tal modo la suggestione, nulla si toglie ad un panorama tanto inconsueto ed originale. Alberobello accoglie nel centro 7197 ab. mentre vivono nelle campagne 1893 ab. (popolazione del comune 9546 ab.).

    Carovigno, celebre per il suo castello.

    Putignano ha 14.721 ab. accentrati e 4233 nelle case sparse. La popolazione totale del comune è di 19.000 abitanti. Anche questo centro è situato in posizione dominante a m. 374 s. m. in mezzo ad una campagna con vaste aree a seminativo arborato. Putignano dal 1083 al 1358 fu possesso feudale dei Benedettini di Santo Stefano (Monopoli), e poi dei Cavalieri Gerosolimitani di Rodi e di Malta sino al 1808. Fu nel Medio Evo un centro di colonizzazione, importante soprattutto per il rifornimento di legname per Monopoli.

    Castellana Grotte è una cittadina con 11.089 ab- ; nelle case sparse vivono 2814 abitanti. Nel complesso il comune ha una popolazione di 13.961 abitanti. Castellana Grotte ha derivato il suo epiteto dalle grotte scoperte nel suo territorio. L’attrazione turistica è notevole, accresciuta dal fatto che natura e uomo sembrano avere rivaleggiato per offrire a questa zona delle Murge una così spiccata individualità di bellezza subaerea ed ipogea. Ma l’occhio del geografo scopre altri elementi di attrazione nella vegetazione spontanea superstite, nel carsismo di superficie a doline, ad uvala, a polje.

    Il canale di Pirro aggiunge il suo motivo a tanta sinfonia, mentre Laureto e la Selva di Fasano innalzano le coniche guglie dei trulli dai rilievi circostanti.

    Balconi al sole a Martina Franca

    Alberobello, cittadina di fiaba.

    La Murgia Alta

    Nelle Murge si delimita pure un paesaggio geografico periferico, che interessa la fascia perimetrale rivolta verso la cosiddetta Fossa Bradanica. Abbiamo già fatto cenno alle caratteristiche di questa Murgia Alta, ove bruscamente la Puglia ha il suo termine, fissato da un imponente bastione naturale. Il confine amministrativo, alquanto innaturale per la esclusione di quella parte del Materano che è ad oriente della Gravina di Matera, comprende i centri di Minervino Murge, Spinazzola, Gravina di Puglia, Altamura, Santèramo in Colle e Gioia del Colle in provincia di Bari, Laterza, Ginosa, Castellaneta e Mòttola in provincia di Taranto.

    Le caratteristiche economiche di questa fascia perimetrale costituiscono la base della omogeneità del paesaggio, che deriva da analogie di coltivazioni agricole. Si osserva infatti il predominio del seminativo nudo, con placche di seminativo arborato asciutto e con minori aree ad oliveto o vigneto in prossimità dei centri abitati. Il mandorleto occupa delle superfici nel settore settentrionale e in quello meridionale. Cospicuo vi è inoltre l’incolto produttivo.

    Lo scarso numero dei centri abitati di questa zona esprime le condizioni non del tutto propizie per un insediamento di sufficiente entità. Però taluni fattori hanno consentito la formazione di una città come Altamura, che, con i suoi 38.231 ab. nel 1951 è al 6° posto tra i centri della provincia di Bari. Nel 1861 Altamura era la 62a città d’Italia per numero di abitanti; nel 1901 era arretrata al 75°posto. Da allora ad oggi l’incremento è stato costantemente positivo, denotando un buon ritmo di progressiva funzionalità.

    Veduta di Laureto di Fasano.

    Altamura domina il valico d’obbligo per coloro che dalla Basilicata devono raggiungere Bari. Maggiore è l’importanza di Bari, maggiore, di riflesso, è quella di Altamura. La sua importanza come nodo stradale fu riconosciuta sin dall’antichità, quando le popolazioni locali vi eressero un centro del quale non sappiamo il nome, ma del quale son rimasti ruderi importanti di mura poligonali. E difficile che l’Appia si inerpicasse per giungere ad Altamura, ma indubbiamente doveva essere raggiunta da un raccordo in collegamento con la città e con Bari.

    Federico II raccolse in Altamura le popolazioni circostanti, come aveva fatto per L’Aquila, dando vita all’attuale città. A questo tempo risale l’inizio della costruzione delle mura e della famosa cattedrale: un connubio di spirito e di materia, di cielo e di terra, tipico della personalità storica di Federico II. Agile e svettante, la cattedrale è il magnifico risultato del contributo della fede e della genialità artistica di più generazioni. La Cattedrale è il documento palpitante della storia di Altamura, perchè ogni periodo storico si è onorato di lasciarvi un’impronta. Nel 1532 Altamura, che dava titolo di principato alla famiglia Del Balzo, riuscì a riscattarsi.

    La bandiera rivoluzionaria fu ammainata nel 1799, quando i Sanfedisti riuscirono a domare la tenace e fiera resistenza opposta da Altamura. Ma sempre rimase vivo uno spirito indomito e un pochino inquieto, che caratterizza la psiche locale. Nel 1860, ancor prima dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, qui si formarono i quadri politici della Puglia, in attesa di trasferirsi a Bari.

    Siamo nella zona alta delle Murge e Minervino, a m. 445 s. m., per la sua posizione dominante verso la valle dell’Ofanto, le Murge e la Fossa Bradanica è definito il « balcone della Puglia ».

    Da Minervino a Minerva il passo è breve, e molti eruditi lo hanno accolto senza riserve. Ma sinora i documenti archeologici non offrono elementi che si spingano oltre il secolo XI, espresso in taluni residuati particolari normanni della cattedrale.

    La popolazione residente nel centro è di 20.352 ab. e quella del comune di 20.772 abitanti. L’incremento che è registrato dal 1861 (13.339 ab-) si arresta al 1921 (18.816 ab.), perchè da allora inizia una flessione registrata nel 1931 (17.856 ab.), ma terminata pure in quest’anno.

    La testata della Fossa Bradanica è caratterizzata da una soglia detta di Spinazzola dalla città che vi spicca. Si rinvengono ricordi archeologici di età romana (una statio), ma la documentazione precisa inizia soltanto dal Medio Evo, dalla data della conquista ad opera di Roberto il Guiscardo, avvenuta nel 1057. Nel 1613, nasceva dai feudatari del luogo, i Pignatelli, il futuro Innocenzo XII (1691-1700). Attualmente Spinazzola conta 13.017 abitanti. Della sua popolazione attiva il 58% è addetta all’agricoltura, ma il 15% all’industria estrattiva, localmente in efficienza con lo sfruttamento delle miniere di bauxite.

    Veduta di Altamura.

    Spinazzola è nodo stradale e ferroviario: vi si incontrano le linee provenienti da Gravina, dalla stazione di Rocchetta Sant’Antonio (donde a Foggia, ad Avellino, a Potenza), da Barletta. Quest’ultima è la linea più importante e frequentata.

    Gravina deriva la sua denominazione dalla gravina su cui si attesta, con posizione identica a quella di Castellaneta, di Laterza e Massafra. E una ubicazione topografica tipica degli abitati di questa fascia perimetrale delle Murge. A Gravina è caratteristico il rione Fondovico, che si addentra nell’alveo infossato, e che ricorda i Sassi di Matera. Gravina ha una esistenza segnalata almeno dall’età del bronzo, ed è filiazione di Silvium, città romana sull’Appia. Mentre la vita interna cittadina non presenta crisi di rilievo, la sua vita storica è angustiata dalle lotte che si svilupparono nel secolo X, quando Normanni, Bizantini e Saraceni si contesero queste contrade tutto devastando senza pietà. Ancora una distruzione nel 1133 con Ruggero II, ed infine una esistenza feudale, grigia ma economicamente discreta, da quando Roberto d’Angiò concesse, nel 1313, una fiera annuale, in cui si commerciavano prodotti della Puglia e della Basilicata.

    Minervino Murge, « balcone » di Puglia

    Peraltro l’importanza del centro è manifestata dal numero dei fuochi del « rilevamento » del 1595, che erano 2692 (13.460 ab. circa), inferiori solo a quelli di Andria, Barletta e, di poco, a quelli di Bari. Si pensi che al primo censimento d’Italia, nel 1861, Gravina contava 13.816 ab., ed era al 930 posto tra le città italiane come entità demografica. L’incremento ha poi mantenuto un ritmo costante e nel 1936 erano già largamente superati i 20.000 abitanti. Oggi (1951 ) risiedono a Gravina 28.303 ab.; nel comune sono 30.310, con la partecipazione del centro Poggiorsini Gravina.

    Gravina. Madonna delle Grazie.

    Veduta di Gioia del Colle.

    Gioia del Colle estende gran parte del suo territorio nella Murgia Alta, sebbene dei 28.127 ab. del comune, ben 4582 formino la popolazione sparsa (16%) : caratteristica, questa, propria alla Murgia dei Trulli. Ricordiamo che la popolazione sparsa di Gioia ha avuto origine da una quotizzazione di terre demaniali effettuata nel 1880, anno in cui furono distribuite 595 quote nella zona denominata Murgia Fragennaro; nel 1882 fu quotizzata la zona detta Lamie Nuove (141 quote). La singolare ubicazione di Gioia, rende fiorente l’economia locale per l’attività agricola in felice connubio con quella dell’allevamento. Tra i prodotti più commerciati hanno ampio raggio e buona fama le mozzarelle e il «primitivo»: vino molto ricercato per mezzo taglio. La città vive anche di piccole industrie ed ha un dignitoso aspetto edilizio, che si adorna di un magnifico castello di età normanna.

    Santèramo in Colle appare rilevato su un dosso, alto m. 496 sul mare. E cittadina che vive di agricoltura e di allevamento, che conta attualmente (1951) 19.360 abitanti. Nel 1921 ha superato i 15.000 ab.; una piccola flessione si è riscontrata nel 1936, che i risultati più recenti indicano come del tutto casuale.

    Al confine con la provincia di Matera sono le Matine di Santèramo, che rientrano in un comprensorio di bonifica ampio 26.000 ettari. L’area sinora messa a coltura è a vigneto e a seminativo arborato.

    In provincia di Taranto i centri che rientrano in questo paesaggio geografico di periferia delle Murge iniziano con Laterza, anch’essa situata sull’orlo di una gravina.

    Nel 1595 la popolazione di Terza era di 473 fuochi, pari a 3615 ab.; nel 1951 era di 11.856 abitanti. Anche qui l’8o% della popolazione attiva è dedita all’agricoltura.

    Ginosa, a 7 km. a sud di Laterza, occupa una identica posizione topografica perchè è pendula sulla gravina omonima. I 409 fuochi in essa rilevati nel 1595 definiscono nel complesso un modesto villaggio, che si è andato successivamente ampliando sino a superare la stessa Laterza con 15.229 ab. residenti nel centro e 16.435 nel comune.

    Castellaneta, altro centro di orlo di gravina, aveva invece 1683 fuochi nel 1595; oggi il centro ha 11.914 ab. e il comune 14.120. Modesti inoltre gli altri centri di Palagiano e Palagianello anch’essi di orlo di gravina. Mòttola invece è eminente su un poggio, presso il quale si rinvengono testimonianze di insediamento preistorico. Per la sua posizione ebbe vicende storiche molto agitate e fu distrutta dai Normanni nel 1102. Sebbene sede vescovile, non ebbe cospicua entità demografica, tanto che nel 1595 vi si rilevarono 162 fuochi, pari a circa 810 abitanti. Oggi (1951) risiedono nel centro 11.027 ab- e, nel comune, 13.723.

    La più importante delle cittadine di questo perimetro meridionale delle Murge è Massafra a m. 128 sul mare.

    Come Gravina, la città ebbe la sua fase iniziale come città troglodita della Gravina di San Marco. Poi, forse nel secolo X, gli abitanti cominciarono a raggrupparsi in un piccolo poggio impostato sull’orlo delle Murge, in posizione di facile difesa. Ma non è improbabile la coesistenza della città subaerea con quella ipogea.

    Massafra, da uno spalto delle Murge, domina la ferace piana tarantina.

    La città è stata sempre dominio feudale ed ha seguito la storia generale della regione. L’incremento demografico più notevole si è verificato solo in questo secolo, e la città conta oggi 16.116 abitanti. La «terra» si è estesa nel « borgo », con planimetria regolare a scacchiera.

    Nel vallone, la chiesa-cripta di San Marco è ancora ben conservata, ed il visitatore che entra nella penombra della laura basiliana, sente viva la suggestione che dovevano infondere nell’animo le solenni cerimonie religiose bizantine. Il Santuario della Madonna della Scala, anch’esso ipogeo, presenta una facciata barocca. Ma nella gravina orrida la religione non può disgiungersi dal mito: ecco la grotta del Mago Greguro e la grotta del Ciclope avvolte nel terrore della leggenda, mentre lontano, in una luminosità abbagliante, infonde rinnovata fiducia il sorriso del mare abbracciato dall’arco del golfo, e Taranto sembra dondolarsi come su un enorme natante ancorato alla terraferma.

    Crispiano (7448 ab.) è cittadina suscitata dalle grotte basiliane della sua gravina, in un territorio piegato dal lavoro dell’uomo in fortunata unione di feraci coltivazioni a mandorleto, vigneto, oliveto e seminativo. Il territorio è utilizzato pure con l’allevamento ovino e caprino, che trae giovamento persino dalla gariga.

    Più in basso, a m. 124 s. m., sugli estremi rilievi del primo gradino murgiano è Statte, che la strada statale ha polarizzato lungo i suoi lati. Con Statte (4489 ab.) siamo già nel comune di Taranto, città verso la quale la strada discende con una elegante spezzata di perfetti successivi rettifili.

    Il Salento

    La componente umana del tipico paesaggio geografico del Salento si manifesta con numerosi centri di scarsa entità demografica, reciprocamente molto vicini, uno in vista dell’altro, accompagnati da un frazionamento amministrativo che è uno dei più sminuzzati d’Italia.

    I centri della provincia di Lecce sono 152; poiché la popolazione accentrata è di 585.467 ab., il centro medio risulta di 3851 abitanti. È ancora opportuno aggiungere che, essendo la superficie pari a 2759,41 kmq. si ha un rapporto di un centro per ogni 18 kmq. di superficie.

    Il Salento settentrionale

    Dall’istmo Brindisi-Taranto al Capo Santa Maria di Leuca, l’unità del Salento si ravviva di alcuni paesaggi tipici — sebbene affini — caratterizzati soprattutto dalla morfologia. Le Murge si addentrano nell’area istmica con un ampio terrazzo definito verso la pianura del Salento da un gradino che si rivela intorno alla isoipsa di m. 100 s. m., e definito a settentrione da un altro gradino articolato sulla isoipsa di m. 200 sul mare. Ai margini di questa piattabanda, in provincia di Taranto ricordo le principali cittadine di Grottaglie, Monteparano, Sava; in provincia di Lecce: Oria, Latiano, San Vito dei Normanni, Carovigno. All’interno è invece Francavilla Fontana.

    Questa regione di altopiano calcareo, con insediamento rado di centri di media entità demografica, presenta la caratteristica antropica di un insediamento che, nelle forme attuali, risale ad una colonizzazione medioevaie. L’economia della zona è basata sulle colture legnose specializzate. All’agricoltura in generale si dedica l’attività di circa il 70% della popolazione attiva, per tre quarti costituita da braccianti.

    Il centro più importante è Francavilla Fontana, fondato nel 1310 da Filippo d’Angiò, principe di Taranto. Questo è un caso tipico di fondazione di città per la presenza dell’acqua in loco.

    La planimetria cittadina è impiantata su strade rettilinee, talune ampie e alberate. La città si abbellisce del Palazzo Imperiali, in cui si compendia la sua storia feudale coi nomi degli Orsini, che lo costruirono nel 1450, dei Bonifazio e degli Imperiali. Francavilla figura come città cospicua sin dal secolo XVI quando, nel 1595, contava 1020 fuochi, pari all’incirca a 6000 abitanti. Nel 1871 la città contava 16.997 ab. ed ha sempre continuato nel suo incremento demografico, sino a raggiungere nel 1951, 24.743 ab. residenti nel centro e 27.663 nel comune.

    Meno appariscente è la vicina Latiano, anch’essa sull’Appia e che ha condiviso le vicende di Francavilla. Nel 1595 i suoi abitanti erano circa 1890; nel 1951 risiedevano nel centro 11.289 ab. e, nel comune, 12.847.

    Oria, aggrappata su una collina, sembra tutta protesa nello sforzo di tener bene in alto il suo castello spiccante. Per la posizione di grande importanza dal punto di vista militare, la città messapica era tra le più cospicue, e successivamente fu ambita da quanti, Goti o Bizantini o Longobardi o Imperiali o Saraceni, Svevi o Angioini volevano dominare il Tavoliere di Lecce. Esistenza pertanto di violentissime lotte intorno al castello che Federico II aveva ricostruito su una rocca più antica, alla quale si incorporava una chiesa. La città, da un feudatario all’altro, divenne feudo di San Carlo Borromeo, che la vendette per 40.000 ducati al marchese Imperiali.

    Nel 1595 Oria contava 597 fuochi (circa 2885 ab.) entro le mura, che sono ancora ben conservate. Nel 1951 vi risiedevano 12.297 ab. (13.628 nel comune) dediti in gran parte all’agricoltura.

    Nel margine occidentale è Grottaglie, che spinge il suo abitato lungo il gradino di questo pianoro meridionale delle Murge, come un grappolo denso di edifici in vista del Mar Piccolo. E centro di origine medioevale, derivato — sembra — dalla riunione di gruppi vicini che si unirono per difendersi meglio dalle incursioni saracene, sempre più frequenti e terribili. Secondo alcuni è ubicata nel luogo della classica Salete, della quale si sono rinvenute varie monete. Da possesso dei vescovi di Taranto, divenne città feudale all’ombra del suo massiccio castello.

    Cospicuo centro demografico, Grottaglie, nel 1595, aveva 1310 fuochi (circa 6550 ab.); nel 1951 risiedevano 18.819 ab. nel centro e 20.170 nel comune. Il 59% della popolazione attiva è dedita all’agricoltura; Grottaglie ha inoltre rinomanza per l’artigianato delle ceramiche, il quale ha una buona gamma di produzioni tipiche, da quelle più comuni a quelle più raffinate.

    Sul margine orientale è San Vito dei Normanni, grosso centro rurale con 16.061 ab. (17.652 nel comune), detto sino al 1863 San Vito degli Schiavoni, per una colonia slava qui ubicatasi nel Medio Evo.

    Ma è soprattutto nel margine sudoceidentale che la colonizzazione ha fatto sorgere centri numerosi e vicini in un’area morfologicamente molto mossa, là ove il tipico pianoro murgiano si estingue e subentrano le forme convesse, ad anticlinale, delle Murge Tarantine, note pure con la denominazione di Murgette. Siamo ormai in area di transizione verso forme distinte di insediamento.

    Numerose osterie di Bari portano l’insegna «Vino di Sava ». Sava è qui, tra colline dense di vigneti magnifici, che danno un vino alcoolico e fragrante, di un rosso denso dai riflessi di rubino. Nel 1595 Sava ha soltanto 161 fuochi (circa 805 ab.); era stata fondata da poco più di un secolo prima, e non aveva ancora acquisito una entità numerica demografica degna di nota. A Sava nel 1951 risiedevano 14.623 ab. e 15.009 nel comune.

    A nordovest di Sava si verificò una intensa colonizzazione albanese nella seconda metà del secolo XV, che determinò il ripopolamento di questa contrada. I centri della cosiddetta Albania Salentina scelsero a preferenza ubicazioni topograficamente eminenti, spesso facendo rifiorire la vita in vecchi casali. Sorsero così dal secolo XV al secolo XVI, anche per processo di ulteriore ampliamento dovuto alle generazioni successive, i centri di Monteiasi, Monteparano, Monte-mèsola, Roccaforzata, San Giorgio, San Crispieri, San Marzano di San Giuseppe, Carosino, Faggiano, ecc.

    Nella nuova patria gli Albanesi ridussero il bosco in favore del grano e della vite, riuscendo a creare un certo benessere economico pure mediante un fortunato commercio. I vini di Carosino, ad esempio, sono molto noti e ricercati in gran parte della Puglia.

    Sava, circondata da floridi vigneti.

    Il fitto raggruppamento formato dalla maggior parte di questi centri, la scarsa entità demografica di ciascuno di essi (ad esempio, San Giorgio Iònico, 7275 ab. ; Carosino, a soli 2 km., 4509 ab.; Roccaforzata, a 2,5 km. da San Giorgio, 1434 ab.; Monteparano, a poco più di 3 km. da San Giorgio, 2515 ab.; Faggiano, a 2,5 km. da Roccaforzata, 2103 ab.; San Crispieri, a 2 km. da Faggiano, 234 ab.), costituiscono un’oasi tipica di insediamento in cui il paesaggio geografico del piano premur-giano è totalmente svanito. Un altro elemento di discriminazione è offerto dal frazionamento amministrativo dato che si hanno valori minimi di ampiezza di aree comunali: San Giorgio Ionico, 2309 ha.; Carosino, 1079 ha.; Roccaforzata, 571 ha.; Monteparano, 375 ha.; Faggiano, 2084 ha., ecc. Le alte densità (Monteparano, 677 ab. kmq.) hanno un significato esponenziale assoluto notevole, ma di nessun valore comparativo perchè troppo influenzato dal fattore superficie.

    Verso il mare lontano si estende una blanda pianura, ove biancheggianti di latte di calce, si distinguono Talsano (6752 ab.), Leporano (1577 ab.), Pulsano (6059 ab.), con case sparse — casini e masserie — abbastanza frequenti. Alquanto più interno è l’abitato di Lizzano (6271 ab.), il quale con Torricella (2776 ab.), Maruggio (4174 ab.) ed Avetrana (4724 ab.), completano il quadro dei centri più notevoli del Salento ionico appartenente alla provincia di Taranto. Ad eccezione di Talsano, tutti gli altri centri sono ricordati nella numerazione dei fuochi del 1595, e tra essi il più popolato è « Monrogio » con 431 fuochi (circa 2155 ab.); al secondo posto è Mo-nacizzo con circa 1100 ab. (oggi 425) e al terzo « Vetrana » con circa 1000 abitanti.

    Il Tavoliere di Lecce definisce un altro ambiente salentino, pianeggiante totalmente al di sotto della isoipsa di 100 m. e caratterizzato da centri reciprocamente distanti in media una diecina di chilometri, e con popolazione media per centro intorno a 5500 abitanti. Questi centri sono San Pancrazio Salentino (7258 ab.), Torre Santa Susanna (7231 ab.), Erchie (5082 ab.), San Donaci (4865 ab.), Guagnano (4842 ab.), che, compatti si elevano da campi di grano, da vigneti, da oliveti. Centri che vivono di agricoltura, esportando olio (Guagnano), vino (San Donaci), tabacco (Torre Santa Susanna). Sempre grave il problema del bracciantato, assume spesso forme esasperanti o per le annate di cattiva produzione o per quelle di scarsa richiesta da parte dei mercati di consumo dell’Italia settentrionale.

    Nel margine settentrionale del Tavoliere è Mesagne, città con 20.486 ab., e in quello meridionale — a sudest — è Manduria, città con 21.854 abitanti. Manduria è di origine messapica, ed ha costituito un propugnacolo indigeno contro l’invadenza politica dei greci di Taranto. Sebbene senza elementi naturali di difesa, la cinta di mura messapiche, ancora in parte ben conservate e la possibilità di approvvigionamento idrico in caso di assedio mediante il fonte pliniano, hanno fatto di Manduria un baluardo di difficile conquista. Presso le sue mura Archidamo di Sparta lasciò cruentemente la vita il 3 agosto del 338 avanti Cristo. Come la vicina Oria fu ambita da tutti i conquistatori, e qui troviamo Annibale, Quinto Fabio Massimo, i Bizantini, i Goti, i Longobardi, i Saraceni. Con tutte queste lotte Manduria finì per essere distrutta e perdette lo stesso nome: fu infatti ricostruita nel secolo XI col nome di Casalnuovo, conservato sino al 1789.

    La città ha nobile aspetto edilizio. Solenne linea estetica ha il palazzo del Municipio, e molto sobria è quella del palazzo Imperiali (1719). Altri palazzi degni di ricordo sono quelli dei Gigli, Dragonetti, Giannuzzi, Gatti. A questa famiglia si deve il merito della raccolta di cimeli bibliografici ed artistici salentini, tra cui gli Atlanti manoscritti di Giuseppe Pacelli, studioso di geografia locale (1764-1811), che si possono consultare nella Biblioteca « M. Gatti » sita nel Municipio. Il Rinascimento manifesta nella facciata del Duomo (1532) decorazioni di molto effetto, contrastanti con le severe linee romaniche del campanile.

    Il fonte pliniano, detto così perchè Plinio lo ricorda nella sua Naturalis Historia (III, 3), è una sorgente in grotta, che smaltisce le sue acque con corso ipogeo. Questo fonte era incluso nella cerchia di mura messapiche presso le quali si osservano ancora numerose tombe.

    Ha notevole peso economico come grosso centro agricolo di produzione e di commercio di grano, olio, vino e tabacco. La sua importanza di nodo stradale si è recentemente accresciuta con la sistemazione dell’arteria San Vito, Mesagne, San Donaci, che collega Bari a Lecce senza dover passare per Brindisi.

    La città si è molto estesa, anche con una bella « villa » al di fuori della vecchia cinta muraria, in parte conservata. Vi figura la Porta Grande, di evidente rifacimento cinquecentesco; si possono ammirare cospicui ma rimaneggiati residui del castello che risale al secolo XI. L’architetto Francesco Capodieci, nativo di Mesagne, ha lasciato un impegnativo esempio di barocco nell’odierna chiesa parrocchiale (1653), ornata internamente anche con dipinti di un altro valente artista mesagnese, Pietro Zullo.

    Nel cuore del Salento

    Man mano che ci si addentra nel Salento, si ha la sensazione di essere in un labirinto di centri abitati, un po’ tutti della stessa misura, all’incirca in identica posizione topografica, su una spianata più solida o su un cenno di rilievo, occhieggianti tra boschi di olivo.

    Sono già noti i caratteri fisionomici complessivi di questa regione, ricchi di aspetti particolari, che contribuiscono ad eliminare ogni uniformità d’insieme. Il secolare apporto antropico consente di individuare un’area leccese, costituita dal capoluogo e da quegli abitati che dimostrano di gravitarvi in permanenza, con la stessa posizione a cerchi concentrici attraversati da raggi stradali convergenti su Lecce.

    Merine, Cavallino, San Cesario di Lecce, Lèquile, San Pietro in Lama, Monte-roni di Lecce, Arnesano, Nùvoli, Surbo, formano il più interno cordone anulare, mentre uno più esterno si definisce con i centri di Acaia, Vanze, Acquàrica di Lecce, Vèrnole, Castri di Lecce, Capràrica di Lecce, Galugnano, Campi Salentina, Squinzano.

    Si osserva che questi cordoni anulari non si chiudono con altre città ad est di Lecce, perchè tutto quel territorio presentava elementi di repulsione, ed era pertanto difficile, se non impossibile, la formazione di un cospicuo centro abitato. Surbo costituisce una eccezione unica. Ma i cordoni anulari si saldano egualmente con nuclei, che rendono completa e topograficamente espressiva la raggiera di cui Lecce si adorna.

    Il cordone anulare più interno ha una distanza media di 6 km. e quello più esterno di km. 15. Tra l’uno e l’altro si osserva l’inserimento di qualche abitato che rende ancor più densa questa ragnatela antropica: sono i centri di Strudà, Pisignano, Liz-zanello, Carmiano, Nòvoli, Trepuzzi. I centri del cordone esterno risentono della distanza e risultano influenzati da altri ambienti, come si osserva per Copertino, ed assumono una maggiore individualità, come accade per Sàlice Salentino e per Squinzano. Anche il numero degli abitanti vi è maggiore che negli altri centri. Ma come tutte le strade conducono a Roma, qui tutte le strade conducono a Lecce, creando il « Leccese ».

    Mesagne. Chiesa di S. Maria.

    L’utilizzazione del suolo di quest’area è pure oggetto di specifico interesse. Intorno a Lecce si estendono i seminativi e le nude superfici a tabacco, assediati con scarse soluzioni di continuità, da oliveti per tre quarti e da vigneti per un quarto. Al fronte degli oliveti, che circonda la piana da nordovest a sud, si oppone il fronte dei vigneti, compatto nel restante settore. Numerosi i frutteti; gli orti maggiori, in funzione del mercato leccese sono a Lèquile (3863 ab.) e a San Cesario di Lecce (5950 ab.).

    Questa è la terra del vino e dell’olio; un fumatore potrebbe anche ricordare il tabacco, una pianta che ha invaso il Salento dal secolo XIX, sempre ricca di tante speranze e talvolta fonte di amare delusioni.

    Il Leccese, oltre che da esteriori aspetti topografici, è definito anche da analogia di elementi strutturali. Basterà rilevarne uno, che è sufficientemente qualificativo. La popolazione attiva della provincia dedita all’agricoltura è pari al 56,6% della totale attiva, mentre quella addetta alle industrie estrattive e manifatturiere è pari al 26%.

    Il comune di Lecce presenta valori percentuali corrispondenti alle attività enunciate pari al 14% e al 24%. E notevole non solo il significato del valore intrinseco ma l’inversione del rapporto, che attribuisce a Lecce un carattere manifatturiero — non industriale! — molto sintomatico per una città meridionale. Dei 18 comuni della provincia che presentano identico fenomeno — naturalmente con valori assoluti di gran lunga inferiori a quelli di Lecce — 7 sono ubicati nel Leccese, ed il resto è disperso nel Salento. Ma ad amalgamare ancor meglio quest’area calamitata da Lecce, contribuisce il flusso quotidiano proprio degli addetti alle industrie manifatturiere: flusso che si può valutare, sulla scorta di statistiche ufficiali, di almeno 4000 persone, ed al quale dànno i maggiori quantitativi Trepuzzi, Lizzanello, Monteroni, Lèquile, Nòvoli, San Cesario di Lecce, Surbo, Carmiano, San Pietro in Lama, Cavallino.

    A Squinzano (12.260 ab. nel centro e 13.321 nel comune) esistono 35 stabilimenti vinicoli, 8 oleifici ed un magazzino di lavorazione di tabacchi: questa è la risultante economica delle attività di un territorio comunale, che può essere trasferita a tutti gli altri con variazioni di quantità, ma non di qualità.

    Sàlice Salentino (6369 ab. nel centro e 6901 nel comune) ha 9 oleifici e 9 stabilimenti vinicoli, con prodotti ottimi in bottiglia, che vanno imponendosi nei maggiori mercati di consumo. La graziosa cittadina è stata fondata nel secolo XIV da Ramondello Del Balzo Orsini, e al termine del secolo XVI aveva più di 2000 abitanti. Veglie (8022 ab. nel centro e 9434 nel comune) ha stabilimenti vinicoli, oleari e di lavorazione del tabacco; Leverano, a circa 6 km., presenta identiche attività economiche, con in più 2 molini e una fabbrica di mattoni. L’abitato si sviluppa intorno ad una grossa torre quadrata, costruita da Federico II nel 1220. Nel secolo XVI il centro contava poco più di 2000 ab., oggi saliti a 8634 (nel comune 8944).

    A questi principali centri del semicerchio esterno settentrionale e occidentale — abbiamo omesso di parlare di Copertino — corrispondono nel semicerchio interno cittadine fondamentalmente analoghe nelle attività economiche, nella entità demografica e nelle vicende storiche. Ricordarle tutte esula dallo scopo di questa trattazione e ci soffermeremo soltanto sulle più significative.

    Surbo ha solo 60 ab. nel 1595; oggi è capoluogo di comune con 5678 ab. (6116 nel comune); sua caratteristica economica è la produzione di pietra da calce. Tre-puzzi (9514 ab.; 10.449 nel comune), grosso centro demografico ha opifici di lavorazione di tabacchi, oleifici e soprattutto stabilimenti vinicoli.

    Una propria caratteristica individua l’area salentina della costa occidentale da Avetrana a Nardo, per lo scarso numero di centri abitati quivi esistenti e per la notevole estensione del seminativo nudo, in parte utilizzato con colture di tabacco e col pascolo. Si tratta soprattutto del territorio comunale di Nardo, esteso 22.515 ha., primo nella provincia, dopo quello di Lecce, ampio 23.841 ettari. Superfici enormi, considerato che l’area media del comune in provincia di Lecce è di 2967 ettari.

    Nardo è anche il centro più popolato della provincia, dopo il capoluogo, con 21.291 abitanti. Nel 1901 contava 11.653 ab- e con aumento progressivo ha raggiunto il numero attuale. Nel 1595 i suoi fuochi erano 1627 (circa 8135 ab.), superiori anche allora a quelli di tutti i centri compresi nell’area provinciale odierna.

    Nardo è di origine messapica e fu municipio romano col nome di Neritum. Durante il Medio Evo fiorì di fede e cultura bizantina; i Normanni che la conquistarono nel 1055, vi favorirono il rito latino. Tra le maggiori calamità di Nardo si ricordano i saccheggi operati dai Saraceni nel 901 e nel 1480.

    Soffrì di un terribile terremoto nel 1743, che diede motivo di rinnovare e restaurare parte della città, risorta con un barocco alquanto pesante.

    Galàtone a 5 km. da Nardo, Copertino a 11 km., sono centri che rientrano nella regione considerata, manifestando elementi di contatto con la stessa Nardo, ovviamente svisati dalla grande attrazione esercitata da Lecce.

    Galàtone, con 12.878 ab. (nel comune, 13.475) è città vivace ed attiva, di passaggio obbligato per le comunicazioni tra il capoluogo e Gallipoli, e tra Nardo e Maglie. E pure centro di produzione e di industrie agrarie con attrezzati oleifici e stabilimenti enologici. La sua storia è documentata dall’età bizantina e da ricordi basiliani ed è inserita nelle vicende generali di questo settore del Salento. Vi è nato nel 1444, Antonio de Ferraris detto il Galateo, uno degli ingegni più eclettici della Puglia, espressione di quel periodo umanistico, in cui la linfa classica trovò rinnovato vigore schiudendo le porte alla luminosità rinascimentale. Galàtone è sede centrale della Banca Vaglio e Leuzzi.

    Copertino con i suoi 15.606 ab. è uno dei maggiori centri della provincia di Lecce. Nel 1595, i suoi abitanti erano circa 3100. Le sue origini si collegano con i Basiliani e la sua storia feudale non ha quelle spettacolose vicende, che la grandiosità del castello cinquecentesco, ancora ottimamente conservato, potrebbero far supporre. A

    Copertino è nato nel 1603 Giuseppe Desa (1603-63), il santo frate conventuale, noto come San Giuseppe da Copertino, morto a Osimo nel 1663.

    Opifìci di prima lavorazione dei tabacchi, oleifìci, stabilimenti vinicoli, una fabbrica di mattoni, una distilleria, rendono molto attiva la città.

    Verso il Capo

    Il Salento meridionale, a sud del Leccese, ha nella città di Maglie il suo centro di gravitazione. Vi risiedono 11.662 ab.; della popolazione attiva, pari a 4792 persone, 1829 sono addette alle industrie manifatturiere e 1211 all’agricoltura. Oleifìci e stabilimenti vinicoli, con magazzini di lavorazione dei tabacchi, costituiscono la base economica del Salento. Qui vi sono però anche molini e pastifìci, fabbriche di gassose, di mattoni e tre berrettifìci.

    L’obelisco è ornamento frequente delle piazze delle città salentine (Nardo).

    La vivacità economica è manifestata dalla fondazione della banca locale Vincenzo Tamborrino, e dal fatto che s’impiega per le industrie e il commercio una forza motrice di 1161 HP, inferiore soltanto a quella di Lecce. Maglie è sede di un Liceo.

    Altra importante città è Galatina, in fase di sviluppo edilizio molto notevole, in relazione al suo recente incremento demografico. Infatti il centro superava di poco i 15.000 ab. nel 1931 ; venti anni dopo ne contava 17.870. La popolazione attiva è dedita per la metà all’agricoltura; una cospicua percentuale, il 26%, è addetta all’industria estrattiva e manifatturiera. La positiva economia cittadina si manifesta attraverso la istituzione della locale Banca Fratelli Vallone fu Vincenzo e della Banca Donato Mongiò. Ai numerosi stabilimenti vinicoli, agli oleifici, ai magazzini di lavorazione dei tabacchi, si affiancano un cementificio della Fedelcementi, varie fabbriche di mattonelle in cemento, e due opifici di frangitura di pietra. Ben sostenuto è il commercio all’ingrosso; l’arte tipografica dispone di buon materiale e di maestranze specializzate, sì che anche l’editoria vi è sviluppata con ottimi risultati. Galatina è sede di un Liceo governativo, e di un Istituto Tecnico Commerciale comunale.

    Un centro così cospicuo lega le sue vicende politiche con quelle di Soleto, che sorge su un’area di profonda continuità storica, sino al Paleolitico superiore. In età romana probabilmente decadde e si riprese in seguito a colonizzazione bizantina. Ebbe il suo periodo storico più cospicuo quando nel secolo XIV fu infeudato alla famiglia Del Balzo Orsini, che ha edificato il bellissimo campanile noto come « guglia di Ramondello », perchè iniziato nel 1397 da Ramondello Orsini. Al termine del secolo XVI, Soleto contava 2665 ab. circa; oggi (1951) vi risiedono 4244 ab., dediti però in maggioranza ad industrie manifatturiere: oleifici, tabacchifìci, frangitura di pietre.

    Veduta di Galàtone.

    Maglie, nel cuore del Salento meridionale.

    Con Soleto siamo entrati nell’area della Grecia salentina, che comprende inoltre Calimera, Martignano, Sternatìa, Zollino, Martano, Corigliano d’Otranto, Castri-gnano de’ Greci, Sogliano Cavour, Melpignano, Cànnole, Cutroiìano, Aradeo, Cursi, Bagnolo del Salento, Noha. I dialetti attualmente parlati derivano dalla lingua greca.

    A sud di Maglie il paesaggio morfologico tende a ravvivarsi col succedersi di conche piccole ma contrastate dalla vicinanza, e col chiudersi dell’orizzonte con i rilievi rigidamente allineati delle Serre. Numerosi e minuscoli si susseguono i centri lungo tutto il settore orientale, caratteristici per il loro aspetto esotico, che viene esaltato dalla presenza frequente di palme. Nel settore occidentale i centri sono meno numerosi, ma più grandi e presentano nel complessso un perimetro rettangolare, con la lunghezza impostata sulla strada maestra, che è in genere la strada principale ed assiale dell’abitato. Sannicola, Tuglie, Paràbita, Marino, Melissano, sono esempi che non hanno bisogno di commento. La strada ha indubbiamente esaltato il fenomeno, ma l’origine prima — come si osserva esaminando le topografìe di Ruffano, Melissano, Ugento, Al liste — è da ricercarsi nel defilamento del dosso, che condiziona lo sviluppo dell’incoiato. La morfologia ha determinato un evidente orientamento di sviluppo longitudinale degli abitati da nordovest a sudest. Taluni di questi parallelismi sono molto singolari (Supersano, Matino, Melissano, Ruffano), ma non penso che siano comunque scaturiti da un piano intenzionale. La stessa conurbazione di Acquàrica-Presicce avviene lungo un asse orientato nordovest-sudest.

    La guglia di Ramondello a Soleto.

    La fusione dei due tipi si osserva nelle vicinanze del Capo, ove, ad esempio, Ca-strignano del Capo assume una planimetria molto confusa, che è delimitata da un perimetro altrettanto irregolare.

    Nel versante occidentale, che i Romani dissero abitato dai Calabri, era la città di Baletium o Aletium, forse di fondazione tarantina. Oggi (1951) Alezio ha 6066 ab., con produzione di vino e di olio. Ridente, in amena posizione, è Sannicola (4881 ab.), con fàbbrica di mattoni, molini e industria dell’olio e del vino. La strada che la unisce a Tuglie (6074 ab.) rivela ad occidente un paesaggio di campagne, di città e di mare di singolare bellezza.

    Paràbita non è il centro demografico più importante di questa zona (8397 ab.), ma è uno dei più intraprendenti, come dimostra la istituzione della Banca Popolare di Paràbita. Matino (9752 ab.) a 2 km. da Paràbita, ha la Banca Agricola di Matino, che agisce da propulsore delle attività locali. Casarano (13.077 ab.), città in pendìo, con recente sviluppo edilizio verso la stazione ferroviaria, basa la sua esistenza sulla manifattura ed il commercio dei prodotti agricoli locali. Nei pressi sono i ruderi del centro scomparso di Casaranello, ove nacque Bonifacio IX (Pietro Tomacelli), papa dal 1389 al 1404. Da Casarano al mare, costituiscono un raggruppamento di centri molto vicini tra loro Taviano (7797 ab.), Melissano (5105 ab.), Ràcale (6238 ab.), Alliste (4389 ab.), Felline (1315 ab.), Ugento (6533 ab.), Gèmini (1566 ab.). Olio, vino, tabacco formano la base economica di questi centri; per Ugento ricordiamo pure una fabbrica di mattoni, un saponificio, due mobilifici. Caratteristica, a Taviano e a Melissano, è la presenza di ditte che si interessano di luminarie e addobbi. Ugento è città di antica storia messapica e romana. Il circuito delle sue mura era di 4700 m. con larghezza variabile di 5-8 metri. Ricordata da Plinio, Livio e Tolomeo, fu sede vescovile. I Turchi la saccheggiarono nel 1545.

    Coltivazione a fosse terrazzate nel Salento (Gagliano del Capo).

    Santa Maria de finibus terrae.

    Da Casarano al Capo spicca l’allineamento di Taurisano (7195 ab.), Acquàrica del Capo (3656 ab.), Presicce (5832 ab.), Salve (3843 ab.). A Presicce, indice di progresso economico, è la Banca Arditi Galati; vi è inoltre sviluppata la ebanisteria.

    Attraverso Mordano di Leuca (2498 ab.), Patù (1495 ab.) e Castrignano del Capo (3121 ab.), tra oliveti e vigneti, si giunge al Capo Santa Maria di Leuca. Siamo in area archeologica impostata su Veretum, centro messapico e romano, da ubicarsi forse presso la chiesa della Madonna di Vereto ad ovest di Patù. Mancano indicazioni precise ed una ricerca è resa difficoltosa sia dall’ampia aerea in cui i singoli ed inespressivi ruderi vengono segnalati, sia da quella stratificazione erudita e capillare a suo tempo qui effettuata dai Basiliani. E certo molto sintomatica, e rimasta ancora senza risposta, l’esistenza di un municipium, desunta dalla lettura di un’iscrizione romana pubblicata da Teodoro Mommsen nel Corpus Inscriptionum Latinarum

    (IX, p. 3).

    Un tempio a Minerva sorgeva sul promontorio Iapigio: la più greca delle dee collegava idealmente con la civiltà dell’Eliade questo estremo lembo di terra romana. L’esistenza di questo tempio è ricordata da Strabone, il quale ne esalta il passato splendore. Forse nell’area di questo tempio è stata fondata la chiesa di Santa Maria de finibus terrae completamente ricostruita nel 1720, meta ancora di devoti pellegrinaggi. Un recente vicino edifìcio è il nucleo essenziale di un’opera altamente benemerita, il Villaggio del Fanciullo Santa Maria di Leuca.

    Nel limite del sagrato della chiesa, pensile sul mare che schiumeggia circa 60 m. più in basso, è stata innalzata un’imponente croce di pietra locale. Nel basamento si legge: In questa estrema rupe d’Italia / Nel primo anno del secolo ventesimo / Credenti in Cristo redentore / Posero questa croce.

    Il faro, di magnifico effetto stilistico, s’innalza come una colonna dorica alta 47 m. che ambisca a sorreggere un’invisibile volta. Quando da qui si possono vedere i lontani e sfumati monti della Calabria ad occidente, quelli dell’Albania ad oriente, e l’isola di Corfù a mezzogiorno, si ha la netta sensazione di essere al crocevia geografico dei più antichi flussi di civiltà marinara non solo del Mediterraneo ma di tutto il mondo.

    Poggiardo. La chiesa madre.

     

    La città scomparsa di Leuca era ubicata sul capo ed era sede vescovile; nella prima metà del secolo XVI la città fu quasi totalmente abbandonata e la sede vescovile fu trasferita ad Alessano. La diocesi fu poi assorbita da quella di Ugento nel 1818.

    Nella insenatura fra la dimessa Punta Ristola e la rupe fiera del Capo, è la moderna cittadina di Leuca con soli 741 abitanti.

    Il settore orientale del Salento a sud di Maglie, come ho detto, è denso di piccole o frequenti cittadine, in genere graziose pur nella stereotipa uniformità delle abitazioni. Soprattutto gli oliveti, in parte i vigneti e il tabacco sono a fondamento dell’economia locale.

    Veduta di Santa Cesàrea Terme.

    Marina di Tricase.

    Da Otranto al Capo si configura un allineamento di centri parallelo alla costa, ma sistematicamente distante da essa da i a 5 km. in linea d’aria, con evidente ed espressiva repulsione.

    Da nord verso sud, ricordandone solo taluni, risaltano Uggiano la Chiesa (3344 ab.), e verso l’interno, Giurdignano (1319 ab.), in un’area ricca di monumenti megalitici, i quali testimoniano un’importanza ed un insediamento di gran lunga maggiore rispetto all’attuale.

    A Poggiardo (4403 ab.) converge una rete di strade che collega l’allineamento più orientale con quello interno, il quale va da Maglie ad Alessano. La raggiera ha per vertici di un espressivo poligono topografico, Sanàrica (1433 ab.), Giuggianello (1233 ab.), Minervino di Lecce (2352 ab.), Cerfignano (1419 ab.), Santa Cesàrea Terme (247 ab.), Castro (1371 ab.), Vignacastrisi (1174 ab.), Diso (1.491 ab.), Spongano (3237 ab.), Surano (1611 ab.), Nociglia (2417 ab.), Botrugno (2411 ab.). Sono frequenti in quest’area le cripte basiliane, talune ottimamente conservate, con affreschi di notevole importanza per la conoscenza dell’arte bizantina in Puglia. La cripta di Santa Maria a Poggiardo si rivela in tal senso tra le più espressive.

    Tricase (6862 ab.) coagula intorno a sè altri numerosi centri contigui come Tutino (653 ab.), Sant’Eufemia (641 ab.) e Capràrica del Capo (893 ab.),-o più distanti, come Depressa (1289 ab.), Andrano (2869 ab.), Castiglione (1032 ab.), Montesano Salen-tino (1704 ab.), Migiano (2741 ab.), Lucugnano (1378 ab.), Tiggiano (1764 ab.). Tricase ha un castello cinquecentesco ed è una cittadina molto attiva. Graziose sono le sue dipendenze di villeggiatura a La Serra, in ambiente naturale molto pittoresco e distensivo.