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Il periodo viceregnale

    Il periodo viceregnale

    Il matrimonio di Ferdinando con la sorella del re di Francia segnò la pace (1506) tra Francia e Spagna e la definitiva assegnazione dell’Italia meridionale a quest’ultima potenza. Ferdinando, costretto a lasciare la Castiglia a Filippo, decise di venire a Napoli (1506), anche per sventare un eventuale colpo di stato di Consalvo, e fu accolto con grande onore; ma l’improvvisa morte di Filippo lo richiamò presto in Spagna (1507), mentre nel Mezzogiorno cominciava il periodo viceregnale che durerà oltre due secoli, fino al 1734, e, pur essendo caratterizzato da una relativa pace con l’esterno, porterà infiniti lutti alle nostre popolazioni.

    I viceré avevano molta autorità, ma si avvicendavano con grande frequenza, sostituiti dal re per propria iniziativa e più raramente sotto le pressioni della popolazione e della nobiltà napoletana. Qui ci limiteremo a ricordare soltanto quelli che hanno lasciato tracce più durature del loro governo e che assistettero alle principali calamità, da cui la nostra regione fu colpita durante il periodo viceregnale.

    I primi decenni di questo furono turbati da continue lotte coni Francesi, i cui eserciti marciarono su Napoli, valendosi dell’appoggio della flotta genovese. Dall’opposta sponda adriatica gruppi di Albanesi, sotto la pressione dei Turchi, passarono in Italia e si fissarono in varie parti della Penisola; alcuni di essi nel 1522 vennero anche in Campania e s’insediarono a Greci, dove conservano ancora lingua e costumi. Il Lautrec occupò Capua, Nola, Aversa e altre città e pose l’assedio alla capitale (1528), della quale aspettava la resa, quando la decisione dei Doria di abbandonare la causa dei Francesi e una grave pestilenza scoppiata nell’esercito assalitore capovolsero le sorti della guerra. L’esercito fu decimato dalla pestilenza e dalla malaria e lo stesso Lautrec ne morì; ma la città subì anch’essa gravi perdite umane. Alle migliaia di vittime fu data sepoltura nella Chiesa di Santa Maria del Pianto a Poggioreale.

    Il viceré che governò più a lungo a Napoli fu Pedro di Toledo (1532-53), che si distinse per l’energica opera di sottomissione dei baroni, per le molteplici iniziative in favore delle classi meno abbienti e per l’espansione edilizia impressa alla capitale, la quale si ingrandì alla base della collina di San Martino e si abbellì di una strada magnifica, che continua ad essere indicata comunemente — e si sarebbe portati a dire giustamente — come via Toledo, sebbene il suo nome sia stato cambiato in via Roma sin dal lontano 1870.

    Il Toledo mise ordine nella capitale, proibendo le manifestazioni rumorose ed oscene, bandì i duelli, comminò pene severissime contro i dissoluti giovani e i rapitori di fanciulle, iniziò la lotta contro il banditismo, riordinò i tribunali e perseguì con severità i nobili che non rispettavano le sue disposizioni. La nobiltà, che vide ridotti gli aviti privilegi, fece vari passi presso Carlo V per farlo sostituire, anche in occasione della sua venuta a Napoli (1536). Il viceré, invece, rimase al suo posto e continuò l’opera di risanamento della capitale, oltre a far costruire canali di scolo delle acque dell’Agro Acerrano e Nolano e delle paludi di Napoli e a piegare i baroni all’obbedienza.

    Questi, mentre nel passato si erano sempre mostrati gelosi della loro libertà, che spesso avevano adoperata contro i sovrani, cominciano ad assumere di necessità un atteggiamento diverso e a considerare motivo d’orgoglio l’obbedienza al viceré e al sovrano. Il Croce ha messo in evidenza questo mutamento di rapporti tra nobiltà e monarchia, verificatosi durante il periodo viceregnale per merito appunto di alcuni viceré, che governarono con energia e per vari anni.

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    Tra le altre iniziative vicereali si devono ricordare la cacciata degli Ebrei (1540), che erano affluiti numerosi in Italia dopo la loro espulsione dalla Spagna (1492) e si raccoglievano in quartieri caratteristici (Giudecche), l’ammissione dei Gesuiti (1551), le iniziative per difendersi dagli attacchi dei Turchi e per liberare i prigionieri fatti da essi. Per riscattare i pegni dagli Ebrei si istituì il Sacro Monte della Pietà (1539), primo nucleo del futuro banco di Napoli, che fu affiancato da altri banchi: Banco della Santissima Annunziata (1587), Banco del Popolo (1589), creato dall’Ospedale degli Incurabili, Banco dello Spirito Santo (1590), Banco di Sant’Eligio (1592), Banco di San Giacomo e Vittoria (1596), Monte dei Poveri (1563), creati da pie istituzioni per scopi filantropici. Questi divennero i più importanti di Napoli, si sostituirono gradualmente alle banche private e furono assorbiti poi dall’importante istituto ban-

    cario napoletano e meridionale, che è il Banco di Napoli. Solo il Banco del Santissimo Salvatore non ebbe scopi filantropici e sorse nel 1640.

    Il governo del Toledo fu turbato da frequenti incursioni dei Turchi lungo il nostro litorale. Pròcida, Sperlonga e Fondi furono saccheggiate nel 1534, Agròpoli fu devastata nel 1535, Ischia fu assalita nel 1543, nel 1548 e nel 1552, Policastro e Castellammare di Stabia subirono incursioni nel 1542, Pozzuoli fu attaccata nel 1514, Capri nel 1535 e nel 1553, Pròcida di nuovo nel 1552. E le incursioni continuarono anche con il successore del Toledo; Massa Lubrense ne subì una molto grave nel 1558, che non risparmiò neppure Sorrento. Si verificarono durante il regno del Toledo anche vari terremoti, i quali scossero i Campi Flegrei, precedendo l’eruzione che formò il Monte Nuovo (1538).

    per la Calabria e vari ponti, e il primo duca di Ossuna (1582-99), che continuò le opere pubbliche, sistemò l’acquedotto della Bolla, che portava l’acqua a Napoli dai pressi di Pomigliano d’Arco, e governò con saggezza.

    Il conte di Zunica si distinse per l’impegno posto nella lotta contro i banditi che si erano moltiplicati nel regno, imponevano taglie ai mercanti e minacciavano Napoli e le altre città. Tra questi il famoso Mangone, che per sua dichiarazione aveva assassinato più di 400 persone nel Salernitano, fu orribilmente trucidato a Napoli; ma Marco Sciarra, che disponeva di varie centinaia di uomini ai suoi ordini ed era incoraggiato dall’estero e protetto all’interno, travagliò alcune province dello Stato per un settennio, senza che le truppe governative potessero avere ragione di lui. Il conte di Olivares è considerato uno dei più saggi e prudenti viceré: ridusse gli abusi e lo sfarzo, cui si abbandonava la nobiltà, e abbellì la capitale, valendosi dell’opera del Fontana e di altri valenti architetti e scultori, locali o immigrati.

    Questi viceré mirarono a normalizzare la vita nella capitale, ad eliminare il banditismo dalle province e a piegare sempre più la nobiltà. Il clero, però, ebbe notevoli vantaggi e raggiunse una grande potenza economica: sorsero altri ordini religiosi e furono costruiti molti monasteri. I Gesuiti, fatto il loro ingresso nel regno, si imposero moralmente ed economicamente grazie ad una preparazione superiore e ad una migliore organizzazione.

    La saggia amministrazione di questi viceré non era sufficiente a salvare il regno, dove la classe dominante acquisì gli elementi negativi della dominazione spagnola e pesava con il suo lusso e con i suoi svaghi sulla nostra economia, in nulla contribuendo al suo sviluppo. D’altra parte la pressione fiscale aumentò sempre più fino ad esautorare le nostre province, le imposizioni straordinarie (donativi) divennero sempre più frequenti e più onerose. L’industria languiva, il commercio era limitatissimo per l’insicurezza delle province e per la mancanza di strade; il valore della moneta oscillava, e di conseguenza si ebbero clamorosi fallimenti.

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    Questi mali, già intollerabili nel primo secolo di dominio spagnolo, si aggraveranno nel successivo, durante il quale l’amministrazione diventa più cattiva e la disonestà dei funzionari più sfacciata. La minaccia dei Turchi si rinnova, il banditismo trova nuovi agguerriti seguaci, la povertà aumenta, l’agricoltura langue e ai contadini si vieta di introdurre nuove colture e perfino di compiere trasformazioni agrarie.

    La capitale è il rifugio dei potenti, dei ricchi, dei nobili, di molti ordini religiosi, che traggono dalle loro vaste estensioni di terre semiabbandonate entrate sufficienti per ingrandire i loro palazzi e i monasteri, per vivere negli ozi e negli svaghi, per compiere cacce e conviti. La capitale divora enormi ricchezze, ma la sua popolazione è costituita in buona parte di gente miserabile, che gravita intorno ai signori e ai monasteri, che vive di espedienti, si addensa in squallidi quartieri, a costituire veri formicai umani, ove la delinquenza e l’immoralità sono assai spiccate, le risse e i tumulti molto gravi e diffusissime le malattie.

    Nel secondo secolo della dominazione spagnola si ebbe un sensibile peggioramento della situazione generale, sia perchè i viceré si avvicendarono più spesso, sia perchè le guerre condotte in varie parti d’Italia, fuori del regno, assorbirono grande quantità di uomini e di denaro, sia perchè l’economia meridionale si andava sempre più depauperando, sia infine perchè varie calamità colpirono le nostre regioni e il banditismo non dava tregua nelle campagne e nelle città. Il secondo duca d’Alba (1622-29) governò con grande saggezza, fece parecchie opere pubbliche e favorì la realizzazione dell’acquedotto del Carmignano per derivare a Napoli l’acqua dalla Valle Caudina e da Sant’Agata dei Goti. Si verificò sotto di lui una grave carestia nel 1624.

    Il governo del conte di Monterey (1631-37) fu funestato da varie calamità (epidemia difterica, eruzione del Vesuvio, continue guerre nel Milanese), sebbene le feste, le cacce e i sollazzi continuassero a pieno ritmo. Il Vesuvio, nel 1631, entrò in eruzione dopo un lungo periodo di stasi e la sua attività esplosiva ed effusiva forse non ha conosciuto l’eguale a memoria d’uomo: le lave raggiunsero il mare, le ceneri coprirono le regioni circostanti e furono portate dai venti fino in Grecia e in Albania. Vari centri furono distrutti, molte case sparse demolite ed estese aree coltivate sommerse dalle lave o dalle ceneri, parecchie furono le vittime.

    Con il duca di Medina (1637-44) aumentarono le spese per le imprese belliche, per feste civili e religiose, per lo sviluppo edilizio della capitale; con il duca d’Arcos (1646-48) lo scontento popolare sfociò nella cosiddetta rivolta di Masaniello (1647), il quale per breve tempo riscosse il favore del popolo e fu portato in trionfo.

    « Masaniello lacero e seminudo, avendo per teatro un palco e per scettro la spada, con centocinquantamila uomini dietro armati in varie foggie, ma tutte terribili, comandava con assoluto imperio ogni cosa. Egli capo de’ sollevati, anima del tumulto, suggeriva le pretensioni, imponeva il silenzio, disponeva le mosse, e quasi che tenesse in mano il destino di tutti, trucidava co’ cenni e incendiava co’ sguardi, perchè dove egli inchinava si recidevano le teste e si portavano le fiamme » (Gian-none). Il popolo se ne disfece presto, ma poi lo onorò quando la nobiltà gli voltò le spalle. Per un certo tempo si proclamò la repubblica sotto la protezione della Francia e poi seguì la restaurazione.

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    Il governo del conte di Castrillo (1653-59) fu funestato dalla terribile pestilenza del 1656, una delle più gravi di quelle verificatesi nelle nostre province, che mietè nel regno oltre 600.000 vittime in sei mesi, di cui quasi i due terzi nella Campania.

    Il marchese del Carpio (1683-87) riprese con vigore la lotta per la sicurezza nelle campagne, turbata dalle bande di Riccardo, e per moralizzare la vita pubblica. Vietò lo sfarzo nel vestire e nelle carrozze e prese severi provvedimenti per eliminare le frodi. Disorganizzò il banditismo, comminando pene severe contro i suoi seguaci e i suoi protettori; ma con i successori i superstiti ripresero vigore e fornirono alla cronaca nuovi luttuosi fatti.

    Le vicende della guerra di successione spagnola consegnarono nel 1707 il regno di Napoli all’Austria, che si assicurò il predominio in Italia e vi introdusse, attraverso l’opera dei suoi viceré, migliori sistemi di pubblica amministrazione. Il popolo e la nobiltà, come sempre, ne furono presto scontenti. Bene a ragione scriveva il

    Giannone : « non vi è popolo della libertà più cupido del napoletano, e che altresì men capace ne sia, mobile nei costumi, incostante negli affetti, volubile nei pensieri, che odia il presente e con sregolate passioni o troppo teme o troppo spera nell’avvenire ».

    La guerra di successione polacca e l’intervento della Spagna accanto alla Francia contro la potenza asburgica portarono sul trono di Napoli un principe spagnolo, Carlo III, il quale ridiede l’indipendenza al regno (1734) e contribuì efficacemente a risollevarne le sorti.

    Terminava così uno dei periodi più infausti per il nostro Mezzogiorno, il quale per oltre due secoli non fu turbato da guerre esterne e avrebbe dovuto, pertanto, approfittare della pace per svilupparsi economicamente e socialmente. Invece il governo vicereale succhiò circa 80 milioni di ducati per donativi ordinari e straordinari dal 1506 al 1734 e sperperò immense ricchezze in feste di vario genere; la nobiltà faceva spese pazzesche in attività improduttive, il commercio languiva per mancanza di sicurezza e per la scarsità di rapporti con altri paesi, anche perchè il Mezzogiorno era rimasto tagliato fuori dalle grandi correnti commerciali internazionali.

    Solo la cultura fece notevoli progressi, perchè parecchi viceré incoraggiarono letterati ed eruditi. L’archeologia acquistò fama internazionale con la scoperta delle rovine di Ercolano e di Pompei. La musica vantò compositori ed esecutori di valore. L’espansione urbana e le grandi opere pubbliche favorirono lo sviluppo dell’arte delle costruzioni, in cui si distinsero illustri architetti. Ma tra le varie arti liberali assunse uno sviluppo maggiore la giurisprudenza, che contò a Napoli una schiera di eminenti cultori: i rapporti tra nobiltà e governo, tra clero e governo, i soprusi continui, le risse e i delitti, e infine la spartizione di grosse eredità favorirono la creazione di una folta schiera di avvocati, che si arricchirono con la loro professione e acquistarono vaste proprietà terriere. Finalmente le campagne cominciavano a richiamare una parte dei guadagni fatti in città!

    Lo studio del diritto fece progressi nella nostra Università: dal suo seno uscirono autorevoli patroni del foro, civilisti e penalisti, che trovarono a Napoli un terreno molto favorevole per la loro attività professionale. Ai giuristi bisogna, tuttavia, riconoscere il merito di avere, nella seconda metà del ‘700, dimostrato la mancanza di ogni fondamento di moralità e di giustizia nei privilegi ecclesiastici e baronali e di averne accelerato in tal modo l’abolizione.