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Corsi d’acqua e laghi

    Corsi d’acqua e laghi

    Caratteri generali dell’idrografia

    Il Veneto è regione ricca di acque superficiali, che in parte rappresentano lo scarico naturale dei bacini imbriferi alpini e prealpini, in parte sono alimentate da sorgenti di pianura. Ma tale ricchezza non è distribuita in modo uniforme e, anche in rapporto con la diversa piovosità, notevole risulta il contrasto tra le regioni scarse d’acqua e le regioni con acque superficiali abbondanti. Specie nella «bassa» le pendenze troppo limitate, soprattutto nelle zone di bonifica recente, dove le terre asciugandosi si costipano e s’abbassano, fanno ristagnare le acque e alcune porzioni del terreno, chiuse tra argini e prosciugate con idrovore, assomigliano ai polder olandesi. Nell’alta pianura non mancano invece zone aride, che hanno bisogno di essere irrigate.

    Notevole importanza assume la linea delle resultive, che compare in corrispondenza a quella fascia di materiali minuti (arenarie, sabbie, argille) quasi impermeabili, dove le acque freatiche, filtrate attraverso le alluvioni, vengono alla luce con numerose polle d’acqua limpida e fresca, a temperatura quasi costante, dopo esser state assorbite nell’alta pianura dal suolo ghiaioso assai bibulo; una parte va pure ad alimentare per vie sotterranee i fiumi maggiori, oppure le acque sono catturate per mezzo di pozzi artesiani, come quelli che alimentano a Sant’Ambrogio di Grion, a est di Cam-posampiero, l’acquedotto di Venezia (lungo 33 km.). Nell’alta pianura le acque, penetrando nel sottosuolo, formano infatti un’estesa falda, che alimenta numerosi pozzi, più o meno profondi a seconda del drenaggio. Questa fascia, che non è continua come in Lombardia, viene contrassegnata da zone acquitrinose (salvo tra Bacchi-glione e Alpone, dove esistono zone sovralluvionate), ma è interrotta dalle alte conoidi del Piave e del Brenta e dai rilievi degli Euganei e qualche volta non è ben determinata, perchè si confonde con le acque subalvee dei fiumi, per cui è difficile tracciare il limite tra la pianura asciutta e quella irrigua e non troppo evidente risulta il contrasto tra l’una e l’altra. In generale la fascia ha inizio là dove le ghiaie s’associano a una certa quantità di sabbia, mentre il limite meridionale coincide a grandi linee con la scomparsa delle ghiaie e col prevalere delle sabbie. Le maggiori interruzioni si verificano in corrispondenza ai colli di Soave, ai Bèrici e presso le sorgenti del Livenza, per cui si può distinguere l’alta pianura veronese dalla vicentino-trevisana; i limiti variano del resto durante l’anno, dato che nel periodo di magra la linea si sposta verso il basso. Essa è larga da i km. a 12 km., compare a m. 30-50 s. m. in corrispondenza delle sorgenti del Livenza, giunge al Piave al Passo di Folina, poi lambe con una dolce curva Treviso, Castelfranco, Cittadella, Sandrigo, si avvicina talvolta alle falde dei monti, tanto da comprendere qualche sorgente carsica e circonda la base dell’anfiteatro morenico del Garda, dando luogo a una rete di canali e di « rogge », che hanno per lo più un decorso regolare o a linea spezzata che rivela l’opera dell’uomo, che se ne serve per irrigare i campi. Essa alimenta potenti corsi d’acqua, come il Sile, lo Zero, il Dese e, in modo meno evidente, anche il Bacchiglione e il Tàrtaro. Inoltre viene utilizzata da alcuni acquedotti.

    La linea delle « resultive » presso Verona.

     

    Ma accanto a questi fiumi di breve corso, lenti e ricchi di acque, che hanno origine nella zona delle resultive, il Veneto ha pure fiumi prealpini (Brenta, Agno-Guà, ecc.), di corso più lungo, ma più poveri d’acqua e spesso a regime torrentizio, con forte distacco tra le portate medie e le minime, in rapporto sia con le precipitazioni, sia con la natura del suolo (assorbendo i calcari le acque, mentre le rocce scistose le portano in superficie) e fiumi alpini (Adige, Piave) che hanno origine nelle catene interne delle Alpi e assumono quindi uno sviluppo relativamente notevole di corso e di bacino. Si tratta ad ogni modo, salvo il Po che è fiume marginale e rAdige che soltanto nel tratto inferiore è fiume veneto, di corsi d’acqua modesti (Piave, 220 km.; Brenta, 160; Bacchiglione, 113; Livenza, no), non regolati da laghi, aventi un’alimentazione non troppo cospicua (30 kmq. di bacino per ogni chilometro di corso per l’Adige, circa 20 per il Piave, 15 per il Brenta e il Bacchiglione), disturbata dall’irregolarità dei periodi piovosi. Nei fiumi-torrenti come il Piave le acque non coprono tutto il greto, ma si dividono in numerosi rami, che confluiscono e diffluiscono in rapporto alle ineguaglianze dell’alveo; di questi rami solo alcuni hanno una certa stabilità e dopo ogni piena la configurazione dell’alveo risulta modificata.

    I «Serrai» di Sottoguda. Profonda gola di erosione del torrente Pettorina (Cordévole, Piave).

    Il Sorapis coi suoi ghiacciai.

    A differenza che in Piemonte e in Lombardia, scarsa importanza per l’alimentazione dei fiumi hanno i ghiacciai. Un elenco recente (1959) enumera per il Veneto 34 ghiacciai, di cui 11 nel bacino del Cordévole, 8 in quello dell’Ansiei, 5 in quello del Boite, 3 in quello del Maè e 7 nel bacino di affluenti minori del Piave. Il limite delle nevi perpetue è di 2800-2900 m. nelle Alpi Dolomitiche e scende a 2700 m. nelle Alpi Venete; risulta più alto nelle montagne elevate, più depresso in quelle più piovose. I ghiacciai veneti sono poco estesi e tutti di secondo ordine (vedrette), cioè privi di lingua; essi presentano forme diversissime, ora occupano dei pianori, ora il fondo di circhi o di valloni. I gruppi dolomitici che hanno permesso con la loro altitudine la formazione di ghiacciai non sono molti e vai la pena di ricordarli. Possiamo cominciare dalle Marmarole, che « presentano nel versante settentrionale condizioni opportune per lo sviluppo d’una serie di piccoli ghiacciai, grazie alla presenza di cavità più o meno somiglianti a circhi, che penetrano nella massa montuosa fin sotto la cresta principale del gruppo » (Marinelli), poi il ghiacciaio del Popera, i due dell’Antelao che occupano quasi tutto il versante settentrionale del monte, quelli del Sorapis, ben noti per la loro accessibilità e per il fatto che si specchiano in un laghetto, poi i tre ghiacciai del Cristallo, quello della Croda Rossa in un circo dominato dalla cima, il piccolo ghiacciaio di Fanis e quelli del Pelmo e del Civetta. Ma il maggiore di tutti i ghiacciai del Veneto è quello della Marmolada. Esso occupa un irregolare declivio a nord, che si può considerare l’unione di più circhi adiacenti, fusi nella parte superiore, separati in quella inferiore da alcuni caratteristici costoni, come tramezzi che forse un tempo separavano dei ghiacciai distinti. Essi portano i nomi di Sasso di Mezzodì, il Mul, la Camorzera, il Piz Fedaia. Il ghiacciaio della Marmolada occupa una superfìcie di poco superiore ai 3 kmq., scende nella parte più bassa sui 2400 m. ed ha un’inclinazione media di 23ma un po’ di più nella parte più elevata, come appare anche dal fatto che in questa è più crepacciato. E attraverso di esso che è abbastanza agevole raggiungere la cima, che risulta costituita da una cappa di ghiaccio.

    Nel regime dei fiumi veneti influisce in larga misura l’andamento delle piovosità. Si verifica un massimo delle portate in maggio-giugno, quando alle precipitazioni primaverili si aggiungono le acque di scioglimento delle nevi invernali, e un massimo secondario in novembre per le copiose piogge autunnali, mentre il minimo invernale resta notevolmente inferiore al minimo secondario dell’estate. Però, come ha bene messo in luce il Toniolo, mentre nei fiumi prealpini (Brenta) la massima primaverile assai rapida è anticipata al maggio e minore è la minima invernale, in quelli a largo bacino intralpino (ad es., l’Adige) la massima più prolungata è spostata in giugno e luglio e la minima è assai più accentuata, rimanendo invece quasi equivalente il massimo secondario del novembre. Del Po, che segna per buon tratto il confine meridionale del Veneto, basterà dire che la sua pendenza è minima. A Pontelagoscuro, 92 km. dalla foce, l’altezza delle acque in magra è di soli 4 m., a Ostiglia, 149 km. dalla foce, 9 metri. Le portate medie sono sei volte quelle dell’Adige e imponente la massa di sabbie e detriti convogliati al mare (40 milioni di metri cubi all’anno); le maggiori piene si verificano in maggio, ma di poco inferiori sono quelle di novembre, in rapporto con le abbondanti piogge autunnali. La portata media del Po — già Plinio accenna alle portate abbondanti del fiume in rapporto al bacino (« nec alius amnis tam brevi spatio maioris incrementi est ») — risulta di 1540 me. a Pontelagoscuro, inferiore alla somma dei contributi dei suoi affluenti, per le forti perdite subalvee entro il materasso alluvionale, con un massimo in maggio (2060 me.) e un minimo in agosto (1030 me.) e con una portata minima assoluta osservata di me. 140 (aprile 1893) e una massima assoluta (giugno 1917) di 8900 metri cubi, superata soltanto nel corso della spaventosa alluvione del novembre 1951, durante la quale si è avuta una portata di 9600 me. al secondo. La velocità media della corrente risulta di 90 centimetri al secondo.

    Marmolada. Campi di ghiaccio verso Serauta,

    La val d’Adige dall’altopiano dei Lessini.

    L’Adige, che ha un esteso bacino montano incuneato fin nel cuore delle Alpi cristalline impermeabili ed è in parte alimentato dai ghiacciai delle Alpi Rètiche (11,7 kmq.), presenta portate considerevoli (252 mc./sec.) e abbastanza regolari (ma pur sempre oscillanti tra un minimo di no me. in febbraio e un massimo di 480 in giugno con un massimo secondario di 300 me. in novembre). Le piene sono particolarmente pericolose in pianura, dove il fiume sostenuto da altissimi argini, corre per lungo tratto pensile; tristemente famosa è rimasta la rotta avvenuta il 18 ottobre 1882, di cui sarà fatto cenno più oltre; per evitare simili pericoli è stata ideata la deviazione delle piene nel Garda mediante una galleria (tra Mori e Tórbole). Anche il Piave ha un esteso bacino intermontano, ma esso occupa in prevalenza la zona calcarea dolomitica e nell’alta pianura perde parte delle sue acque per irrigazione, per cui le sue portate (diminuite in seguito alla derivazione di Sovérzene per scopi idroelettrici) sono meno copiose (98 mc./sec. a Segusino) e più irregolari (con oscillazioni tra 44 me. in gennaio e 192 in maggio con un massimo secondario di 155 in novembre). Minori portate ha il Brenta (65,8 me. di media a Sarson, 117 km. dalla foce) con un massimo principale in maggio (132 me.) e secondario in novembre (90 me.) e un minimo in gennaio (30,6 me.). I torrenti prealpini, a profilo longitudinale molto inclinato, incisi talora in rocce poco permeabili, vanno spesso soggetti a piene improvvise e di notevole entità con effetti non di rado rovinosi, dato che trascinano masse enormi di detriti, specie dove la struttura minuta delle rocce (calcari scagliosi) si presta alla formazione di sfasciume. L’Agno-Guà, che tanti danni ha recato nel passato, è stato alla fine domato con la costruzione del bacino d’espansione di Montebello Vicentino.

    Un cenno merita anche l’idrografia sotterranea. Nelle coltri alluvionali costituenti la pianura veneta e specialmente nella fascia litoranea scorrono in falde sovrapposte (da tre a cinque), tra strati di materiale impermeabile, acque artesiane, alla profondità di 30-200 m., alimentate da vaste conoidi alluvionali e dalle piogge ricadenti sui versanti collinosi che si affacciano alla pianura. Queste vene d’acqua possono considerarsi dei fiumi sotterranei. Aspetti particolari presenta pure l’idrografia carsica dei rilievi calcarei prealpini; ivi l’acqua circola lentamente a condotta forzata in una fitta rete di minute fessure, dando origine a potenti polle, che sgorgano alla base, con temperature inferiori a quelle esterne. Tali sono la sorgente del Gorgazzo di Polcenigo sotto l’altopiano del Cansiglio, che origina il Livenza; quella di Savassa, che origina il Meschio sul lato orientale delle Prealpi Bellunesi; quella di Schievenin ai piedi del massiccio del Grappa; quella di Oliero (portata media 8-10 me.) presso Valstagna sotto l’altopiano dei Sette Comuni, in vicinanza del Brenta.

    Variazioni della rete idrografica

    Sia per cause naturali, sia per opera dell’uomo, i fiumi veneti hanno subito attraverso i secoli profonde modificazioni, specie nel corso inferiore. Gli storici e gli studiosi di idrografia hanno cercato di ricostruire l’andamento dei corsi d’acqua nelle epoche passate, ma senza addivenire a risultati definitivi. Afferma in proposito l’erudito veneto Jacopo Filiasi (1750-1827): « l’indovinare il corso dei fiumi nel Padovano è quasi come il volere spiegare i geroglifici dell’Egitto, e ciò non solo riguardo ai tempi romani, ma anche per quelli posteriori al Mille. Essi in tutti i modi possibili e in tutte le possibili direzioni, ora dalla natura, ora dall’arte furono fatti comunicare… ». Così il Brenta attraversava il territorio padovano con due rami e bagnava Padova; quando poi da questa fu deviato, negli antichi alvei fu immesso il Bacchigliene. E, dopo aver parlato del Brenta e del Bacchiglione, il Filiasi continua così: « Tale figurarci possiamo che anche ne’ secoli romani fosse il corso di que’ fiumi rapaci; ma si avverte sempre, averlo essi mutato tante volte, che il tenerci dietro è una vera disperazione ».

    Sistema idrografico Bacchiglione-Brenta.

    Di alcune di queste modificazioni sarà fatto cenno di frequente nella parte regionale, ma occorre qui dire di quelle di maggior portata. Nell’ottobre 589 un terribile diluvio, descritto da Paolo Diacono (« Eo tempore fuit aquae diluvium in finibus Vene-tiarum et Liguriae, seu ceteris regionibus Italiae, quale post Noè tempus creditur non fuisse »), ha cambiato il corso dell’Adige e il fiume, che per Montagnana ed Este sfociava da secoli al porto di Bróndolo presso Chioggia, ha mutato direzione presso

    Albaredo e proseguendo verso Legnago ha invaso gli antichi alvei del Mincio, del Tàrtaro e delle Fosse Filistine, finendo in mare al porto di Fossone. Nello stesso anno il Mincio, che sboccava in Adriatico, si diresse su Mantova. Nel 1152 il Po, rotti gli argini tra la Stellata e Ficarolo, volse il corso verso Bróndolo invadendo la laguna di Chioggia, da dove fu ricacciato lontano nel 1598 col taglio di Porto Viro. Il Brenta, che si versava un tempo in mare per la massima parte col ramo di Malamocco (Medoacus maior), si diresse in seguito verso Chioggia (Medoacus minor), ma poiché le torbide causavano interrimenti venne espulso dalla laguna. Il Piave aveva il corso inferiore comune col Sile, ma poi se ne separò aprendosi una nuova via lungo la diagonale Nervesa-Zensón ; la foce venne spostata ad oriente dove sboccava il Livenza e nel 1683 ^ fiume stabilì da sè la foce a Cortellazzo, mentre il Sile venne portato in quello stesso anno nel vecchio alveo del Piave.

    Anche il Polesine è paese ricco di storia idraulica. Esso ha una rete di vie d’acqua che è il compendio delle più antiche opere idrauliche, istituite sulla sinistra del Po e la destra dell’Adige. Il Tàrtaro, nei più antichi tempi storici, era l’ultimo affluente di sinistra del Po Grande, quando seguiva un andamento alquanto meridionale, che si può all’incirca identificare con il corso ora autonomo del ramo di Volano. Nei tempi romani il Po discese col ramo di Primaro presso Ravenna e il Tàrtaro si rese indipendente. Nel primo Medio Evo il Po Grande ritornò a settentrione, per il Volano. Fu nel 1152 che il Po fu spinto più a settentrione, mediante il taglio o rotta di Ficarolo, immettendone le acque nel medio corso del Tàrtaro, che nell’ultimo tronco prese il nome di Po delle Fornaci, o di Po di Venezia o di Po di Levante. La fisionomia del Tàrtaro subì così una sostanziale trasformazione.

    Il taglio di Porto Viro.

    Alcune modificazioni idrauliche, e per esse si hanno documenti che permettono una datazione alquanto precisa, sono da mettere in rapporto coli’esigenza inderogabile di conservare la laguna di Venezia, affinchè la regina dell’Adriatico non venisse, come era avvenuto per Ravenna, separata dal mare aperto. Soprattutto la plaga del Polesine, sottoposta ad Adria, era continuamente danneggiata tanto dalle eccessive piene dell’ Adige, quanto dalle piene e torbide del Po. Il Po di Levante sopraelevava poi il letto del suo alveo e il littorale si protendeva. Il ramo del Po, detto di Tramontana, si avvicinava all’Adige e Venezia vedeva minacciato l’equilibrio della sua laguna. Dapprima i Proti ed i Periti, che dovevano presentare le loro relazioni ai Savi alle acque della Serenissima — riuniti in un Collegio che divenne poi il Magistrato alle acque —, procedettero a tentoni, suggerendo provvidenze momentanee. Ma col tempo dettero alle ricerche un carattere più tecnico, soccorsi dagli studi di idrologi di valore, come i due Cornaro, il Sabbadino, lo Ziani, il Corner ed altri, e riuscirono a individuare alcuni criteri in seguito ai quali la laguna dovette la sua salvezza, criteri diventati di conoscenza comune per alcuni detti che ne riassumono sinteticamente la portata. Primo di tutti quello che dice che « gran laguna fa gran porto », cioè che le aperture col mare aperto devono esser mantenute efficienti ; poi di riflesso vari altri : « Brenta e Bachiglion xe la morte del paron », cioè devono esser deviati dalla laguna; « ch’el Po no bisogna che el fassa lega co l’Adese », cioè che le acque del Po e dell’Adige devono esser tenute distinte; «che anche el Zero e ‘1 Sii co i xe insieme, i intriga », cioè che essi pure impicciano quando riuniscono le loro acque, e molti altri. Tali convinzioni fecero eseguire il taglio di Porto Viro, di cui abbiamo già fatto cenno, per allontanare il Po dalle terre della Repubblica. Fin dal 1569 Luigi Groto (detto il Cieco d’Adria) aveva patrocinato l’opera di diversione, detta Taglio di Porto Viro e il lavoro fu ultimato nel 1604. Di contro a Porto Viro, sulla destra del Po Grande di allora, s’iniziò un canale di 7 km., che con andamento da nordovest a sudest condusse gran parte delle acque del ramo delle Fornaci alla Sacca di Goro, attraverso due tronchi arginati e l’intermedio scavato in trincea fra «montoni di sabbia » o dune. L’opera ebbe il suo coronamento nel 1623, quando con l’« intestatura » del ramo delle Fornaci si rese indipendente il Canal-bianco ; e quindi il Po di Levante. Il taglio giovò alla Repubblica, che vide allontanato il pericolo delle acque, e al Polesine per l’abbassamento dei livelli del Po, come conseguenza dell’accorciamento del corso. Da allora le acque del Castagnaro e del Tàrtaro cominciarono a defluire per la Fossa Polesella, alleggerendo il Canalbianco a valle di Canda come unico colatore degli scoli polesani. I Veneziani fecero espellere poi un po’ alla volta dall’estuario il Bacchiglione, il Brenta e gli altri fiumi minori; inoltre spinsero a sorvegliare le barene e le foci a mare e tutti i canali che collegavano i bacini di San Marco e della Giudecca con quelli retrostanti al litorale e coi fiumi vicini. Anche il Sile minacciava di interrare la laguna. Fu perciò fermato un suo primo sbocco nella laguna con delle palizzate di terra e fascine (palate, toponimo che ricorre spesso nella zona nella forma palade) e un secondo sbocco con uno sbarramento, le « Porte Grandi », che regolano tuttora il passaggio sul fiume secondo il diverso livello del mare. Il Sile poi, per evitare gli interramenti di fronte a Torcello, fu deviato con un lungo canale («Taglio del Sile») negli anni 1673-83, fino a innestarlo nel vecchio alveo del Piave presso Caposile.

    Vedi Anche:  Case e centri abitati del veneto

    Topografia di una parte del Polesine in una carta di Giovanni Valle, Venezia 1793.

    Ma poiché l’affluire dei due fiumi, nell’ultimo tratto, da Caposile al Cavallino, causava abbondanti e frequenti piene, il Senato veneto si vide costretto a provvedere con due altri progetti di scavo. Il primo prevedeva un taglio dall’altezza di lèsolo fino al porto di Cortei-lazzo, un secondo dalla località Intestadura, seguendo un vecchio canale, fino a Cortellazzo. Quest’ultimo verrà poi chiamato Cava Grande o Piave Nuovo, l’altro invece Cava Piccola o Cava Minore e più tardi Cavetta; quest’ultima venne terminata nel 1602, il Piave Nuovo nel 1685. E poiché l’impresa di scavo e di manutenzione venne affidata a un certo Alvise Buzzaccherini, chiamato comunemente Zuccherili, da questo prese nome Cavazuccherina, nome che si estese al territorio tra Piave Nuovo e Piave Vecchio e che solo da poco ha ripreso l’antico nome di lèsolo.

    In epoca più recente la fitta e già intricata rete dei corsi d’acqua naturali e artificiali si è complicata ancor più con l’apertura di numerose altre inalveazioni create per smaltire deflussi di piena, per migliorare la navigazione, per scolare terreni acquitrinosi, per irrigare aride campagne e per convogliare portate alle officine che producono energia elettrica. Così già alla fine del Settecento gravi inconvenienti nascevano dalle sistemazioni idrauliche tra Adige e Tàrtaro, per cui si dovette costruire il sostegno di Bosaro (1791) che con la fossa di Polesella divide in due parti il bacino del Tàrtaro-Canalbianco ; quella occidentale versa le acque nel Po per mezzo della fossa di Polesella e quando il Po è sopra guardia le acque scorrono nel Canal-bianco inferiore attraverso il sostegno di Bosaro, mentre la parte orientale sbocca al mare attraverso il Po di Levante. Chiuso il Castagnaro (1838), gli inconvenienti non diminuirono per l’apporto sempre maggiore di acque della bassa, che l’uso di macchine a vapore mandava al Tàrtaro-Canalbianco.

    Intanto dal 1857 al 1881 si susseguirono le opere per la bonifica delle Valli Grandi Veronesi; disgraziatamente il coefficiente di costipazione dei bassi terreni sottratti all’impaludamento non fu previsto nella giusta misura e molte opere fallirono allo scopo.

    I sette delta del Po.

    Il Po e il suo delta

    Il Po segna il limite meridionale del Veneto, da una località posta a 8 km. da Ostiglia al mare, ma mentre fino a monte di Ariano il confine s’appoggia sul corso principale, nell’ultimo tratto segue uno dei rami meridionali del delta, quello di Goro. Il delta rientra perciò per la massima parte nel Veneto. Nel suo corso inferiore la pendenza del Po è minima e l’andamento molto tortuoso. L’erosione risulta diversa da una parte all’altra delle rive e mentre la sponda intaccata dalla corrente prende figura concava, in quella opposta il fiume deposita le sue alluvioni. La sponda battuta dall’onda viva prende il nome di froldo, quella opposta si chiama golena e in essa si hanno boschi, campi e vigneti. La regione deltizia è costituita da un suolo bassissimo, formato da alluvioni assai minute. Ma compaiono anche sabbie, plasmate sotto forma di dune, sia presso il mare, sia nell’interno, dove si possono qua e là osservare dei « dossi » alti una decina di metri, i quali rappresentano l’antica linea di spiaggia. Il periodo deltizio comincia nel Po da 2500 a 3000 anni ed ha dato luogo alla formazione d’un intricato groviglio di rami e di cordoni sabbiosi. Come ha messo in luce il Marinelli due o tutt’al più tre sono i delta costruiti nell’antichità classica e due quelli medievali. « L’ala destra di ciascuno s’appoggia all’ala sinistra del precedente e l’ala sinistra rispettivamente alla destra, così che le estremità delle ali di ciascun delta segnano pressappoco la formazione della foce che fornì il materiale per la costruzione del successivo ». L’uomo non è rimasto inattivo, ma spesso ha eseguito rettifiche e accorciamenti di corso, spingendo le nuove foci nei luoghi più addentrati. I diboscamenti progressivi, aumentando la portata solida dei fiumi, avrebbero determinato la costruzione dei vari apparati deltizi. In origine il corso del Po aveva un andamento più meridionale. Il più antico sbocco corrisponde al ramo di Volano, il successivo coincide con quello di Goro, il terzo si è andato formando esternamente all’attuale laguna di Comacchio. Successivamente la foce ritornò al ramo di Volano (che, assieme al Po di Primaro, quest’ultimo per la massima parte interrato, costituisce ora un ramo indipendente), poi a quello di Goro. Notizie più precise si hanno per i periodi posteriori alla rotta di Ficarolo (secolo XII), in seguito alla quale le acque del Po, seguendo probabilmente l’alveo del Tàrtaro, vennero in mare presso Loreo (foce delle Fornaci), dove era allora la parte addentrata della costa alluvionale. Il fiume, agevolato dalle arginature che accrescevano ancor più l’entità dei materiali, iniziò in quel posto la formazione di un nuovo delta, dividendosi in tre rami, detti di Scirocco, Tramontana, Levante, ognuno dei quali andò sviluppando un lobo deltizio. Ma poiché quest’ultimo, che era il più attivo, minacciava d’interrimento lo sbocco dell’Adige e rendeva difficile lo scolo delle acque, nel 1604, come abbiamo già avuto occasione di far cenno, venne aperta una nuova via (taglio di Porto Viro) spingendolo con lo scavo d’un canale di 7 km. verso la sacca di Goro; dapprima solo in parte le acque presero la nuova strada, ma nel 1623 con l’intestatura del ramo delle Fornaci (per cui il corso del Tàrtaro-Canalbianco-Po di Levante fu di nuovo reso indipendente) l’impresa fu compiuta.

    Il Po e il Levante.

    Idrografia attuale del delta padano.

    A partire dalla prima metà del secolo XVII s’iniziò la costruzione del delta attuale. Dapprima venne colmata l’insenatura di Goro, poi i lobi cominciarono a diramarsi (rami di Maestra, Tolle, Gnocca) e a protendersi in varie direzioni, per cui si è andato formando un delta plurilobato, quasi digitato, diverso dai precedenti, con limitati cordoni sabbiosi, che caratterizzano invece i delta più antichi. L’azione del mare è preponderante nel distribuire i materiali e nel plasmare le sporgenze, che sono dette lobi, mentre sacche son chiamati gli specchi d’acqua compresi tra due lobi successivi, spazi di mare fangosi e palustri, coperti da canneti nei quali il trapasso della terra al mare è quasi insensibile.

    Andamento della linea di spiaggia in corrispondenza al delta del Po anteriormente al secolo XX.

    1. etrusca, circa 1000 av. Cr. ;
    2. romana, inizio era volgare;
    3.  anno 1200, Chronica parva ferrariesis;
    4. anno 1600, Zendrini-Aleotti;
    5. anno 1750. Baruffaldi ed altri;
    6. anno 1900, Ist. Geografico Militare.

     

    La foce del Po della Pila.

    Il delta attuale si è sviluppato più rapidamente dei precedenti, forse in rapporto con l’intenso popolamento del retroterra, con l’opera di disboscamento e con lo sviluppo degli argini. Nell’incremento dei lobi e nel processo di formazione della terraferma agiscono i canneti che formano sulle sponde delle specie di siepi; nelle terre più basse si formano degli isolotti coperti da Scirpus mariti?nus, che prepara il terreno ai canneti (bonelli); ciò determina un grande frastagliamento del litorale. Negli ultimi decenni (1904-34) notevole appare la costruzione effettuata del Po della Pila, diventato dopo la piena del 1872 il ramo più efficiente, con un progresso di almeno 1500 m. (50 m. all’anno) per la Busa Dritta o di Levante, che prevale ora sulle altre, e di oltre 2000 m. (70 m. all’anno) per la Busa di Scirocco; con la Busa di Tramontana, ora meno efficiente, esso ha creato in breve tempo un piccolo delta. Inferiore appare l’accrescimento (n m. all’anno) davanti al Po della Gnocca, diviso in due rami da una grande isola, e ancora minore è quello relativo al Po di Goro. Questi rami convogliano ora la maggior parte delle acque con prevalenza, specie dopo la piena del maggio 1926, del Po della Pila (59% nel 1931-35, ma 47% nel 1900), seguito dal ramo di Tolle (13%, ma 28% nel 1900), dal Po della Gnocca (12%) e da quello di Goro (8%). Anche il ramo di Tolle (Busa del Bastimento o degli Scardovari) risulta in fase di avanzamento nell’ultimo secolo, favorito dall’esser questa la via più breve verso il mare, con acque poco profonde e tranquille, ma l’uomo è inoltre intervenuto in suo favore, dato che una serie di lavori eseguiti tra il 1839 e il 1844 hanno diminuita l’importanza del Po della Maestra (5%, mentre prima dei lavori convogliava il 75%), dove si è anzi verificato (1900-30) un ritiro di 250 metri. Complessivamente le bocche con le quali il Po si getta in mare sono ora 14, derivanti da cinque bracci. Quanto alla formazione di nuove terre, ricerche recenti (condotte dall’Albani) documentano che durante un secolo (1823-1924) l’aumento è stato di poco superiore ai 50 ha. all’anno con variazioni d’un certo rilievo da un decennio all’altro, aumento che è inferiore a quello quasi doppio di due o tre secoli fa. L’incremento è dovuto ai detriti portati dal Po (30 milioni di tonnellate all’anno a Pontelagoscuro), che in parte vengono dispersi dal mare, specie quando, come avviene ora, le bocche sono orientate in modo da essere esposte all’urto della corrente. Il Visintini ha condotto pure una serie di ricerche sull’interrimento causato dal Po e per il periodo che va dal 1811 al 1935 ha determinato un valore medio annuo un po’ più alto (62 ha.). Egli ha poi distinto due periodi, uno che va dal 1811 al 1860 durante il quale si è verificata una diminuzione di 42 ha. all’anno, mentre dal 1860 al 1935 l’incremento della spiaggia emersa raggiunge il valore di 130 ettari. Ciò dimostra che l’accrescimento del delta non è continuo, ma periodi in cui prevale l’azione d’accumulo s’alternano con altri in cui ha il sopravvento l’azione dei flutti e delle maree.

    Il Po è noto da tempo per le sue inondazioni, che quasi sempre sono in rapporto con le copiose precipitazioni dei mesi autunnali. Le inondazioni, specie dove l’alveo del fiume è pensile (come in prossimità della foce) possono causare delle rotte, inondando le campagne vicine. Nel tratto in cui il Po segna il confine tra il Veneto e l’Emilia nel periodo che va dal 1500 al 1872 si ricordano ben 124 rotte, di cui 77 di sinistra e 47 di destra. I luoghi dove le rotte sono state più frequenti risultano essere Bottrighe (18), Stienta (5) e Polesella (6). Da quest’ultima località prende nome la rotta del 28 maggio 1872, durante la quale il Po, apertasi la strada presso Polesella, allagò 700 chilometri quadrati. Sciagura più grave è stata la grande alluvione del Polesine del 1951 causata da tre squarci arginali in sinistra del Po, di fronte a Pontelagoscuro, ove il fiume descrive una stretta ansa. Causa di questa grande piena sono stati eventi meteorologici di rara gravità e cioè le piogge in quantità eccezionale, cadute nel breve spazio di sei giorni (7-12 novembre) su gran parte del bacino, in media pari a 236 millimetri. A loro volta queste piogge sono state conseguenza d’un largo flusso di venti meridionali, caldi e umidi, sopra la regione alpina italiana; l’aria tiepida aumentò la media termica e fece piovere invece di nevicare, sciogliendo per giunta la neve già caduta. Per di più i laghi alpini, data la copia d’acqua caduta non hanno potuto esplicare la loro funzione regolatrice, ponendo in piena i loro emissari (Ticino, Adda, Mincio). In pochi giorni il Po ha raggiunto colmi di piena ovunque più alti degli estremi colmi conseguiti negli ultimi 100 anni e la piena, carica di torbide, portate giù specialmente dai fiumi liguri ed emiliani, si è trasmessa con una velocità mai tenuta prima in tale occasione. E la portata ha superato, da Piacenza in giù, i valori più alti misurati sino allora: a Pontelagoscuro defluirono 9.600 me. al secondo e forse più. Alla enorme pressione di tali portate, il sistema degli argini di difesa fu posto a dura prova e non fu in grado ovunque di contenere le acque, che iniziarono qua e là a tracimare sugli argini, causando in più zone notevoli dilagamenti. Per giunta l’Adriatico non consentiva in quei giorni un normale deflusso delle acque lungo i suoi rami deltizi.

    Aree inondate dal Po nell’alluvione del novembre 1951. Nella regione deltizia le zone comprese entro le linee punteggiate ed a tratti sono quelle che presentano un maggiore abbassamento.

    La foce del Po presso Punta della Maestra

    Veduta di Fiesso Umbertiano durante l’alluvione del 1951.

    Gli argini in un primo tempo hanno resistito, poi son venuti meno in seguito a tracimazione del fiume sopra il loro ciglio. A queste tracimazioni seguì uno stramazzo pauroso, il quale demolì le opere di rinforzo arginali ed erose il rilievo arginale fino a ridurlo a un diaframma sempre più esile, incapace a sostenere la violenza del fiume. Verso la sera del 14 novembre si produceva la prima breccia a Paviòle (3 km. a nordest di Pontelagoscuro) e due ore dopo se ne aprivano altre due, di nuovo lungo l’argine sinistro, alcuni chilometri più a monte: presso Occhiobello, rovesciando per alcune ore una valanga di 6000 me. al secondo. L’alluvione coprì 995 kmq. di superficie coltivata e 70 kmq. di bacini da pesca; vi furono un centinaio di morti per annegamento, 300 case distrutte, 5000 lesionate, 180.000 persone lasciarono in quei giorni la regione; per di più si dovettero lamentare 24.000 capi bovini morti e mezzo milione di quintali di foraggio distrutti. Vennero tagliate le arginature di vari canali per favorire il deflusso delle acque. Il nuovo argine è stato ultimato in circa sei mesi. L’opera di prosciugamento ha avuto termine solo il 25 maggio 1952. Per circa un quinto del terreno l’alluvione ha mutato la costituzione fisica dei suoli dato che le acque fluviali hanno lasciato depositare sabbie e limo con coltri di alcuni centimetri, talvolta plasmati in dune. Negli anni successivi il Po non ha mancato di recare altri danni, per quanto in misura molto minore dato che i terreni si trovano a una quota notevolmente inferiore al livello medio del mare ed una volta rotti gli argini le acque si riversano nei comprensori di bonifica. Nel dicembre 1952 e poi nel febbraio e nell’ottobre 1953 e ancora nel novembre 1957 fu il mare ad invadere le terre, mentre nel febbraio e nell’ottobre 1953, nel gennaio-febbraio 1954, nel novembre 1956 e poi ancora nel i960 si sono avute delle piene minacciose. Soprattutto l’isola di Ariano è stata in questi ultimi anni allagata di frequente. Essendosi riscontrato nel delta padano un abbassamento sensibile del terreno, del quale abbiamo già avuto occasione di far cenno nel capitolo precedente, è stata costituita (luglio 1957) una Commissione di studio e di ricerche, ma il problema — soprattutto per quanto riguarda Porto Tolle sulla destra del Po, Contarina, Donada, Rosolina sulla sinistra — risulta complesso perchè esistono molte valli da pesca (65% del territorio di Rosolina e 22% di quello di Porto Tolle) che separano dal mare i terreni coltivati, per cui non è possibile chiudere del tutto gli accessi dal mare. Tale è, ad esempio, il caso della sacca degli Scardovari, che sarebbe opportuno chiudere con una diga, prosciugando e bonificando le valli da pesca. Lo stesso si può dire per la bocca del porto di Caleri nelle valli del comune di Rosolina. Sarà da aggiungere che a partire dal 1950 si è constatato che il litorale, in modo particolare in corrispondenza della sacca degli Scardovari, va oggetto a un pronunciato processo di erosione, forse perchè sono diminuite le torbide. Le mareggiate oltrepassano facilmente le arginature esterne e causano l’abbandono delle abitazioni e dei terreni posti nelle posizioni più avanzate. Anche le cuspidi deltizie hanno cessato di protendersi, per cui si sarebbe iniziata una nuova fase erosiva del litorale.

    Principali alluvioni o mareggiate avvenute nel Polesine dal 195 i al 1957.

    Data

    Zone colpite

    Zona allagata ettari

    Case dannegg. o distrutte

    Arginature dannegg. o distrutte mi.

    Acqua pompa dal territor milioni me.

    Giorni di dura per il prosciugamento

    10-11-1951

    Isola Camerini

    2.720

    20

    4.400

    20

    20

    14-11-1951

    Medio e basso Polesine

    99.506

    5.900

    24.500

    676,5

    80

    25-10-I953

    Camerini, 2° bacino.

    I.400

    10

    1.900

    12

    13

    10-4-1957

    Camerini.

    2.720

    80

    3.100

    20

    50

    20-6-1957

    Isola Ariano

    7-634

    374

    4.600

    130

    50

    10-1-1957

    Isola Donzella

    6.000

    75

    12.500

    30

    70

    Tra i provvedimenti da prendere si prospetta la chiusura dei pozzi di metano (che potrebbero essere una delle cause dell’abbassamento del terreno) e l’interclusione del Po di Goro (45 km.), poco efficiente e con arginature in cattivo stato. Purtroppo si nota la tendenza da parte del Po a spostarsi verso la sua sinistra (soprattutto a causa dell’ingente volume di materiali riversati sul lato destro dagli affluenti appenninici), mentre l’Adige ha tendenza opposta, con gravissimo pericolo della fertile zona e delle città fra essi comprese, tanto più che l’Adige, col suo letto notevolmente pensile, rappresenta una minaccia continua nei periodi di piena (che coincidono coli’epoca di scioglimento delle nevi). Il problema di questi disastrosi eventi va considerato sotto un punto di vista unitario, e tutti i provvedimenti tecnici (sistemazione delle frane, rimboschimento, briglie, dighe, bacini d’espansione, arginature, rettifiche di corsi, ecc.), rivolti a ridurre al minimo gli effetti anche di circostanze eccezionali, non devono limitarsi ad opere in piano, di aleatoria efficienza, ma devono iniziarsi nel bacino montano e seguire senza soluzione di continuità, lungo tutto il corso del torrente o del fiume, fino allo sbocco del tronco primario e di questo fino al suo scarico in mare.

    Il Po, fiume pensile, tra Córbola e Taglio eli Po.

    Tra il Po e l’Adige il corso d’acqua principale è il Canalbianco, che si ricollega al Tàrtaro, che trae origine dai fontanili che sgorgano ai piedi dei terrazzamenti posti a occidente di Verona, e si scarica in mare fruendo d’un alveo medievale del Po (Po di Levante). A nord e a sud del Canalbianco sono incanalati l’Adigetto e il grande collettore padano di scolo, aperto una sessantina d’anni fa, che sottopassa la conca di Volta Grimana mediante un’ardita botte-sifone. In direzione mediana, e quindi perpendicolare a questi canali, se ne allinea una seconda serie, che risale come costruzione al Medio Evo (canali Scortico, di Loreo e di Polesella), mediante i quali i due fiumi ed i canali maggiori comunicano tra loro. Corsi d’acqua principali e canali minori hanno diviso il Polesine in una serie di scompartimenti, che scolano le acque verso levante mediante una serie di scoli. Dal 1924 il Canalbianco è in rapporto diretto con la linea navigabile di 600 tonn. che unisce la laguna veneta al Po. Successivi lavori hanno procurato di allargare l’alveo di questo corso d’acqua, in modo da adeguare l’ampiezza del letto all’entità delle portate, facilitando lo scolo delle Valli Grandi Veronesi.

    Il Canalbianco, detto Canalon, alla periferia di Adria.

    L’Adige, il Piave e gli altri fiumi veneti

    L’Adige, che per ampiezza di bacino imbrifero risulta, dopo il Po e il Tevere, il terzo fiume d’Italia, è per buon tratto fiume veronese e polesano ed è quindi opportuno tracciarne a grandi linee le caratteristiche. Dopo un corso, nella vai Laga-rina, parallelo per buon tratto al Garda, varcata la chiusa di Rivoli dove è serrato tra il Baldo e le propaggini dei Lessini, piega verso sudest incidendo le sue antiche alluvioni, formando ampi meandri in direzione di Pescantina, dove riceve le acque del Progno di Fumane, poi batte contro lo sprone roccioso di Parona e di Castel San Pietro (Verona), scorre poi, arginato nella pianura di Zevio, sino a Ronco e qui, ricevute le acque dell’Alpone e del Chiampo, prosegue diretto a sud fino a Casta-gnaro. L’Adige in questo tratto raccoglie le acque delle valli lessinee e quelle delle risorgenze distribuite alla base del grande ciglio terrazzato che si estende tra Verona e San Bonifacio. Quindi scende a Legnago e Badia, uscendo dal Veronese. Sul regime di piena del fiume nei tronchi di pianura incidono fortemente le portate dei torrenti che scendono dai Lessini e cioè Valpantena (34 km.), Altanello (70 km.) formato dal Fibbio e dal torrente di Illasi (noto per le sue piene violente, ma di breve durata), Alpone (35 km.), corso d’acqua pensile e arginato, che si unisce al Chiampo. Ma, rispetto al Po, ha maggior pendenza, è meno tortuoso e, dotato di maggior forza di escavazione, convoglia materiali più grossolani. Poiché nel bacino superiore le piogge più abbondanti cadono tra maggio e novembre, periodo in cui è notevole l’ablazione dei ghiacciai, va soggetto a piene in maggio-giugno e soprattutto in autunno. Esse sono molto pericolose perchè l’alveo risulta sopraelevato; presso San Giovanni Lupatoto è a livello dei campi, a Villa Bartolomea (presso Albaredo) è già pensile ed ha il massimo innalzamento tra Legnago, Badia e Boara. Nella piena del 1926 l’Adige aveva un carico idrostatico superiore a n m. sulle campagne soggiacenti e centinaia di « fontanazzi » apparivano a ridosso delle arginature. L’Adige è privo di delta e si getta in mare con un’unica foce, che si protrae di poco nel mare. Colmata la laguna di Bróndolo, a sud di Chioggia, la foce dell’Adige è rimasta pressoché inalterata al Fossón, che dista dal mare appena un chilometro e mezzo, per cui l’avanzamento è appena la quindicesima parte di quello del Po. Non raro è durante l’inverno il fenomeno del ghiaccio fluitante e delle coperture di ghiaccio. L’Adige è andato soggetto a minori modificazioni di corso del Po, ma con le sue rotte (ben 182 se ne contano nel periodo 1502-1786) ha prodotto danni ingentissimi. Nel 1432 a Castagnaro e nel 1438 a Malopera l’argine destro venne abbattuto e una vasta zona allagata per ragioni militari. Le acque attraverso il Castagnaro e il Malo-pera si avviarono a valle di Canda verso il Tàrtaro, che per il colore bianchiccio delle nuove acque prese nel tratto seguente il nome di Canalbianco, che divenne un diversivo dell’Adige nel tratto intermedio tra il Tàrtaro e il Po di Levante. Ma poiché, durante le piene, le acque del Tàrtaro, trattenute da quelle del Castagnaro rifluivano verso monte, il diversivo venne chiuso (1838), ma il suo andamento è tuttora palese per l’esistenza di un’ampia conoide sopra il piano delle campagne, dovuta ai materiali alluvionali da esso depositati. L’ultima rotta spaventosa dell’Adige è quella di Legnago (18 ottobre 1882): tutte le terre tra il Bussè (destra) e il Mincio (sinistra), a sud della strada Legnago-Mantova, e interposte tra il Tàrtaro-Canalbianco e il Po Grande fino ad Adria e al mare furono inondate e ben 1260 kmq. di territorio, siti in 49 comuni, dovettero essere temporaneamente abbandonati da 100-120.000 persone, con ingenti danni. L’altezza dell’acqua raggiunse in alcune località 8 m., arrivando ai secondi piani degli edifici; 540 case furono distrutte e 8200 danneggiate. Se la rotta non fosse stata ripresa, il fiume avrebbe con tutta probabilità cambiato per sempre il suo corso. Soprattutto violente sono le piene d’un suo affluente di sinistra, l’Avisio, a limitare le quali si è provveduto con la costruzione di due serbatoi (nella località di Valda e Pozzolago) dai quali, mediante una galleria, le acque vengono deviate ai laghi di Làvico e di Caldonazzo.

    L’Adige incassato tra i monti veronesi presso Dolcè.

    Zone allagate durante la piena del 1882 (Adige).

    L’Adige a Sant’Anna presso la foce.

    Tra l’Adige ed il Brenta si dirama in pianura una rete complessa di corsi d’acqua, che costituiscono un sistema idrico che si irradia in tutta la pianura del Veneto centrale. Tale sistema idrografico durante i periodi piovosi adempie bene alle funzioni di drenaggio e di prosciugamento, ma nei periodi estivi, quando per la scarsezza di pioggia è più sentito il bisogno dell’irrigazione, spesso fa sentire la siccità, per cui si è cercato in vario modo di regolare ed incrementare i deflussi di magra. Ma ciò non è agevole, perchè da un lato il territorio va soggetto a un lieve abbassamento, dovuto al costipamento dei terreni per effetto della bonifica idraulica, dall’altro i letti degli alvei fluviali s’innalzano di continuo in seguito al deposito dei materiali solidi.

    L’Adige alla foce.

    Il fiume Brenta alla foce.

    Partendo da occidente troviamo dapprima l’Agno, che ha origine dai monti che cingono a occidente la conca di Recoaro, cambia più volte nome (Guà, Frassine, Santa Caterina), è lungo no km. dalle origini a Vescovana e si unisce al Gorzone, col quale si scarica in mare a Bróndolo, attraverso un largo alveo nel quale si gettano pure le acque del Brenta e del Bacchiglione. L’Agno ha dato luogo in passato con le sue piene a gravi disordini idraulici, che resero necessaria l’esecuzione di molte opere importanti. E se scarsa è la sua importanza dal punto di vista geografico e idrografico, esso ha arrecato alle campagne danni incalcolabili con le sue rabbiose piene, per cui la sua sistemazione ha dato luogo a molti studi e progetti, tra i quali emergono quelli del Paleocapa (1837). Per sistemare in modo conveniente il corso d’acqua è stato necessario provvedere alla regolazione idraulica del tronco superiore e di quello medio ed alla costruzione di opere atte a diminuire i deflussi di piena.

    Segue verso oriente il Bacchiglione, che è originato dall’Astico e viene incrementato da numerosi corsi minori (come il Retrone, il Timónchio e il Leogra). Esso conserva il suo nome solo nel tratto da Vicenza a Volta Brusegana, ma in questo tronco una parte delle sue acque viene deviata a formare il Canale Bisatto, che scorre tra i Colli Bèrici e gli Euganei. In compenso nel Bacchiglione vengono immesse acque del Brenta, traverso il Canale Brentella, per cui a Padova le acque dei due fiumi si confondono. Ma alle porte di Padova (in località Bassanello) il Bacchiglione perde il suo nome e si ripartisce in più canali. Un primo canale è quello di Battaglia, che si congiunge con la continuazione del canale Bisatto. Dal canale di Battaglia si dipartono poi quattro canali. Un primo canale è quello di Pontelongo, il quale mette capo pur esso a Bróndolo. Un secondo canale formato dal Bacchiglione è costituito dal canale Scaricatore, il quale confluisce nel canale Roncaiette e con questo nome mette a sua volta capo nel canale di Pontelongo. Un terzo ramo del Bacchiglione dà luogo al Piovego (formato da alcuni rami che traversano Padova), che dirige il suo corso verso Stra, dove è attraversato dal Brenta e dove si immette nel Naviglio, che prende il nome da quest’ultimo fiume e che collega il Padovano con la laguna di Venezia. La lunghezza complessiva del Bacchiglione dalle sorgenti, situate presso Novoledo, al mare è di 119 chilometri. Esigua è l’utilizzazione del fiume a scopi idroelettrici, mentre i numerosi canali derivati dal Bacchiglione hanno la funzione di scaricare le piene del corso principale e di assicurare la navigazione interna tra Padova e Venezia.

    Il Brenta, che è lungo 174 km., trae origine dai laghi di Lèvico e di Caldonazzo, e nella prima parte del suo corso, durante il quale traversa la Valsugana, spetta al Trentino. Entra nel Veneto tra Grigno e Primolano, piega decisamente a sud, entra in una stretta gola e poco dopo riceve il suo principale affluente, il Cismón, che gli porta il tributo delle Pale di San Martino e della Conca di Primiero. Dallo sbocco del Cismón, il Brenta percorre il canale che separa il massiccio del Grappa dall’altopiano dei Sette Comuni. Mutato poi bruscamente il suo orientamento verso sudest e ingrossato da varie sorgenti carsiche si dirige su Bassano, dove lo attraversa lo storico ponte coperto. Ha inizio qui il suo corso di pianura e comincia a esser depauperato sia per le dispersioni che si manifestano attraverso il suo greto alluvionale, sia per le derivazioni di antiche rogge utilizzate a scopo irriguo e industriale, le quali conservano tuttora i nomi delle famiglie che ne ebbero la concessione al tempo della Repubblica Veneta. In questo tratto divaga su un vasto letto, ma poi presso Campo San Martino assume l’aspetto d’un fiume di pianura ed è costretto tra potenti arginature; riceve ad ogni modo l’alimento di acque sorgive attraverso alcune rogge, che ridanno al fiume qualche deflusso nei periodi di magra. Giunto a monte di Padova, il Brenta presso Limena cede parte delle sue acque al canale navigabile Brentella che, come abbiamo visto, le convoglia al Bacchiglione. In questo tratto le arginature sono molto lontane dal letto del fiume, che corre tortuoso e molto incassato tra vaste golene ben coltivate, ma poi presso Limena gli argini si restringono. Prosegue poi il suo corso fino a Stra, dove è attraversato dalla linea navigabile costituita dal Pióvego e dal Naviglio di Brenta. Il fiume non riceve più nessun affluente e, racchiuso tra poderose arginature, procede verso il mare, per scaricarsi in esso presso Bróndolo. Va anche ricordato il Naviglio di Brenta, che scorre tra Stra e Fusina, e convoglia molte acque di risorgiva, e il Canale Nuovissimo, derivato dal Naviglio di Brenta presso Mira, che sfocia nella laguna di Chioggia.

    Il Piave presso Santo Stefano di Cadore.

    Il Piave, quinto per grandezza di bacino tra i fiumi italiani (4100 kmq., di contro a 14.000 circa dell’Adige e 2300 del Brenta) ha origine dal Monte Peralba, al confine tra Carnia e Cadore. Poiché gli affluenti più importanti, tutti nel corso superiore e medio, sono di destra (Ansiei, Bóite, Maè, Cordévole), il versante occidentale ha maggior ampiezza in confronto all’orientale. Tra le valli laterali del corso superiore la principale è quella di Visdende, che presenta figura a foglia di platano; al gambo corrisponde la gola del Cordévole, superata la quale si apre una conca, cinta da creste, avente al centro una verde prateria e attorno vaste foreste di conifere e più in alto prati e pascoli, dominati da rilievi scistosi e calcarei (Peralba). La vallata è percorsa dal Cordévole di Visdende, che a torto è stato ritenuto in passato il ramo sorgentifero del Piave, perchè i topografi cambiarono la parola locale piai, che è termine generico per indicare « fiume », con Piave. La parte superiore della valle è relativamente stretta, dato il percorso trasversale del fiume rispetto all’andamento delle pieghe e il fiume serpeggia faticosamente con grande lavorìo d’erosione intorno ad un arco assai ampio per attraversare quasi normalmente la fascia delle Alpi Dolomitiche. Fino a Longarone scende da nord a sud, ma giunto a Ponte delle Alpi fa un angolo verso sudovest per imboccare la Val Belluna, mentre la valle continuerebbe nella depressione di Fadalto, plasmata dall’antico ghiacciaio plavense. Attraversata la Val Belluna ove il fiume percorre un ampio bacino (corrispondente ad una sinclinale) con copiose alluvioni terrazzate e terrazze, si restringe di nuovo alla stretta di Quero, dove durante l’invasione glaciale il Piave ha costruito un piccolo anfiteatro morenico, e lambendo il Montello si apre la via della pianura. A Pederobba è largo i km. e mezzo, a Falzè, presso l’angolo nordest del Montello, misura appena 250 m., poi uscito dalla chiusa di Nervesa ne misura da 600 a 800 e addirittura 4 km. presso Cimadolmo. Poiché scarsa è l’azione del mantello di vegetazione e dei ghiacciai, la portata è soggetta a variazioni repentine e di breve durata, con portate di piena veramente imponenti (100 volte superiori a quelle di magra). Ne consegue un’enorme estensione dei greti, dove le acque di piena formano rapide fiumane di più centinaia di metri di larghezza, che fanno assumere al Piave l’aspetto dei fiumi di tipo friulano.

    Il Piave visto da Quero verso la pianura. Sullo sfondo il ponte di Fener, il Monfenera e i colli asolani.

    Il Piave presso Nervesa della Battaglia.

    Il Cordévole, principale tra gli affluenti di destra (Ansiei, Boite, Maè), inizia il suo corso a 2350 ni. presso il Passo di Pordoi e si getta dopo 71 km. nel Piave a quota 279, avendo scolate le acque d’un bacino di 870 kmq.; esso ha quindi un profilo molto ripido, ma non regolare, dato che deve aprirsi faticosamente il corso in stretti canali.

    In passato il Piave veniva utilizzato per la navigazione a mezzo di zattere. Ogni natante era formato da 5 copule e ogni copula da 18 taglie, ognuna di una dozzina di tavole. Il tratto da Perarolo a Venezia era ripartito in cinque tratti, dove gli zattieri, che erano riuniti in una corporazione, approvata fin dal 1492, si scambiavano. Ogni zattera era condotta da tre uomini, che rientravano poi a piedi a Perarolo, attraverso il passo di San Boldo. Ora il fiume serve all’irrigazione (consorzi Brentella e Canale della Vittoria, che derivano le acque a Pederobba ed a Nervesa), alla fluitazione (che si arresta a Perarolo), e nel corso inferiore, alla navigazione (per 34 km. a partire da Zenson), ma soprattutto fornisce, come vedremo altrove, ingenti quantità di energia elettrica. In pianura, il Piave scorre in un ristretto alveo per sfociare in Adriatico presso il porto di Cortellazzo con esile pennello sabbioso dovuto all’accumulo prodotto dal moto ondoso alla bocca del fiume, mentre tra i rami della foce si formano le cosiddette grave (greti ghiaiosi con materiali grossolani assai bibuli e isolotti con vegetazione arbustacea).

    Variazione della foce del Piave.

    Un tempo a valle di San Donà il corso piegava verso sud per sfociare nella parte settentrionale della laguna veneta, uscendo poi in mare a Tre Porti. Nel 1534 fu decretata la costruzione di un grande argine (di San Marco) che spinge il fiume verso lèsolo. Ma nel 1664, visti i danni delle sabbie, che spinte dalla corrente minacciavano di chiudere il porto del Lido, fu condotto a termine il Gran Taglio di Piave, che da Intestadura condusse le acque molto più a oriente, fin quasi a Càorle. Tuttavia nel 1685 una rotta straordinaria (detta di Landrona) ruppe il cordone litoraneo e fece dirigere il Piave verso Cortellazzo, dove tuttora ha la foce. Alla fine del secolo XVII anche il Sile fu spostato e immesso nella foce lasciata libera dal Piave (Piave Vecchio), per mezzo del canale detto Taglio di Sile.

    Dato che in tutta l’antichità greco-romana non si ha alcun cenno del Piave, il quale viene menzionato per la prima volta da Venanzio Fortunato (vissuto verso la fine del secolo VI), si è supposto che un tempo, verso la foce, il Piave si unisse al Sile, ma può anche darsi si tratti semplicemente d’una omissione degli scrittori antichi. Che i due fiumi scorressero in un unico letto nel tratto compreso tra la linea delle risorgive e la laguna prove sarebbero: che l’alveo del corso medio e inferiore del Sile mostra un’attività erosiva maggiore di quella che avrebbe un modesto fiume di risorgiva; la presenza di vasti ghiaieti nelle campagne attorno a Treviso che le indagini petrografiche hanno dimostrato d’origine plavense; le numerose foci attribuite al Sile dagli scrittori antichi, che non sarebbero giustificate per un piccolo fiume; l’interrimento con torbide della zona di Torcello. Il diluvio del 589, di cui abbiamo avuto già occasione di far cenno, potrebbe aver determinato la separazione dei due fiumi.

    Là dove il Veneto confina col Friuli scorre il Livenza, che è lungo un centinaio di chilometri ed ha un bacino apparente di 1540 kmq., in quanto trae la sua origine da alcune sorgenti carsiche alle falde del Monte Cavallo, presso Polcenigo, a soli m- 45-55 s. m Per cui va classificato tra i tipici fiumi di risultiva. Ecco come un nostro grande geografo Giovanni Marinelli ha descritto la regione sorgentifera del Livenza : « Esso sorge quasi per incanto dal suolo e pochi metri dopo nato è già navigabile. Dirò dunque che, forse 2 km. a ponente di Polcenigo, se voi presso Longone deviate per un sentieruolo alquanto sassoso, arrivate in una vallettina acquitrinosa, che porta proprio il nome di Vallone. Proseguendo lungo una viuzza campestre, ecco che, ad un tratto, da ogni dove, dalla scarpa della strada, dai fossi, dalla campagna pullulano le acque terse e fredde. Pochi passi e già queste acque han dato vita a un bel rivo, abbastanza profondo per annegare un uomo e largo parecchi metri. Questa si chiama la sorgente della Livenzetta. Spingendovi ancora un 500 m. per la stessa via, giungete alla Santissima e qui si rinnova lo stesso spettacolo, ma in proporzioni molto maggiori, tanto che appena sgorgata questa seconda fonte, si allarga in un bacino lacustre, intersecato da isole di verdure, che si rispecchiano nell’azzurro dell’acqua, palesante colla cupa tinta la profondità sua ». Poi tra Sacile e Motta di Livenza si arricchisce delle acque del suo principale affluente di sinistra, il Meduna, un fiume-torrente che scaturisce dalle Alpi Clautane. Riceve in destra le acque del Meschio, il probabile emissario sotterraneo del lago Morto, e quelle del Monticano, che ha carattere torrentizio. Volge quindi verso sudest segnando per un tratto il confine tra la provincia di Treviso e quella di Udine. Dopo esser entrato nella provincia di Venezia, che attraversa con direzione nordovest-sudest, sbocca nell’Adriatico a Santa Margherita di Càorle. Il suo corso risulta molto tortuoso e per un’ottantina di chilometri, fino a Portobuffolè, è navigabile. La portata minima è di 35 mc./sec., quella media di 100 metri cubi.

    Prescindendo dal Tagliamento, che segna nel tratto inferiore, per una trentina di chilometri, il confine tra il Veneto e il Friuli, il fiume più orientale del Veneto è il Lémene, il quale nasce nella zona delle risorgive a nordovest di Cordo vado ; è nei pressi di Borgo della Siega che confluiscono i rami sorgentiferi principali di Rio Gleris, Rio Versa e Rio Roiuzza. Esso corre quasi in direzione nord-sud e, subito dopo aver attraversato Portogruaro, riceve da destra le acque del Réghena. Il Lémene si unisce al Livenza nei pressi di Càorle, poco prima di sfociare in mare, ed è navigabile a partire da Portogruaro.

    I laghi

    I laghi, salvo il Garda (370 kmq.) che rientra solo per una parte nel Veneto, sono di modeste dimensioni e si trovano per lo più alla periferia della regione. Essi hanno origine diversa. Il Garda, che è detto pure Benaco, come gli altri laghi prealpini, deve il suo letto non già all’ampia sinclinale in corrispondenza alla quale si trova, ma all’escavazione glaciale, che operando in una valle stretta e profonda, ha agito con maggior energia infossandosi al di sotto del livello del mare. Lungo poco più di 50 km., largo in media 7 (ma 17 e mezzo nel punto di maggior larghezza), secondo gli scandagli eseguiti dalla nostra Marina ha una profondità massima di 346 m., per cui il fondo si abbassa a 281 m. sotto il livello del mare. Si tratta quindi d’una criptodepressione, ancora più considerevole di quella del lago di Como (—212 m.), che assieme alla sua forma allungata, la disposizione lungo una delle vie percorse dai ghiacciai quaternari, la mancanza di depositi marini, testimoniano l’ipotesi di un’origine per escavazione glaciale, confermata anche dalla debole pendenza delle formazioni quaternarie, le quali non raggiungono le profondità dei laghi, per cui se si togliesse il mantello dei depositi quaternari che sta a sud del lago, esso non verrebbe svuotato del tutto. Il Garda, che ha per immissario il Sarca e per emissario il Mincio, bagna la provincia di Verona per una cinquantina di chilometri dai dintorni di Peschiera fino a una località disabitata, attraversata dalla Gardesana orientale, posta presso il versante occidentale d’un contrafforte del Monte Baldo, l’Altissimo di Nago.

    Il Garda visto da Bardolino.

    Nella parte montana, tra 1300 e 1800 m., compaiono alcuni laghi di circo, che si spingono anche più in alto, come è il caso di quello di Olbe (m. 2153) nella parte più settentrionale della provincia di Belluno, che ha un perimetro di 400 metri. Questi laghetti alpini, che spettano per la massima parte al bacino del Piave, sono stati accuratamente descritti all’inizio di questo secolo dal geografo friulano Olinto Marinelli. Il lago di Misurina che è lungo 750 m., largo al massimo 26 e profondo meno di 4 m., si trova presso un valico all’origine dell’Ansiei e da alcuni studiosi è ritenuto di sbarramento morenico, da altri di frana. A quest’ultima categoria spetta il lago di Alleghe (52 ha.), che il Cordévole va rapidamente colmando, destino comune anche agli altri laghi di frana, come quello di Borsoi nell’Alpago, che è durato una dozzina d’anni soltanto (1885-97).

    Il lago di Fimón e i Colli Bérici

    Il lago di Misurina.

    Colmati dalle alluvioni sono stati i laghi che si erano formati dopo il ritiro dei ghiacciai nelle cavità site dietro le morene frontali o dove particolari condizioni di suolo facilitavano l’azione escavatrice. Di sbarramento alluvionale è considerato il lago di Fimón nei Monti Bérici, che è ora lungo 1 km. e mezzo e largo da 300 a 500 m., esso pure molto più esteso prima che si scavasse il canale che ne costituisce l’emissario, tanto da occupare tutta la valle fino alla torbiera di Fóntega. Le sue rive erano già abitate in epoca antica e resti d’industrie umane preistoriche (oltre che di grandi mammiferi) vi vennero scoperti in caverne e palafitte. Ora è cinto da canneti e risulta assai pescoso. Più importanti tra i laghi vallivi di sbarramento alluvionale e dotati di maggiore profondità sono i laghi lapisini, cioè il lago di Santa Croce (7,8 kmq.) e il lago Morto (0,76 kmq.), i quali hanno subito profonde modificazioni in epoca recente. Il lago di Santa Croce, posto ai piedi della verde conca dell’Alpago, a m. 386 s. m., è profondo al massimo una quarantina di metri ed ha per principale immissario naturale il torrente Tesa, che forma in esso un ampio delta lacustre. Grandiosi lavori, iniziati nel 1920 e ultimati nel 1926, hanno profondamente modificato la superficie e il regime del lago, dato che, chiuso il Rai, emissario artificiale che portava le acque al Piave, è stata effettuata presso Sovérzene, a quota 390 m., una deviazione delle acque del Piave (in media 25-30 mc./sec.), la quale mediante una diga-ponte e un canale di 10 km., viene immessa nel lago, dal quale passa poi ad alimentare cinque centrali elettriche.

    Il lago di Àlleghe, formato dal Cordévole che è stato sbarrato da una frana precipitata dal Monte Piz nel 1771. Sul fondo è il Col di Lana.

    Anche il lago Morto, che come quello di Santa Croce era stato oggetto nel 1906 di uno studio approfondito da parte di G. Magrini, ha subito verso il 1925 profonde modificazioni per l’utilizzazione delle sue acque a scopo industriale e la sua profondita, che era di 56 m., è diminuita di 4 metri. Presso la centrale elettrica di San Floriano, si trova un altro piccolo lago, quello di Negrisiola, che ha un perimetro di circa 2 chilometri. Non lontani, nel solco scavato da una digitazione dell’antico ghiacciaio plavense, in quella regione che è detta Valmareno, si trovano i laghi di Revìne, di superfìcie un po’ inferiore al mezzo chilometro quadro, nome col quale vengono comunemente designati i laghi di Sopra (o di Santa Viaria) e di Sotto, divisi tra loro da una breve lingua di terra, ai quali fin dal 1905 ha dedicato uno studio un noto nostro geografo, il Toniolo. Essi si sono formati, forse in seguito a una frana, fenomeno assai frequente nella zona, fra la catena delle Prealpi Bellunesi e la serie regolare delle colline trevisane; la profondità di entrambi si aggira ora sui 10-12 m., ma è da ritenere che nel passato esistesse un unico lago. D’origine termale è il laghetto di Lispida (5,7 ha.) negli Euganei, che assieme al vicino laghetto di Arquà Petrarca (2,5 ha.), costituiscono due tipiche criptodepressioni nella pianura. Tipico esempio di lago di sbarramento morenico è quello di Vedana, posto tra le irregolarità dei cumuli franosi (« masiere »), convogliati dal ghiacciaio del Cordévole.

    Veduta del lago di Àlleghe.

    Il progressivo colmamento del lago di Àlleghe.

    Il lago di Alleghe merita un cenno a parte, sia per la sua bellezza, sia per la singolarità della sua formazione. Esso si trova nell’Alto Agordino e vi si specchia la parte settentrionale del Civetta, che nelle ore del tramonto assume la tinta incomparabile delle vette dolomitiche. Esso si è formato in epoca storica non senza causare la perdita di alcune vite umane, ed è stato originato da una frana, caduta nel gennaio 1771 dal Monte Spiz. Il materiale franato formò una enorme diga, resa impermeabile per la presenza di argille, che causarono lo scivolamento dei calcari sovrapposti. Il bacino di ritenuta (la superficie di quello imbrifero è di appena 223 kmq.) è stato poi riempito dalle acque del Cordévole e si è così formato il lago, che è lungo 1 km. e mezzo e profondo 17-18 metri. Il Marinelli, che ha calcolato la perdita di area e di volume del lago dal 1895 al 1921 avendo eseguito personalmente una serie di scandagli a 26 anni di distanza, ha potuto calcolare l’entità dell’interrimento, che causerebbe la scomparsa del lago in un centinaio di anni. Ma da quando le acque del Cordévole vengono sfruttate per ricavare energia elettrica si è provveduto con opere difensive ad assicurare al lago una più lunga esistenza.

    Esistono poi nel Veneto, specie nella regione montana, molti laghi artificiali, creati in epoca recente, ma di essi sarà fatto cenno nel capitolo dedicato all’industria idroelettrica.

    Vedi Anche:  Costumi, tradizioni e parlate venete